Il servitore di due padroni
ALL'ILLUSTRISSIMO SIG. DOTTORE RANIERI BERNARDINO FABRI NOBILE PISANO
Se il bene, che Voi mi avete fatto, Illustrissimo Signore, dovesse essere da me ricompensato, non basterebbono tutti i giorni della mia vita, impiegati in vostro servigio. Buon per me, che ti vostro animo generoso soddisfa a se medesimo nel beneficare, e ricusa ogni ombra di ricompensa, ma quantunque Voi siate generoso a tal segno, non basterebbe tutta la vostra virtù a liberarmi dalla taccia d'ingrato, quando io almeno de' benefici vostri non serbassi nell'animo la ricordanza, e di questa non procurassi darvene alcuna riprova. Ecco l'occasione di farlo. Troverete in dieci Volumi delle mie Commedie cinquanta nomi di Personaggi illustri, che mi hanno della protezione loro onorato. Fra questi era ben giusto, ch'io collocassi il vostro, non solo per quel fregio, che le Opere mie da cotal nome riporteranno, ma eziandio per quella dimostrazione di ossequio, con cui a' miei Padroni alcuna Operetta mia ho intrapreso di dedicare.
Questa, che ha per titolo Il Servitore di due Padroni, a Voi offerisco, perché avendola scritta in Pisa, mi ricorda que' felicissimi giorni, ch'io vissi, vostra mercé, tanto piacevolmente in cotesta Città, benefica, ed amorosa. Non mi scorderò mai, né mai avrò rossore di dirlo, essere costì giunto nell'anno 1745, malcontento della Fortuna, dopo averla tracciata in vano per qualche tempo, in varie parti, e con tante belle lusinghe, dileguatesi in fummo. Ho ancor presente quel giorno, in cui per la prima fiata ebbi l'onor di conoscervi, e fu quel festivo giorno, onorevole a Voi, e alla Patria vostra, in cui la Colonia degli Arcadi, Colonia Alfea nominata, Voi dall'oblio faceste risorgere, animando i valorosi Concittadini alle frequenti adunanze d'Arcadia, e le nobili Pastorelle a renderle col dolce canto delle loro Muse più grate, onde Arno scorre più glorioso, che mai, e a Voi, che Vicecustode perpetuo siete della Colonia, rendesi il dovuto onore.
Quel giorno fu, in cui ammirando Voi facondo Oratore, ed erudito Poeta, io pure del gemo mio per le Muse, ebbi occasione di ragionarvi, e l'amor grande, che avete Voi per le Lettere, vi rese benevolo ad uno, che le ama, poco ancor conoscendole, e della vostra amicizia, e della protezione vostra onorar mi voleste.
Svelate a Voi le mie vicende, le mie disavventure, non tardaste ad offerirmi la mano per sollevarmi, ed animandomi a esercitare in Pisa la Professione Legale, che con varietà di stile io aveva nella Patria mia esercitata, Voi mi trovaste gli appoggi, somministrati mi avete gli aiuti, e con l'ombra vostra, e coi vostri consigli, non andò guari, che in Pisa fama io aveva acquistata, e giunsi ad essere (per alcuni di poco spirito) oggetto di gelosia, e d'invidia. Quanti col vostro esempio preso aveano ad amarmi! Infinito è il numero delle grazie, che da' Pisani, senza merito, ho ricevute. Il nome Arcade di Polisseno Fegejo,che pongo infronte alle Opere mie, in cotesta Colonia l'ho conseguito, ed emmi caro per questo, e non lo lasciero in abbandono giammai.
Che dolci veglie, che amabili conversazioni goder mi faceste nel vostro studio! Pisa abbonda di peregrini talenti, e tutti della vostra società sono vaghi, ed io, in grazia vostra, ebbi agio di conoscerli, e di erudirmi, e Voi medesimo, pel corso di que' tre anni, che costì dimorai, foste a me un libro aperto, in cui io leggeva le più belle massime, le più eccellenti istruzioni, che vogliono a formar l'uomo.
Felici i vostri figliuoli, che da Voi hanno l'esempio, l'educazione, il consiglio! Ma felicissimo Voi ancora, che prole avete della vostra virtù seguace, che rende onore a se stessa, e al Genitore ben nato.
Non ho veduto chi meglio di Voi sappia dividete il tempo, e così ben lo misuri, per darne giusta porzione a tutto, senza eccedere, e senza mancare Voi attentissimo alla vostra cospicua Cancelleria del Consiglio de' XII Cavalieri di Santo Stefano; Voi indefesso nel vostro studio, accuratissimo nel dilettevole esercizio delle adunanze d'Arcadia; pronto ad ogni richiesta di Poetiche Composizioni, piissimo frequentatore delle sagre Funzioni, delle società Cristiane, amante dell'onesta conversazione, vivace, lepido, e nella età vostra invidiabile alla gioventù, sapete unir cosi bene la religione, e l' Uomo, che nulla vi manca per essere un modello di perfezione.
Dio volesse, che con un tal modello dinanzi agli occhi io avessi continuato a battere quella strada, per cui mi aveva la tenerezza vostra, e la vostra saviezza incamminato. Questi sei anni, che ho malmenati pel Teatro, felice me s'io gli avessi nella Civile, e nella Criminale Avvocatura impiegati! Qual Demonio, peggiore assaissimo del Meridiano, mi ha strascinato a co fai penoso esercizio? Oh almeno le prime Commedie mie fossero cotanto sciocche riuscite, che passata me ne fosse la voglia, e la vanità dell'applauso giunta non fosse ad inebriarmi a segno, di preferirla all'utile, al comodo, alla tranquillità.
Ecco il bellissimo frutto delle mie penose fatiche. Leggete, Signor mio umanissimo, i miei Manifesti, le mie Lettere, le mie Prefazioni, e raccoglierete da tutto ciò una piccola parte de' miei travagli. Che peggio poteva io aspettarmi, se in luogo di procurar la riforma dei Teatri, avessi la corruzione loro prodotta? Ma peggio di tutto quel, che apparisce, peggio assai si minaccia ad un Uomo innamorato della propria Nazione, che si è creduto in debito di sagrificarsi per l'onor suo. Vi sono delle anime scellerate, che non avendo talento, per deprimere, qualunque sieno, le Opere mie, cercano disonorar il mio nome, e mettere la persona mia in ridicolo con imposture, menzogne, romanzi, favole, ed altre simili invenzioni d'ingegno, degne del loro animo, del loro spirito, e del perverso loro costume.
Se per salvezza dell'onor mio sarò forzato a smentire i calunniatori col render conto della mia condotta, chiamerò in testimonio gli amici miei, quegli, che fuori della Patria mia conosciuto mi avranno; e Voi, rispettabile per la nascita, pel carattere, per la ingenuità conosciuta, Voi chiamerò per autenticare la mia onestà in quel triennio, che sotto gli occhi vostri costì ho vissuto.
L'allontanamento della mia Patria ha dato motivo di favoleggiare di me, non mi è lecito esporre al pubblico ciò, che vi sovverrete avervi io confidato, per giustificare qual impegno d'onore abbiami allora costretto ad alterare l'economia della mia Famiglia, cambiare il sistema della mia casa, e finalmente prendere il partito di cambiar Cielo, per migliorare fortuna. Non posso io gloriarmi di essere sì cautamente vissuto, che la vita mia elogi meritar possa, i miei difetti, le mie debolezze, le passioni mie mal corrette, sono da me medesimo rimproverate, e sentirei volentieri anche in oggi, che delle passate follie un Uomo saggio mi riprendesse, ma che perfida gente, d'enormi vizi ripiena, gente, di cui farebbe orrore il rammentarne i costumi, gente avvezza a viver e di menzogna, di maldicenza, d'inganno, intraprenda a parlar di me, e di screditarmi procuri, cosa dolorosissima mi riuscirebbe, se non mi confortasse la sicurezza, che svelando i nomi loro soltanto, caderebbono sopra di essi le ingiurie, e le maldicenze.
Deh, amorosissimo Signor mio, perdonatemi questo sfogo, che mal s'innesta, a dir vero, in una officiosa Epistola dedicatoria, ma poiché Voi mi amate, e avvezzo siete ad ascoltare le mie disavventure, ed a compatirle, meco l'antica bontà usando, le nuove querele mie di buon animo compatirete. Né pensaste giammai, che per aver di ciò ragionato più con Voi che con altri, fossero gl'inimici, di cui mi lagno, in Toscana; no, certamente, non posso anzi bastantemente lodare e grazie rendere ai Toscani per le infinite finezze, che costà in Pisa, in Firenze, e in Livorno a me largamente sono state con eccesso di benignità compartite. I miei persecutori sono... Ah permettetemi, che io mel taccia, perché arrossisco nel dirlo.
Felicissimi giorni ho io menati in Pisa! Vero è pur troppo, che il bene non si conosce, se non si perde. Deh se cotesto soggiorno amabile, ho io incautamente perduto, smarrito almeno non abbia il tesoro del vostro amore, della grazia vostra, della vostra amabilissima protezione. A questa vivamente mi raccomando, e pregandovi dal Signore perVoi, pel bene della Patria vostra, lunghi e felici anni di vita, rispettosamente mi dico.
Di V. S. Illustriss. Umiliss. Divotiss. e Obbligatiss. Serv.
CARLO GOLDONI
Troverai, Lettor carissimo, la presente Commedia diversa moltissimo dall'altre mie, che lette averai finora. Ella non è di carattere, se non se carattere considerare si voglia quello del Truffaldino, che un Servidore sciocco ed astuto nel medesimo tempo ci rappresenta: sciocco cioè in quelle cose le quali impensatamente e senza studio egli opera, ma accortissimo allora quando l'interesse e la malizia l'addestrano, che è il vero carattere del Villano.
Ella può chiamarsi piuttosto Commedia giocosa, perché di essa il giuoco di Truffaldino forma la maggior parte. Rassomiglia moltissimo alle Commedie usuali degl'Istrioni, se non che scevra mi pare ella sia da tutte quelle improprietà grossolane, che nel mio Teatro Comico ho condannate, e che dal Mondo sono oramai generalmente aborrite.
Improprietà potrebbe parere agli scrupolosi, che Truffaldino mantenga l'equivoco della doppia sua servitù, anche in faccia dei due Padroni medesimi, soltanto per questo, perché niuno di essi lo chiama mai col suo nome; che se una volta sola, o Florindo, o Beatrice, nell'Atto Terzo, dicessero Truffaldino, in luogo di dir sempre il mio Servitore, l'equivoco sarebbe sciolto e la Commedia sarebbe allora terminata. Ma di questi equivoci, sostenuti dall'arte dell'Inventore, ne sono piene le Commedie non solo, ma le Tragedie ancora; e quantunque io m'ingegni d'essere osservante del verisimile in una Commedia giocosa, credo che qualche cosa, che non sia impossibile, si possa facilitare.
Sembrerà a taluno ancora, che troppa distanza siavi dalla sciocchezza all'astuzia di Truffaldino; per esempio: lacerare una cambiale per disegnare la scalcherìa di una tavola, pare l'eccesso della goiaggine. Servire a due Padroni, in due camere, nello stesso tempo, con tanta prontezza e celerità, pare l'eccesso della furberia. Ma ecco appunto quel ch'io dissi a principio del carattere di Truffaldino: sciocco allor che opera senza pensamento, come quando lacera la cambiale; astutissimo quando opera con malizia, come nel servire a due tavole comparisce.
Se poi considerar vogliamo la catastrofe della Commedia, la peripezia, l'intreccio, Truffaldino non fa figura di Protagonista, anzi, se escludere vogliamo la supposta vicendevole morte de' due amanti, creduta per opera di questo Servo, la Commedia si potrebbe fare senza di lui; ma anche di ciò abbiamo infiniti esempi, quali io non adduco per non empire soverchiamente i fogli; e perché non mi credo in debito di provare ciò che mi lusingo non potermi essere contraddetto; per altro il celebre Molière istesso mi servirebbe di scorta a giustificarmi.
Quando io composi la presente Commedia, che fu nell'anno 1745, in Pisa, fra le cure legali, per trattenimento e per genio, non la scrissi io già, come al presente si vede. A riserva di tre o quattro scene per Atto, le più interessanti per le parti serie, tutto il resto della Commedia era accennato soltanto, in quella maniera che i Commedianti sogliono denominare a soggetto; cioè uno Scenario disteso, in cui accennando il proposito, le tracce, e la condotta e il fine de' ragionamenti, che dagli Attori dovevano farsi, era poi in libertà de' medesimi supplire all'improvviso, con adattate parole e acconci lazzi e spiritosi concetti. In fatti fu questa mia Commedia all'improvviso così bene eseguita da' primi Attori che la rappresentarono, che io me ne compiacqui moltissimo, e non ho dubbio a credere che meglio essi non l'abbiano all'improvviso adornata, di quello possa aver io fatto scrivendola. I sali del Truffaldino, le facezie, le vivezze, sono cose che riescono più saporite, quando prodotte sono sul fatto dalla prontezza di spirito, dall'occasione, dal brio. Quel celebre eccellente Comico, noto all'Italia tutta pel nome appunto di Truffallino, ha una prontezza tale di spirito, una tale abbondanza di sali e naturalezza di termini, che sorprende: e volendo io provvedermi per le parti buffe delle mie Commedie, non saprei meglio farlo che studiando sopra di lui. Questa Commedia l'ho disegnata espressamente per lui, anzi mi ha egli medesimo l'argomento proposto, argomento un po' difficile in vero, che ha posto in cimento tutto il genio mio per la Comica artificiosa, e tutto il talento suo per l'esecuzione.
L'ho poi veduta in altre Parti da altri Comici rappresentare, e per mancanza forse non di merito, ma di quelle notizie che dallo Scenario soltanto aver non poteano, parmi ch'ella decadesse moltissimo dal primo aspetto. Mi sono per questa ragione indotto a scriverla tutta, non già per obbligare quelli che sosterranno il carattere del Truffaldino a dir per l'appunto le parole mie, quando di meglio ne sappian dire, ma per dichiarare la mia intenzione, e per una strada assai dritta condurli al fine.
Affaticato mi sono a distendere tutti i lazzi più necessari, tutte le più minute osservazioni, per renderla facile quanto mai ho potuto, e se non ha essa il merito della critica, della morale, della istruzione, abbia almeno quello di una ragionevole condotta e di un discreto ragionevole gioco.
Prego però que' tali, che la Parte del Truffaldino rappresenteranno, qualunque volta aggiungere del suo vi volessero, astenersi dalle parole sconce, da' lazzi sporchi sicuri che di tali cose ridono soltanto quelli della vil plebe e se ne offendono le gentili persone.
Servati finalmente, Lettor mio, esser questa Commedia una di quelle sei che ho promesso oltre le quarantaquattro esibite dal Bettinelli. Ma anche questa diverrà cosa sua, perché del mio ciascheduno si fa padrone; anzi si imputa a me a delitto, se delle cose mie discretamente mi vaglio.
Personaggi
- Pantalone de' Bisognosi
- Clarice,
sua figliuola
- Il Dottore Lombardi
- Silvio,
di lui figliuolo
- Beatrice,
torinese, in abito da uomo sotto nome di Federigo Rasponi
- Florindo Aretusi,
torinese di lei amante
- Brighella,
locandiere
- Smeraldina,
cameriera di Clarice
- Truffaldino,
servitore di Beatrice, poi di Florindo
- Un Cameriere della locanda,
che parla
- Un Servitore di Pantalone,
che parla
- Due Facchini,
che parlano
- Camerieri d'osteria,
che non parlano
La Scena si rappresenta in Venezia.
Indice
- 1. Atto
primo
- 1.1. Scena prima
- 1.2. Scena seconda
- 1.3. Scena terza
- 1.4. Scena quarta
- 1.5. Scena quinta
- 1.6. Scena sesta
- 1.7. Scena settima
- 1.8. Scena ottava
- 1.9. Scena nona
- 1.10. Scena decima
- 1.11. Scena undicesima
- 1.12. Scena dodicesima
- 1.13. Scena tredicesima
- 1.14. Scena quattordicesima
- 1.15. Scena quindicesima
- 1.16. Scena sedicesima
- 1.17. Scena diciassettesima
- 1.18. Scena diciottesima
- 1.19. Scena diciannovesima
- 1.20. Scena ventesima
- 1.21. Scena ventunesima
- 1.22. Scena ventiduesima
- 2. Atto
secondo
- 2.1. Scena prima
- 2.2. Scena seconda
- 2.3. Scena terza
- 2.4. Scena quarta
- 2.5. Scena quinta
- 2.6. Scena sesta
- 2.7. Scena settima
- 2.8. Scena ottava
- 2.9. Scena nona
- 2.10. Scena decima
- 2.11. Scena undicesima
- 2.12. Scena dodicesima
- 2.13. Scena tredicesima
- 2.14. Scena quattordicesima
- 2.15. Scena quindicesima
- 2.16. Scena sedicesima
- 2.17. Scena diciassettesima
- 2.18. Scena diciottesima
- 2.19. Scena diciannovesima
- 2.20. Scena ventesima
- 3. Atto
terzo
- 3.1. Scena prima
- 3.2. Scena seconda
- 3.3. Scena terza
- 3.4. Scena quarta
- 3.5. Scena quinta
- 3.6. Scena sesta
- 3.7. Scena settima
- 3.8. Scena ottava
- 3.9. Scena nona
- 3.10. Scena decima
- 3.11. Scena undicesima
- 3.12. Scena dodicesima
- 3.13. Scena tredicesima
- 3.14. Scena quattordicesima
- 3.15. Scena quindicesima
- 3.16. Scena sedicesima
- 3.17. Scena ultima