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Esiste un piccolo borgo dal nome bizzarro, situato alle pendici dei monti Ernici e nei pressi della valle del fiume Liri, dove il tempo sembra essersi fermato. Questo borgo si chiama Strangolagalli. Un nome che etimologicamente, però, nonostante risulti facile l’assonanza, non ha nulla a che vedere con i pennuti, ma sta a indicare la sua forma circolare. Anche se la leggenda, mai comprovata da fonti, racconta che intorno al 1100, anno in cui compare per la prima volta il nome di questa città, un assalto nemico venne sventato con l’astuzia dagli abitanti del borghetto, che uccisero tutti i galli del luogo dopo avere saputo che sarebbero stati attaccati al canto del gallo del giorno successivo. Astuzia di cui gli Strangolagallesi vanno tuttora fieri. Lo stemma della città, quasi a voler confermare l’aneddoto popolare, raffigura una volpe che afferra un gallo con le zampe anteriori e lo solleva tenendolo per il collo.

Insomma, Strangolagalli era un piccolo centro abitato da duemilaseicento anime e avvolto da un alone di leggenda: eppure tutto sembrava contraddirne le origini misteriose. La bibliotecaria, il medico di base, il farmacista, la parrucchiera, erano gli stessi di sempre. Erano lì da quando Teresa ne aveva memoria, e la vita di quella piccola comunità scorreva serenamente, senza che nulla potesse arrivare ad alterarne gli equilibri. Era un luogo dove tutti si conoscevano e si aiutavano, dove chiunque era invitato a partecipare alle riunioni nella sala consiliare del Comune per la programmazione e l’organizzazione della festa patronale, del carnevale, delle attività sportive, o per discutere le modifiche allo statuto del Centro sociale anziani. L’unica vicenda che aveva sconvolto gli abitanti di Strangolagalli era stata proprio la scomparsa della madre di Teresa. Poi tutto era tornato alla normalità e i litigi annuali nella sala consiliare sull’utilizzo o meno dei fuochi d’artificio durante la festa del patrono erano rimasti la sola eccezione alla calma di quel posto.

Teresa aveva bisogno di ritrovare un po’ di pace ed era certa che lì, dove un tempo era stata felice, non sarebbe potuto accaderle niente di male. Per questo, chiusa la conversazione con suo padre, era rientrata a casa, aveva infilato i vestiti in valigia, aveva caricato la macchina con tutto quello che poteva contenere ed era partita alla volta della città natale. Senza mai voltarsi indietro, senza mai essere attraversata da un dubbio. E quando suo padre quella sera stessa l’aveva richiamata, lei stava già accendendo il camino nel salone principale di una casa che odorava di chiuso.

«Ma che cosa ti è saltato in mente?»

«Sono stanca, papà.»

«Stanca di cosa? Non fai niente dalla mattina alla sera.»

«Appunto. Ho studiato tanto, mi sono impegnata…»

«Tutta robaccia inutile. Io ti avevo detto subito di fare medicina, ma tu hai scelto la strada più facile. Psicologia, figuriamoci. Come scegliere Scienze politiche invece di Giurisprudenza, o Antropologia culturale invece di Lettere antiche. Antropologia culturale! Sai che si scrivono tesi sul significato sociale dell’utilizzo dei bonghi tra le popolazioni amazzoniche?»

«In Amazzonia suonano i bonghi?»

«E cosa diavolo ne so?»

«Papà, io ho preso la mia decisione. Resto qui e cerco di combinare qualcosa.»

«Ma cosa vuoi combinare a Strangolagalli?»

«Mi verrà in mente.»

«Domani mattina chiamo il sindaco e…»

«Non ci provare!»

Ovviamente la telefonata al sindaco, Ignazio Vecchietta, era arrivata la sera stessa, e l’indomani mattina Strangolagalli si era già mobilitata per l’accoglienza. Nel pomeriggio ci sarebbe stata una riunione nella sala consiliare per decidere in che modo dare il bentornato alla figlia del Professore. Si era mosso persino il parroco della chiesa di San Michele, don Guarino, che Teresa l’aveva battezzata, e che desiderava unirsi ai festeggiamenti. In realtà era preoccupato che l’arrivo della donna potesse alterare gli equilibri della comunità o, piuttosto, delle sue finanze, visto che non aveva mai pagato l’affitto al proprietario del terreno dove si ergeva la casa parrocchiale: vale a dire, a Giovan Battista Papavero.

Il dieci settembre, primo giorno della sua nuova vita a Strangolagalli, qualcuno aveva suonato alla porta di primo mattino, e quando era andata ad aprire si era trovata di fronte una signora Marisa perfettamente conservata nel tempo. Anche se più che di fronte, se l’era trovata in basso, quasi accartocciata sullo zerbino, dal momento che la sua testa non arrivava neanche a toccare l’ombelico di Teresa. Comunque sia, la vecchia governante si era messa a piangere, l’aveva abbracciata, circondandole la pancia, e le aveva rifilato subito un paio di centrini.

«Madonna mia, Teresina, quanto ti sei fatta bella! Tale e quale a tua madre.»

«Non me la ricordo.»

«Ti verrà fuori, porta pazienza. Sei venuta per restare?»

«Sì» aveva risposto decisa, colpita da quella domanda così profonda, quasi socratica.

«Allora ti metto nel carro della sfilata per la festa del santo patrono. Fai l’albero della vita, come quando eri piccolina. C’ho ancora il costume.»

«Ma avevo dodici anni…»

«E che problema c’è? S’allunga. Il ventinove settembre. Ora devo scappare, bella mia.»

Non aveva potuto replicare. E non avrebbe neanche voluto. Era tornata per questo. Non per salire sul carro, intendiamoci. Che cosa avrebbe fatto della sua vita ancora non lo sapeva, ma era certa che almeno avrebbe avuto un po’ di pace. A questo pensava mentre percorreva le viuzze di quella strana cittadina dalla forma circolare, annusando l’aria familiare, gli odori, riempiendosi gli occhi di immagini a lungo dimenticate.

Non aveva idea di quanto si stesse sbagliando.