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In cerca di spazio
ALL’INIZIO del Cinquecento si perdono le tracce di Raffaello. Non ci sono lettere, cronache o testimonianze che ci permettano di stabilire con precisione dove risieda: soltanto le opere che ancora oggi possiamo ammirare evocano un periodo di grande, precocissima attività.
Nessuno ha ancora capito se il clamore destato dalla Pala di san Nicola da Tolentino lo convinca a spostare l’intera bottega a Città di Castello, dove continuano ad arrivare ordini per opere pubbliche. Ma forse non è ancora il momento di trasferire l’attività lontano da Urbino, anche se il mercato lo richiama sempre di più fuori dal ducato. Tra il 1502 e il 1504 lo vediamo alle prese con lavori via via più importanti tra Siena e Perugia, dove nel giro di poco tempo riesce a spodestare dal trono della pittura grandi artisti come Perugino, Pinturicchio e Luca Signorelli. Raffaello si impone con una discrezione e una grazia degne di un uomo dall’ambizione sfrenata dissimulata dietro un carattere docile. È un genio consapevole e accorto.
Nei primi anni del nuovo secolo, le sue opere rivelano viaggi continui e irrequieti tra i centri più attivi di Toscana e Marche. La clausola con cui si conclude un contratto firmato in questi anni prevede che eventuali dispute con i clienti si potranno discutere a Perugia, Assisi, Gubbio, Roma, Siena, Firenze, Urbino o Venezia. Sanzio ha evidentemente ampliato i propri orizzonti e non si ferma un attimo. Vive una sorta di irrefrenabile ricerca di ispirazione e commesse, nel tentativo di apprendere velocemente lo stile e la tecnica che hanno trasformato in maestri indiscussi i pittori più richiesti del momento.
Non è un caso se nel 1502 lo troviamo sul cantiere della Libreria Piccolomini a Siena, dove Bernardino di Betto, detto Pinturicchio per via della bassa statura, sta realizzando l’ultimo suo grande capolavoro. L’artista è all’apice della fama, dopo la gloriosa esperienza romana in cui ha partecipato a imprese che hanno cambiato il percorso della storia dell’arte e ancora oggi sono riconosciute come capolavori assoluti. Dopo avere contribuito agli affreschi della Cappella Sistina per Papa Sisto IV, ha realizzato la decorazione dell’appartamento privato di Alessandro VI Borgia e ha lasciato traccia del suo passaggio in alcuni dei palazzi nobili più preziosi della Città Eterna: a Palazzo della Rovere quel misterioso Soffitto dei Semidei e in uno dei saloni principali di Palazzo Colonna eccezionali grottesche, tratte direttamente dalla Domus Aurea di Nerone appena affiorata nei pressi del Colosseo.
Nel Duomo di Siena è alle prese con gli affreschi della sala che avrebbe dovuto accogliere la celebre biblioteca di Enea Silvio Piccolomini. Forse stanco (nel giro di pochi mesi scriverà il suo testamento), forse incuriosito dalla nuova generazione di artisti che si sta affacciando sulla scena toscana, Pinturicchio allestisce un cantiere nel quale mette al lavoro i migliori aspiranti pittori che gli vengono proposti.
Anche Raffaello riesce a entrare in questo gruppo. Non sappiamo bene chi lo abbia raccomandato a Pinturicchio (forse l’altro grande maestro dell’epoca, Luca Signorelli), ma sta di fatto che la posizione di Sanzio è piuttosto bizzarra. Non è un giovane alle prime armi, è già un «magister». Potrebbe impegnarsi nella ricerca di nuove commissioni per la sua bottega, sfruttare la fama guadagnata grazie alla Pala Baronci, invece si mette a disposizione di uno degli artisti più in voga del momento come un umile collaboratore. Pronto a fornire, come spesso accadeva, alcuni disegni che avrebbero ispirato il lavoro del maestro. Una scelta difficile da comprendere in questa fase della sua carriera, ma perfettamente coerente con la sua strategia, come vedremo.
Molto più di un bozzetto
Sulle pareti della libreria senese si snoda la vita di Papa Pio II Piccolomini, un vero intellettuale umanista che aveva saputo tessere importanti relazioni con i maggiori signori d’Europa già quando ancora vestiva l’abito cardinalizio. Nei dieci riquadri messi a punto da Pinturicchio vediamo il prelato partire per il Concilio di Basilea nell’inverno 1432, farsi incoronare poeta da Federico III e, finalmente, entrare in San Giovanni in Laterano come Pontefice. Ogni scena è organizzata secondo uno schema prospettico molto regolare. Ciascuna immagine gira intorno a un elemento centrale, ai lati del quale le figure si dispongono in modo simmetrico: un altare, una colonna, un trono o un arco che si apre su un paesaggio ideale.
Tutto è molto controllato e rassicurante, la superficie pittorica è solcata da eleganti tocchi dorati che illuminano i personaggi e conferiscono solennità agli episodi. Ma ce n’è uno che è concepito in modo completamente diverso dagli altri (vedi).
Pinturicchio, La partenza di Enea Silvio Piccolomini verso Basilea, 1502-1508 circa, affresco, Libreria Piccolomini, Siena. © Getty Images.
Raffaello Sanzio, La partenza di Enea Silvio Piccolomini verso Basilea, 1502, penna, bistro, biacca e gessetto nero, cm 70,5x41,5, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Galleria degli Uffizi, Firenze. © 2015. Foto Scala, Firenze - su concessione Ministero Beni e Attività Culturali.
Al centro di questo affresco, sullo sfondo non compare nulla: soltanto il cielo, in parte oscurato da pesanti nuvole che stanno scatenando una tempesta in lontananza. La simmetria è spezzata dalla presenza di un cavallo che entra nella scena, visto in scorcio da dietro. Lo monta un giovane vestito in maniera elegante, che si volta verso di noi, in segno di saluto. È Enea Silvio, che sta partendo per Basilea con il suo corteo.
Perché Pinturicchio ha rinunciato solo in questo episodio alla simmetria su cui ha costruito la decorazione dell’intera libreria? Perché qui non c’è traccia di quella organizzazione geometrica dello spazio su cui ha basato ogni sua opera? Un disegno oggi conservato agli Uffizi svela il motivo. Non è stato Pinturicchio a inventare il racconto di quell’evento, bensì Raffaello (vedi).
Malgrado abbia trent’anni più di lui, per questo riquadro il maestro chiede un’idea al ragazzo di Urbino, che gli sottopone un progetto molto innovativo. Il bozzetto convince il capomastro, che lo invita a tracciare la quadrettatura sul foglio per trasferire l’immagine, ingrandita, su un cartone. Ma non sarà Sanzio a completare l’opera. Come spesso accadeva, i giovani venivano sfruttati come semplici «designer», con l’incarico di fornire proposte che il responsabile del cantiere poteva poi rielaborare a suo piacimento.
Purtroppo, però, in questo caso il risultato finale è piuttosto lontano dall’originale.
Nell’affresco, Enea Piccolomini compare vestito con un mantello molto pomposo, la testa protetta da un cappello da viaggio a falde larghe, legato al mento con un vistoso nastro. Raffaello, come d’abitudine, aveva disegnato con precisione la posa del ragazzo, osservando un garzone: nel progetto, il suo Enea porta un abito leggero e si mostra in una posa energica, tesa, le mani strette sui fianchi e le gambe dritte sulle staffe. Nella versione a colori, il cavaliere ha perso qualsiasi tensione. Siede morbido sulla groppa del cavallo bianco, mentre tiene in mano il foglio con le credenziali e l’incarico ricevuto dal Pontefice. Lo stallone avanza verso destra, come l’aveva pensato Sanzio, ma la sua coda scende stanca e pettinata in ciocche eleganti, non si avvolge nel ricciolo nervoso prodotto dal movimento dei muscoli, come succede nel disegno. Allo stesso modo, anche lo scudiero che precede Enea non accenna più allo sforzo che impiega per richiamare l’attenzione del corteo. La sua è una postura convenzionale, più spenta e meno dinamica.
Pinturicchio ha lavorato sull’idea di Raffaello per raffreddare ogni visibile brivido di passione, traducendo un’immagine vitale in una scena cortese, nobile, ma priva di mordente. Piatta e statica.
Il paesaggio sullo sfondo, dove il giovane assistente aveva immaginato l’inquietante minaccia di una tempesta, si è trasformato in una quinta molto convenzionale e piuttosto schematica: a destra un centro abitato protetto da alte mura, a sinistra un cielo plumbeo dove l’acqua sembra cadere come da una botola spalancata tra le nuvole. Nel mezzo, un arcobaleno che solca il cielo, ingombrante, banale, senza trasparenza né poesia.
Bernardino ha chiuso le bocche dei cavalli, ha aggiunto dettagli inutili per riempire spazi lasciati vuoti da Raffaello, come quel levriero in primo piano, ha congelato in gesti ovvi e composti i personaggi energici che animano il bozzetto del suo giovane collaboratore.
Ma Sanzio può ritenersi comunque soddisfatto. Anche con un semplice disegno, ha dimostrato di avere idee nuove, che lentamente si inseriranno in maniera dirompente all’interno degli schemi ormai logori dei grandi maestri del suo tempo.
UNA NUOVA ILLUSIONE
Con il disegno per l’affresco di Siena, Raffaello dimostra di essere in grado di giocare con la rappresentazione dello spazio in modo sorprendente e creativo, liberandosi gradualmente della lunga tradizione legata alla prospettiva centrale che si è consolidata nel corso del Quattrocento. Ci sono volute almeno tre generazioni per mettere a punto questa tecnica e Sanzio è tra i primi pittori a rinnovarla. O meglio, a dissimularla all’interno di una composizione più complessa.
Dopo i fondi oro medievali, gli artisti hanno vissuto l’ossessione della riconquista di uno spazio tridimensionale, dove le figure potessero muoversi in libertà. Esattamente come accade nella poesia e nella musica, anche la prospettiva rinascimentale è il risultato dello studio matematico applicato a una sapienza antica. I romani avevano tentato di costruire uno spazio profondo sulle pareti dipinte attraverso l’invenzione di personaggi e scarne architetture, senza però riuscire a determinare una regola precisa. Sulle pareti delle ville romane, uomini, donne e animali di fatto galleggiavano nel vuoto. Questo era il poco che sapevano gli artisti del Quattrocento. La scoperta di Pompei e di Villa Oplontis, con i loro strabilianti affreschi, era ancora lontana. C’era però una novità che negli ultimi decenni si stava affermando come una vera rivoluzione, soprattutto nella concezione dello spazio pittorico. Nel sottosuolo del Colle Oppio cominciavano ad affiorare le cosiddette grottesche, pitture sorprendenti, destinate a cambiare lo stile dei maestri più all’avanguardia. Pinturicchio si era calato più volte in quelle «grotte» vicino al Colosseo, per trascrivere su certi libretti la foggia degli altari e delle piccole strutture su cui comparivano donne procaci, sfingi, grifoni e creature d’ogni specie. Queste immagini diventano presto il repertorio a cui si ispira un’intera generazione di artisti, che riempirà chilometri quadrati di pareti e soffitti con girali di acanto, figure mostruose e motivi geometrici giunti dal sottosuolo. Un repertorio fantastico, con il tempo destinato a diventare sempre più ripetitivo e prevedibile.
Sanzio cresce a contatto con un ambiente che ha visto germogliare questo nuovo alfabeto, che si innesta sul rigore degli studi prospettici di Brunelleschi e Leon Battista Alberti. Ma lo spazio inventato da Raffaello nei suoi dipinti si arricchisce anche delle invenzioni che Piero della Francesca aveva lasciato proprio a Urbino. Una tra le prove migliori di prospettiva era la sua Flagellazione, che Sanzio aveva potuto ammirare a Palazzo Ducale. A poca distanza, Melozzo da Forlì aveva sperimentato con successo l’illusione prospettica sul soffitto della Cappella di San Marco nel santuario di Loreto, dove ancora oggi volteggiano i suoi angeli perfettamente inseriti nella profondità di una cupola.
Non è quindi un caso se, alle prese con l’ideazione di una scena che lo obbliga a costruire uno spazio tridimensionale, Sanzio riesce a trovare facilmente il modo per scartarsi dall’obbligo di utilizzare la prospettiva centrale. Conosce alla perfezione quel metodo, su cui ha visto lavorare più volte suo padre.
Ora, è arrivato il tempo di esplorare nuove strade, senza strappi né rotture improvvise con la tradizione.
Sfida a distanza
Come abbiamo visto, il bozzetto per la partenza di Enea Silvio Piccolomini è di fatto stravolto da Pinturicchio. Tutto quello che Raffaello vi ha inserito di nuovo e inaspettato viene trascurato, senza alcun rispetto per il talento del giovane pittore. Ma lui non se la prende. Fa parte delle regole del gioco. Avverte però che è arrivato il momento di alzare la posta e lanciare una sfida diretta ai suoi maestri, per prendersi lo spazio che merita nel mercato delle opere pubbliche.
L’occasione non tarda a presentarsi e stavolta il gioco si fa davvero interessante.
È di nuovo Città di Castello a dargli la possibilità di misurarsi con i grandi artisti del territorio. Nel 1504, la famiglia Albizzini gli commissiona uno Sposalizio della Vergine (vedi figura 4), per la chiesa di San Francesco. Raffaello decide di prendere ispirazione da un’opera che Perugino sta realizzando per il Duomo di Perugia (vedi figura 3). Tra i due nasce una vera propria sfida a distanza.
Pietro Vannucci aveva deciso di riproporre a Perugia lo stesso schema utilizzato per la Consegna delle chiavi che aveva dipinto su una delle pareti della Cappella Sistina una ventina d’anni prima. Una grande piazza lastricata, dominata da un tempio sullo sfondo e occupata da un gruppo di personaggi in primo piano che assistono a un evento straordinario. All’epoca, quell’affresco era stato salutato come una delle più strabilianti costruzioni prospettiche del secolo.
In modo assolutamente inaspettato, l’operazione di Sanzio si insinua all’interno dello stile peruginesco e spariglia le carte. La sua furbizia lascia davvero senza parole.
Stavolta l’obiettivo è dimostrare come la mano di Perugino abbia fatto il suo tempo, usando gli stessi strumenti del maestro. Il suo è un vero e proprio affronto, condotto sullo stesso piano, con lo stesso soggetto trasportato in una nuova dimensione. Dopo anni in cui ha copiato il suo stile e imitato così da vicino le sue icone, tanto da far esclamare a Vasari che «se non vi fusse il suo nome scritto, nessuno le crederebbe opera di Raffaello, ma sì bene di Pietro», trova finalmente la strada per proporre una variazione personale di quel modello, che ancora domina la scena artistica umbra. Sanzio non fa altro che intervenire in maniera sottile sul capolavoro di Perugino, dimostrando un’intelligenza fuori della norma.
Sempre più naturali
A prima vista, le due scene sembrano identiche. Raffaello ha scelto di collocare l’azione nello stesso ambiente, ponendo i personaggi in primo piano nel cuore di una piazza e risolvendo lo sfondo con una sola architettura a pianta centrale, che si staglia nel cielo azzurro. Sanzio non è nuovo a richiami diretti dell’opera di Vannucci. Aveva già sperimentato lo stesso metodo in una Crocefissione (oggi alla National Gallery), dove gli angeli pare derivassero addirittura dai cartoni tratti dalla bottega di Pietro. Ma questa volta non gli basta dare l’impressione che la sua opera rievochi un capolavoro noto e rassicurante.
Prima di tutto, costruisce uno spazio più ampio e profondo di quello di Perugino, attraverso il disegno di riquadri più scorciati sul pavimento della piazza. Solleva il punto di vista e abbassa leggermente il punto di fuga, proprio alle spalle del tempio circolare. Tutta la scena provoca una certa vertigine in chi la osserva.
Il tempio dello Sposalizio della Vergine sembra davvero richiamare le forme del Tempietto che Donato Bramante aveva appena collocato all’interno del chiostro di San Pietro in Montorio, sul Gianicolo. Anche se non ci sono rimasti documenti a provarlo, è molto probabile che nel 1503 Raffaello abbia avuto l’occasione di fare un viaggio a Roma. Oltre alle rovine che affiorano nel Foro Romano, la sua visita avrà toccato senza dubbio le opere che l’architetto marchigiano stava realizzando nell’Urbe. Non è tanto la pianta circolare a evocarlo, quanto le sue proporzioni, così diverse da quelle su cui Perugino aveva progettato l’edificio esagonale del suo dipinto. L’architettura di Vannucci è talmente tozza e verticale da non essere contenuta nella cornice del quadro. Sanzio invece la mantiene tutta dentro la tavola, in modo da costruire una scena chiusa all’interno della pala, che imita la forma di un arco antico.
Ma la novità dell’opera di Raffaello non resta confinata nella definizione di uno spazio innovativo, anche se quello rimane uno dei terreni di gioco più avvincenti della sua epoca. In questo capolavoro, la sua strategia si concentra sulla creazione di personaggi dalle pose più naturali. Anche in questo caso deve essere intervenuto uno studio dal vero delle figure, che sembrano molto meno rigide di quelle inventate da Perugino. Le richiamano nei lineamenti e negli abiti, ma occupano lo spazio in modo più armonico e tridimensionale. Sanzio rivela una certa furbizia nell’imitare lo stile del maestro: la lingua è la stessa, però viene composta in una struttura nuova. Il sacerdote flette leggermente la testa e si scarta dall’asse centrale, assumendo una postura più naturale del personaggio cui si ispira. È lui a sollecitare quel movimento circolare che guida la disposizione di tutti i partecipanti al rito. Giuseppe è l’apice del gruppo dei pretendenti, che sono relegati sul lato destro della scena. Riusciamo a scorgere solo i loro volti delusi e i loro bastoni spogli. Quello del falegname di Nazareth è l’unico che può vantare la presenza di un fiorellino. Secondo una leggenda, giunta per Maria l’età del matrimonio, alcuni giovani ricevono un ramo secco ciascuno. La ragazza avrebbe sposato soltanto chi avesse riportato il ramo fiorito, segno della protezione divina di quell’unione. Giuseppe mostra il suo con un certo orgoglio.
Quelle che nell’opera di Perugino costituivano semplici comparse di un evento solenne, impostato su una rigida liturgia, nella pala di Raffaello si trasformano nei protagonisti di un evento molto più laico, nel quale trovano spazio anche le reazioni delle altre figure senza nome. Le fanciulle osservano con sguardo trasognato la consegna dell’anello nuziale, sospirando il momento in cui si avvererà anche il loro desiderio di matrimonio. Uno dei ragazzi, isolato in primo piano, cerca di spezzare la verga con il ginocchio. La sua posizione è costruita su uno scorcio obliquo perfetto, che lo sbalza fuori dal dipinto. Un personaggio simile compare anche nella versione peruginesca, ma è arretrato, goffo, privo di espressione. Quello di Sanzio trasmette tutto il suo disappunto, nello sforzo assolutamente verosimile di rompere lo strumento che si è rivelato inutile a fargli raggiungere l’obiettivo di sposare Maria.
Con questa operazione intelligente e sagace, Raffaello mina le basi dell’immaginario consolidato e inamovibile di Perugino. Infrange quell’armonia con cui Pietro rassicura da almeno trent’anni i suoi clienti, che però forse ora sono in cerca di emozioni più forti. Il lavoro di Sanzio costituirà una condanna inesorabile per la carriera di Vannucci. Nel giro di pochi anni, l’anziano maestro sarà costretto a lanciare un appello accorato ai suoi committenti: «Io ho messo in opera le figure altre volte lodate da voi e che vi sono infinitamente piaciute: se ora vi dispiacciono e non le lodate più che ne posso io?»
È solo questione di tempo. La sua luminosa carriera è destinata a essere oscurata dal cono d’ombra delle invenzioni di Raffaello, che scrive il proprio nome bene in vista sull’architrave del tempio, al centro dello Sposalizio della Vergine. Il guanto di sfida è ormai stato lanciato.
Due quadri in uno
In questi primi anni del secolo, ogni nuova opera diventa per Raffaello l’occasione per confrontarsi con i modi e i capolavori dei concorrenti più anziani. L’artista capisce che la strategia di Leonardo, il quale aveva cercato nuove strade attraverso la proposta di uno stile profondamente innovativo, non gli permetterebbe di ottenere un successo immediato. Non era un caso se Vinci aveva impiegato oltre vent’anni per ottenere i suoi primi riconoscimenti. Lui, invece, è impaziente e capisce che il pubblico non va spiazzato ma condotto per mano verso una nuova dimensione. Quella della grazia e dell’armonia delle emozioni, che nei dipinti degli altri maestri sono cristallizzate in pose e atteggiamenti molto convenzionali. Raffaello cerca, lentamente, di liberare le figure di Perugino e Pinturicchio, che tra le sue mani subiscono una graduale metamorfosi.
A Perugia, le occasioni per dimostrare il suo talento non mancano. Malgrado la guerra civile in atto da alcuni anni, a Sanzio la città si presenta come un terreno molto favorevole dove continuare ad ampliare l’attività ereditata dal padre.
I membri delle famiglie Oddi e Baglioni si scontrano quotidianamente nelle piazze e sui sagrati delle chiese e, quasi per espiare quei crimini, le donne dei due casati commissionano straordinarie pale d’altare per decorare le loro cappelle private. Così nasce uno dei capolavori che Raffaello mette a segno tra il 1503 e il 1504, l’Incoronazione della Vergine, o Pala Oddi (vedi figura 2) destinata alla Cappella Oddi di San Francesco al Prato, la chiesa che custodiva le tombe dei personaggi più illustri di Perugia. Per Sanzio è di nuovo una sfida incredibile: una pala alta quasi tre metri, all’interno del tempio più prestigioso della città, accanto alla strepitosa Resurrezione dipinta da Perugino pochi anni prima (oggi esposta alla Pinacoteca Vaticana).
Ma lui non è certo il tipo da farsi intimidire. Comincia a elaborare un gran numero di studi, utilizzando sempre il metodo della posa dei suoi giovani collaboratori, per trovare questa volta una soluzione che possa fondere lo stile dei due maestri a lui più cari: Perugino e Pinturicchio.
In quel periodo Vannucci stava lavorando a un’Incoronazione della Vergine per una piccola chiesa presso Monteripido, una frazione di Perugia. Pinturicchio, invece, aveva da tempo concluso un’Assunzione della Vergine all’interno della Cappella Basso della Rovere di Santa Maria del Popolo a Roma. Raffaello doveva avere visto questo affresco durante il suo viaggio nell’Urbe e, con ogni probabilità, aveva avuto accesso ai cartoni di Perugino. Non si spiega altrimenti da dove derivi la costruzione della sua Incoronazione della Vergine, in cui si moltiplicano i rimandi alle opere dei due maestri.
Esattamente come accadeva nella Pala di san Nicola da Tolentino, dove in basso il santo sconfiggeva Satana e in alto veniva incoronato, anche qui Raffaello sceglie di raccontare due episodi in contemporanea. Un pavimento di nuvole separa le due scene, che nascondono una serie di avvincenti particolari.
A terra, gli apostoli rimangono interdetti di fronte alla scoperta del sarcofago vuoto della Vergine: al posto del corpo di Maria sono germogliati i suoi fiori, gigli e rose. L’unica reliquia rimasta è la cintola che le avvolgeva i fianchi. Tommaso la tiene tra le mani, ancora incredulo. Per scegliere la posizione di quelle mani Sanzio deve avere penato a lungo, a giudicare dal numero di studi che ci sono rimasti. Il suo obiettivo era non dipingere un gesto artificioso, dando all’apostolo una posa naturale. E non ha fallito. Il cingolo cade morbido tra le dita di Tommaso, che diventa il perno intorno al quale si dispone il gruppo degli apostoli. La presenza del sarcofago vuoto deriva direttamente dall’affresco di Pinturicchio, ma Raffaello decide di muovere la cassa di marmo per trasformarla nell’oggetto che spezza completamente la simmetria della scena. Come con quel cavallo nel disegno senese, Sanzio sente la necessità di penetrare nello spazio in modo profondo. Il nostro sguardo si concentra sullo spigolo del sarcofago in primo piano, che separa nettamente il lato illuminato da quello in ombra.
Questa scelta diventa ancora più sorprendente quando, seguendo gli occhi di Tommaso, volgiamo l’attenzione a ciò che accade sopra le nuvole. Non ci sono alberi o città sullo sfondo che distraggono la vista. Raffaello ha limitato all’essenziale il paesaggio. La striscia di cielo tra gli apostoli e l’incoronazione serve ad attenuare lo spiazzamento che ci coglie quando osserviamo il gesto di Gesù. Qui Sanzio dipinge la scena utilizzando uno sguardo frontale: non scorgiamo alcun rapporto spaziale con la zona inferiore. Le nuvole aiutano l’artista a costruire una dimensione totalmente diversa. Uno stratagemma che sfrutterà in diverse altre occasioni, utile a separare ciò che accade sulla Terra dal paradiso. Il movimento accorto e gentile di Cristo si specchia nella posa umile e composta della Vergine. Fin qui, nulla di strano. Ciò che invece lascia sbalorditi è il repertorio di espressioni e gesti che Raffaello attribuisce agli angeli che assistono alla scena. Perugino e Pinturicchio si sarebbero accontentati di elaborare un solo cartone che avrebbero utilizzato per entrambi i lati, rovesciando semplicemente la disposizione dei personaggi.
Lui, invece, considera quelle figure minori il terreno su cui poter sperimentare soluzioni nuove. Alle spalle di Gesù, l’angelo musico cerca di distrarre un cherubino completamente assorto nell’ammirazione della scena, mentre ai suoi piedi un putto si mette la mano sull’orecchio, per non essere assordato dalla musica celeste che accompagna l’evento. Per esaltare il volo degli angeli, ai due in primo piano l’aria non sposta soltanto le vesti, gonfie di vento, ma anche le ciocche di capelli che scoprono le guance paonazze. Negli anni, Sanzio diventerà un vero esperto nell’invenzione di questi dettagli curiosi, che mirano ad alleggerire la solennità del racconto e a rendere i fatti miracolosi più familiari e quotidiani.
L’Incoronazione riscuote un tale successo che le monache di Monteluce, sempre a Perugia, si rivolgono immediatamente a lui perché realizzi un quadro per il loro altare maggiore, con lo stesso soggetto. Raffaello riesce a contrattare il medesimo compenso ottenuto per la Pala Oddi, ben centosettantasette ducati, cinque volte più della Pala di san Nicola da Tolentino. Quasi per giustificare la cifra enorme, nell’accordo le sorelle sottolineano come Sanzio sia «el maestro migliore li fusse consigliato da più citadini et ancho da li nostri venerandi patri, li quali avevano vedute le opere suoi».
Raffaello è ormai avviato verso una luminosa carriera, ma il suo comportamento è destinato a stupirci ancora. Sebbene si impegni a consegnare la pala di Monteluce entro due anni, incasserà l’anticipo ma non metterà mano all’opera, che sarà eseguita dai suoi allievi solo nel 1525.
Dopo i successi perugini, sente che può aspirare già a qualcosa di più. E sa bene che non è l’Umbria il contesto che può permettergli di migliorare. Deve entrare in contatto con l’ambiente più all’avanguardia del momento, dove stanno accadendo novità incredibili: deve andare a Firenze.