Re di Araucania e Patagonia

Il 17 novembre 1860 Orélie-Antoine de Tounens, procuratore legale a Périgueux, in Francia, annuncia al mondo la nascita o rinascita del Regno di Araucania, cui più tardi darà il nome di Regno di Araucania e Patagonia, proclamandosene re. In realtà parlava da re sin dal 18 luglio precedente, quando aveva varcato – forse con due amici, uno dei quali già nominato Ministro, forse da solo – la frontiera con l’Araucania, che il Cile peraltro considera suo territorio, temendo semmai pretese su di essa da parte dell’Argentina.

Quali sono i confini dell’Araucania? Non conosco i limiti del suo territorio, dirà più di cinquant’anni dopo Benigar, cercando di definirli attraverso i toponimi; forse non ci sono. Comunque, sia pure premettendo un “forse”, egli parlerà di un territorio al centro del Cile e di un altro nell’Argentina. I limiti, a suo avviso, per l’Argentina sarebbero il 30° e il 46° parallelo e per il Cile, tra le Ande e il Pacifico, fra il 30° e il 47°. Un territorio, grosso modo, di 800.000 chilometri quadrati. Probabilmente imparentati con i Guaraní brasiliani, i Mapuche ovvero Araucani avevano valicato le Ande nell’Ottocento o Settecento a.C., insediandosi nel Cile centrale e successivamente a nord, nel deserto di Atacama, e, a sud, sino all’isola di Chiloé. Mapuche è il nome che si erano dati essi stessi: popolo della terra, cacciatori e raccoglitori e presto agricoltori; sempre guerrieri, usi a decapitare i nemici uccisi e ad usare il loro cranio come una coppa. Gli Inca li chiamavano Auca – che in mapudungun, la lingua mapuche, significa selvaggio, ribelle; è anche un termine che indica una cavalla ombrosa – perché avevano accanitamente resistito alla loro invasione e al loro dominio. Un popolo libero che non riconosce pieni poteri ai suoi capi e che prende le decisioni in una specie di assemblea; quando, secoli più tardi, l’improbabile avvocato francese vorrà farsi loro re, riconoscendo a quegli Indios sparsi e nascosti nelle foreste il potere legislativo, egli sarà forse affascinato da questa loro indomita fierezza, che lo spingerà a studiare le vecchie frontiere o pretese tali tra Cile e Araucania e a proclamare l’indipendenza e la libertà di quest’ultima, considerandola un vero Stato.

Da più di vent’anni l’avvocato francese sognava di ridare libertà e grandezza all’Araucania, che aveva opposto un’indomabile e spesso vittoriosa resistenza agli Incas e successivamente ai Conquistadores spagnoli, tra battaglie e repressioni feroci. Lautaro, l’eroe e generale araucano più volte vincitore, era divenuto un personaggio della letteratura spagnola nelle ottave ariostesche del poema cavalleresco La Araucana di Alonso de Ercilla (1590), che Voltaire avrebbe considerato uno dei sommi capolavori della letteratura universale.

La liberazione e la corona dell’Araucania erano nella testa di Orélie de Tounens sin dalla sua tesi di baccellierato, “La conquista e la proprietà dinanzi al diritto delle genti”, unite alla fissazione maniacale sulle origini della propria famiglia, discendente a suo avviso da un prefetto della Gallia romana, dagli Imperatori di Bisanzio e dai signori di Aquitania, e privata, cinque secoli prima, durante la Guerra dei Cent’anni, del predicato nobiliare “de”, che egli riesce a restituire al proprio nome. Ma a suo dire la nobiltà e il suo diritto-dovere di governare derivano dalla virtù personale e dal senso dell’universale dignità umana. Gli piace che Murat, figlio di un palafreniere, sia divenuto re di Napoli e che alcuni marescialli napoleonici provenissero dal popolo; i caciques che governano l’uno o l’altro gruppo araucano e patagonico sono per lui degli aristocratici non meno della grande nobiltà di Francia. Il suo fantomatico trono dovrebbe porre fine alle scellerate violenze, ruberie, espropriazioni, che distruggono e distruggeranno sempre più gli Indios, il loro mondo e le loro condizioni di vita, in un crescendo di ingiustizie e crudeltà da parte dei bianchi e poi delle Società che si impadroniranno illegalmente dello sfruttamento degli ovini – sino alla sterlina data per ogni orecchio di Araucano o di Patagone ucciso.

Orélie-Antoine de Tounens si infiamma sin dai banchi di scuola per le voci su un progetto di alcuni ex ufficiali napoleonici di liberare l’Imperatore da Sant’Elena e di creare un impero franco-indiano nell’America del Sud. Più tardi si proporrà di creare uno Stato francese-araucano, una specie di Canadà o di Louisiana, i Paesi francesi perduti; non una colonia ma uno Stato governato e retto dagli Indios. Cattolico che molti anni dopo, squattrinato, deriso, emarginato e perseguitato, chiederà aiuto a papa Pio IX, Orélie è iscritto sin dalla giovinezza alla Loggia Massonica degli Amici Perseveranti di Périgueux, cui periodicamente chiede denaro per i suoi progetti e dalla quale più tardi verrà espulso o – la cosa non è chiara – messo in sonno, altro colpo che lo getterà ancora più a terra, ma che incasserà senza perdersi troppo d’animo.

È un avventuriero ottocentesco; non ha nulla della leggerezza dell’avventuriero settecentesco, del suo cinico e lucido senso della realtà, della sua disincantata conoscenza del mondo. Orélie è un eroe ottocentesco da melodramma, teatrale e caricaturale, incline al pathos e ai grandi gesti, sul confine tra il dramma e l’operetta. In fondo, pure Massimiliano d’Absburgo – illuminato governatore della Lombardia che più tardi accetta con irresponsabile leggerezza la corona imperiale del Messico, di un Paese di cui sa molto poco e quasi nulla del suo fuoco vulcanico che ribolle e che lo distruggerà – è anch’egli alla fine un nobile sovrano da walzer, non a caso ammirato da Orélie. Pure Orélie, in piccolo, fa parte di quell’Europa ottocentesca che fonda imperi e si estende nel mondo ma avviandosi inconsapevolmente al proprio declino, sino a quel suicidio collettivo della Prima guerra mondiale che passerà il potere del mondo ad altre mani.

Gli Araucani avevano invero tanti motivi, nella loro storia e nella loro cultura, per affascinare non soltanto un avventuriero generoso e squilibrato. Avevano sottomesso i Tehuelches ovvero Patagoni, resistito all’invasione degli Incas e dato filo da torcere ai Conquistadores spagnoli – ad Almagro, il conquistatore del Cile; a Pedro de Valdivia, che li trucida ma finisce sconfitto e ucciso mentre un paio di anni dopo il loro nuovo capo, Caupolican, viene a sua volta catturato e giustiziato dagli Spagnoli. Se Inca e più tardi Spagnoli avevano dato ai Mapuche il soprannome glorioso di Auco, saranno infine gli Spagnoli a dar loro il nome di Araucani dopo averli sconfitti in una durissima guerra – un nome imposto dai vincitori ai vinti e da questi sempre rifiutato.

Quel nome nasce nello stesso anno in cui viene pubblicata La Araucana di Alonso de Ercilla y Zúñiga, Conquistador e notevolissimo poeta. Melodiose e tragiche ottave ispirate ai grandi modelli della tradizione epica e di quella cavalleresca, in una specie di sintesi tra Virgilio e Ariosto.

Con lui – osserva Isaías Lerner, editore e commentatore del poema – nasce una nuova grande arte epica non più sottomessa soltanto al modello antico (essenzialmente latino, Virgilio e Lucano), ma arricchita dai rivolgimenti politici del tempo, dalle grandi battaglie per il dominio dell’Europa e dalla Conquista del Nuovo Mondo. Ogni grande svolta epocale richiede una nuova grande arte che le dia forma.

Lo stesso Ercilla, nel suo poema, fonde le esperienze della sua vita avventurosa e guerresca nelle nuove Indie e i rivolgimenti epocali, in un geniale impasto di vita vissuta, topoi letterari, motivi classici e modelli rinascimentali, idea imperiale antica e idea imperiale spagnola contemporanea, la poesia di Garcilaso de la Vega e quella rinascimentale. Una perfetta fusione di Classicità e Moderno. Eroine classiche rinascono in vesti genialmente moderne, la passione – le passioni – di Didone e la fedeltà coniugale di Lauca, sconvolgimento dei sensi e virtus romana; il guerriero araucano Rengo, vincitore degli Spagnoli, è un nuovo Eracle vittorioso su Anteo, il capitano spagnolo Villagran, attraversando un fiume, ripete le parole dette da Cesare passando il Rubicone. Su tutti gli eroi spiccano i due capi araucani. Caupolican, più volte vittorioso e alla fine impalato ma fiducioso che i suoi Araucani – elencati e descritti intorno a lui morente secondo il topos omerico dell’elenco degli eroi – continueranno la resistenza. Più grande di tutti Lautaro, rispetto al quale il poeta giunge a dire che nemmeno i più grandi eroi antichi possono essergli paragonati, rovesciando quindi il rapporto di auctoritas fra antichi e moderni. Ercilla è anche un maestro di retorica che ricorre a pressoché tutte le sue figure – alla ripetizione, all’accumulazione, all’enumerazione, all’anafora. Il poeta certamente è innamorato della realtà, delle traversate di mari e degli eroi che cadono in battaglia e dalle cui vene si sparge il sangue come vino da rotto cratere. Gli episodi eroici si accompagnano alla polisemia e alle oscillazioni di significato, in una complessa architettura di neologismi, latinismi e nomi composti e nell’uso di un lessico assai vasto. Il plurilinguismo comprende denominazioni di animali allora assai poco conosciuti, mentre la creativa ricchezza linguistica sembra trascurare gli indigeni.

Il poema di Ercilla è il racconto di un Paese, della sua storia, degli usi, costumi e tradizioni degli Araucani, i quali non amano e non ameranno mai essere chiamati così; sono e si chiamano Mapuche. Il capolavoro epico di Ercilla è il grande affresco storico e l’attento documentario di un popolo; di una cultura che viene sconfitta, ma che resiste duramente senza venire frantumata e dissolta, continuando ad esistere, a essere nel senso forte della parola.

La storia dei Mapuche è sempre stata, prima e dopo il tragico vaudeville di re Orélie-Antoine I, una storia di massacri e di resistenza ai massacri e alle varie forme di persecuzione ed emarginazione. Resistenza agli eserciti del generale O’Higgins o del colonnello Urrutia, alla miseria e alla stessa modernizzazione del Paese, il cui sviluppo industriale o economico avrebbe comportato per gli Indios un genocidio culturale. Una plurisecolare lotta al coltello, impari ma accanita, sino alle leggi di Pinochet e già ben prima alla dittatura delle multinazionali, più libere che altrove di agire illegalmente con leggi inique in una società che avrebbe conosciuto pure un enclave nazista, la Colonia Dignidad, dove nel 1961 ha trovato rifugio Mengele. Le repressioni del popolo mapuche sarebbero salite agli onori della cronaca del mondo – sia pure per un istante, non più di un flash di agenzia – con la visita di papa Francesco I, nel 2018, a Temuco, capoluogo dell’Araucania. Visita tumultuosa perché la presenza di un Papa solidale con i nativi e ben consapevole delle colpe del colonialismo, anche interno, e pure della Chiesa – in particolare dell’Opus Dei – avrebbe riaperto e fatto conoscere ferite mai chiuse.

Nel 1860 Orélie “passa il suo Rubicone” ossia l’Oceano Atlantico. Pensa di entrare in Araucania dal Cile e sbarca a Valparaiso. Siede al caffè guardando il mare, ascoltando le grida dei pescatori e dei marinai; studia lo spagnolo e il mapudungun, si fa crescere la barba e i capelli, indossa il poncho, infila una sciabola nella sella del suo cavallo, raccoglie le voci sugli scontri tra soldati cileni e araucani e le dicerie, riprese dagli stregoni della foresta, sul prossimo arrivo di un uomo bianco destinato a mettersi alla testa degli Araucani contro il Cile e a ridar loro la libertà, quasi a rovesciare l’immagine del blanco ávido de oro di cui parlano tante testimonianze. Non ancora re ma deciso a diventarlo, l’avvocato entra in contatto con alcuni caciques; nei momenti di sconforto si paragona a Cortez nella terribile “noche triste” della riscossa azteca.

Alla fine si scuote e parte per il suo regno. Si mette in viaggio, a cavallo. Con due compagni, Lachaise e Desfontaine – uno dei quali già da lui nominato Ministro. Mai esistiti, inventati come i loro nomi. Parte dunque solo. Attraversa lande e foreste, incantato da quelle bellezze naturali, praterie verde smeraldo, rocce nere che annunciano i vulcani, nevi azzurre. Un cielo in cui tremano i riflessi dei mari antartici, scriverà un secolo dopo un suo biografo e successore in esilio senza aver mai visto quei luoghi né aver posto piede in quelle terre. In una grande radura circolare delle Ande incontra il cacique Quilapán, arrivato con cento cavalieri; grande e possente, nudo sotto il poncho, dallo sguardo insostenibile, che solo quello dell’imminente re può fieramente sostenere, come in un romanzo salgariano e non solo perché Salgari ha scritto pure La stella dell’Araucania. Il clima, il colore, l’ingenuità talora involontariamente comica ma anche appassionante del racconto dell’uomo che sta per diventare re hanno un timbro salgariano, toccante per il lettore odierno che non abbia dimenticato le tigri della Malesia e i corsari della propria infanzia e adolescenza, la loro improbabile e forte fantasia sempre accesa dalla realtà, vista o anche solo letta nel resoconto di qualche viaggiatore ma non perciò meno forte e perentoria.

Così nasce un Regno. Orélie e Quilapàn si abbracciano, il re giura di unire tutte le forze delle diverse comunità araucane, promette che il suo “Ministro della Guerra e il suo Ministro della Marina” procureranno “armi moderne” e navi. Gli Araucani intorno a lui, uomini e donne, danzano, gridano, cantano il Chivoleo, il canto di guerra, i fuochi di bivacco ardono illuminando la foresta, la chicha, la birra indigena, scorre senza economia. Solo Quilapàn, appena nominato Ministro della Guerra, guarda impassibile la festa.

Uno Stato ha bisogno di una Costituzione e il re fa presto a redigerla. Anzitutto si tratta di una Monarchia: la Repubblica gli appare un caos di fazioni e colpi di Stato, cosa di cui peraltro davano prova le turbolente repubbliche sudamericane. La Costituzione di Orélie (che presto cambierà il nome in quello ispanizzato di Aurelio-Antoine I) è un capolavoro surrealista o dadaista. Monarchia Costituzionale Ereditaria, la cui successione, in mancanza di eredi – come avverrà alla sua morte – è decisa dal sovrano per designazione; il monarca può essere un re o una regina. Nella tumultuosa festa di quella notte, fra canti e danze di guerra, il sovrano nomina ministri – che dipendono soltanto da lui – un Consiglio del Regno, un Consiglio di Stato e un Corpo Legislativo eletto con suffragio universale, anche se non è ben chiaro come debbano funzionare le elezioni nelle foreste. Il re può conferire titoli di nobiltà ma puramente onorifici e privi di ogni privilegio, perché il primo articolo delle disposizioni fondamentali garantisce la libertà individuale e l’uguaglianza di tutti davanti alla legge. Il re può destituire i consiglieri e giudici, ma sulla base di loro colpe e mancanze. Durante lo stato d’assedio nessuno può abbandonare il suo luogo di residenza senza passaporto; peraltro non si precisa come stabilire nelle foreste questo luogo di residenza, specie per alcune etnie araucane erranti, e non si dice parola sulla stampa e distribuzione di passaporti. Le assemblee di cittadini non sono meno valide se vengono tenute all’aperto o a cavallo. La Costituzione è firmata dal Sovrano e dal Ministro di Stato del Dipartimento di Giustizia, una persona che non esiste, uno dei due inventati compagni della sua entrata in Araucania. Pare sia stato il re stesso a firmare non solo per sé ma anche per l’immaginario ministro. Un mese più tardi, a Canglo, un’altra località, il re presenta ai capi Indios il tricolore araucano azzurro-bianco-verde, bandiera del nuovo Stato, mentre tutti cantano il Chivoleo. Il sovrano istituisce anche ordini cavallereschi e medaglie di merito e si fa fare un ritratto da allegare ad ogni testo del suo governo.

Il mondo viene informato della fondazione del nuovo Stato da una lettera che il sovrano manda a tre giornali cileni firmandola col suo nome ispanizzato, Aurelio-Antoine. Apre pure ambasciate del Regno nei Paesi più diversi e anche lontani del mondo – peraltro non è ben chiaro, a tale riguardo, il significato preciso del verbo “aprire” – ribadisce sempre il legame con la Francia, con la Francia imperiale di Napoleone III, anche se la stampa francese lo ridicolizza. In Araucania intanto serpeggia una guerra larvata tra l’esercito cileno e gli Araucani, che lo sconfiggono.

Tre giorni dopo la promulgazione della Costituzione i messaggeri inviati in Argentina tornano con la risposta dei Tehuelches, Patagoni, che aderiscono con entusiasmo alla proposta di una federazione Aracaunia-Patagonia. Fra gli Indios della Pampa è ben viva la memoria di tante guerre intraprese dai governi argentini, come quella “del deserto”, scatenata dal generale e poi presidente Rosas nel 1833 e arrivata fino a Carmen de Patagones; una guerra che ha fatto il deserto tra gli Indios, nonostante qualche piccolo loro recupero nel 1858 e che si concluderà tuttavia nel 1885 con la resa degli ultimi caciques. La Patagonia diviene parte dell’Argentina; ai Patagoni si mescolano Araucani sospinti verso est, oltre la Cordigliera.

Il re è attento alle sofferenze degli Indios tormentati e spesso massacrati dai bianchi e in particolare dagli allevatori di ovini ma, come del resto molti anni più tardi Janez Benigar nel suo El calvario de una tribù (1926), è alieno da un discorso esplicitamente politico. Soprattutto decenni dopo, ma già in quegli anni, la Patagonia “rebelde” conoscerà movimenti politici di esplicita ispirazione socialista e poi comunista, scioperi, attentati, una vera e propria guerriglia politica, cui l’esercito, in particolare argentino, risponderà con spietate repressioni che tuttavia non piegheranno quegli indomabili combattenti quali, ad esempio, Antonio Soto, instancabile rivoluzionario e guerrigliero, uomo dai cento mestieri e non facile da acciuffare, che sopravviverà di molti anni alle stragi di tanti suoi compagni e morirà non di coltello o di arma da fuoco, cui è incredibilmente sfuggito in tante situazioni e per tante volte, bensì di trombosi cerebrale, l’11 maggio 1963. Non farà in tempo a vedere la morte di Kennedy ma può vedere, con una soddisfazione facilmente immaginabile, il pacchiano disastro della Baia dei Porci, sconfitta fuga e morte non tanto di soldati americani quanto soprattutto di esuli cubani travestiti da soldati americani e venuti a riscuotere la promessa di Kennedy di restituire Cuba alla mafia della droga e dei bordelli in cambio dell’aiuto dato alla sua elezione col voto di tanti defunti che la mafia ha tirato fuori dalle tombe.

Ma i terribili scenari politici e sociali dell’Argentina o del Cile non entrano nei programmi, nei sogni e negli orizzonti del re, se non per quel che riguarda le rivendicazioni degli Indios. La politica nel senso vero e proprio gli è estranea come lo sarà spesso ai grandi viaggiatori solitari, pur così attenti e sensibili alle sofferenze indigene, ricchi di sentimento che non arriva tuttavia al concetto. Ma il re ha altro cui pensare. Mentre viaggia nei boschi per far visita ai vari caciques, ignora che sul suo capo è stata posta una taglia e viene fatto prigioniero da alcuni uomini armati, portato in Cile, in una lurida cella della fortezza-carcere di Nacimiento. Viene lasciato a patire la fame e successivamente chiuso in un manicomio, dove è sottoposto a perizia psichiatrica.

Più volte, anche dopo la sua morte, sarà oggetto di studi più per psichiatri che per storici. La formula “idea demenziale perseguita con un comportamento ostinatamente logico” non è una diagnosi, ma quel cocktail di demenza e logica è forse la corazza che gli permette, grazie alla sua mania più forte del destino, di restare impermeabile alle catastrofi, sconfitte, umiliazioni. Passato in brevissimo tempo dalla posizione di re a quella di prigioniero e di caso clinico, non si scoraggia. Descrive il suo trasferimento coatto nella fortezza-carcere come un ingresso trionfale, applaudito dalla gente e soprattutto dai ragazzi come l’ingresso di Gesù a Gerusalemme sul dorso di un asino. Da bravo giurista che conosce il Diritto Pubblico Internazionale contesta al tribunale e al governo cileno la contraddittorietà delle imputazioni: se l’Araucania fa parte del Cile, come si afferma, non si può accusarlo di avere varcato illegalmente la frontiera e se lo si denuncia per questo vuol dire che l’Araucania è uno Stato sovrano confinante col Cile, e non un territorio del Cile. Chiede aiuto alla Francia, ovviamente invano ma con fiera dignità

Con la Federazione Araucania-Patagonia, il re estende, a suo dire, la propria surreale giurisdizione a tutto il Grande Sud del continente americano, dal 42º di latitudine a Capo Horn. Ghiacciai, vette della Cordigliera, Pampa meridionale, baie gelate, regno di guanachi, foche, albatros e balene. Terra di balenieri, cercatori d’oro, contrabbandieri; più tardi sicari dei bianchi proprietari di allevamenti di ovini che alterano e distruggono l’habitat millenario. Sicari volonterosi come il famoso scozzese “Porco Rosso”, terrore degli Indios di Punta Arenas, torturati e massacrati da lui come da molti altri.

La denominazione “Regno di Araucania e Patagonia” dilata lo spazio del fantomatico Stato di Aurelio-Antoine I; quanto meno o soltanto lo spazio fantastico, perché la sua giurisdizione resta ancor più immaginaria, e non solo perché il re è in carcere, in manicomio o in esilio. L’unica realtà di quel regno è il re che non c’è. La corona d’acciaio che aveva fatto forgiare – aveva una passione per medaglie, decorazioni, francobolli commemorativi – non ha una testa su cui poggiare.

La capitale più adeguata del suo regno sarebbe stata la mitica città dei Cesari, Los Césares, un miraggio che durava da tre secoli nutrito della sua stessa irrealtà; tetti d’oro e strade lastricate di diamanti, oro e gemme del tramonto sulle cime dei ghiacciai, il Nulla antartico e tutto ciò che la Fata Morgana del nulla fa balenare. Tempo che non c’è, che si contrae nei meridiani che convergono verso l’estremo Sud e in cui si incontrano, alla fine, nello stesso momento tutte le ore, frecce che s’infilzano nel centro del bersaglio. Eldorado mortale costruito, secondo un’antica tradizione, con i resti di navi affondate – con il loro carico di oro, argento e pietre preziose rapinate dai Conquistadores – nello Stretto di Magellano. Regno bianco e vuoto che, pur così diverso dalle foreste in cui egli sale al trono, si addice ad Aurelio-Antoine I, re dell’Araucania, della Patagonia e del nulla. Los Césares, irreale come il regno medievale del Prete Gianni e dei suoi cristiani mori, regno opalescente celato allo sguardo dei bianchi invasori, in cui un rituale segreto rinnova l’impero del sole distrutto dagli Spagnoli. Il mappamondo di Caboto colloca Los Césares sulla Cordigliera e don García Hurtado de Mendoza, governatore del Cile nel 1570, organizza una spedizione alla conquista del misterioso regno di Tralalanda o Trapalanda o Trapananda – un Eldorado australe, scrive Sepúlveda – ma trova solo abitanti giganteschi e pelosi dai grandi piedi e dalle enormi orecchie, così fetidi da non sopportarsi a vicenda e da non riuscire ad accoppiarsi. Per fortuna si trova anche un eccellente vino, denso secco e scuro, “da consacrare ma ancor meglio da bere”.

Forse Los Césares si chiamava così non in omaggio alla maestà cesarea della Spagna ma in ricordo di un naufrago, un certo Francisco César, pilota di Caboto; quando le si fanno tintinnare le parole suonano come oro falso.

A cercare e ad immaginare quel regno è stato Sarmiento, il grande capitano spagnolo che aveva creato Puerto de la Hambre, Porto Carestia, e aveva combattuto come un giaguaro braccato dai mastini contro la sempre più preponderante potenza inglese – contro Drake che gli dà la caccia senza tregua e senza pietà ma anche senza fiaccarne l’indomita, selvaggia, feroce resistenza, gloriosa bandiera di sangue, proprio e altrui, nell’indomita sconfitta. Il monte scuro che porta il nome di Sarmiento sta di fronte allo Stretto che porta quello di Drake

Aurelio-Antoine I non vedrà mai quell’estremo lembo del suo regno, quello che più gli si addice perché è fondamentalmente un miraggio e un gioco di colori e di luci dietro al quale ci sono morte e desolazione. Uscito dalle carceri e dai manicomi cileni, ritorna in Europa. Anni di povertà, di isolamento; viaggi in Inghilterra alla ricerca di aiuti e di fondi per la causa araucana, richiesta a tutti di sottoscrizioni, ridicolizzazioni sui giornali, debiti che lo perseguitano da tutte le parti, senza un centesimo in tasca ma compiaciuto di ammirare spettacoli, canzoni e cantanti al café chantant. Complicate relazioni con la massoneria e appelli al Papa e ancor più complicati progetti di finanziamenti. Quando la Francia viene sconfitta dalla Prussia nel 1870 e cade l’impero di Napoleone III, il re in esilio propone agli alsaziani e ai lorenesi di trasferirsi in Araucania piuttosto che diventare cittadini prussiani o poco dopo tedeschi. Fonda non si sa con quali mezzi un paio di giornali, su uno dei quali – “La couronne d’acier” – pubblica una lettera da rubrica di Cuori Solitari, un appello alle donzelle di Francia per trovarsi una sposa, che dovrebbe essere disposta a condividere il suo destino ed essere onesta, di famiglia rispettabile, di eccellente salute e buon carattere, intelligente, istruita e bella, dotata di tutte le qualità per diventare una perfetta regina. Questa ricerca senza risposta solleciterà altre interpretazioni psicologiche, diagnosi post mortem di verginità coatta, di narcisismo incapace di proiettare desiderio su oggetti esterni, nonostante una certa Señorita de Percy, “mia futura sposa”, che nomina in una lettera a suo fratello.

Se il ritorno in esilio in Francia è patetico, lo sono ancor di più i due ritorni in Araucania, tentativi intrepidi e grotteschi di riprendere il potere – in realtà mai avuto. Nel 1869, alla fine di marzo, il re sta risalendo il Río Negro e cerca di temporeggiare con l’autorità argentina nella speranza di un compromesso finché il cacique Semounaou riprende le ostilità. Il re lo approva, convinto di poter ripristinare i – mai esistiti – poteri del suo regno, insieme a Quilapán, nuovamente suo Ministro della Guerra. Il caos in cui si trova non turba le sue regali manie e non lo distoglie dal fondare un nuovo Ordine reale, la Corona di Acciaio. L’artiglieria cilena bombarderà gli Araucani, massacrando i prigionieri. Aurelio-Antoine I lancia un vero proclama, una dichiarazione di guerra al Cile, accusandolo di violare i diritti delle genti e cercando di organizzare un esercito mobile e diviso in piccoli gruppi che possano compensare con la velocità dell’intervento la scarsità di armi e di uomini. Scampato a due attentati da parte dei cileni, il re decide di tornare in Europa a cercare nuovi aiuti e alla fine dell’agosto 1871 è di nuovo in Francia, dopo aver stabilito o cercato di stabilire dei rapporti di alleanza o quanto meno di non belligeranza con l’Argentina.

Stavolta si è trattato di una vera e propria piccola guerra, peraltro vissuta e condotta con la consueta esaltazione, che deforma quella che avrebbe potuto essere una piccola ma reale guerriglia rivoluzionaria di un popolo oppresso in una farsa irreale, anche se non per questo meno dolorosa e sanguinosa. A Parigi il re vive in rue Lafayette; il trono sul quale siede ricevendo gli omaggi dei visitatori – un numero imprecisato fra zero e poco più – è una poltrona, che gli serve pure da letto. Alcuni giornali scrivono che campa vendendo titoli nobiliari e decorazioni e tenendo conferenze dinanzi a un pubblico sparuto. Una modesta ma più dignitosa sistemazione gli viene offerta da una delegazione latino-americana. L’8 settembre 1875 istituisce l’Ordine reale della Costellazione del Sud e all’inizio del 1876 organizza, con l’aiuto di colui che sarà presto il suo successore, un’altra spedizione, un altro tentativo di ritorno al suo regno.

Viaggio disgraziato, banchieri che lo sovvenzionano e lo abbandonano, travestimenti, marinai che si ammutinano e lo derubano; il capitano del porto di Montevideo, dove egli sbarca, fa arrestare non i ladri ma i derubati, lui compreso. Poco dopo riuscirà, nascondendosi in una barca a vela, a raggiungere Buenos Aires e a proseguire da solo, a cavallo attraverso la Pampa, affrontando inconvenienti e incidenti di vario genere, anche molto pesanti, ed entrando infine nel suo regno, dove, formato un Consiglio segreto, decide di offrire l’Isola di Choulchel, nel Río Negro, all’Argentina, a condizione che l’isola stessa serva da stazione di traffico.

Molto presto Aurelio-Antoine I cade ammalato, probabilmente di cancro, e subisce una dolorosissima operazione; ulteriormente peggiorato e sempre più debole rifiuta di operarsi una seconda volta. Tornato in Francia, sempre più stremato dalla malattia, sopravvive grazie a piccoli aiuti da parte della Camera degli Avvocati di Francia, a modeste sovvenzioni offertegli da alcuni giornali, già suoi sarcastici e anche volgari nemici ma toccati dal suo destino, o appellandosi alla carità o alla Chiesa, cui l’antico massone si avvicina sempre più. Si installa in casa di un suo cugino macellaio, Jean chiamato Adrien, a Tourtoirac, dove morirà dopo aver preso i sacramenti e dove sarà sepolto in una vecchia tomba di famiglia abbandonata da molto tempo. La sua morte – “morte di Antonio de Tounens, ex re di Araucania e Patagonia” – viene registrata all’ufficio dello stato civile di Tourtoirac. Prima di morire ha ancora tempo di nominare il suo successore Achille Laviarde, brillante ufficiale già suo “luogotenente generale”, che sale al trono col nome di Achille I.

È incerto se quest’ultimo sia mai stato o no in Araucania. Certo è che ha esercitato la sua parte di sovrano con tutte le sue prerogative, chiedendo aiuto alle grandi potenze quando il Cile occupa il porto di Antofagasta, visitando Italia e Inghilterra, interessando alla causa araucana i più grandi nomi della cultura e della letteratura francese, come faranno a loro volta i suoi successori, in particolare la regina Laura Teresa, amica di Verlaine e di de Banville. Quando, nella Seconda guerra mondiale, i tedeschi entreranno a Parigi, un segretario brucerà l’archivio della casa reale e il re, Giacomo Antonio III, plurisposato e divorziato senza figli, sarà processato dopo la fine del conflitto per la sua adesione al governo di Vichy. Uscito, già anziano, dal carcere, vivrà in solitudine in una piccola casa costruita con le sue mani alla periferia di Parigi e prima di morire abdicherà formalmente al trono e ad ogni suo diritto alla successione. L’ultimo erede di una certa notorietà è Philippe, principe di Araucania, autore di una minuziosa e partecipe biografia del fondatore e dei suoi successori; i ritratti mostrano un gentiluomo che porta con grande equilibrio la paradossale eredità come fosse una decorazione sul frac.

Dal 2018 il successore ufficiale di Aurelio-Antoine I è uno studioso di araldica, Frédéric Luz; nel Consiglio del Regno siedono alcuni Mapuche quali Reynaldo Mariqueo, dirigente dell’ONG Auspice Stella, tramite la quale la “Casa Reale” di Araucania, contestata peraltro da altri due pretendenti alla corona, proclama di aiutare materialmente e politicamente la causa dei Mapuche, cui del resto la Presidente Michelle Bachelet ha chiesto pubblicamente scusa per le ingiustizie e le violenze commesse nei loro confronti. Ma di re di Araucania e di Patagonia, nonostante i successori o pretesi tali – destinati a degradare a kitsch operettistico la concreta e pure eroica ancorché grottesca avventura dell’avvocato di Périgueux – ce ne può essere uno solo, primo e ultimo sovrano di una reale avventura.

È la sua memoria, la memoria di Aurelio-Antoine I che la cittadina di Tourtoirac fa rivivere ogni anno, in agosto, in una festa celebrativa. È a lui, al balletto intrepido e surreale della sua vita, che Carlos Sorín ha dedicato il film La Película del rey (1986), è lui che Georges Campana e Stéphane Kurc hanno fatto rivivere nel film televisivo The King of Patagonia (1990) ed è attorno ai brandelli della sua vita che il regista cileno Niles Atallah costruisce il suo convulso film Rey, nel 2017. È sulle sue tracce che si sono avventurati storici e narratori quali François Gareyte; è lui che Saint-Loup e Jean Raspail hanno ricreato nei loro romanzi quali The White King of Patagonia (1950) e Me, Antoine de Tounens king of Patagonia (1981). Sulla tomba dei suoi successori difficilmente qualcuno collocherà un busto come quello dedicatogli dal Comune di Tourtoirac nel luglio 1937 o un’urna colma di terra fatta arrivare dall’Araucania e deposta sul suo sepolcro da André Maurois, dell’Académie Française, nel 1960.

La sua follia merita l’onore delle armi; è certo ridicola, come ogni follia – Don Chisciotte è anche un capolavoro di umorismo – ma la sua sfida trafigge, come in un duello, l’ottusa e crudele corazza della cosiddetta realtà e incide su quest’ultima. Anche grazie ad Aurelio-Antoine I il dramma dei Mapuche è entrato, almeno in minima parte, nella consapevolezza del mondo. Quella follia è più umana – e dunque più razionale – della violenza e dei calcoli della comunella dei malvagi, come la chiama Michelstaedter. Le scuse di un o di una Presidente a una comunità martoriata non cambiano molto le cose, ma almeno mostrano sulla guancia dei potenti l’impronta di uno schiaffo. Ed è un re, un tragico e indomito re da burla, che ha dato quello schiaffo. È di Aurelio-Antoine I e può essere solo sua quella che la Guida Michelin segnala quale “Tomba del Re di Araucania”.