Sei

Mi addormentai alle quattro del mattino.

Sognai il conte Ristori, quello vero, che si faceva leggere le carte da mia nonna. Io ero chiusa nell’armadio, come sempre, e ascoltavo rapita il suo futuro.

«T’ava rompe ’na gamba,» diceva nonna «si capite? T’ava rompe ’na gamba ma poi s’aggiuste. Megghie de prime. Bella bella, dritta dritta.»

Poi lo sentivo uscire dalla stanza e dopo un paio di minuti mi svegliai di soprassalto perché nel sogno c’era stato il rumore di una frenata e uno schianto. Il povero conte era stato investito.

Ripensai a quell’armadio. Quanto tempo avevo trascorso chiusa lì dentro?

Nonna era brava in quello che faceva. Prediceva il futuro a tutto il vicinato e a casa c’era un viavai continuo di gente. Questo innervosiva parecchio mia madre e rendeva felice me che mi nascondevo e ascoltavo, non vista, le faccende personali dei vicini e dei loro eredi. E naturalmente esercitavo la mia prodigiosa memoria.

Era divertente vivere dentro l’armadio. Fuori c’era un mondo che non comprendevo e che non comprendeva me. A scuola non avevo amici, a parte Modestina. Gli altri mi tenevano alla larga proprio perché ero la nipote di Berta, la stregona, e perché la mia memoria a tempo di record li spaventava. Chiusa lì dentro invece mi sentivo al sicuro. Avevo anche improvvisato una specie di cambusa.

Un giorno, appena andato via il parroco in visita per sapere se suo nipote non ancora nato sarebbe diventato dottore, nonna mi gridò di uscire: «Isse daffore!!».

Feci capolino dall’armadio: «Che ne sapevi che ero qui dentro?».

«Eh, mò vine tu? Tutto so…»

Ero sicura fosse stata colpa dell’odore delle sgagliozze, la polenta fritta che mi ero portata dentro.

Comunque il sogno mi aveva turbato parecchio e quando arrivai in ufficio ero ancora confusa e stordita. «Penelope!» gridò Sofia apparendo improvvisamente alle mie spalle. «Hai fatto partire il comunicato stampa? Hai chiamato la pasticceria per il coffee break? Hai avvisato internamente che alle sedici ci sarà la riunione e hai riservato la sala grande? Non vorrei che poi qualcuno la occupasse.»

«Sì.»

«Sì cosa?»

«Sì, ho fatto tutto.»

«È una tua responsabilità e non ammetto errori.»

Aveva paura, molta paura. Il fantomatico signor Scrooge era arrivato, preceduto da pettegolezzi di ogni tipo, e lei ne era terrorizzata. E un po’ anche io, di riflesso.

Poco prima delle quattro nella sala si erano riuniti praticamente tutti. Cioè, i tutti che contavano. Le tendine erano abbassate e non si riusciva a vedere attraverso le vetrate. Sofia era all’interno, ovviamente. Me la immaginavo impegnata a scrivere forsennate e-mail sul suo iPad. Era convinta che quello che faceva fosse di capitale importanza. Neanche avesse dovuto salvare vite umane. Beh, io per esempio una l’avevo salvata.

Forse.

Poi c’era Tondelli, il responsabile della produzione, una specie di impiegato del catasto, basso e tarchiato soprannominato “foglio Excel”. Qualsiasi cosa bisognava fare, dal mandare in produzione i nuovi assorbenti al decidere quale macchinetta del caffè ordinare, lui compilava un foglio Excel. Doveva esserci anche Lavinia, concentrata sulla manicure appena fatta, e il direttore generale, l’ingegnere Saverio Pacifico Frizzante, che era un uomo tutt’altro che pacifico e frizzante. Sempre rinchiuso nella sua stanza, lo si vedeva comparire raramente e quando avveniva non era mai una cosa piacevole. Era una specie di signor Burns, il capo di Homer Simpson per intenderci.

Venni distratta dalla vibrazione del mio cellulare.

«Ciao Bianca, non posso stare molto al telefono.»

«Allora ci sentiamo stasera. Domani mattina parto per New York. C’è un’asta importantissima da Christie’s che non posso saltare.»

«Ma che hai? Sei agitata per l’asta? Hai una voce strana.»

«È successa una tragedia.»

«E cioè?»

«Ho lasciato François.»

«Mi dispiace tantissimo.»

«Non è questa la tragedia.»

«Ah no?»

«No, figurati. Vado a New York con il maestro Lautzer.»

«E chi è?»

«Il direttore d’orchestra tedesco!»

«Ma ha ottantasei anni!»

«Un grand’uomo.»

«Ha più anni di tuo padre!»

«Che c’entra, è mio padre a essere giovane.»

«Stregatti!» una voce alle mie spalle mi fece sobbalzare sulla sedia.

«Oddio, è Sofia. Senti, devo andare, ne parliamo più tardi. C’è una riunione di quelle serie, è arrivato il nuovo consulente, un certo Riccardo Gallone, Cedrone, qualcosa del genere. Pare debba ristrutturare l’azienda. Dovresti vedere le mie colleghe, tutte in tiro. Io sembro la sora Lella.»

«Devi smetterla di fare sempre la pecora nera, hai un figurino aggraziato e un bel viso, se solo ascoltassi i miei consigli.»

Bianca aveva un modo tutto suo di volermi bene, era l’unica a occuparsi del mio standing o almeno tentava di farlo.

«Stregatti, vieni subito nel mio ufficio.»

Sofia fece capolino, chiusi subito la conversazione con Bianca e la seguii senza replicare.

Vedevo le sue natiche secche ancheggiare sotto la gonna di Armani.

Nel suo ufficio, seduta di fronte a lei, pensavo a quanto dovesse soffrire. Nel senso che era evidente fosse follemente innamorata di Guidieri e che tutto ciò che faceva e diceva era fatto e detto per compiacerlo. Più lui la trattava male, più lei si affannava e si incattiviva. Il loro era a tutti gli effetti un rapporto sadomaso, lei la vittima lui il carnefice. Alla Secretary. Non potevo immaginarmeli a letto insieme, mi veniva la pelle d’oca. Guidieri aveva il sex appeal di un calamaro, oltre a una moglie e due figli che studiavano a Boston. Ma era un uomo di potere e Sofia lo amava per questo. Aveva anche una sua foto sulla scrivania, uno scatto fatto durante un’intervista. Io e Maurizio ce la immaginavamo inginocchiata davanti alla cornice, in adorazione.

«Ma mi stai ascoltando?»

Oddio, mi ero distratta.

«Certo.»

«Quindi? Sei d’accordo con me?»

«Ovvio.»

«Benissimo. Allora andiamo di là in sala riunioni e te lo presento.»

«Chi?»

Mentre si alzava dalla sedia, il viso di Sofia si contorse in una smorfia innervosita.

«Riccardo Galanti! Il nuovo consulente!»

Ah, Galanti, ecco come si chiamava.

«È gentile da parte tua, grazie.»

Ero sorpresa. Un gesto carino, una dimostrazione di rispetto nei confronti del mio lavoro.

Camminavamo di nuovo in fila indiana, lei davanti io dietro.

«Beh, devo presentartelo per forza, altrimenti come potresti fare la sua segretaria?»

Mi fermai in mezzo al corridoio, lei si accorse di non avere più i miei occhi puntati sul suo sedere e si voltò verso di me.

«Guarda, la cosa è semplicissima. Lui aveva bisogno di un’assistente e io gli ho fatto immediatamente capire che qui siamo collaborativi e gli ho messo a sua completa disposizione un membro del mio staff.»

«Perché io?»

Mi afferrò un braccio con quella sua mano ossuta e mi diede un paio di strattoni.

«Perché sì.»

Mi sentii mancare la terra sotto i piedi.

Poi, venendomi vicino, aggiunse: «Devi riferirmi tutto, capito? Tutto. Ha in mente qualcosa, forse ci vende ai cinesi e se così fosse… Gioco di squadra!».

Va bene, arrivavano i cinesi, ma io la segretaria di questo Galanti non potevo proprio farla. Tra l’altro non ne avevo le competenze. Che doveva fare una segretaria?

«Sofia, io non posso!»

Andava bene non vincere il Pulitzer, ma questo era inaccettabile.

«E perché mai?»

Sono laureata in lettere, ho due master in giornalismo, so perfettamente l’inglese, il francese, il tedesco e anche un po’ di cinese, avrei voluto risponderle.

Ma mi uscì solo un: «Va bene. Almeno lui com’è?».

«Un grandissimo stronzo.»

Ecco.

Appena entrata nella sala riunioni gli occhi di tutti si appuntarono su di me, soprattutto quelli di Lavinia. Che cosa voleva da me? Perché mi odiava? In fondo mi era toccato il compito peggiore. La vidi bisbigliare qualcosa all’orecchio di Costanza, potevo immaginare che cosa si stessero dicendo. Mi sentii catapultata indietro ai tempi delle elementari, quando tutti mi parlavano alle spalle per via della memoria prodigiosa. Modestina era l’unica amica che avevo ed era sempre stata costretta a difendermi. Una volta c’era stata persino una rissa, ai giardinetti. Celeste, la più carina della classe, aveva detto qualcosa di brutto su di me e su mia nonna e Modestina le aveva appiccicato un’intera confezione di Big Babol sui capelli lunghi, biondi e perfetti. Quella il giorno dopo si era presentata in classe rasata quasi a zero. L’oltraggio doveva essere vendicato e allora Celeste le aveva dato appuntamento ai giardinetti. Fu un agguato vero e proprio perché lì, ad attenderla, non aveva certo trovato Celeste, ma suo fratello più grande Benedetto, con l’inseparabile amico. Modestina però non si era scomposta. Li aveva guardati a lungo e poi, stringendo i pugni, aveva iniziato ad avanzare verso di loro. Quelli presi alla sprovvista indietreggiarono. Quando sbatterono le schiene contro gli alberi, Modestina attaccò stendendoli in un paio di minuti. Fu allora che Benedetto, con ancora la faccia nel fango, decise che Modestina sarebbe stata la donna della sua vita.

Così molti anni dopo era nato il povero Luigino.

Se solo fossi stata più coraggiosa, più bella, più sicura di me.

Mentre riflettevo su tutto quello che avrei voluto essere e non ero, scorrevo con gli occhi i volti dei presenti seduti a quel tavolo. Quando arrivai all’uomo che era in piedi, rimanemmo entrambi senza fiato, ma credo per ragioni differenti. E sarei caduta per terra se non mi fossi appoggiata con tutto il peso a delle stampelle addossate alla parete. Con acrobazie degne del Cirque du Soleil cercai di recuperarle, ma quelle si schiantarono al suolo con un rumore assordante.

«Oddio, scusate.»

«Penelope, per l’amor del cielo!» Sofia era esasperata.

Mi piegai per raccoglierle, forse con troppa violenza. Si aprì uno strappo nel pantalone, all’altezza del sedere. Mi portai istintivamente una mano dietro e, facendo leva sulla poca dignità che mi era rimasta, risalii con lo sguardo la figura dell’uomo che avevo appena avuto il tempo di vedere, potevo essermi sbagliata. La prima cosa che si parò davanti fu una gamba bloccata da un tutore. Semplice coincidenza, pensai.

Quando recuperai la posizione eretta non avevo più dubbi.

Rimasi impietrita e feci cadere a terra di nuovo le stampelle.

«Chi tt’è muerte» bisbigliai.

Le raccolsi.

«Basta, per l’amor di Dio!» esclamò l’uomo che senza ombra di dubbio era Alberto Ristori ma che per qualche strana ragione si faceva chiamare Riccardo Galanti, strappandomele dalle mani. «Meglio darle a me.»

«Sì scusa, cioè scusi, volevo dire scusate.»

«Il concetto è chiarissimo a tutti. Lei si scusa. Ora vogliamo proseguire la riunione? Dov’è la mia segretaria?»

«Ce l’ha di fronte» intervenne Sofia.

Questa volta fu lui a rimanere impietrito.