Gringo sloveno, criollo araucano

Nel 1946, in una nota autobiografica, Janez Benigar si chiedeva se la patria di un uomo – il luogo in cui ci si sente a casa nella vita e i cui colori, paesaggi, venti sono la familiare musica dell’esistenza – è la terra in cui vivono i suoi figli o quella in cui sono sepolti i suoi genitori. Aveva particolari ragioni per porsi quella domanda, giacché fra l’una e l’altra c’erano di mezzo l’oceano e una distanza culturale ancora più grande. Come tanti altri, pure lui in Argentina sarebbe stato un gringo, un uomo che non ha morti in America. La registrazione del suo arrivo a Buenos Aires il 1° ottobre del 1908 – la nave, l’Oceania, era partita da Trieste – lo qualifica operaio, di religione cattolica e scapolo.

A correggere quest’ultima condizione avrebbe provveduto presto con un tranquillo colpo di fulmine, sposando nel 1910 Eufemia Barraza ossia, col suo vero nome, Sheypukíñ, nobile india discendente da una famiglia di caciques mapuche ovvero araucani, che gli darà dodici figli – di cui uno presto mancato – dai doppi nomi araucani e spagnoli: Nancú, Aquila; Huenumanqué, “Condor che vola alto”, Feliciano; Kallvuray, “Fiore azzurro”, Elena...

L’uomo che fugge dall’Europa e dalla civiltà europea è un uomo tutto famiglia; alcuni anni dopo la morte della moglie, nel 1932, si risposa con Rosario Peña, anche lei araucana, matrimonio dal quale nascono altri quattro figli. Quando morirà pure Rosario Peña, don Juan Benigar scriverà un testamento in cui dice di voler essere sepolto accanto a Rosario ma anche a Eufemia, le cui spoglie dovranno essere traslate in una tomba comune per tutti e tre. Pure il grande Tommaso Moro, santo e martire della Chiesa cattolica, avrebbe voluto conciliare l’amore per la prima e quello per la seconda moglie, entrambe molto amate. Immaginava anzi che sarebbe stato bello vivere tutti e tre insieme, “se le leggi umane e divine l’avessero consentito”. Chissà se gli era balenata alla mente l’unica obiezione sensata a questo umanissimo sentimento, il fatto che pure ognuna delle sue donne avrebbe potuto desiderare di avere accanto a sé, oltre a lui, nella vita e non solo nella tomba, un altro uomo amato, il quale a sua volta... e in tal modo l’incanto dell’amore e della contraddizione sarebbe sfociato nella pacchianeria delle ammucchiate.

L’avventuriero sloveno nato a Zagabria ovvero austro-slavo – cittadino dell’impero absburgico al tramonto e simpatizzante dei progetti di un futuro Stato jugoslavo – è un uomo posato e abitudinario, incline ad una pedanteria tutta austriaca, come nella storiella del capufficio k.u.k. che raccomanda ai suoi impiegati di mettere meticolosamente in ordine le carte sparse sul loro tavolo e di buttarle poi nel cestino. Con questa pignoleria egli parte per l’Argentina ovvero per la Patagonia e l’Araucanía, da dove non tornerà mai più e dove per diciannove anni non metterà piede in una città, salirà una sola volta su un’automobile, non vedrà mai un aeroplano e vivrà molto tempo nei wigwam, le tende del popolo indio divenuto anche il suo, tende che più tardi gli suggeriranno pure una modesta ma avviata attività di artigianato tessile, una piccola industria famigliare.

Probabilmente non gli dispiaceva che quel visto di ingresso lo definisse operaio, perché in molti suoi scritti – quasi sempre in spagnolo e fortunosamente spediti alla Biblioteca di Lubiana – avrebbe celebrato il lavoro manuale e studiato nuovi sistemi per coltivare la terra, incanalare l’acqua di fiumi e torrenti, irrigare i campi, costruire magazzini, insegnare agli Indios un’agricoltura razionale. Si sarebbe adattato perfino a dormire in una casa anziché in una tenda mapuche. Non gli interessava far presente all’autorità del Paese che sarebbe divenuto per sempre il suo di non essere un operaio bensì un quasi ingegnere, un professore, uno studioso di linguistica, etnologia e antropologia, discipline che avrebbe coltivato nei tanti anni della sua esistenza tra la Pampa e la Cordigliera.

Prima della traversata dell’oceano c’era stato un avventuroso viaggio di studio in Bulgaria. Suo padre, professore di liceo a Zagabria, quando lui aveva avuto l’idea di un viaggio sul Mar Nero gli aveva dato cinque corone d’argento, confidando che con quella cifra sarebbe arrivato al massimo a Belgrado e poi sarebbe tornato indietro. Lui invece era andato a piedi da Zagabria a Sofia, attraverso il Paese che il viaggiatore viennese Felix Philipp Kanitz definiva il più sconosciuto dell’Europa orientale, “una terra perfettamente incognita”, che inattendibili carte geografiche disegnavano con nomi di località immaginarie, inventando città o spostandole di centinaia di chilometri, deviando i corsi dei fiumi – compreso il Danubio, più incerto del Nilo – verso foci arbitrarie.

Janez – Ivan, Janko – Benigar non ancora don Juan Benigar non si era scomposto; aveva studiato la lingua e i costumi del Paese e scritto, in sloveno, una grammatica bulgara. Poi si era recato a Praga, iscrivendosi alla facoltà di ingegneria, abbandonando i suoi progetti di laurea quando gli mancavano solo due esami perché, come avrebbe scritto molti anni dopo all’amico Victor Sulcic, “ciò che voi chiamate civiltà l’ho conosciuta bene da giovane e se l’ho abbandonata ho motivi validi. Tra i principali è la convinzione che non si tratta di civiltà. Perciò preferisco vivere qui, lontano dalle metropoli, dove vivo come mi pare e mi sento pienamente felice”. Non erano molti coloro che, in quella stagione di crollo e metamorfosi di una plurisecolare civiltà europea, avrebbero potuto definirsi felici. Per analoghe ragioni, non avrebbe mai voluto risiedere a Buenos Aires: “Semplicemente non sopporto la città. Guardi, avevo ventiquattro anni quando abbandonai Praga, dove studiavo ingegneria, e me ne andai nel mondo lontano. E, credetemi, avevo ragioni ben valide. [...] Come potrei ora abituarmi alla vita in quei luoghi di perdizione, perché cos’altro sono le moderne metropoli?”.

Aveva letto con passione Rousseau, che sarebbe rimasto il suo metro di giudizio su civiltà e barbarie. Rousseau, lo stato di natura scoperto con passione nella Biblioteca di Lubiana, col fervore dell’epigono che scopre con centocinquant’anni di ritardo un pensiero radicale che l’Europa ha da tempo incontrato con entusiasmo rivoluzionario e ha assorbito, criticato e forse messo, almeno in parte, in soffitta. Ma l’epigono è inconsapevole di essere tale e dunque ritrova la forza sorgiva di un pensiero accantonato dalla civiltà liberale e destinato a risorgere, nel bene e nel male, con i tumultuosi progetti di democrazia diretta e totale, con i populismi impazienti di governare direttamente e collettivamente, senza rappresentanti e senza classe politica di pochi.

Il continente sudamericano, destinato a diventare la sua patria, era e avrebbe continuato ad essere il teatro per eccellenza di populismi sfociati in numerosi colpi di stato e dittature, caudillos locali come il feroce Facundo nella Pampa, il sanguinario dominio del generale e presidente Rosas, spietato sterminatore di Indios nella “campagna del deserto” da lui scatenata nel 1833. Deserto, un termine che inizialmente voleva significare la solitudine spopolata della Pampa e finisce per indicare la distruzione degli Indios, la loro realtà ridotta, alla fine della guerra, ai minimi termini, a un deserto.

La democrazia liberale è un valore freddo, si fonda su norme e su articoli di legge, aborre i seduttori delle masse ma paga la sua onestà con una scarsa capacità di entusiasmare e di sedurre, cosa in cui il leader della piazza è maestro, tanto da affascinare talora pure raffinati uomini di pensiero. Darwin, evidentemente più esperto di brontosauri e milodonti che di uomini, durante il suo viaggio sulla Beagle in Patagonia, nella Terra del Fuoco e lungo le coste del Cile, del Perù e di alcune isole del Pacifico, incontra nell’agosto 1833 il sanguinario generale Rosas, dittatore dell’Argentina per ventitré anni, che aveva espresso il desiderio di vederlo, “circostanza della quale mi rallegrai molto in seguito”. Non si scandalizza per le torture della sua polizia politica, la famigerata mazorca, o quantomeno non si interessa all’esistenza e alla struttura di quest’ultima. Apprezza invece che il generale presidente possieda trecento chilometri quadrati di terreno e trecentomila capi di bestiame. Annota le dure punizioni corporali da lui inflitte, anche per un nonnulla, ai due buffoni che allietano i suoi pranzi e le sue cene, ma ciò non gli impedisce di trovarlo “un uomo di carattere straordinario [...] entusiasta, sensibile e molto serio”, che vuole impiegare la sua influenza predominante “per la prosperità e il progresso” del Paese. Garibaldi, con i suoi volontari, contribuirà invece con le armi alla caduta del tiranno.

Storia argentina. Violenza di populisti, di élites militari, Perón, la Giunta dei generali, i desaparecidos, le Madri di Plaza de Mayo. Violenza solitaria e malinconica nella Pampa, cicatrici nel volto del gaucho che suona la chitarra – nei suoi “occhi neri la luce del coltello”, canta Evaristo Carriego. La “letale sicurezza del braccio che ucciderà grazie all’incapacità di provare paura” non è solo del guappo Juan Muraña, ma di tanti gauchos con le boleadoras e il pugnale. Borges canta il coltello, ma è fin troppo capace di provare la paura; sa di assomigliare al suo amato Snorri, il grande poeta scandinavo dell’età eroica, che cantava le spade ma non sapeva usarle perché vilmente le temeva. L’epica di coraggio e di duelli muore nel canto del suo più grande e codardo poeta, inetto a imbracciare quelle armi che ama perché la gioia della guerra gli è inibita dalla sua paura. La verità – scrive Borges, affascinato e anch’egli consapevolmente pavido – è nel pugnale che attende la mano di chi con esso colpirà.

Benigar è indifferente al pugnale, ignaro di quei desideri di afferrarlo; non lo farà e non lo temerà mai. Ha ben poco da spartire con le centinaia di migliaia di migranti come lui, che arrivano destinati alla miseria, alla ricchezza, alla violenza inferta o subìta, all’emarginazione, al dominio o alla criminalità. Moltitudine che approda con lui al nuovo mondo, in cerca di fortuna o anche solo di lavoro; uomini e donne di tutti i Paesi, onesti e laboriosi lavoratori in durissima lotta quotidiana per l’elementare dignità umana delle loro famiglie e dei loro figli e mafiosi pronti a tutto; lavoro che approda al benessere e anche a grandi fortune o a cupa miseria e a delinquenza.

Tenace riproduzione di sentimenti, valori e costumi della patria d’origine, amalgama con le generazioni precedenti di emigrati e con gli autoctoni del Paese. Criollos e gringos. Capitalismo selvaggio e visioni pauperistiche; panettieri, operai tessili, vinicultori, fabbricanti di mattonelle; solidarietà e dura concorrenza, rapide fortune e subitanei rovesci. Lotta per la sopravvivenza quotidiana fra le minacce della criminalità organizzata e la brutalità della polizia, integrazione e ghettizzazione, polacchi siriani e andalusi che parlano piemontese, masse rurali venete, industrie manifatturiere lombarde, scozzesi e irlandesi e prima di loro gallesi che in Patagonia scoprono e inventano, scrive Sepúlveda, il moderno nazionalismo gallese. Paternalismo aziendale, modernizzazione capitalista e riproletarizzazione, immigrati italiani in quartieri miserabili e costosi in mano di esosi connazionali, missioni salesiane. Vita e sua rappresentazione letteraria, Sull’oceano di De Amicis o Emigrati di Antonio Marazzi. La traversata della vita assomiglia a quella della Medusa e lascia in mare non solo corpi subito divorati ma anche storie, messaggi in bottiglie che galleggiano sulle onde e raggiungeranno qualche riva.

In Patagonia arrivano, dalla Mitteleuropa tedesca ed ebraica e da ogni Paese – dalle Asturie come dall’Inghilterra, dalla Russia come dal Portogallo o dall’Italia – spregiudicati uomini d’affari abili ad arricchirsi – latifondi, miniere di rame, produzione di lana, mezzi di trasporto marittimi e fluviali. Nello stesso anno dell’arrivo di Benigar, l’asturiano José Menendez, accusato di aver fatto morire di fame tanti Indios nel Sud del continente, e Mauricio Braun, proprietario di 1.376.160 ettari nella Terra del Fuoco, fondono le loro imprese nella Sociedad anonima importadora y exportadora de la Patagonia. In quest’ultima arrivano pure “orde anarchiche bolsceviche”, operai socialisti e comunisti; iniziano le concentrazioni operaie e i primi grandi scioperi, schiacciati e massacrati dal colonnello Ramón Falcón, ucciso nel 1909 da una bomba dell’anarchico Simón Radowitzky, destinato ad anni di sofferenze terribili nelle prigioni argentine, stupri torture violenze di ogni genere.

Patagonia e Araucania sono scenari di abietto sfruttamento, scioperi, sanguinose repressioni. I più grandi libri sulla Patagonia non sono quelli, letterariamente affascinanti, di Chatwin o di Hudson – anche se La Terra Rossa di quest’ultimo si chiama così perché colorata da tanto sangue – bensì Los vengadores de la Patagonia trágica (1972-74) o La Patagonia rebelde (1980) di Osvaldo Bayer. Sbiadiscono, in confronto a questi racconti senza gloria, le imprese di banditi leggendari e avventurosi narrati da Chatwin – Butch Cassidy e Sundance Kid con la loro ragazza in comune, Etta Place, arrivati dagli Stati Uniti in Patagonia agli inizi del Novecento. Le loro spietate rapine sono accompagnate da quell’alone di ruvido fascino immancabile nel cliché del cowboy, bandito e generoso. Personaggi di un godibile e classico western se paragonati alle shakespeariane tragedie degli scioperi schiacciati nel sangue – nella Semana Trágica della Patagonia nel 1919 – dalle guardie bianche della Liga Patriotica argentina con la loro “picana eléctrica”, tortura ufficializzata dal colonnello Pilotto e dal maggiore Rosasco.

C’è una scena nella Patagonia rebelde che assomiglia a quella famosa della Corazzata Potëmkin ripresa e variata negli Untouchables, Gli intoccabili: l’uccisione, il 27 gennaio 1923, del colonnello Varela – “il fucilatore della Patagonia, il sanguinario”, uccisore di millecinquecento peones scioperanti che si erano arresi dietro ufficiale e formale promessa del colonnello di non torcere loro un capello. L’attentatore, Kurt Gustav Wilckens, un anarchico tedesco dai capelli rossi, un tolstoiano nemico della violenza venuto dall’Europa per il dovere morale di saldare il conto del massacro. Il colonnello esce di casa dove lo attende il vendicatore, che sta leggendo il quotidiano tedesco di La Plata con un piccolo pacco in mano; una bambina d’improvviso attraversa la strada, costringendo l’attentatore, che ha già estratto dal pacco la bomba, a perdere alcuni secondi per afferrarla per un braccio e spingerla fuori dalla strada, facendola cadere su degli scalini, prima di gettare la bomba che stordisce non solo Varela ma anche lui. La sua pistola contro la sciabola che il colonnello ha sfoderato e con la quale gli si scaglia addosso; fendenti e pallottole, il colonnello morto e l’attentatore ferito e fracassato a colpi di mazza sulla faccia, preso a calci sui testicoli da due vigilantes accorsi, mentre la moglie del colonnello, uscita di casa, osserva la scena e alcuni passanti accorrono e stanno a guardare. Wilckens macellato dalle bastonate riesce a porgere ai suoi due uccisori, prima di morire, il suo revolver, tenendolo gentilmente per la canna, e a dire «Ho vendicato i miei fratelli». Missione compiuta, piccolo episodio di quel mattatoio che è la Storia universale.

È questo il mondo in cui è arrivato, quindici anni prima, Benigar, che non avrebbe mai, in tutta la sua vita, estratto la pistola né snudato una spada contro qualcuno. L’autore della grammatica bulgara sembra estraneo a questi inferi di violenza, che peraltro avrà modo di denunciare chiaramente e coraggiosamente, ma solo a colpi di penna, con toni energici e misurati, sempre attento a problemi concreti, inadempienze governative, errori amministrativi, illeciti pubblici e imbrogli nei confronti degli Indios, espropriazioni, alterazioni delle loro condizioni di vita e dell’ambiente necessario alla loro vita.

Ha poco in comune con altri immigrati di quegli anni, con chi cerca e si illude di trovare in quelle terre oltre oceano non il successo, la fortuna o un’autentica casa, bensì la fuga da ogni casa, il viaggio attraverso la notte, antipodi come inferi del cuore e della mente e insieme baluginare di un utopico Natale sulla terra. Un anno prima di Benigar arriva in Argentina Dino Campana, “naufrago cuore”, per sfuggire al manicomio di Imola; naviga sul Río de la Plata, così grande da render talora impossibile vederne le sponde, e si perde nelle città e ancor più nella Pampa, la cui piatta vastità nella quale non ci si può orientare è il vuoto della vita stessa.

Anche la Pampa entra nei Canti orfici, è un Canto orfico. Ma pure la Pampa conduce o riconduce al manicomio, dove Campana ritorna, stavolta a Firenze. La sua Nekyia, il suo viaggio agli Inferi della sua testa e del mondo, è un’esperienza radicale, insostenibile, si offre alla distruzione. La Pampa è la sua montagna bruna dantesca, l’annientamento. I poeti futuristi, ermetici o altri ancora – alcuni dei quali grandi – che attraverseranno più tardi come lui l’oceano per approdare all’emisfero capovolto saranno avanguardia, rivoluzione letteraria e creazione linguistica e dunque Istituzione, sia pure innovatrice, proclamata ufficialmente. Il loro viaggio, attraverso il mare la letteratura la vita, sarà un viaggio in cui si scrutano vortici e abissi ma appoggiati a un solido parapetto.

Un anno dopo Benigar arriva in Argentina un suo quasi compaesano, Enrico Mreule, che parla pure lo sloveno e viene da Gorizia, la Nizza dell’impero absburgico; arriva dal verde irripetibile dell’Isonzo – verde Isonzo, verde acqua – e dal blu assoluto di Salvore, sulla punta dell’Istria. Cerca ciò che il suo grande amico e maestro, Carlo Michelstaedter, gli ha mostrato una volta per sempre: la persuasione, la vita vera vissuta come un assoluto in ogni istante, nel presente, e mai bruciato nella smaniosa corsa verso il futuro, in quell’ansia di aver già fatto che distrugge il fare, nella smania che oggi sia quanto più presto possibile domani ossia più vicino alla morte. Mreule attraverserà tante volte la Pampa, solo come un gaucho, con le sue mandrie e con i suoi volumi di classici greci – soprattutto tragedie, nelle edizioni tedesche Teubner – in una tasca del suo poncho, pagine che annoterà in spagnolo la sera, accanto al fuoco del bivacco, solo sotto l’azzurra Mimosa e la rossa Gacrux della Croce del Sud.

La storia di quella Pampa di cui Cendrars celebra “l’immensa tristezza” – un’assenza che impedisce un vero radicamento e nella quale invece Benigar si installa come a casa sua – avrebbe continuato a essere una storia selvaggia di plebi soffocate da dittature militari o abbagliate da tiranni come PerÓn, eredi e continuatori dei caudillos e dei loro coltelli insanguinati. Le grandi pianure, aveva scritto Domingo Sarmiento, il Machiavelli argentino, preparano spesso la strada al dispotismo, che non incontra le resistenze della libertà offerte dai boschi e dalle rocce delle montagne. Le solitudini della Pampa hanno qualcosa di indistinto, di sempre uguale, mentre la libertà è differenza, è individualità che l’arcaico – ricreato dalla società tecnologica di massa, infere miniere di Germinal o favelas indistinte – divora e inghiotte. Benigar è avverso ai formicai della metropoli moderna, che nell’America del Sud assumerà dimensioni sconvolgenti, polipo agglutinante e divoratore, ma non ama nemmeno la solitudine del gaucho. Non è un nomade, anche se attraversa l’oceano e la Cordigliera, è uno stanziale che ama la sua tenda piantata in un posto ben preciso e più tardi il suo rancho.

In fondo è − e diventerà probabilmente sempre di più − un sedentario, un uomo che ama raccogliere intorno a sé la famiglia, le persone che gravitano intorno ad essa e che lavorano intorno a lui a vario titolo, in una sorta di comunità in cui c’è armonia e c’è continuità. Nella sua vita cambia diverse residenze, non solo da Zagabria o da Lubiana alla Patagonia o all’Araucania, ma anche in queste ultime − Cipolletti, Catriel nella provincia di Río Negro, più tardi Quilachanquil nella zona di Aluminé, Ruca Choroy, poi Pucón, dove pianterà e coltiverà nel suo manzanal, sempre nella zona di Aluminé, cereali, legumi, frutta e in particolare arance, un vero aranceto come quelli siciliani cui i poeti siculo-arabi avevano dedicato nel Medioevo memorabili poemi, creando un vero genere letterario. Villaggi, minime città o loro periferie e dintorni sempre più nei pressi di Aluminé, dove trascorrerà i suoi ultimi venticinque anni e dove oggi ci sono una biblioteca e un vivace centro di cultura che portano il suo nome.

Benigar è un residente, come secondo Renato Solmi dovrebbero essere i filosofi e i pensatori, Kant che non abbandona neanche una volta Königsberg. Victorio Sulcic, l’architetto sloveno arrivato in Argentina nel 1924 e grande amico di Benigar, lo definisce, già nel titolo del suo libro, “el sabio que murió sentado”. Il giramondo tranquillamente a casa sua nei luoghi e fra le genti più lontane e diverse è, nel suo modo di essere, un uomo di casa. Una caratteristica che lo apparenta ad altri giramondo che amano la quiete e l’immobilità; pure Enrico Mreule, dopo la traversata dell’Atlantico per l’Argentina, le tante traversate della Pampa con le sue mandrie, dal nord al sud e viceversa, una volta riattraversato l’Atlantico e tornato in una terra divenuta ora italiana, a Salvore, non si muoverà per trent’anni dal piccolissimo villaggio sul mare, non andrà mai neppure nella vicina Bassania, un villaggio a poco più di due chilometri.

Nel caleidoscopio di umanità e di culture che circonda Benigar manca una figura centrale del macrocosmo argentino, il gaucho. Quest’ultimo sembra sparire alla sua vista, allontanarsi in una distanza infinita, ma Benigar ignora quella nostalgia con la quale il ragazzo, nell’omonimo romanzo di Ricardo Güiraldes, vede allontanarsi e sparire don Segundo Sombra: “... cavallo e cavaliere risalirono la collina, nascosti a tratti dai ciuffi di cardi. Solo un attimo la doppia figura si profilò nitida contro il cielo, che un raggio verde azzurro di crepuscolo tagliava obliquamente [...] la notte vinceva, lenta, sicura [...] La figura rimpicciolita comparve sulla collina [...] stava per raggiungere la cima del sentiero e scomparire, come se la tagliassero dal basso con ripetuti colpi [...] Qualcosa mi annebbiava la vista, una luce piena di piccole vibrazioni si distese sulla pianura”. Don Juan ha oltrepassato oceani, fiumi, montagne, città, ma è rimasto uno stanziale; non uno che sparisce all’orizzonte ma uno che fonda famiglia e comunità, che traccia mappe, costruisce ponti e dighe, è a disposizione di tutti. Instancabile e generoso, e probabilmente pure pedante e rompiscatole, professore mitteleuropeo sotto il poncho e il cappellaccio.

Egli non potrebbe chiedersi “che cosa ha a che vedere il gaucho con noi?”, come se lo sarebbe chiesto, nel 1978, papa Francesco I che allora si chiamava Jorge Mario Bergoglio, Provinciale dei Gesuiti dell’Argentina. Quella sua domanda si trova in una prefazione al Martín Fierro, poema nazionale argentino e capolavoro della letteratura gauchesca scritto da José Hernández (1872). Un poema in sestine che a suo modo evoca quelli cavallereschi cantati nelle piazze; la storia di un gaucho, un cavaliere senza casa la cui patria sono il suo cavallo e la Pampa sconfinata e che le vicende della vita, le ingiustizie patite e commesse portano pure allo scontro, al duello con gli uomini e con la legge, alla generosa solidarietà ma anche alla rapina, alla lotta e alla fuga. Del poema si conosce – anche grazie alla citazione che ne ha fatto Borges, geniale copista e falsario – uno splendido episodio in cui il sergente Cruz, venuto a catturare Fierro con alcuni poliziotti, durante la sparatoria capisce d’improvviso, in una rivelazione del proprio destino, che la sua parte nella vita non è quella del cane da caccia ma del lupo braccato e si mette, con la sua pistola, al fianco del ribelle.

Cosa cerca Padre Bergoglio, francescano nell’animo e gesuita nel rigore intellettuale, in un avventuriero della Pampa, veloce nell’attacco e nella fuga? Cerca anzitutto – e lo dice nella prefazione al poema – il rapporto fra un’identità particolare e una più vasta appartenenza, alla nazione e all’umanità, in cui quell’identità selvaggia possa comporsi e trascendersi senza perdersi ma inserendosi in un coro più vasto. È la violenta, caotica storia argentina che forma l’esperienza e la visione di Bergoglio. Un Paese in cui è burrascosa e caotica la relazione fra l’individuo e lo Stato, tra i criollos che si sentono gli abitanti originari e dunque più legittimi e i gringos arrivati a ondate da tutte le parti del mondo, pure dall’Italia. Un Paese in cui la vita politica è una continua guerra fra unitaristi e federali, fra i bianchi e gli Indios sterminati a più riprese.

L’Argentina – dei gauchos e dei generali, degli operai e degli sfruttatori, soprattutto delle tante stirpi – è la bruciante realtà che ha fatto cogliere a Bergoglio il problema universale delle identità e della mondializzazione, delle particolarità nazionali, della febbre identitaria che le avvelena, del meticciato che le scompone e rimescola e del livellamento standardizzato che le cancella. Il poema gauchesco è l’occasione per analizzare una realtà e una prospettiva che al futuro papa stanno particolarmente a cuore: la continuità e l’unità della nazione e il suo rapporto, fermo e dialettico, con la mondializzazione. Francesco I aborre i muri etnici ma non vuole un’umanità ibrida e indistinta come quella di Blade Runner. La sua visione è cattolica per eccellenza ossia, come dice la parola stessa, universale; la visione di un mondo in cui ci sia un posto dignitoso e fraterno per tutti, come il presepe lo è per il figlio di Dio, per l’asino e il bue, per i Magi e per i pastori, una varietà che salva le peculiarità e le unisce in un coro.

L’“obrero” Benigar, come lo definiva il visto d’ingresso a Buenos Aires, scriverà delle ingiustizie e della violenza; soprattutto, anzi quasi soltanto, di quelle subite dagli Indios, ai quali sempre più sentirà di appartenere, in una tranquilla, spontanea doppia o tripla identità scevra di ogni cliché ideologico. Lo sloveno che si è definito pure araucano e figlio della Patagonia non è un rivoluzionario, non ama i rovesci improvvisi, bensì i piccoli ancorché decisi passi quotidiani, le riforme locali; detesta le ingiustizie e si batte per correggerle sempre in nome dell’ordine. Non si stancherà di denunciare la violenza colonialista e capitalista che cancella le identità e le culture. Difende sempre una concezione economico-sociale fondata sulla piccola proprietà, sull’economia famigliare di una comunità, tutte cose che lo sviluppo del mondo stava già livellando e distruggendo e avrebbe continuato a livellare e a distruggere. Anche l’autogestione creata nella Jugoslavia comunista di Tito dal suo connazionale, lo sloveno Kardelj – una terza via tra l’iniziativa individuale e il collettivismo sovietico, per la quale Benigar dopo la Seconda guerra mondiale manifestò un interesse non privo di simpatia – sarebbe stata presto interrotta e insabbiata.

Nel 1926 Benigar scrive El calvario de una tribù, dedicato alla comunità di Catriel nella provincia di Río Negro, territorio mapuche ovvero araucano, e abitato dal popolo che diviene il suo e dove aveva regnato Viviana García o meglio, col suo nome mapuche, Duguthhayen. Il paese porta il nome di un suo capo storico che aveva saputo intrattenere abili rapporti con i vari governi argentini e con l’esercito in cambio di una precaria autonomia progressivamente intaccata, limitata e schiacciata, in un processo che riduce gli Indios alla fame e al quale Benigar si oppone duramente. Il quasi ingegnere disegna e scava canali per il piccolo villaggio; dapprima per conto di modesti proprietari locali e successivamente per un terreno suo, dieci ettari messigli a disposizione dal giudice di pace Ernesto Gary, nei quali costruisce un rancho fatto di fango secco per duecento pecore. Una forte siccità inaridirà i campi e farà fallire questo progetto, ma don Juan, non ancora proprio tale, è un misirizzi che ogni caduta fa rimbalzare in alto e poco dopo si troverà nella Estancia Quilachanquil, otto ettari, pecore e capretti, coltivazioni di cereali e legumi e una buona produzione di formaggio caprino. Quando circostanze avverse lo mettono in difficoltà, con l’aiuto degli inglesi insediati a Pulmarì troverà dimora a Zuan gulu, sempre nel bacino del Río Aluminé, costruendosi la casa e apportando varie migliorie nella coltivazione, in una situazione proprietaria spesso ambigua in quanto molte di quelle terre assai vaste appartengono in gran parte a proprietari terrieri per lo più assenti.

A Catriel, Janez – Ivan in Croazia, Janko come lo chiamavano da bambino, Juan – non sarà più scapolo. In poche ore decide la sua vita innamorandosi di colpo, a prima vista. Sposa una araucana “y se convierte en jefe de la tribù indigena” dice una poesia di Octavio Prenz, forte e originale scrittore di lingua spagnola e di origine istro-croata, nato e vissuto in Argentina e in vari Paesi del vecchio e nuovo mondo e infine approdato per molti anni, sino alla morte, a Trieste. Una riga, non più breve forse di quello che deve essere stato il momento della rivelazione amorosa che illumina per sempre due vite.

Benigar incrocia per caso, forse a una stazione di posta dove si è recato per cambiare cavallo, Sheypukiñ − che avrebbe chiamato sempre così, non Eufemia secondo il suo nome spagnolo, Eufemia Barraza. Matrimonio, festa di nozze, un figlio dopo l’altro, l’amore si scandisce come il canto Tayil, coro delle donne mapuche, “my compañera de corazón de oro machizo y puro, que me colmó de su sabiduría, de India pobre, de India despreciada, India! India mia! [...]. Un abrazo interminable...”.

Il canto Tayil si presenta come un canto della natura stessa; degli uomini, del giaguaro, della pietra, dell’ossidiana, del vento, del ruscello che scorre. Suoni articolati, scrive Raoul Mansilla, ripetuti senza fine. Canto mapuche in cui sono confluiti motivi e melodie patagoniche. Conflitto – in passato i Mapuche, gli Araucani, avevano vinto, nella terra del Sud, i Tehuelches, i Patagoni – che si risolve e si fonde nell’organo del canto. Canto araucano mapuche, forse anche tehuelche, radici rami e fiori diversi che si intrecciano.

Benigar riporta, varia e continua con lo stesso melos il canto Tayil; l’amore per la sposa lo induce a definire l’Araucania uno dei Paesi più felici della terra e a continuare il canto in un sentimento che abolisce la differenza tra la vita e la morte poiché in quel luogo e in quel mondo egli identifica una rinascita dell’amore e della felicità. “Yo te enamoraré de nuevo y saremos felices. Tú volverás a tender los pellejos ovejunos sobre el seno de niño de nostra madre tierra. Ahí dormiremos otra vez juntos, abrazaditos en un amor sin fin [...] Volverás tú a cantar tayil tras tayil. Yo habré comprendido a ún mejor la lingua de nuestros dioses, los dioses indios.”

Queste parole smentiscono il terzo attributo scritto nel visto di soggiorno: “di religione cattolica”. In quel momento gli dèi araucani diventano “i nostri dèi”; non sono soltanto un affascinante oggetto di studio, come quando l’antropologo Juan Benigar scrive le Creencias araucanas o interpreta il concetto che gli araucani hanno del tempo, dello spazio e della causalità.

Pure sulla sua tomba Benigar non vorrà la croce, ma la stella con i due triangoli e il serpente, simbolo teosofico. Anche a questo riguardo – come quasi sempre nella sua vita, nel suo pensiero e nel suo rapporto con gli altri – un conflitto si compone in armonia. Uno dei suoi ritratti più simpatici lo ha scritto il padre salesiano José Peterlin, che loda “i doni straordinari” di don Juan ovvero “el Sabio europeo”, come lo chiamavano nella regione di Zapala. Il reverendo rende omaggio alla sua generosità verso gli altri, alle sue conoscenze linguistiche – quattordici lingue, da quelle europee al sanscrito a quelle amerindie – storiche, sociologiche oltre che alle sue capacità tecniche, dall’ingegneria civile alla ceramica alla tessitura. Ma celebra soprattutto quello che considera il suo capolavoro, il Diccionario de la lengua araucana, dizionario sloveno-spagnolo-araucano cui Benigar lavora per molti anni e che – quasi obbedendo a un coup de théâtre fin troppo simbolico della sua vita fatta di rovesci – scomparirà fra le acque furiose del fiume durante un’inondazione del Río Negro. Parole nell’acqua, smangiate e dissolte dall’acqua.

Un caldo ritratto di Benigar lo fa pure un altro sacerdote suo amico, spesosi generosamente per gli Indios tra la Pampa e la Cordigliera. Ludovíc Pernisek, anch’egli sloveno, che battezza pure i suoi figli, rendendo ancor più complessa la loro plurima identità. Benigar tuttavia sarà e si dichiarerà sempre “non cristiano”. Si professava invece teosofo, in nome del suo senso vago e confuso di una religione pressoché indistinguibile da un sentimento più che da una concezione della divinità, cercata nella vita stessa e in particolare in quella emozionale. Sembra che Benigar abbia scritto circa trecento brevi testi teosofici, pervasi da passione per l’occultismo; testi forse bruciati e comunque spariti, oggetto successivamente di un’aspra polemica e di importanti studi e ricerche di Ileana Lascaray, ricercatrice della Biblioteca Benigar di Aluminé. La loro almeno parziale scomparsa non è presumibilmente una grande perdita, vista la vaghezza e l’inconsistenza di ogni occultismo. È significativo che l’antropologo Rodolfo Casamiquela, venuto ad Aluminé nel 1993, dichiarasse che su Benigar poteva scrivere solo un “letterato”, una “penna di qualità” attenta più alla fantasia che alla scienza. Un modo elegante per liberarsi dall’impegno di scrivere su di lui, come gli si chiedeva, uno studio serio, cosa evidentemente difficile o impossibile rispetto a quei testi.

Quando scrive le Creencias araucanas, testo magistralmente indagato da Irene Mislej, Benigar non parla di religione – parola per la quale non doveva avere simpatia – bensì appunto di “credenze”, termine che abbraccia un ambito più vasto e più vago di una vera e propria fede. Sorvola sul culto degli antenati, Pillàn; si interessa di più alla pur vaga e indistinta personificazione delle mutevoli forze della natura, Nghen. Ben più intensa e concreta la presenza delle sciamane, Maci, donne anziane esperte nella battaglia contro il male, le malattie e le piogge e soprattutto esperte di erbe medicinali. Non nomina i singoli dèi, Melipol, Yepum, la stella della sera, né il serpente-volpe dai cento nomi, oggi menzionati in molte voci enciclopediche. È un antropologo, un etnologo, ancorché oscillante fra la scienza e il dilettantismo; gli interessa la natura – cieli, costellazioni, fiumi, animali e piante – il cui fascino è reale, insito nelle cose e nella vita, e non ha bisogno del mito né di suggestioni antropomorfe o teriomorfe.

La storia di Benigar è quella di un uomo che inizia studiando da scienziato − sia pure sostanzialmente dilettante − un mondo, una civiltà lontana, agli antipodi geografici e storici della civiltà in cui egli è nato e che finisce per entrare in quella civiltà, per farla almeno in gran parte sua, uno specchio del suo volto. Non solo un oggetto ma una modalità, una musica del suo pensiero. Musica peraltro filtrata e ordinata dalla sua mentalità non certo fantasiosa né metafisica bensì concreta, positiva, realistica, prosaica, da scolaro delle Scuole Reali Austriache ovvero Liceo Scientifico e da studente di ingegneria, equazioni e doppio decimetro.

Il padre, professore di matematica al ginnasio di Zagabria, forse gli aveva trasmesso una predisposizione per tutto ciò che si presenta come universale e astratto e dunque pure per le lingue e i miti. Nella sua vita Benigar non ha amato soltanto le due mogli, i sedici figli e i compagni ed amici, sloveni, araucani e patagoni, ma altrettanto le grammatiche, i dizionari e le ordinate gerarchie degli dèi araucani. Leggendo le sue pagine si avverte il conforto che gli dava studiare le coniugazioni e le declinazioni, in cui parla una legge, la voce sovrapersonale di una civiltà e non il dolore o l’inquietudine di qualcuno in particolare. Ciò vale anche per i miti, da lui amati – pure strutture nelle quali l’angoscia di un individuo in carne ed ossa dinanzi alle tenebre sparisce in una sintassi di demoni e dèi e non si pensa al prossimo marcire di quella carne e di quelle ossa. Così il dio-pesce della costa e il dio-gatto degli altipiani, che egli compara, oppone e distingue nelle sue pagine, non appaiono troppo dissimili dai cateti di un triangolo nelle dimostrazioni che il padre insegnava in classe a Zagabria.

Benigar non ama il vuoto e il nulla. Non si lascia andare al fascino neghittoso della pianura sconfinata della Pampa, alle sirene del vento tra le erbe e dell’oblio. Le sue ricerche hanno la stessa intensità e pacatezza della sua attenzione per la produzione tessile. Studia la civiltà araucana non come un antropologo che indaga una cultura estranea, bensì come un linguista che analizzi un suo dialetto natio, con rigore ma senza alcuna sufficiente superiorità e senza neppure un senso di lontananza, ma con spontanea familiarità.

Con la stessa metodica diligenza con cui traccia canali e si occupa delle seminagioni e dei raccolti Benigar scrive i suoi saggi di antropologia, oggi conservati nella Biblioteca di Aluminé. Più che saggi, compiti scolastici, temi di liceo; attenti, disponibili ai segni rossi di eventuali correzioni e rettifiche e insieme fermamente decisi, scritti con la tenacia del dilettante appassionato: El concepto del tiempo entre los araucanos, El concepto del espacio entre los araucanos, El concepto de la causalidad entre los araucanos, DescriptiÓn de la Patagonia, La Patagonia piensa, Creencias araucanas.

Tempo, giorno, Antü, luce del giorno, küyen, luna, mese, Tten, then, puy, tempo di andare e ritornare. Purpurumel, sottolinea Irene Mislej, sua acuta e originale studiosa; ogni tempo, sempre, ossia quando il tempo non c’è più, forse non c’è mai stato. Tempo scandito dallo spazio, misurato dallo spazio, divenuto spazio; quando avrai attraversato il Río Negro vedrai Antü, il sole, la luce, sparire sotto l’orizzonte; ore contate sui tuoi passi, thipantu quando il sole è di nuovo su quella roccia. Ma la parola anno dice forse di più? Che cos’è un anno, con tutto il suo apparire e sparire di Antü, con tutti quei giorni che una volta non c’erano quando non c’era Antü e neanche l’Araucania, non c’era la terra che gira intorno al sole, non c’erano i boschi né le montagne, né la terra, ma i Mapuche non lo sanno. Boschi e acque del Río Negro una volta erano caldi e ardenti, walüg, poi si sono raffreddati, pukem, tempo di freddo, walüg, tempo di caldo, c’era il tempo quando non c’erano né il caldo né il freddo?

Lo sloveno Janez Benigar non crede di saperne più dell’argentino-araucano-patagone Juan Benigar. Certo, ha studiato a Zagabria e a Praga, ma quando si vedono cadere le piogge incessanti e brillare i coni di neve, breve eternità, non si sa più bene cosa sono le equazioni e cosa sono le notti e i giorni più scuri delle notti. Benigar non ha potuto leggere Borges e probabilmente non gli sarebbe piaciuto, mentre forse lui a Borges sì e questi avrebbe trovato che la lingua immaginaria di Tlön è meno imprendibile dei gerundi araucani sottolineati da Irene Mislej – lui uscendo salendo su in altolà. Anche i giuristi in tribunale si accapigliano per un gerundio, entrando vuol dire mentre entrava perché veramente entrava oppure che solo se entrava vigono le conseguenze previste e si paga il prezzo pattuito? Più di uno è andato in rovina per questo, perché credeva che entrando definisse il suo modo di essere, uno che è un entrante anche se non entra, mentre invece designava un suo preciso entrare in un preciso momento e con uno specifico scopo o con specifiche conseguenze.

Nella lingua degli Araucani non si dice triangolo, si dice zoccolo di mucca; non è proprio la stessa cosa ma è quasi la stessa. Un triangolo è tutti i triangoli o ce ne sono tanti, uno per uno, ed esiste solo questo triangolo e quell’altro ma non esiste il triangolo? Il concetto generale aiuta o impedisce di capire le cose? Se cade il fulmine e il bosco si incendia, si chiede Benigar, perché si dovrebbe dire che il fulmine è la causa del fuoco? Cosa sappiamo delle cause e dei perché? Il Mapuche dice solo che il fulmine è piombato sull’albero e l’albero ha preso fuoco. Se si comincia a chiedersi le cause delle cose – pensa Benigar, cercando di capire che cosa può pensare un Mapuche ossia uno come lui anche se non proprio come lui – le cause delle cause sprofondano in un mero abisso infinito, blu scuro, blu notte, le parole sono stelle che si spengono e precipitano nella notte, “Vit Kim Lang” dice il Mapuche e ripete Benigar, non lo so, ma ha dimenticato ciò che non sa, sa di non sapere la risposta ma non sa quale è la domanda.

Benigar si sofferma sul profondo senso araucano dei nessi causali che stringono la realtà ed escludono il caso. Nel pensiero mitico, in un mondo immerso nel mito e vissuto come mito, non esiste il caso. C’è sempre e solo la Necessità, come in una tragedia greca, non c’è nulla di casuale; il battito d’ali di una farfalla a San Francisco, è stato detto, provoca o contribuisce a provocare uno Tsunami in Giappone. Sembra un puro e gratuito caso quando uno esce di casa, attraversa distratto la strada e viene travolto da un’automobile, ma pure quei pochi secondi in cui è successa quella sciagura sono determinati da una rigida anche se impalpabile catena di necessità: la telefonata mentre si esce che fa ritardare di poco quell’uscita dal portone e la rende perciò più frettolosa del solito, il ritardo causa la fretta e questa conduce all’incidente mortale. Per fortuna è impossibile accorgersi di tutte le concatenazioni via via più inesorabili che confluiscono in quella che appare una realtà meramente casuale. In un forte romanzo dello scrittore polacco Andrzej Kuśniewicz, Il Re delle due Sicilie, l’istante in cui a Sarajevo, nella vettura che lo sta portando, l’arciduca ed erede al trono absburgico Franz Ferdinand viene colpito a morte, appare il risultato di innumerevoli singoli elementi che lo determinano inesorabilmente. La peripezia romanzesca lo ricostruisce, abbracciando tutto ciò che accade nei giorni, nelle ore e nei minuti precedenti.

Alba, luce-sole, crepuscolo, notte. È il numero quattro, la cifra della religione araucana. Anche gli dèi − i nostri dèi, dice Benigar − sono quattro, Padre Vecchio, Madre Vecchia, Figlio giovane, Figlia giovane. La civiltà araucana è permeata da un’antica religiosità quaternaria, la sacralità dei numeri pari e soprattutto del quattro e del due. Il dispari scompone, impedisce di chiudere e di concludere, ha qualcosa di creativo e di demonico; ostacola calcoli tranquilli, non è una dimensione dell’ordine, bensì dell’incertezza, dell’anarchia, del disordine. Dispari sono gli amanti, pari è la famiglia. Numeri quasi sacri sono le dozzine e le quattro dozzine − contrapposte, osserva don Juan nelle Creencias araucanas, ai numeri e ai ritmi dell’ebraismo e del cristianesimo ma anche del pensiero greco, per il quale il dispari ha un valore spirituale superiore a quello dei pari. Gli Araucani venerano non un unico creatore di tutte le cose, bensì una scala gerarchica di mondi sottili, spiriti guizzanti in tutti i fenomeni, in una foglia d’erba mossa dal vento o nel rivolo d’acqua che scorre. Innumerevoli e mutevoli spiriti di cui siamo fatti e di cui è fatta ogni cosa, il demonico aldilà o aldiquà della distinzione tra spirito e materia, volto camaleontico della loro identità. Dèi benevoli e maligni, sorso d’acqua o terra riarsa, puma e guanaco.

Anche dèi infimi, più impotenti dell’uomo; se il mondo brulica di dèi si può far a meno di star loro dietro, dimenticare il loro guizzare tra i fili d’erba o nel sangue. Gli stregoni sanno che anche nel corpo degli uomini ci sono quei minimi demoni, talora anche possenti. Minimi dèi o demoni nel sangue, nella febbre, nella forza o nella stanchezza, nel cuore che si slancia o rabbrividisce; dèi e demoni che muoiono subito, sostituiti da altri, simili ma non uguali, che fanno la vita dell’uomo e l’uomo stesso. Donano energia e stanchezza, vita e morte; forse anch’essi al servizio del dio supremo che si serve del sole e del suo fuoco per far crescere le cose e per bruciarle e ucciderle. Il divino è la vitalità ma anche la stanchezza e la morte.

I Mapuche venerano la luna ma più ancora la stella dell’alba, che porta la luce ma pure le discordie. Il giorno, la vita sarebbero dunque il regno dello scontro, dell’odio, cosa che dovrebbe suonare strana a un uomo dell’armonia quale Benigar, pugnace ma sempre modesto, equanime pure con gli avversari, disposto al dialogo, a segnalare errori ma per correggerli ragionevolmente. Ci sono le dozzine, numeri pari, costituite da uccelli sacri quali il nañcu, piccola aquila dal petto bianco che fornisce indicazioni utili agli uomini, ma quei numeri fanno anche perdere la pazienza a più di un uomo bianco – pure a lui? Ogni apparenza ha il suo signore, che è bene propiziarsi e che si deve chiamare col suo nome giusto se non si vuole essere vittima della sua ira.

Benigar rende omaggio a un’india di Mendoza sua amica che, quando qualcuno si lamenta perché la terra inaridisce, risponde che è una menzogna, che la terra “nostra madre” non può essere cattiva con i suoi figli. Gli Indios accettano con pietas ogni cambiamento del loro mondo e delle loro divinità, mutevoli come le stagioni; sono invece ostili alle trasformazioni cristiane che penetrano nel loro Olimpo. La fine o lo sgretolamento dei vecchi dèi non hanno reso migliori gli uomini, dicono, semmai hanno tolto loro ogni freno.

La divinità suprema degli Araucani – se c’è, il che non è certo – è inconoscibile ed è vano cercare di conoscerla; è troppo superiore alle sciagure umane e non può essere disturbata senza empietà con le nostre miserie. Non si disturba il Presidente della Repubblica, scrive Benigar, per il furto di una pecora e così non si disturba la divinità suprema araucana con il nostro dolore. È singolare che Benigar dica “Presidente della Repubblica” e non “re”, parola più sacrale e più arcaica. In questa espressione politicamente corretta si può forse leggere un’eco del presente in cui egli vive, un mondo arcaico ma modellato da una forma repubblicana. Sono le divinità minori alle quali si può ed è bene rivolgersi, con alcune offerte di carne, verdure, bevande apprezzabili quali il succo di canna, amato dai piccoli dèi.

Il vero male, la vera malattia riguarda l’anima, non il corpo. È l’anima che si ammala, come insegnano gli indovini ermafroditi e i preti cristiani; curare il corpo è anche curare l’anima, ma se non si cura quest’ultima non si può curare nemmeno il corpo. Ma quanti sono gli dèi? Tanti, forse tutti i viventi e tutte le cose, come nella casa polverosa di Eraclito. Come si fa a conoscere il loro volere, e dunque anche il proprio, se ogni cosa è un dio? La divinazione è prerogativa di tutti ma soprattutto degli indovini, uomini e donne dal sesso duplice o indefinito, perché capire cosa vogliono gli dèi − cosa vogliono tutti loro, anche il dio-gatto che balza dal dio-albero sul dio-topo del bosco − questo lo possono solo quelli che non sono come gli altri, donne che non sono né uomini né donne, uomini che non sono né donne né uomini. Solo questi dèi che non sono come tutti gli altri possono curare chi è malato e dunque non è come tutti. Basta poco, un’erba velenosa, l’artiglio di un puma e il dio-sorriso non è più per te.

L’araucano Janez Benigar scrive un vero e proprio trattato, specialmente linguistico, su El Indio araucano; il patagone Janez Benigar scrive un ampio saggio, La Patagonia piensa. Dedica anni di vita a studiare la lingua araucana; lingua agglutinante che aggiunge alcune parti alle singole parole, unendone una ad un’altra e unendo altresì diverse proposizioni in una sola. Le parole assumono significati elastici, la lingua esprime in un termine molti concetti, anche assai diversi l’uno dall’altro. L’esposizione di Benigar cerca di essere insieme una descrizione di quel linguaggio e delle sue strutture e una narrazione del suo sviluppo, tenendo sempre ben presenti il legame, gli incontri e gli incroci con altri linguaggi indiani incontrati nella sua storia.

È toccante vedere come nei suoi appunti Benigar persegua sempre un ideale di oggettività scientifica e di analisi logica, cosa pressoché impossibile nelle condizioni in cui vive e con i limitati strumenti che ha a sua disposizione. Tutto ciò non intacca il suo sereno e tranquillo entusiasmo, il suo rigore o quel tanto di rigore cui cerca di arrivare, quasi sempre affrontando i vari temi nella discussione ideale con altri studiosi della materia, le cui opere è riuscito incredibilmente, in qualche modo, a procurarsi. Non ha alcun feticismo filologico, è anzi polemico nei confronti di ogni fredda pedanteria scientifica; rimprovera ad uno studioso, de Augusta, di essere troppo tedesco, come dimostrerebbe il suo amore per una rigida analisi disciplinare.

La filologia, egli dice, è di per sé una creazione della divisione del lavoro, che tende a separarla dalla Storia e in particolare dalla vita, trasformando gli uomini in astratte regole punitive, torturando i ragazzi a scuola con ablativi assoluti, declinazioni e coniugazioni. “Lejos de mi todo esto!” annota in margine. Non è l’arida filologia, che pur riconosce necessaria, ad appassionarlo, bensì la vita. Dice di studiare l’araucano per risolvere “el enigma de nuestro ser/tan cercano y desconocido”, per trovare la chiave che faccia comprendere cos’è la vita, “questa vita piena di amarezze che nonostante tutto desidereremmo prolungare”.

Nello studio dell’araucano cerca se stesso, la propria storia e quella della propria gente e della propria cultura, perché l’araucano vive in uno stadio di sviluppo “per il quale anche noi siamo passati in epoche lontane”. Studiarlo, impararlo, amarlo – sottolinea – dà una chiave per rispondere a tante domande della nostra Storia. Come ogni lingua, ma con intensità particolare, quella araucana si raccoglie, si agglutina intorno al verbo, si avvolge nella sua “selva intricata”, in un groviglio di forme, parole e soprattutto di tempi verbali, non dissimile da quello della giungla. La lingua per lui sembra essere non soltanto e forse non tanto l’espressione del vissuto quanto il vissuto stesso.

Per tale ragione egli dichiara che la conoscenza, sia pure imprecisa, dello spagnolo da parte degli araucani lo ha molto aiutato nella penetrazione del loro linguaggio, ma sostiene pure che il suo lavoro sarebbe stato più facile se avesse incontrato “un mondo puramente e solamente indio”, trovandosi così costretto ad apprendere la lingua per le esigenze immediate della vita materiale e della vita sociale. Non sente affatto il peso dei lunghi anni passati senza alcun contatto con il mondo civilizzato, perché la vita solitaria, costringendolo ad afferrarsi soltanto alle proprie forze intellettuali, gli ha permesso di vedere tante cose, imparandole dalla vita stessa.

La discussione con altri studiosi si alterna armoniosamente a ricordi autobiografici, memorie famigliari, dettagli vissuti. Discute il Calepino chileno-hispano di Febrés, che loda rispetto a quello di de Augusta, cui rimprovera soprattutto la carenza di preparazione fonologica, che lo induce a stabilire dei legami fra diverse parole in base a un’affinità acustica di suoni che in origine erano invece molto diversi. È affascinato ma incredulo quando legge nel libro di Ricardo Rojas come questi narri di aver colto dalla bocca di un indio le parole che designano la divinità, dialogando con lui soltanto a gesti, “por pura mimética”. Rimprovera a de Augusta di preoccuparsi troppo, scrivendo i suoi studi, di come saranno accolti, specialmente dal punto di vista politico-sociale-religioso, dai suoi superiori.

Quasi sempre gli scritti di Benigar sono pervasi da un’intensa anche se pacata sensibilità umana, inframmezzati di note e ricordi personali, come quando racconta che è stata sua sorella, dopo la Prima guerra mondiale, ad averlo esortato a riprendere i suoi studi a quell’epoca interrotti da molti anni e a regalargli pure il famoso testo di Lévy-Bruhl, Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures. È a lei, a sua sorella, e a Félix San Martin, autore fra l’altro del libro Neuquén, che deve la spinta a scrivere le sue pagine sull’indio araucano. In qualche modo, nel vasto mondo percorso da Benigar – e vissuto da lui nella piccola realtà di piccoli centri – tutto si tiene.

Alla fine del suo saggio sull’indio araucano, nomina anche tanti altri popoli, una giostra di nomi senza fine, come quelli di sconosciuti fiori selvatici. A parte popoli famosi, Incas e Quechua, popoli i cui nomi sembrano crittogrammi come le lingue che parlano, l’allentiac e il milcocayac – Huarpes, Tehuelches ovvero Patagoni, Puelches ovvero Araucani, Huilliches, gente del Sud. Querandies, Changos, Chonos, Ranqueles, Lellvünche, Mamüllche, Wülliche, Piküunche. L’identità ama presentarsi compatta e unica ma si sgretola in una moltitudine, in un’anarchia di atomi, come avevano già detto Nietzsche, Bourget e Musil prima ancora che Benigar partisse da Trieste con l’Oceania.

Anche se Benigar si definisce più spesso araucano, il suo più ampio saggio di impegno civile è La Patagonia piensa. I Patagoni godono, nella fantasia esotizzante, di una fama più intensa e colorita degli Araucani, a cominciare dai racconti dei primi europei arrivati in quelle terre che parlano della loro statura gigantesca, talora al di là del credibile, delle smisurate impronte lasciate dai loro piedi sulla terra o sulla spiaggia. Già il nome – Patagonia, Patagoni, in luogo del loro vero nome, Tehuelches – è una presenza roboante e fantasiosa, come i nomi dei re e degli eroi pagani nei grandi poemi cavallereschi, Rodomonte, Gradasso, Sacripante.

“Nosotros, los parias patagónicos” scrive Juan Benigar. Non è un’opzione identitaria o una scelta fra i due popoli della sua vita, a parte quello originario rimasto al di là dell’oceano. Egli è certo più convincente quando parla di sé come araucano; sembra conoscere o amare più la divinità quaternaria mapuche che il mito cosmogonico tehuelche, col suo dio creatore Kóoch che sparisce senza neppure creare gli esseri umani – grandiosa idea di una divinità del tutto estranea e ignara dell’esistenza degli uomini, sparita prima del loro arrivo. Di Kóoch si sa quasi soltanto che un giorno d’improvviso si mise a piangere e che le sue lacrime crearono l’immenso oceano. Creazione nata dal pianto e dal dolore prima di ogni peccato.

Sul ciclo cosmogonico presto dileguato prevale il ciclo eroico di Elal, creatore dei Tehuelches e delle stagioni e anche legislatore morale che fonda il matrimonio, interdice l’incesto e proibisce pure di raccontare le proprie leggende fondatrici, perché conoscere il nome di qualcuno significa averlo in proprio potere.

È strano che Benigar si sia interessato poco della cultura patagonica, pur difendendo ad oltranza e molto concretamente l’esistenza di quel popolo. Ha prestato poca attenzione alla creazione della luce, alle volpi condor che attraversano l’oceano, a Elal che sconfigge il gelo e Máip, il vento assassino, ed insegna le arti della caccia e dell’agricoltura. Forse i Mapuche, gli Araucani, hanno vinto pure nella sua fantasia e nel suo interesse i Tehuelches, i Patagoni, come li avevano vinti e sottomessi in guerra. Elal, comunque, deve essere stato dimenticato, sconfitto o ucciso perché, dopo la sua scomparsa, il male ha trionfato; catastrofi universali – fra le quali pure l’arrivo degli spagnoli – hanno devastato la terra. Perfino la madre luna, azzurra regina madre e sposa di dio, è fuggita via da un sole morto.

L’antropologo si interessa solo relativamente dei miti; è più attento alla realtà quotidiana, alla condizione dei vari popoli e delle varie etnie e alle vessazioni che subiscono. La sua opera principale sulla Patagonia non si occupa degli dèi patagoni della neve, del freddo e del vento gelato, né di Kápenk-och, il pettirosso che aiuta Elal, o dell’armadillo Pike, spirito protettore e vendicatore.

Don Juan scrive La Patagonia piensa verso la fine della sua vita, nel 1946, a Neuquén. Aveva cominciato a scrivere quell’opera nel 1938-1939 sulla “Voz del Territorio” zapalese, per difendere i contadini contro una nuova, pessima organizzazione agraria delle terre patagoniche, per fortuna, dice, disastrosamente fallita. Nel 1941 aveva pressappoco concluso la stesura dell’opera quando il direttore de “El Territorio” e poi di “Neuquén” gli propone di pubblicarlo a puntate sul giornale per stamparlo successivamente in volume.

Entusiasta, Benigar accetta e scrive il suo primo intervento sul primo numero del giornale, nel 1942. Lo stato d’assedio, proclamato poco dopo, lo induce a interrompere il suo lavoro. Dirà più tardi, all’inizio de La Patagonia piensa, di non avere né aver avuto alcuna intenzione rivoluzionaria né alcuna volontà di contestare le autorità, ma di non poter mettere a rischio la sua famiglia, nel clima repressivo del momento. “Copè la mare/ Copè el pare,/ La mugier zóvene/ E i fioi/ No’ avaré più rimorsi,/ No’ saré più vigliachi”, così scriveva sarcasticamente Noventa, rivolgendosi a chi, al tempo del fascismo, esitava a combatterlo per non mettere a rischio i propri cari.

È facile, per chi non corre o non ha corso alcun pericolo, criticare chi esita a danneggiare le persone che ama. Le righe in cui Benigar racconta questa sua ritirata sono amare e oneste, degne della sua personalità razionale e autocritica. Non fa l’eroe né l’indignato. È solo dispiaciuto di non aver potuto o saputo essere utile “ai miei conterranei patagoni”, chiedendo subito se lavori come i suoi potessero essere utili o fossero solo “un pasatiempo de soñadores, a veces peligrosos”. Ogni idea che si oppone a interessi precostituiti è sempre caduta presto, se non ha trovato l’impegno di una forza. E noi, si chiede, noi patagonici “che forza abbiamo”?

Quando, cinque anni dopo, risorge il vecchio giornale che ora s’intitola “Neuquén” e gli offre una collaborazione, Benigar accetta con entusiasmo, lieto di poter “combattere contro i mulini a vento” e convinto che le delusioni non autorizzino ad abbandonare le buone battaglie. Riprende e rielabora le sue vecchie carte, attento a non cadere nella moda della “febbre patagonica” che ogni tanto infiamma il Paese con proteste, accuse e repressioni di cui tutti parlano per poi svanire presto nel silenzio e nel nulla. Si tratta invece di combattere contro leggi sbagliate e contro interessi pregiudiziali per la popolazione, sempre con la consapevolezza che “il nostro destino è raccogliere disinganni e delusioni”.

Polemizza contro il “nazionalismo superlativo ed esclusivista che nega i diritti agli immigrati” – scrive anche un saggio, Los Chinos y los Japaneses en America – e s’impegna a combattere ogni tendenza ad escludere immigrati di arrivo più recente, nella fiducia che la solidarietà umana possa affrontare la turbolenza delle città più popolose. Si considera “figlio spirituale della Patagonia” – qui, nelle terre patagoniche, scrive, “ho formato il mio focolare”, mentre tanti altri hanno dovuto dar fuoco ai propri focolari e andare raminghi. Si considera patagone da quarant’anni; mai, scrive, avrebbe raggiunto un’umana maturità nelle metropoli del suo insanguinato mondo d’origine. Là invece ha sepolto un figlio e la prima moglie molto amata. Si sente insieme radicato e sradicato, pronto ad affrontare oceani e cordigliere e a coltivare i suoi piccoli campi.

La polemica del libro riguarda vari progetti governativi, centrali e regionali, che vogliono impastoiare la Patagonia. Benigar si confronta criticamente con studi precedenti, ad esempio quelli di Tomas Falkner; contesta che sia Buenos Aires, metropoli agglutinante, a decidere, e si inserisce così nella grande disputa tra Unitari e Federali, chiave di volta della storia argentina. La “argentinidad” sbandierata dal potere è uno slogan ideologico per respingere indiscriminatamente chi arriva – tema che oggi torna ad essere sciaguratamente attuale nei più vari Paesi del mondo. Si tratta, egli scrive, di scegliere tra essere cittadini coscienti o vittime stordite di capoccioni locali.

La Patagonia piensa è soprattutto un pamphlet per la creazione e istituzione delle province e vuole dimostrare come la provincia sia l’unità sociale e amministrativa più adatta per quelle terre. Benigar affronta il rapporto fra Storia e Geografia, creatrici di confini che talora si contraddicono; si occupa del ruolo – fondamentale per i contatti – delle ferrovie, la traiettoria delle cui rotaie segna pure talora delle frontiere. Analizza il rapporto tra confini e corsi d’acqua, la necessità di nuovi collegamenti, le economie ora parallele ora contrastanti di alcune province rispetto ad altre; denuncia l’insensato sfruttamento boscoso da parte di potenti imprese, abuso che solo la struttura provinciale potrebbe fermare; suggerisce una politica delle acque.

Si confronta pure con problemi costituzionali, ribadendo la necessità di una costituzione federalista più atta a risolvere problemi di natura provinciale; denuncia i tentativi centralisti di tarpare le prerogative provinciali. Le persone, scrive, “sono funzioni della società”, intendendo la funzione nel significato matematico. Sempre rivolto al rapporto fra i particolari e la totalità, presta un’umanissima attenzione ad ogni realtà, anche minima e isolata. La vita umana in Patagonia vegeta, egli scrive; i centri minerari sono spesso abbandonati, intorno ai fiumi potrebbero crearsi grandi e permanenti centri di ricchezza, il che non avviene. Occorre un’amministrazione unica per ogni bacino, base razionale per la divisione in province, che dipendono da fiumi e sono in qualche modo fiumi. Quando parla della provincializzazione del Paese pensa naturalmente in primo luogo – ma non soltanto, nella sua prospettiva globale – a Río Negro e a Neuquén. Genialmente, con una visione globale del mondo, osserva che le libertà costituzionali sono intralciate anche dalle “irresistibili correnti dell’economia universale”...

Le province, celebrate con retorica pittoresca e sentimentale, hanno progressivamente e tacitamente delegato al governo centrale una buona parte delle loro prerogative. Benigar critica il declassamento che ha rimpiazzato l’indio col peón e con l’inquilino colono, reclutato tra i meticci poveri, e denuncia la divorante realtà di Buenos Aires che non riesce a considerarsi una città uguale fra le uguali nei diritti – non a caso è stata l’ultima ad aderire all’Unione Nazionale. Attacca le famiglie dominanti che sono riuscite a fanatizzare un’informe massa popolare, dai ristretti orizzonti mentali, talmente oppressa da essere privata di intelligenza critica e di spirito di libertà e ridotta tante volte a strumento della più bieca reazione.

Naturalmente Benigar è ben consapevole delle difficoltà che si frappongono ad ogni progresso. La scarsità di popolazione (in Patagonia c’è un abitante per chilometro quadrato), le grandi estensioni desertiche rendono difficile accedere all’istruzione. Sottolinea le avverse condizioni climatiche, le difficoltà burocratiche, la disastrosa barriera anche linguistica che si frappone tra l’autorità e il cittadino spaesato dal gergo burocratico e dall’astrattezza delle prescrizioni e dei regolamenti, i ritardi nel miglioramento delle comunicazioni, la lontananza fra amministrati, amministratori e autorità, spesso estranee alla realtà locale.

Alieno da ogni radicalismo, Benigar sa bene che il mondo non sarà mai governato dalla ragione e dall’amore e che bisogna restare sul terreno fermo della realtà, respingendo eccessivo ottimismo ed eccessivo pessimismo, distinguendo l’amore del proprio Paese dall’infatuata autoammirazione tipica dei Paesi poveri ripiegati su se stessi perché ignorati dal mondo esterno. La Patagonia pensa ancora troppo poco e Benigar, sempre pronto all’autocritica, sa di condividere questa carenza. Ma continua a combattere i mulini a vento dei formalismi “leguleiescos”.

Contro la sfinge

Il duello non può mancare nella vita di un uomo della Pampa e pure don Juan ha avuto il suo, anche se con un coltello metaforico, la penna, che peraltro in certi casi può essere brandita pure materialmente come un pugnale, lo stilo con cui Giulio Cesare cercò di difendersi dai congiurati. Ma il gesto di don Juan che prende in mano la penna per replicare al libro di Imbelloni assomiglia a quello del gaucho provocato che si alza ed esce all’aperto col pugnale in mano.

Pure il suo avversario, José Imbelloni, aveva scelto per il suo libro La Esfinge indiana il motto “non pacem sed gladium”, che per Benigar è una vera provocazione; avrebbe fatto meglio a lasciar stare il Vangelo e le parole di Cristo, che non si riferiscono a dotte e sempre opinabili dispute su ipotesi preistoriche o protostoriche. Più volte Imbelloni, introducendo il suo libro, ricorre a metafore guerresche; la sua battaglia è quella del nuovo “americanismo scientifico armato di mazza e piccone” contro “l’americanismo eroico che tira di scherma e duella usando la lira dalle sette corde”. Imbelloni parla dunque in nome della scienza e del suo rigore contro gli entusiasmi appassionati che caratterizzano spesso gli studiosi dilettanti, esponenti di una Halbkultur (“mezza cultura”) pomposa e, nella sua presunzione, ignorante. Una parola, Halbkultur, che forse solo la lingua tedesca poteva inventare e che non indica una cultura scarsa, bensì una retorica e supponente non-cultura, che vuol parlare in nome dello Spirito.

José Imbelloni è un avversario in feluca. Nato a Lauro nel 1885, studente di medicina a Perugia, parte anch’egli per l’Argentina in quel fatidico 1908, nello stesso anno di Benigar, lavorando nel nuovo mondo come giornalista. Rientrato in Italia nel 1915 dove si laurea a Padova in scienze naturali, torna nel 1921 in Argentina e diventa ordinario di antropologia all’Università di Buenos Aires, responsabile di antropologia del Museo di Scienze naturali e socio dell’Accademia nazionale di Storia.

La sua passione è lo studio dell’originaria popolazione americana, dei gruppi umani arrivati a suo avviso in epoca preistorica e protostorica dalle provenienze più diverse – melanesiani, polinesiani, mongoli, esquimesi, indonesiani – in diverse ondate e nell’arco di millenni. All’ipotesi dello Stretto di Bering quale ingresso di popoli asiatici nel continente americano contrappone l’Oceano Pacifico, l’arrivo per mare. Dotte dispute che oggi un frammento di DNA può ribaltare senza però scalfire né nobilitare l’insignificanza dell’origine. Tanti popoli, si dice, si sono rovesciati ad esempio nei secoli e nei millenni dall’altopiano dell’Altai, ma come e da dove sono arrivati là? In un albero genealogico che mia zia Esperia, tanti anni fa, si era fatta ricostruire da una costosa società araldica, sta scritto che i Magris erano venuti in Italia – ovvero in Friuli, dove sono stati per secoli contadini – dalla Spagna. Ma da dove sono arrivati in Spagna? E perché dovrebbe importarcene? La vera domanda non è quella da dove si viene ma quella dove si va.

L’origine è più incerta della fine. Dalla sua magniloquente cattedra Imbelloni, in epoca peronista, proclamava la predominanza e la superiorità dei caratteri razziali – soprattutto encefalici – dei latini, in particolare italici e ispanici, sugli altri gruppi etnici di immigrati e sugli autoctoni indigeni. Si fa per dire, autoctoni; semplicemente tutti arrivati da qualche parte chissà quanti millenni prima, forse anch’essi dall’Eden, il luogo del primo Esodo.

Il duello fra Imbelloni e Benigar è in certo modo un duello triestino, il duello fra l’italiano fascista in orbace e lo sloveno per il quale Trieste è un imbarcadero per fuggire dalla vecchia Europa, un imbarcadero che pochi anni dopo sarà l’Italia fascista.

La Esfinge indiana è un volume di 396 pagine, pubblicato nel 1926 per le edizioni El Ateneo di Buenos Aires e Cordoba, arricchito di tavole comparative, illustrazioni, fotografie, note. Nel vasto indice dei nomi non c’è quello di Benigar, che invece nella sua opera El problema del hombre americano – edita due anni dopo a Bahía Blanca da uno stampatore, Panzini – si cimenta di continuo con Imbelloni, come in un duello fra paladini di un poema cavalleresco. Una leggenda – probabilmente una bugia poetica della Pampa, magari finita una sera in una chitarra – vuole che Benigar affidasse una copia del suo testo a uno dei suoi indiani perché la portasse, dopo giorni a cavallo, alla più vicina stazione di posta affidabile per spedirla a Buenos Aires. In ogni caso, non c’è nessuno che accusi ricevuta del testo; non si sa se Imbelloni lo abbia ignorato per disprezzo o perché non ne abbia mai avuto notizia. Oggi Imbelloni è dimenticato, mentre da Neuquén una piccola fama di Benigar continua a diffondersi nei luoghi più impensati. Le sussiegose memorie accademiche talora ingialliscono o si sbriciolano prima delle piccole pubblicazioni di piccoli borghi appartati e vitali.

Il volume contro Imbelloni è un centro appassionato della vita di Benigar, uno di quei duelli a distanza che si incontrano nei racconti di Borges e i cui contendenti – protagonisti di destini storici quali San Martín e Bolívar o di segrete tensioni artistiche come le due pittrici Clara e Marta – vivono essenzialmente per la loro rivalità, in un reciproco astio passionale. Né Imbelloni con la sua burbanza né Benigar con la sua innocenza vivono l’uno per l’altro. L’uno ignora tutto dell’altro e questi si dedica alla demolizione del rivale con la stessa solerte attenzione con cui pota gli alberi, anche se indubbiamente si capisce che quelle tesi e il modo di sbandierarle lo irritano, a differenza degli alberi, anche di quelli da abbattere. L’ossessivo livore accademico non risparmia del tutto nemmeno il semi-autodidatta araucano e/o patagone d’elezione, come rivelano alcuni suoi toni sarcastici, tipici delle polemiche universitarie, anche se in questo caso l’ateneo è a cielo aperto.

La dettagliata polemica sembra diventare un perno dell’esistenza di Benigar. Egli si sofferma sulle analogie fra civiltà o monumenti lontani nel tempo e nello spazio, sottolineate da Imbelloni, per smontarle o per opporne loro altre; critica digressioni e facilonerie, sorride con ironia sull’enfasi del rivale, contrappone accenti schivi e modesti a quelle che gli sembrano ostentazioni di sicumera.

La polemica lo costringe ad analisi dettagliate di piramidi tahitiane e americane e a scorribande nelle etimologie di lingue neolatine, maleo-polinesiane e amerindie; distingue nel pantheon andino le antiche divinità dei vinti assimilati da quelle dei posteriori vincitori, spende pagine per dimostrare che la stele di Copán non rappresenta un elefante, come vuole il rivale, bensì la stilizzazione di un uomo dal lungo naso; discute lo stile guanaco, le cerbottane e le figurazioni degli uccelli funerari che trasportano le anime; polemizza con la sovrapposizione di Manco Cápac e Viracocha.

Le pagine più belle sono dedicate all’illustrazione dell’Olimpo araucano e delle sue ordinate gerarchie, dalla suprema divinità quaternaria a quelle minori e infime. Nel suo garbo pur sempre rispettoso, questa polemica esaspera l’involontaria e inavvertita comicità che c’è spesso nelle acide polemiche fra i dotti, che scambiano i loro edifici ipotetici per il mondo e rivolgono a congetture cartacee un impeto passionale che altri rivolgono alla difficoltà di vivere o di amare.

Benigar contesta specialmente le espressioni che sfiorano il razzismo quali melanoderma, eredità genotipiche, meticciato, razza bianca gialla e nera; la sua avversione al darwinismo nelle sue derive razziste è decisa e lo induce a contestare la teoria dell’evoluzione che fa discendere l’uomo dalle scimmie, giungendo a ipotizzare l’opposto, la possibile discendenza di certe scimmie dall’uomo. Accusa in generale “l’eccessiva erudizione” che impedisce allo scienziato di vedere tante cose semplici di cui si accorge il cosiddetto uomo comune. Forse non gli perdona di aver definito la Patagonia “terra maledetta”...

La visione di Benigar è quella di un’umanità che si sviluppa talora per trasmissione culturale – da una cultura a un’altra, da una popolazione a un’altra – talora invece per creazioni simili ma reciprocamente indipendenti. Analizza e critica le interpretazioni di sculture, graffiti, edifici, tendendo sempre a difendere l’idea che le conquiste umane si ottengono non per imitazione quanto col “travaglio affannoso della propria anima”. Dimostra una straordinaria conoscenza degli studi antropologici e delle varie teorie, una conoscenza tanto più stupefacente nell’isolamento periferico in cui è vissuto. È sempre avverso alle teorie totalizzanti, una delle quali, a suo avviso, è il darwinismo; non gli piace nemmeno il termine “ipotesi”, cui preferisce “supposizioni”, che ne attenua la pretesa definitiva.

Pure il termine “sistema” gli è sospetto e preferisce l’espressione “metodo” che gli sembra meno presuntuosa. Fa i conti con le somiglianze tra la piramide tahitiana e quella americana, senza accettare la tesi di una necessaria dipendenza; studia i diversi aspetti delle testimonianze culturali; contesta specialmente la dipendenza della cultura peruviana da quelle delle isole del Pacifico del Sud, ad esempio espressioni che possono anche essere autonome e derivate da onomatopee universali. È pure comico quando respinge l’interpretazione di Imbelloni di una stele, il cui disegno sembra a quest’ultimo una proboscide – che attesterebbe dunque la conoscenza degli elefanti, arrivati dall’Asia anche se poi estinti nel nuovo mondo, o almeno visti e conosciuti dai primi arrivati dall’Asia, che ne avevano conservato memoria. A suo avviso invece non si tratta di una proboscide ma di un ciuffo di pelle che pende dall’ano di uno struzzo...

Benigar difende contro Imbelloni altri studiosi da lui attaccati, quali Posnansky, in una polemica che è “un triste spettacolo” di ingiurie. Le sue osservazioni dimostrano una vasta conoscenza delle teorie antropologiche, delle tecnologie antiche e dell’astrologia. La familiarità con tende e praterie non lo preserva dal furore delle biblioteche. Alla fine, sopraffatti e affascinati dalle singole dimostrazioni, dall’interpretazione di graffiti, di mandibole, di teschi e di espressioni idiomatiche – dall’analisi degli dèi dei templi babilonesi a quella dell’assonanza fra la parola serbo-croata “sapun” e quella araucana “zapun” – si dimenticano le tesi contrapposte e si capisce soltanto, vagamente, che Benigar respinge l’ipotesi della provenienza della civiltà amerindia dall’Oceania. Ma sono piuttosto le tesi stesse a sprofondare nell’evocazione suggestiva di antichi cataclismi che avrebbero sommerso continenti favolosi – uno più antico dell’altro, Lemuria, Gondwana, Arquelenis – navigazioni perdute in vastità oceaniche, mari popolati da gorgoni e altri mostri.

Un frammento di Lemuria?

Non soltanto per Thomas Mann “profondo è il pozzo del passato”, come dice la prima riga di Giuseppe e i suoi fratelli. Quando si cerca di scendere verso l’origine si scopre sempre qualcosa di più profondo. L’Atlantide inghiottita dalle acque diventa per eccellenza il continente perduto, ma c’è un mondo ancora più antico, la mitica Lemuria, il continente o il preteso continente del Pacifico sommerso dalle acque, fondo ancora più fondo. Pure Benigar è affascinato da questo pozzo e giunge a dire che una piccola parte della Lemuria non è scomparsa nelle acque ma è rimasta in superficie ed è un pezzo di Araucania. Ama pensare che anche il suo piede poggi su un terreno friabile che si spalanca su profondità abissali, come in un terremoto; la Storia intera, a un certo punto, sembra divenire non un cammino verso l’alto, grandi o piccole piramidi che si ergono contro il cielo, ma verso il basso, verso l’oscurità.

È un grande tema che affascina in particolare la cultura tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento. Le fantasie di Conan Doyle su un continente perduto, dove si può trovare ancora il mondo dei dinosauri; il viaggio di Verne al centro della terra, tenebre e mari e laghi ribollenti, mostri non conosciuti da memoria d’uomo. La Storia come discesa, la conoscenza e la verità come scoperte di ciò che sta sotto, sempre più sotto. In un altro romanzo di Verne, La sfinge dei ghiacci – ma già ben prima nel Gordon Pym di Poe e più tardi nelle Montagne della follia di Lovecraft – questo polo di attrazione della profondità diventerà l’estremo Sud, il grande mistero antartico, calamita gigante che attira inesorabilmente nel fondo. Ogni strato che si ritiene ultimo ne rivela sempre uno sottostante; pure ogni storia apre una botola verso altre storie più nascoste.

Qualsiasi cosa avvenga, qualsiasi cosa si abbia scoperto e vissuto, induce a scoprire che c’è sempre una storia precedente. Robinson Crusoe, che si crede il solo e il primo sull’isola, scopre l’esistenza di qualcun altro, abitante di quel mondo prima di lui. Anch’egli era stato preceduto sull’isola dal marinaio Selkirk e questi a sua volta da Will il Misquito. In tutte o quasi le Robinsonaden, le numerose rielaborazioni e rifacimenti del capolavoro di Defoe fioriti a decine nel Settecento, soprattutto in terra tedesca, ogni Robinson – sassone, spagnolo, tedesco, nordico e così via – scopre di essere stato preceduto da un altro naufrago il quale a sua volta aveva scoperto gli scritti di un predecessore e così via.

Quando Benigar, sia pure di sfuggita, dice che una parte del territorio araucano è un pezzo dell’antica Lemuria, non sprofondato insieme ad essa nel grande cataclisma del Pacifico, indulge anch’egli per un momento alla fascinazione del mondo perduto, inabissato non solo nelle profondità marine ma anche e ancor di più in quelle del tempo, di un tempo non misurabile. Imperscrutabile, il pozzo del passato, scrive Thomas Mann, soprattutto quando ci si interroga sul passato dell’uomo; quanto più si scava nel sotterraneo mondo del passato tanto più i primordi dell’umano, della sua storia, della sua civiltà, si rivelano insondabili e recedono via via verso abissi senza fondo.

“L’inesplorabile si diverte a farsi gioco della nostra passione indagatrice, le offre mete e punti d’arrivo illusori, dietro cui, appena raggiunti, si aprono nuovi tratti del passato”. Lovecraft, in un racconto, parla di una “città più antica dell’uomo”, dunque costruita da una specie sconosciuta e scomparsa, estinta, così come, in un altro racconto, lo stridio dei pinguini antartici si rivela un’eco di altre voci, anche umane, remote. In questi tempi di dimensione cosmica perfino la scomparsa dell’Atlantide, scrive Mann, catastrofe e scomparsa per eccellenza di una civiltà, appare in qualche modo recente, “una ripetizione, il ripresentarsi di un remotissimo passato”.

L’origine viene fatta risalire a un tempo ancora più remoto, in cui la Lemuria sarebbe scomparsa negli oceani, la Lemuria a sua volta ultimo resto del più antico continente Gondwana, una massa continentale originaria da cui si sarebbero staccate terre africane, amerindie, antartiche, australiane, indiane. In ogni caso, questo viaggio argonautico – il grande antropologo Malinowski parla di Argonauti del Pacifico Occidentale – è un viaggio marino, un viaggio sull’acqua e attraverso l’acqua; un viaggio per raggiungere e oltrepassare il diluvio universale e ritrovare le origini remote distrutte. Un viaggio alla ricerca della vita ma in realtà viaggio alla ricerca della morte e viaggio nella morte. Lo dice già il nome del mitico continente inabissato – i lemuri, nella mitologia romana, erano fantasmi che uscivano dalle tombe per terrorizzare i vivi; i lemuridi sono animali spettrali, con i loro enormi occhi notturni; secondo alcuni naturalisti uno di essi sarebbe all’origine della genealogia destinata ad approdare all’uomo.

Ma Benigar, nonostante la piccola esaltazione lemurica, non era una testa calda o esaltata; dopotutto a Lubiana e a Zagabria aveva respirato un’altra aria intellettuale e anche a Praga aveva studiato ingegneria e non la Cabala. Non poteva sapere dell’esistenza di Luca, last universal common ancestor, il più vecchio protobatterio antenato di tutti gli esseri viventi compresi funghi e amebe. Un certo scetticismo – molto absburgico – lo proteggeva da furori ideologici, metafisici e anche scientifici. Peccato non abbia sviluppato quella sua ipotesi di una scimmia che discende dall’uomo; comunque non avrebbe fatto molta differenza, sarebbe stato come scoprire di essere cugini per parte di madre anziché di padre o viceversa.

Il cacique bianco

Don Juan non è morto in Lemuria – anche se Aluminé, il luogo dei suoi ultimi e più felici venticinque anni, secondo le sue supposizioni avrebbe potuto essere un suo frammento scampato all’abisso – e non è nemmeno morto a cavallo. È morto seduto a casa sua, mentre parlava col suo amico e biografo Victor-Victorio Sulcic, il cui libro s’intitola appunto Juan Benigar el sabio que murió sentado (1970). Era la gente di Aluminé che lo chiamava “el sabio”, il saggio, oppure, come disse allo stesso Sulcic padre Ludovico Pernisek, “el cacique blanco”. Sulcic aveva incontrato il sacerdote fra i prati e le pecore, sotto il maestoso monte Lanín eternamente coperto da un “poncho di neve immacolata”. Aveva subito capito, dai suoi occhi azzurri e dai connotati familiari della sua faccia, che non poteva essere un indio ma piuttosto un suo conterraneo, uno sloveno come lui. Padre Pernisek – salesiano come gran parte dei più attivi e arditi sacerdoti cattolici in quelle terre, parroco sloveno sulle Ande – non poteva aver letto La stella dell’Araucania di Salgari, dove c’è un sinistro baleniere di Punta Arenas, nell’estremo Sud, che diviene un malvagio e tirannico cacique bianco di Indios nella Terra del Fuoco. Don Juan era un “cacique”, un capo, ma in quanto instancabile protettore e amico degli indigeni.

Era dal 1925 che Benigar si era trasferito sulla Cordigliera, nel Territorio di Río Negro poi provincia di Neuquén. Era arrivato attraversando terre cilene devastate, “convulsionadas”, dal terremoto; inferi del profondo, morte e sangue, tanti cadaveri sepolti sotto le macerie, sopravvissuti che errano fra le rovine come i ciechi di Bruegel. Nel 1922 don Juan, forse non ancora tale ossia non ancora divenuto un vero indigeno, aveva scritto una lettera a don Felix de San Martín, storico e letterato tenuto in gran considerazione nella sua cittadina della Cordigliera, Junín de los Andes, e nella regione circostante. La lettera è un commento rigoroso, ammirato e insieme critico – “un estilo de una precísion matemática” – a un libro sulla cultura patagonica scritto dallo stesso San Martín. Era nata così un’amicizia fra i due destinata a durare sino alla morte, in uno scambio di opinioni, critiche, scoperte.

Don Félix gli aveva proposto di stabilirsi nella sua estancia a Quilachanquil e Benigar, dapprima esitante per la diversa e ben più modesta condizione della propria famiglia, aveva finito per accettare. Nel 1925 aveva abbandonato la Pampa e si era diretto verso la Cordigliera, in treno sino a Zapala e su un carro tirato da buoi sino ad Aluminé. Un viaggio faticoso e avventuroso pieno di incidenti, la scomparsa di un bambino, la sua ricerca nella notte e il suo ritrovamento, la preghiera serale di tutta la famiglia Benigar rivolta ai lari abbandonati nei luoghi che la loro erranza si è lasciata indietro, la palude di sabbie mobili, il cavallo che vi sprofonda ma viene salvato dal lazo di un araucano, bello come una statua di bronzo di Rodin, i puma e i giaguari nella foresta.

Sulcic, nel suo libro, ricorda il primo incontro con Benigar – l’eleganza e la scioltezza con cui questi scende da cavallo, il chambergo nero in testa, il foulard di seta intorno al collo, pantaloni consunti atti a cavalcare, scarpe nere di cuoio. Non sorrideva quasi mai, scrive Sulcic, ma era sempre affabile e pieno di rispetto verso chiunque, si levava sempre il cappello incontrando qualcuno, dava ascolto a chi gli chiedeva aiuto. Una fotografia, un primo piano, mostra un volto magro e affilato, una pelle stranamente assai chiara fra i tanti uomini scuri intorno a lui. Occhi fermi e malinconici, tristezza delle cose ma briglie del cavallo saldamente in mano. Un aplomb distante e insieme gentile. Un bell’uomo, viso segnato e snella corporatura, asciutto e taciturno cowboy di un western e intellettuale musiliano. Un cavaliere che raggiunge le sue mete ma sembra sentirsi interiormente sconfitto, anche se certo non si arrende; un Cavaliere dalla Triste Figura che, atterrato, dice: “So io chi sono”.

Lo ricordano generoso, capace di dare agli altri serenità e allegria. Ma la sua malinconia doveva essere pure contagiosa, un intimo logorio che si insinuava nell’animo di chi gli stava vicino. Sulcic descrive la seconda moglie – Rosario Peña – innamorata del marito, molto bella e intelligente, occhi neri in cui balena una femminilità tenera e sensuale, gentile con tutti e giocosa con i figli, ma col tempo sempre più taciturna, sfiduciata, impenetrabile. In quella crescente tristezza della bella e generosa moglie c’è forse una non scritta storia di Benigar, un suo nascosto naufragio che trascina chi gli sta accanto e condivide il suo destino più di ogni altro. Forse la malinconia mitteleuropea ha sconfitto il canto tayil araucano e lo ha spento sulle labbra più amate.

I lunghi anni di Aluminé sono almeno esternamente i più sereni di don Juan; fecondi di iniziative artigianali e agricole, di studi e di scritti, di contatti culturali – ad esempio quale socio corrispondente della Junta de Historia y Numismática Americana –, di incontri, di interventi a tutela dei diritti degli autoctoni sempre più ignorati e conculcati e da lui così vigorosamente e lucidamente difesi. Imprime un forte sviluppo alla sua piccola impresa tessile, cui dà il nome Industria Textil Sheypukiñ, in memoria della prima moglie, senza peraltro preoccuparsi di brevettare il marchio. Aluminé aveva una piccola ma vivace tradizione economica risalente agli scambi fra i paesi sui due lati della Cordigliera al tempo della dominazione spagnola. Bestiame, lana, miniere, traffico fluviale. Una dimensione di piccole iniziative private, come agli albori del capitalismo.

La forza – forse anche la malinconia – di don Juan è la sua radicale individualità, che si apre alla collaborazione con gli altri, a iniziative plurali – le cooperative, le comunelle – che si reggono comunque sempre sull’individuo e sulla solidarietà. Nelle Mis Ultimas Disponiciones, redatte nel patio della sua casa il 14 gennaio 1950, esprime il desiderio di essere sepolto insieme alle due mogli e prescrive di dare notizia della sua morte alla sorella maggiore, Ruza Jelasic-Benigar, insegnante in pensione, residente in Jugoslavia, e di non deporre sulla sua tomba alcuna croce – “perché non sono cristiano” – bensì il simbolo teosofico, la stella composta da due triangoli equilateri, circondati da un serpente che si morde la coda.

Ma stabilisce soprattutto che i suoi figli, se sono d’accordo, formino una cooperativa famigliare, per continuare l’industria tessile che egli non aveva mai smesso di perfezionare a poco a poco sin dal 1917. I due figli Pitagorás Huenullancá e Sócrates Quintullancá devono restare a casa sotto la direzione di Alejandro Mañqué, per apprendere il mestiere, e le figlie Leocadia Millarayen e Magdalena Ayerayen devono essere educate da Marta Aycroupray e da Elena Kallvuray. A guidare l’industria dovrebbe essere Alejandro Mañqué, “che considero il più adatto a tale fine”. Se lui non fosse d’accordo, don Juan affida uno dei due figli maschi piccoli ad Ambrosio Millañamcú o – preferibilmente – “al mio nobile amico” don Carlos Villarino, giudice di pace, se questi accetterà. Delle figlie, Magdalena Ayerayen dovrebbe restare con una delle altre menzionate e lo stesso vale per Leocadia Millarayen altrimenti affidata a Donna Maria Hueycha Queo.

La sua propria casa andrebbe ai figli di Rosario. La biblioteca, nella quale ci sono alcuni libri di grande valore, bisogna lasciarla come sta, salvo le pulizie necessarie affinché serva a tutti, figli figlie e nipoti, senza permettere loro di portare i libri a casa, tranne che per un tempo molto limitato e con la promessa scritta di restituzione; le sue carte, aggiunge Benigar alla fine, devono essere imballate sin che non ci sia uno studioso, sempre nella famiglia, capace di utilizzarle. È con questa precisione che egli stila il suo testamento, concludendolo con la benedizione a tutti i figli, a tutti i loro discendenti e ai loro coniugi-consortes, egli scrive, usando una parola corrente e comune ma, in quel passo, ridandole il valore forte del suo significato originario, con-sorte, qualcuno che condivide la sorte, il destino del proprio compagno o della propria compagna.

Un testamento steso come se non esistesse il Diritto Civile, come se a guidare una Società dovesse essere il padre di famiglia e non il presidente o consigliere d’amministrazione. Almeno in quelle terre patagone e/o araucane Benigar voleva fondare una società, una comunità giusta, basata sul modello di una doverosa armonia famigliare e aperta agli altri. È questo il senso della sua vita e della sua eredità, oggi curata e coltivata in varie forme, studi filosofici e ricerche storiche sulle sue opere, spettacoli teatrali e musicali ispirati alla sua figura. Non è l’individuo che conta, amava ripetere riferendosi ai suoi meriti, bensì la sua opera, ciò che ha concretamente fatto e che dunque lascia in eredità. Della società per costruire la quale Benigar si è battuto c’è poca traccia, in particolare in quella patria araucano-patagonica che egli aveva fatta sua. Ma la spaventosa ingiustizia del mondo – anche del suo mondo, fra la Pampa e la Cordigliera – non è detto sia l’ultima parola. È facile sorridere della sua ingenua utopia, che sembra o può sembrare del tutto sorpassata, ma la Storia si fa spesso gioco di chi presume di conoscere e padroneggiare il suo corso. Pure i grandi fiumi sconcertano spesso i potamologi.