Quattro

«Fede, io non sono una bella persona.»

Eravamo a pranzo in uno di quei ristoranti vegano-vegetariani dietro corso Como, vicino al mio ufficio, dove potevi gustare la pasta senza glutine, il formaggio senza formaggio, i grassi senza grassi. Negli ultimi anni erano proliferati come la gramigna. In cucina c’erano ex analisti finanziari, ex avvocati, ex bancari che, stanchi della vita stressante e frettolosa della città tentacolare, si erano improvvisati chef e realizzavano cibi naturali, a impatto zero, costosissimi, che neanche una capra avrebbe mangiato. Per un paio di polpette di quinoa e zenzero con germogli o un bulghur arcobaleno pagavi una fortuna, però contribuivi al rimboschimento della foresta amazzonica.

«Che vuoi dire?»

«Che non sono una bella persona.»

«Sì che lo sei. Chi altro cercherebbe di migliorarsi giorno per giorno senza ottenere il minimo risultato?»

«Eh?»

«Lascia stare, era un’osservazione troppo acuta.»

«Un paio di settimane fa ho investito l’uomo della mia vita e poco dopo ho cercato di ucciderne un altro. Non mi sembra il modo migliore di migliorarmi.»

«Era quello che tentavo di dirti, senza il minimo risultato. Ciò non toglie che l’impegno ci sia. Magari il tizio che hai cercato di affogare per merito tuo vivrà altri vent’anni, fino a quando una sera, dopo avere dato la buona notte alle nipotine, si addormenterà sereno per non risvegliarsi mai più. Una morte bellissima. La migliore.»

«Bella sceneggiatura. E ti pagano pure.»

«Che fine ha fatto lui?»

«Chi? Il nonno con le nipotine? E che ne so, la sceneggiatura è la tua.»

«No quell’altro, l’uomo della tua vita che non sa di esserlo.»

«Quando mi sono risvegliata in ospedale non c’era più nessuno. I medici mi hanno detto che aveva una frattura scomposta. Gesso per quaranta giorni e poi tutore.»

Mi toccai il polpaccio, faceva ancora parecchio male.

«Siamo feriti nello stesso punto, io ustione lui frattura.»

«Che romantica, Stregatti, mi sta andando di traverso la vellutata di zucca e zenzero.»

Ero a terra.

«C’è qualcosa che non va in me. Anche l’oggetto sessuale per ogni tipo di donna mi ha snobbata. Riuscirò mai a trovare l’altra metà della mela?»

«Quella non se l’era mangiata tua nonna?»

«Appunto, che campo a fare?»

«La morte è facile, non devi fare niente, è con la vita che bisogna fare i conti.»

«Bella frase, ma che c’entra?»

«Niente. Era una vita che sognavo di dirla, mi sembrava fosse arrivato il momento giusto. Lasciarsi amare è la cosa più difficile al mondo, devi abbassare la guardia.»

«Se solo fossi più alta, più magra, più bionda. Dovevi vedere quella Giorgia.»

«Qui sta il punto. Non sarai mai più alta, più magra o più bionda.»

«Una tragedia.»

«Ora che ci penso la chirurgia ha fatto passi da gigante, potresti allungarti anche di due tacchette.»

«E rifarmi le tette.»

«Sì, anche.»

Finito il pranzo me ne tornai sconsolata in ufficio. Avevo una fame.

Il clima da un po’ di tempo si era fatto pesante. Umberto Guidieri, l’amministratore delegato dell’azienda, era stato costretto a dimettersi dalla sera alla mattina senza alcuna spiegazione. Si mormorava che la Pimpax non stesse navigando in buone acque e che presto ci sarebbero stati dei cambiamenti. Che tipo di cambiamenti però non era dato saperlo. Erano tutti molto agitati, soprattutto Sofia, la mia responsabile, braccio destro di Guidieri fino a quel momento e forse sua amante, secondo Maurizio e me.

Magra come uno stecchino e con i capelli devastati dagli shatush, la nuova frontiera del colpo di sole, aveva quasi cinquant’anni e ne dimostrava almeno dieci di più. Non capiva nulla di comunicazione ma era stata messa lì proprio da Guidieri. Era sempre stata il suo soldatino, quello di cui lui aveva bisogno, qualcuno che gli desse sempre ragione.

Guardai fuori dalla finestra, faceva freddo ma era una bellissima giornata.

Perché quella città era così difficile? Che fossi sbagliata io?

Avevo quasi quarant’anni e nella mia vita non era accaduto nulla di eccezionale, tranne il fatto di avere rotto una gamba al conte Ristori e averne spinto un altro alla fuga qualche anno prima.

Dopo la mia pseudo relazione con Alessandro, che comunque, pendolo o non pendolo, era scomparso, non avevo incontrato nessuno. Oddio, non che a Bari facessi faville, ma almeno riuscivo a trovare qualcuno con cui andare al cinema. A Milano, invece, la gente non aveva tempo da perdere. Andavano tutti di fretta e manifestavano un’immediata insofferenza se ti mostravi lento in qualcosa. Ancora prima che arrivasse il caffè avevano già aperto la bustina dello zucchero. E sulle scale mobili della metropolitana dovevi affrettarti o metterti subito a destra.

«Scusi, permesso!»

«Sì, un attimo. Devo ancora mettere il piede sullo scalino!»

«Eh, ma si sposti a destra. Non mi faccia perdere tempo.»

Era una città che non concedeva tempo neanche per una cenetta organizzata all’ultimo minuto. Il lunedì c’era il corso di tango, il martedì pilates, il mercoledì la coltivazione dell’orto, il giovedì l’analista, il venerdì un impegno preso il mese precedente e il fine settimana la fuga in montagna o in Liguria a seconda della stagione.

Ad aggravare la situazione si aggiungeva il fatto che era una città piena di donne. In carriera, belle, eleganti, sicure di sé e scolpite dal pilates. Donne dedite alla coltivazione di venticinque metri quadrati di orto in città, che facevano la spesa nei supermercati bio e amanti della cucina vegana. Io non ero in carriera, non ero elegante e non ero scolpita dal pilates. Cioè, non ero scolpita proprio.

Il grido di Sofia s’intromise tra me, il tango e il pilates: «Ragazze! Riunione operativa! Subito!».

Le piaceva molto questo termine e le piacevano le riunioni. Ne facevamo almeno due al giorno, del tutto inutili, di operativo c’era solo la sua mancanza di operatività.

Il lancio degli assorbenti alla lavanda l’aveva impegnata completamente. L’idea del nuovo prodotto era stata proprio di Guidieri, che aveva lavorato per due anni al progetto dopo aver convinto tutta la struttura che l’azienda avesse bisogno di un impulso.

Non trovavo nulla d’innovativo in questi assorbenti se non che profumassero di lavanda. L’unica cosa positiva era che ci avevano sommerso di campioni. Sarei stata a posto fino alla menopausa, neanche troppo lontana, solo che a casa non sapevo più dove metterli. Li avevo stipati ovunque, negli armadi, nei cassetti, dietro i libri e persino nascosti tra i DVD. Una sera Federico mentre cercava Misterioso omicidio a Manhattan se n’era trovato in mano un pacco.

C’era stato persino un periodo in cui chiunque fosse entrato alla Pimpax avrebbe visto i dipendenti annusare pannolini o camminare per i corridoi con un assorbente sotto braccio.

Perché tutto questo avesse portato Guidieri al fallimento era un mistero.

Mi sedetti sconsolata nella stanza di Sofia insieme a Lavinia, la sua preferita, e Costanza.

«Stiamo andando incontro a un periodo molto difficile,» esordì «dobbiamo stringere i denti e fare gioco di squadra. Manderanno qualcuno a sistemare l’azienda.»

«Qualcuno?» chiese Lavinia.

«Sì, un consulente. Il termine esatto è “turnaround manager”. Dovrebbe rimettere le cose a posto.»

«Sai già chi è?» domandai.

Sofia deglutì prima di rispondere: «Non posso aggiungere altro. Posso solo dirvi che la sua fama lo precede e che… che non sarà facile. Gioco di squadra, ragazze. Gioco di squadra».

Tornai alla mia scrivania molto inquieta.

Prima di tutto perché l’unica squadra che forse Sofia aveva mai conosciuto era quella che si adoperava con il righello all’ora di educazione tecnica, in secondo luogo perché non mi piacevano le novità, i cambiamenti. Non mi erano mai piaciuti. Chi era questo turnaround manager? Sofia ne aveva parlato come di un’entità mostruosa e io mi immaginai una specie di Ebenezer Scrooge, vecchio, avaro e cattivo.

Per il resto della giornata cercai di togliermi di dosso quella sensazione, alle sei spensi il computer, mi vestii e scesi a prendere la bici.

La giornata sarebbe scivolata direttamente nella lista di quelle da dimenticare se non fosse stato per il pensiero della tisana con Letizia. Ci piaceva prenderla sul ballatoio dopo il lavoro per consolarci delle nostre disgrazie, era un piccolo rito quotidiano.

Lei era di Genova e dopo l’università si era trasferita a Milano in cerca di fortuna. Aveva trovato me.

Avvocato, sognatrice, mi aveva raccontato la sua vita una sera, mentre stendevamo ad asciugare le rispettive mutande sul ballatoio. Le sue avevano stampati piccoli fiorellini colorati, alle mie mancava l’elastico.

«Ah, l’amore» aveva sospirato a un certo punto.

«Sei fidanzata?»

«No.»

«Innamorata?»

«Neanche.»

«E quindi?»

«Mi piace pensare che esista, però. Da qualche parte, intendo. Magari dietro a una porta.»

«Non qui dove siamo ora?»

«No, lo escludo.»

«Immaginavo. Belle le mutande con i fiorellini.»

«Vero? Mi rispecchiano molto.»

«Anche le mie, credo.»

Fece una pausa, mi osservò qualche secondo e disse: «Tu dici?».

Diventammo amiche subito.

La vita in una casa di ringhiera era divertente, nessuno si faceva i fatti propri. Dal ballatoio potevamo controllare i movimenti intestinali del suo dirimpettaio o gli atteggiamenti libertini della Saccarotti. Eravamo quasi tutti giovani, tranne Patty Pravo e quella che mi abitava accanto che ovviamente aveva ottant’anni ed era pazza. Gli appartamenti erano minuscoli, piccole bomboniere, peccato che nella ristrutturazione si fossero dimenticati dei bagni, ci si entrava a mala pena. Il mio per esempio non aveva il bidet, se mi fossi piegata troppo sul lavandino avrei aperto la porta con il sedere e quelli seduti in cucina lo avrebbero potuto ammirare in tutta la sua vastità.

Mentre pedalavo realizzai che nonostante la mia vita fosse sconclusionata, una piccola certezza ce l’avevo: con accanto i miei amici, avrei potuto affrontare qualsiasi cosa, anche senza principe azzurro. Almeno uno dei “quattro grandi temi della vita di una donna” lo conoscevo bene. Certo, mi mancavano gli altri tre, sesso orgasmo e amore. Ma esistevano davvero?

Finimmo di sorseggiare la tisana e farci gli affari di tutti i condomini.

Me ne tornai nel mio appartamento. Alessandro era scomparso, Ristori pure e il Natale ce lo avevo alle spalle.

Mentre mi preparavo per andare direttamente a letto sentii che forse la felicità e il rispetto per noi stesse non potevano derivare solo dal rincorrere un conte Ristori o dall’avere un uomo accanto a ricordarci quanto eravamo fantastiche. Anche se, per carità, sarebbe stato un aiuto.