12

Per prima cosa, guardò l’ora sul display del cellulare: mezzanotte e quaranta.

Forse a causare quel rumore era stato Serra che rientrava dalla cena.

Una punta di gelosia le attraversò la mente, ma venne immediatamente soffocata.

Chiuse gli occhi e provò a riaddormentarsi.

Poi, lo sentì di nuovo. Uno scricchiolio, tipico di chi sta camminando su travi di legno.

Eh, no, c’era davvero qualcuno.

Si mise seduta sul letto, con le orecchie tese, in ascolto.

Ora non si sentiva più niente.

Stava diventando paranoica. In fondo, chi mai avrebbe potuto introdursi in casa sua? Un ladro? E per rubare cosa, i centrini della signora Marisa?

Sbuffò e decise che l’unico modo per tranquillizzarsi era controllare di persona. Ormai non si sarebbe più riaddormentata, tanto valeva andare in cucina e spiluccare qualcosa dalla dispensa.

Scese dal letto e infilò i piedi nelle pantofole che le aveva regalato Solange. Erano un paio di elegantissime scarpine in raso nero, con il tacco alto e piume di struzzo sul davanti. Un pensiero dell’amica il giorno in cui aveva deciso di andarsene, accompagnato da un vibratore blu elettrico con il telecomando a distanza, ancora incellofanato, e da un paio di manette foderate con lo stesso materiale delle ciabatte. Manette in piume di struzzo rosa, quindi, che, contrariamente al vibratore, portava sempre con sé. Non si poteva mai sapere.

Aprì la porta e avanzò fino alle scale.

Quando si affacciò, vide qualcosa che le fece gelare il sangue. Che roba era? Un mostro, un gigante, una montagna che doveva essersi staccata dalla terra a causa della deriva dei continenti aveva attraversato il suo campo visivo per un attimo, sufficiente però a spaventarla a morte. Erano stati attaccati dagli alieni, non c’era altra spiegazione, perché l’ombra che aveva visto non aveva nulla di umano.

Con il cuore in gola fece dietrofront, si infilò in camera e si richiuse la porta alle spalle.

Non c’erano chiavi, inutile cercarle. Era spacciata. Se quella cosa l’avesse raggiunta, l’avrebbe uccisa anche solo con lo sguardo. Anzi, si sarebbe buttata lei a terra uccidendosi da sola, così, tanto per non darle soddisfazione.

Si sfilò una pantofola, la strinse in una mano e si appiattì il più possibile contro il muro. Era pronta ad affrontare il mostro, usando il tacco come arma letale. Poi guardò la pantofola, pensò all’alieno e se la rimise al piede. Quello il tacco l’avrebbe usato come filo interdentale. Doveva trovare un altro escamotage.

Le mancava il respiro e aveva la gola secca. Si guardò intorno in cerca di vie di fuga e gli occhi le caddero sulla finestra. Poteva calarsi dal tetto, ma scartò subito l’ipotesi. Non aveva forza sufficiente nelle braccia per tenersi aggrappata alla ringhiera durante la discesa, e sarebbe precipitata giù, di schiena, sbattendo la testa, come era successo al povero Paolo.

Un momento: Paolo non si era aggrappato alla ringhiera, però. Non avrebbe avuto senso. Allora perché quando si era affacciata dal balcone lo aveva visto supino e con la faccia rivolta alle stelle, anziché a pancia sotto?

Uno che si butta lo fa in avanti, non all’indietro.

Un tonfo sordo la fece sussultare. La montagna doveva essersi scontrata con il manichino dorato in biblioteca, ai piedi delle scale. Un altro regalo di Solange a cui Teresa non era mai riuscita a trovare una collocazione. Questo però stava a significare che il tizio aveva finito di frugare nel salottino e si preparava a salire da lei. Presto l’avrebbe raggiunta.

Doveva prendere una decisione, e subito.

Si avvicinò all’armadio, aprì le ante e cominciò a rovesciare tutto il contenuto. Non le importava di fare rumore. Che capisse pure che lei era sveglia, pronta a difendersi. Frugò alla rinfusa tra le cose che aveva sparpagliato a terra, ma non saltava fuori niente di utilizzabile a scopo di difesa. Vestiti, biancheria intima, cappelli e un vibratore nero che nulla aveva a che fare, per dimensioni, con quello blu elettrico ancora incellofanato. Quell’aggeggio suscitava un certo rispetto, e pensò che forse… poi scartò l’idea e continuò a cercare.

Avvertì di nuovo uno scricchiolio. Gesù, era sulle scale. Doveva assolutamente chiudere la porta in qualche modo. Guardò l’armadio e le venne un’idea.

Si posizionò al lato del mobile e cominciò a spingerlo verso l’entrata per bloccare l’ingresso. Ma l’armadio non si muoveva.

Finì di svuotarlo e riprese a spingere.

Niente.

Il tempo stringeva.

Si voltò, appoggiò la schiena e il sedere sul lato del mobile dove prima aveva le mani, e facendo leva sulle gambe spinse con tutta la forza che aveva. E nel medesimo istante in cui Leonardo Serra sventava l’ultimo attacco di Irma, che per l’occasione aveva indossato una tunica zebrata trasparente, e riusciva finalmente a imboccare la via di fuga, Teresa sentì un vuoto dietro di sé e cadde a terra. Ce l’aveva fatta: l’armadio era ben piantato davanti alla porta. Aveva guadagnato tempo, ma non era certo salva. Il mostro alieno con un paio di spallate ben assestate l’avrebbe buttato giù senza problemi. Si rialzò, frugò nella borsa, prese il cellulare e compose il numero del maresciallo Lamonica. Che diavolo stava combinando Serra? Perché non era ancora rientrato? Che uomo inutile.

«Pronto?» Lamonica era assonnato.

«Maresciallo, sono io» bisbigliò.

«Non sento niente. Cosa è, uno scherzo? Andatevene a dormire, ragazzini» e riattaccò.

Teresa compose di nuovo il numero: «Maresciallo, sono Teresa! Mi sente?».

«La volete smettere di chiamare a quest’ora? Mia moglie sta dormendo e…»

«Aiuto! C’è qualcuno in casa.»

Niente. Il maresciallo le aveva riattaccato il telefono in faccia. Di nuovo.

Sentì dei rumori dietro la porta, nonostante l’armadio, e pensò che fosse giunta la sua ora.

Poi il telefono squillò, nel silenzio della notte, facendola sussultare.

«Mi sono accorto solo dopo che il numero era il suo. Tutto bene?»

«No, maresciallo, corra qui, corraaaaa!!!» Stava gridando, ma d’altronde che differenza poteva fare?

«Perbacco, che succede?»

«Un mostro è entrato in casa mia! Un alieno! Una montagna. Venga, presto.»

A quel punto il maresciallo, che si era quasi convinto della salute mentale della Papavero, venne attraversato da un ragionevole dubbio. Ma non ebbe il tempo di valutare la questione perché Agnese, sua moglie, lo stava già spingendo fuori di casa.

E corse, il povero maresciallo, in pantofole anche lui, e con la pistola nella fondina.

Incrociò Floriano che usciva dall’appartamento di Jolanda, la proprietaria del bar ristorante Il caminetto di Strangolagalli. Si scambiarono un’occhiata veloce ma significativa: il maresciallo non aveva visto Floriano e Floriano non aveva visto il maresciallo.

Lamonica proseguì la corsa e quando arrivò sotto casa della Papavero per poco non si scontrò con il poliziotto, che stava rientrando.

«Che succede?» chiese Serra, vedendo il maresciallo in quello stato.

«Non lo so…» Lamonica aveva il fiatone. L’ultima volta che aveva corso in quel modo non era certo stato durante un inseguimento, ma per prendere il 17 a Napoli. L’autobus che lo portava da casa alla caserma. «Teresa mi ha chiamato… dice che c’è un alieno…»

«Un alieno?» Serra, costernato, infilò le chiavi nella toppa, aprì la porta e impugnò la pistola. «La serratura non è stata forzata. Deve essere entrato da una delle finestre. Cosa le ha detto di preciso? Se lo ricorda?»

«“Un mostro è entrato in casa mia! Un alieno! Una montagna. Venga, presto”» riferì Lamonica soddisfatto.

«Stia con me e non faccia rumore.»

«So come comportarmi, cosa crede?»

Il poliziotto guardò le sue pantofole: «Se lo dice lei».

«Andavo di fretta.»

Entrarono nella casa buia e silenziosa: Serra davanti e Lamonica dietro. Se davvero c’era qualcuno, che lo trovasse prima lui, visto che faceva tanto il gradasso.

Perlustrarono il piano di sotto. Non c’era nessuno e sembrava che nulla fosse stato toccato.

Salirono piano le scale e controllarono anche le stanze di sopra. Quando giunsero nella biblioteca si guardarono. «Ci siamo» disse Serra. «Non resta che la sua stanza.»

«Ma se… insomma, non può essere lì dentro con lei. Sarebbe…»

«Credo che chiunque fosse, a questo punto se la sia svignata.»

«Quindi?»

«Ne so quanto lei.»

Cominciarono a salire, entrambi con il timore che a Teresa fosse successo il peggio.

Lamonica non se lo sarebbe mai perdonato. Si era affezionato a quella ragazza, sana o pazza che fosse.

Serra, dal canto suo, incolpava Irma e la cena infernale a cui era stato sottoposto.

A un certo punto la donna l’aveva anche scaraventato sul divano. In principio aveva creduto che volesse ammazzarlo; poi, quando si era ritrovato la zebra sopra di lui che cercava di baciarlo al grido di: «La prego, non faccia così, sono una ragazza rispettabile», aveva promesso a se stesso che non l’avrebbe mai raccontato a nessuno. Non l’aveva neanche vista arrivare. Si era ritrovato lungo disteso, quasi immobilizzato.

Ormai erano arrivati davanti alla porta della stanza. Con difficoltà perché la casa era immersa nel buio. Non avevano volutamente acceso le luci per non destare sospetti ed era stata un’impresa raggiungere il piano. Si scambiarono una rapida occhiata, o almeno ci provarono dal momento che riuscivano a mala pena a distinguere i contorni l’uno dell’altro. Poi Serra prese la decisione in un attimo. Spalancò la porta e fece irruzione. Quello che non aveva previsto, era l’armadio. Ben piazzato lì davanti a ostruire il passaggio. Non lo vide e ci andò a sbattere contro, rimbalzando all’indietro e travolgendo il povero maresciallo.

«Vai via!» si sentì gridare dall’interno. «Stanno arrivando i carabinieri. E sono armata!»

Alla fine Teresa aveva optato per il vibratore nero, che teneva stretto nella mano.

Era comunque meglio di niente, e al buio poteva essere scambiato per una pistola.

«Teresa, stai bene?»

Oddio, il maresciallo! Era salva!

«Lamacina?»

«Lamonica, ma va bene lo stesso.»

«Grazie al cielo è arrivato! Stia attento, c’è un mostro là fuori.»

«Papavero, sposta questo armadio ed esci, per Dio!»

Serra si era rialzato in piedi e si stava toccando la fronte nel punto dove aveva sbattuto.

«Chi è? Non fare del male al maresciallo!»

«È il poliziotto, Teresa. E non sta un granché bene.»

Che cosa era successo? Era stato aggredito nel tentativo di salvarla?

Si posizionò al lato dell’armadio e cominciò a spingere. Questa volta l’operazione risultò più semplice del previsto perché poteva puntellare le gambe contro il muro e metterci maggiore forza.

L’armadio si spostò in un batter d’occhio, e i due entrarono nella stanza.

Teresa corse ad abbracciare il maresciallo, tenendo ancora stretto nella mano il vibratore.

Quando alzò gli occhi, vide da sopra le spalle di Lamonica un Leonardo Serra visibilmente scosso, che la squadrava dalla testa ai piedi, ma soffermandosi soprattutto sui piedi, infilati nelle pantofoline con il tacco e le piume di struzzo.

«Grazie, grazie, maresciallo» disse, ignorando quegli sguardi.

«Ho bisogno di un po’ di ghiaccio» intervenne Serra, massaggiandosi la fronte.

«Sei stato aggredito?» chiese Teresa preoccupata.

«Sì» rispose Lamonica, che non voleva perdere l’occasione per prendersi una rivincita. «Ma non da un alieno. Serra è stato malmenato dal suo armadio.»

«Si può sapere che cosa è successo? E cosa hai in mano?» domandò il poliziotto, ignorando il commento sarcastico.

«Ah, questo, dici? Niente… un frullatore.»

«A me non sembra un frullatore.»

«E che ne sai? Ne hai mai visto uno?»

«In effetti no.»

«Appunto.»

«Ma di vibratori sì, però.»

«Su, su, basta. Perché non ti siedi sul letto e ci racconti che cosa è successo?» Lamonica aveva preso in mano la situazione ed era anche passato a darle del tu. Segno che si stava davvero affezionando a quella donna che in fondo poteva essere sua figlia.

«Mi sono svegliata di soprassalto perché ho sentito dei rumori. All’inizio pensavo fosse Serra che rientrava dalla sua cena romantica. A proposito, tutto bene? Hai fatto tardi!»

«Sei gelosa?»

«Ma figuriamoci.»

«Comunque la cena è stata ottima, e la padrona di casa squisita» mentì.

«Davvero?» domandò Teresa, non riuscendo a nascondere un certo stupore. «Be’, comunque la cosa non mi interessa. Tanto più che mentre tu eri a cena, e a quanto pare ti stavi divertendo un mondo, qualcuno è entrato in casa mia per aggredirmi!»

«Io non credo.»

«Che cosa? Che volesse aggredirmi?»

«No. Che sia entrato qualcuno. Te lo sei immaginato, anzi, hai sperato che io fossi rientrato e ti sei suggestionata. Nessuna effrazione, niente è stato spostato o messo sottosopra. Da dove sarebbe entrato questo ipotetico intruso? Dal camino? E per rubare cosa? Le tue ciabatte?»

«Lei mi crede, maresciallo?» chiese la Papavero, ignorando Serra. «Le giuro che io so quello che ho visto. Un gigante è entrato in questa casa, ha frugato nei cassetti, tra gli scaffali. Lo sentivo. Cercava qualcosa!»

«Forse il tuo arsenale» disse il poliziotto, con lo sguardo puntato sul pavimento dove giacevano inerti gli abiti della Papavero e il secondo vibratore, quello più piccolo, con telecomando di dotazione.

«Non sono miei, nessuno dei due.»

«Ah, no? Ancora più interessante…»

«Voglio dire che li ho presi al negozio dove lavoravo. Cioè, mi sono stati regalati, ecco.»

«Perché? Dove lavoravi?»

«In un sexy shop» risposero Teresa e Lamonica in coro. Lamonica accompagnò la frase con un’alzata di spalle. Un gesto che voleva trasmettere la sua totale rassegnazione di fronte a una faccenda assodata e sulla quale non c’era molto da aggiungere.

Ma Serra aveva altro per la testa: «Questo ha anche il telecomando!» esclamò, scartando l’involucro e cominciando a leggere le istruzioni. Neanche avesse dovuto montare un mobile Ikea.

«La vuoi smettere?» gridò Teresa, strappandogli il telecomando dalle mani. «Te lo presto, se ti piace tanto.»

«Be’, grazie.»

«Non mi stai prendendo sul serio. Nessuno di voi lo sta facendo. Io mi sono spaventata a morte!»

«Teresa ha ragione» intervenne il maresciallo, scambiandosi un’occhiata d’intesa col poliziotto. «Indubbiamente qui è successo qualcosa e dobbiamo venirne a capo.» Forse lo stava dicendo con troppa enfasi, e abbassò il tono. «Scendiamo di sotto e beviamo qualcosa: ci aiuterà a calmarci e tu avrai modo di raccontarci per filo e per segno quello che è successo.» Poi, vedendo l’espressione entusiasta della Papavero, si affrettò ad aggiungere: «Cominciando da stasera, però, non da quando hai emesso il primo vagito».

«Certo!»

«Eh, mica tanto certo… Lei, Serra, resta qui questa notte, giusto?»

«Se non ha altri impegni…» intervenne Teresa.

«Sono tutto tuo.»

«Per carità, a me sarebbe bastato che rientrassi a un orario decente!»

«E chi sei, mia madre?»

«Cafone!» sbraitò Teresa, e uscì dalla stanza a passo di carica.

«Che ho detto?» domandò costernato Serra al maresciallo.

«Lasci perdere. Chi le capisce le donne? Meno male che ho incontrato Agnese…» e raggiunse Teresa sulle scale, lasciando il poliziotto a riflettere sulla questione.