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Un maestro bambino
AL primo piano di una casa borghese nel centro storico di Urbino si apre una piccola stanza, che custodisce un segreto struggente.
Soffitto basso, piuttosto defilata rispetto agli altri ambienti e scarsamente illuminata, è il luogo più intimo di questa dimora. Lungo una delle pareti sembra aprirsi una nicchia, dove compare il ritratto di una mamma che tiene un bambino di pochi mesi dolcemente addormentato in grembo, la testa abbandonata sulle piccole mani paffute (vedi). La donna siede su una panca e impegna l’attesa del risveglio di suo figlio con la lettura di un libro, aperto su un leggio che pare sospeso nel vuoto. È una visione che ispira grande serenità ed eleganza. I capelli della madre sono raccolti sulla nuca, delicatamente protetti da un velo trasparente. Veste un mantello blu scuro, che si apre a mostrare una tunica rossa. I colori degli abiti inducono il sospetto che ci troviamo di fronte alla Madonna, colta in un istante di quotidiana intimità, sola nella sua camera con Gesù bambino tra le braccia.
Giovanni Santi, Madonna con il bambino, affresco, Casa di Raffaello, Urbino.© 2015. Foto Scala, Firenze.
Si tratta di un’immagine di profonda umanità, che ci aspetteremmo di ammirare sull’altare di una cappella. Ma siamo all’interno di una casa privata piuttosto comune. E nessuno dei due personaggi indossa l’aureola. Chi li ha dipinti non ha esaltato la loro santità, ma ha voluto descrivere la normalità di un momento. Forse perché in quella stanza spesso si poteva assistere alla stessa scena. Forse perché quella donna non è la Vergine con il bambino, ma una giovane madre realmente esistita.
Questo affresco si trova al primo piano della Casa di Raffaello e quella stanza sarebbe la camera da letto dove il pittore nacque, nel 1483. Nessuno può ancora dimostrarlo, come molti dei fatti che riguardano i suoi primi vent’anni di vita, ma l’idea che ci troviamo di fronte al ritratto di Sanzio appena nato e di sua madre è piuttosto romantica. Commovente, se pensiamo che la donna morirà quando suo figlio avrà soltanto otto anni. A raccontare il rapporto tra il pittore e la mamma rimane soltanto questa immagine. Di lei sappiamo ben poco: si chiamava Magia, come una ninfa dei boschi, il padre di Raffaello l’aveva chiesta in sposa alla famiglia Ciarla perché elegante, ben educata e capace di stargli accanto con discrezione e complicità.
Sarebbe stato lui a dipingere quella scena, come atto d’amore nei confronti della moglie, in un momento di gioia per la paternità che lo aveva sorpreso a cinquant’anni. Solo così si spiega la presenza di un affresco tanto prezioso in una casa che non ha nessuno dei caratteri di una dimora signorile: non soffitti alti, non scaloni sontuosi e nemmeno una vista particolarmente attraente. Eppure ospita una delle opere più raffinate del Quattrocento marchigiano, che nel corso dei secoli è stata risparmiata dalle numerose ristrutturazioni che hanno sbiancato le altre pareti.
Nel 1460, Giovanni Santi aveva acquistato quel palazzetto perché sembrava rispondere perfettamente alle sue esigenze. Al primo piano sarebbe andato ad abitare con la famiglia, mentre a livello della strada, al di là del piccolo cortile interno, avrebbe aperto la sua bottega. Ancora oggi sotto il portico è possibile scorgere una colonnina sulla quale è scavato il mortaio dove si preparavano i colori, strumento dell’attività della sua impresa a conduzione famigliare, che poteva però vantare il cliente più illustre della città: il duca Federico da Montefeltro. Non a caso, l’edificio si trova a due passi da Palazzo Ducale.
È qui che si snodano le vicende più significative della carriera di Giovanni, che non esita a portarsi dietro il piccolo Raffaello quando si reca a palazzo. Non sappiamo praticamente nulla del rapporto tra Sanzio e il padre, ma non è difficile immaginare quanti stimoli il giovane pittore abbia potuto ricevere in una situazione così straordinaria.
Una città in forma di palazzo
Prima di trasformarsi in un mecenate colto e generoso, Federico è un condottiero feroce e tutto d’un pezzo. È talmente fermo e coraggioso che nascono leggende incredibili sul suo conto. Pare si facesse ritrarre sempre di profilo per nascondere il lato destro del viso, deformato da un incidente. Durante un torneo era stato colpito da un cavaliere maldestro, che gli aveva provocato un danno irreversibile all’occhio e uno sfregio mostruoso. Senza scomporsi troppo, per riuscire a mantenere un campo visivo ampio, si racconta che il duca si fosse fatto segare una parte del naso aquilino, che gli ostruiva la vista solo da quell’occhio. La prima operazione di chirurgia plastica della storia.
Con la stessa determinazione, Federico costruisce una delle corti più fiorenti e raffinate dell’epoca, ricorrendo ad artisti di fama internazionale: per innalzare la sua reggia fa giungere dalla Dalmazia l’architetto Luciano Laurana e da Siena Francesco di Giorgio Martini, che arricchirà il ducato di castelli e rocche inespugnabili. Per immortalare la duchessa Battista Sforza chiama Piero della Francesca da Sansepolcro, per i ritratti ufficiali di famiglia si affida allo spagnolo Pedro Berruguete, mentre commissiona la pala d’altare di una delle chiese più preziose di Urbino al pittore fiammingo Giusto di Gand, dopo avere registrato l’abbandono dell’opera da parte di Paolo Uccello. Sono loro i maestri di cui si possono ancora ammirare i capolavori nel Palazzo Ducale di Urbino, che irradia il suo equilibrio e il suo prestigio sull’intera cittadina.
La dimora dei Montefeltro è lo scrigno di una nuova visione del mondo. Nel cuore dell’edificio nasce il celebre studiolo, dove il duca colloca i ritratti degli Uomini illustri del passato e del presente. Qui la filosofia greca e la letteratura latina incontrano la religione cristiana: Platone e Aristotele convivono con san Girolamo e sant’Agostino, Omero e Cicerone dialogano con Mosè e san Tommaso d’Aquino. È la celebrazione del neoplatonismo, il movimento filosofico che in quegli anni cerca di fondere la tradizione classica con quella medievale, esaltando la centralità dell’uomo. Nelle tarsie che aprono finti sportelli sulle pareti in legno dello stanzino compaiono gli oggetti idealmente conservati dal duca in questo ambiente privato: armature, strumenti musicali, libri e attrezzi. Il modo più elegante e immaginifico di celebrare la sua cultura, formata in anni di studio a Mantova con il celebre umanista Vittorino da Feltre.
In questo luminoso circolo di studiosi e artisti, Giovanni Santi pare muoversi a proprio agio. Non è il pittore locale che deve accontentarsi di commesse di minore importanza, ma un intellettuale a tutto tondo. Passa con nonchalance dall’allestimento di uno spettacolo a tema mitologico alla realizzazione di quadri religiosi, in cui disegna con grande precisione e accuratezza santi e Madonne dalle pose molto controllate. Matura una profonda conoscenza dell’ambiente artistico del suo tempo, che descrive in una famosa Cronaca rimata, nella quale intreccia la celebrazione delle imprese del duca con un omaggio ai più illustri maestri dell’epoca. Giovanni ha le idee molto chiare. Nel suo testo, apprezza il gusto per l’antico di Andrea Mantegna, esalta la modernità della scuola fiamminga di Jan van Eyck, per poi passare in rassegna i maggiori pittori del Quattrocento, da Pisanello a Gentile da Fabriano, attraverso Beato Angelico e Masaccio, fino ai suoi contemporanei Antonello da Messina, Giovanni Bellini e Leonardo da Vinci.
È curioso pensare che Vasari liquidi un uomo così colto e raffinato con parole davvero poco lusinghiere: «Pittore non molto eccellente, anzi non pur mediocre in questa arte». Un giudizio forse troppo severo, che il biografo cerca di smussare in maniera abbastanza maldestra. «Egli era uomo di bonissimo ingegno e dotato di spirito e da saper meglio indirizzare i figliuoli per la buona via, che per sua mala fortuna non avevano saputo quelli che nella sua gioventù lo dovevano aiutare.» Insomma, un uomo generoso ma privo di talento.
Non la pensano allo stesso modo gli studiosi che negli ultimi anni hanno tentato di rivalutare la sua figura, cercando di capire quanto Raffaello abbia ereditato della tecnica e dello stile del padre.
La questione è piuttosto difficile da affrontare, perché, oltre all’assenza di documenti che raccontino la loro relazione, a complicare le cose si è messo anche il destino.
Giovanni Santi muore nel 1494, quando Raffaello ha solo undici anni. Non sopravvive a una brutta malattia contratta a Mantova, dove era stato invitato un anno prima da Isabella d’Este per dipingere il suo ritratto. L’aria malsana della città, circondata da laghi paludosi, gli è fatale.
Nessuno crede alle parole di Vasari, quando prova a convincerci che Giovanni «facevasi aiutare da Rafaello, il quale, ancor che fanciulletto, faceva il più et il meglio che e’ sapeva». Per quanto precoce possa essere stato il suo talento, nel Quattrocento era molto raro che si iniziasse l’apprendistato in bottega prima degli undici anni. Poteva succedere che una famiglia povera affidasse un ragazzino a un pittore come garzone perché portasse a casa un po’ di denaro, ma certo nessuno metteva mano al carboncino o al pennello a quell’età. Nemmeno Raffaello.
Esiste un foglio nel quale compare il suo volto dolce e sereno di fanciullo, dai lineamenti delicati: qualcuno azzarda l’ipotesi che si tratti di un autoritratto allo specchio. Ma è molto più probabile che sia stato un collaboratore del padre a fissare la sua espressione tenera e ingenua. In realtà, oggi non è possibile riconoscere la mano di Sanzio in nessuna delle opere di Giovanni. Eppure, crescere in un contesto così stimolante non può avere lasciato indifferente quel bambino.
CAPOLAVORI A PORTATA DI MANO
Oltre al famoso studiolo, la collezione di Federico da Montefeltro vanta una serie di dipinti che riaffioreranno a più riprese nella memoria visiva di Raffaello. Alto poco più di un metro, a dieci anni si sarà sentito risucchiare dalla maestà della Madonna dell’uovo di Piero della Francesca, una delle opere più rivoluzionarie del Quattrocento. Quell’uovo sospeso all’interno di una conchiglia, che richiama la forma del viso della Madonna, si sarebbe fissato negli occhi del pittore, che modellerà su quella figura molti dei suoi futuri volti femminili. L’intensità degli sguardi dei personaggi, la loro disposizione a semicerchio nella nicchia, ma soprattutto la luce tersa e limpida che li inonda, ispireranno gran parte delle sacre conversazioni messe in scena da Raffaello.
Trotterellando allegro nei maestosi saloni di Palazzo Ducale, il ragazzino avrà incontrato uno dei quadri più enigmatici della storia dell’arte: la Città ideale, nella sua versione forse più complessa. Un pittore tuttora ignoto aveva costruito su una tavola orizzontale uno spazio dalla prospettiva centrale perfetta, dominata da un tempio a pianta circolare, sul quale sembrano convergere i disegni geometrici tracciati sul pavimento da lastre di marmo bianche e blu. Nel giro di pochi anni, Raffaello si servirà di questo esempio per ambientare una delle scene più commoventi dei suoi esordi, lo Sposalizio della Vergine.
Dipinto su una piccola tavola, gli sarà sembrato algido e assente il profilo pallido di una donna che osserva il suo consorte di fronte a un paesaggio rifinito nei minimi dettagli. È Battista Sforza, la moglie del duca, con un’acconciatura meravigliosa e lo sguardo anonimo di una persona ormai passata a miglior vita. Un ritratto che Federico aveva commissionato a Piero della Francesca per fissare in eterno il ricordo del suo volto, che suggerirà a Sanzio certe espressioni misteriose.
In occasione della processione del Corpus Domini, il bambino si sarà trovato tra la folla ad ammirare la pala di Giusto di Gand, in cui Gesù celebra il rito dell’eucarestia dopo l’Ultima Cena, una scena così diversa da quanto vedeva uscire dalla bottega del padre, eppure così affascinante nella precisione dei gesti e delle espressioni.
È tra questi capolavori che maturano la sensibilità di Raffaello, il suo senso della prospettiva e, soprattutto, il desiderio di apprendere e carpire dai maestri del suo tempo idee e soluzioni da riproporre nelle proprie opere. Un «vizio» che Sanzio potrà coltivare fin da piccolissimo, immerso nelle splendide opere che arricchiscono la sua città.
Una bottega a conduzione famigliare
Scomparso anche il papà nel 1494, la serena infanzia di Raffaello rischia di precipitare in una tragica adolescenza. Dopo la morte di Magia, Giovanni si era risposato con Bernardina di Pietro Parte, che subito dopo il funerale del marito non perderà tempo e porterà il figliastro di fronte a un giudice per far valere il proprio diritto all’eredità. Una brutta storia, che segnerà per sempre il ragazzo, d’ora in avanti refrattario alla costituzione di una famiglia. A difendere Raffaello c’è lo zio Bartolomeo, che riesce a tenerlo lontano dalle questioni legali: Sanzio compare soltanto nella prima delle tre udienze che regoleranno i rapporti con Bernardina. È troppo impegnato a prendere le redini della bottega del padre.
Forse è proprio l’assenza dei genitori a spingerlo quasi all’improvviso tra le tavole, i mortai, le colle e il viavai dell’attività che fino ad allora aveva solo potuto osservare, senza sporcarsi davvero le mani. A partire dal 1495 inizia il vero apprendistato, nel quale può finalmente dare prova delle sue doti naturali. Sono anni bui per noi, privi di notizie e ricchi di fantasiose congetture, ma possiamo facilmente immaginarlo alle prese con i disegni e la preparazione delle pale che i collaboratori del padre continuano a far uscire da quel palazzetto nel cuore di Urbino. Uno tra tutti, Evangelista da Pian di Meleto, un pittore non particolarmente originale, piuttosto ruvido e tradizionalista, ma talmente generoso e riconoscente nei confronti di Giovanni Santi da prendere il fanciullo sotto la sua ala. È lui a gestire il passaggio delle consegne e dei saperi, svelando a Raffaello i segreti della buona pittura.
Certo, il ragazzo possiede un talento strepitoso.
Non si spiegherebbe altrimenti come sia possibile che nel 1500, a soli diciassette anni, possa già firmare il suo primo contratto da «magister», titolo riservato a chi guida una propria bottega.
Il giovane ha già cominciato a bruciare le tappe.
Uno scherzo divino
La commessa non arriva da un cliente marchigiano, bensì da Andrea Baronci, un commerciante di lana piuttosto intraprendente a Città di Castello. All’epoca, la cittadina faceva parte dei territori sotto l’influenza dei Montefeltro ed è molto probabile che Baronci fosse entrato in contatto con la bottega Santi in una delle frequenti visite a Urbino, mentre svolgeva l’incarico di priore della sua città. Di fronte al talento di Raffaello, non esita a scommettere su quel pittore pressoché ancora sconosciuto. Il mercante è solo il primo di una serie di incontri fortunati con uomini influenti che rimarranno affascinati dai modi e dalle potenzialità del giovane artista, offrendogli l’opportunità di misurarsi con opere che all’apparenza sembrano più grandi di lui.
Accanto al nome di Sanzio, nel contratto che gli affida la pala con il Trionfo di san Nicola da Tolentino sul diavolo compare anche quello di Evangelista. Non ancora maggiorenne, seppure dotato di una mano eccezionale, il ragazzo ha comunque bisogno di un garante agli occhi dei clienti. L’accordo prevede un compenso di trentatré ducati, da versare alla bottega in tre rate: la prima per favorire l’acquisto dei materiali e le altre due nel corso dello svolgimento del lavoro. La cifra non è alta per un’opera di quelle dimensioni, eppure il prestigio dell’impresa induce a pensare che dopo la morte di Giovanni l’atelier Santi non abbia mai smesso di operare: finalmente è giunta l’occasione per dimostrare quanto siano ancora competitivi sul mercato. Grazie al genio di Raffaello, le loro quotazioni saranno destinate a risalire velocemente.
Lo zio Bartolomeo Santi capisce presto di avere tra le mani un pittore fuori del comune, su cui investire per non perdere la notorietà guadagnata da suo fratello. La tutela del ragazzo si traduce dunque in un ottimo affare, sia per i parenti sia per i nuovi clienti. Per Baronci, vale la pena correre il rischio di affidarsi a una mano fresca e audace, perché protetta da un gruppo di lavoro che gli impedirà di commettere gravi errori. Raffaello non può sperare in una situazione migliore per esordire. Malgrado la presenza di Evangelista in tutti i documenti relativi a quest’opera, sono in molti ad attribuire al pittore quarantenne un ruolo davvero marginale nella sua esecuzione. Il «magister» nei documenti è soltanto il giovane Sanzio. Il suo nome compare scritto sempre al primo posto. La Pala Baronci è frutto della sua invenzione.
Un disegno oggi conservato a Lille (vedi) conferma che Raffaello ha studiato la composizione della scena nei minimi dettagli, servendosi dei suoi garzoni per definire le pose dei personaggi. Un metodo che userà sempre lungo tutta la sua carriera, muovendosi con molta libertà tra appunti presi dal vero, invenzioni estemporanee e dettagli raccolti da altre immagini, spesso realizzate da artisti rivali.
In questo primo capolavoro, la figura di Dio (vedi figura 1 nell’inserto), in alto al centro, deriva dall’abbozzo di un giovane ritratto sul foglio, con una corona in mano. C’è chi sostiene che quella corona sia la stessa utilizzata qualche anno prima dal padre in un affresco in quel di Cagli: notizia che apre una finestra curiosa sulla quotidianità del lavoro nella bottega Santi. All’interno dell’officina è a disposizione una serie di accessori che all’occorrenza decorano ambienti, vestono figure e vengono messi in mano ai personaggi. In questa figura, Raffaello è interessato soprattutto a trovare la posizione giusta delle mani, che sfiorano appena l’oggetto, e all’inclinazione della testa, dolce e soave come si addice a una divinità, ma nel disegno si sofferma anche sulle gambe del ragazzo, che colloca all’interno della mandorla dove comparirà Dio Padre. Nella versione definitiva cambierà taglio, perché la maggior parte del corpo dell’Altissimo verrà coperta da un abito ampio, dalle pieghe profonde. A ben guardare, la prima posa offre a Raffaello l’occasione di mettere su un piccolo scherzo. Una goliardata tra ragazzi, a quanto pare.
Raffaello Sanzio, studio per la Pala di san Nicola da Tolentino (Pala Baronci), 1500-1501, gessetto nero, cm 40,9x26,5, Musée des Beaux-Arts, Lille.
Tra le gambe del garzone si nota un’erezione. Particolare inutile e licenzioso, che la dice lunga sull’atmosfera giocosa e allegra in cui si lavora in quella bottega di Urbino. Un clima leggero e un po’ spaccone che Sanzio conserverà sempre tra i suoi collaboratori.
In fondo, questo prezioso disegno serve semplicemente a definire la posizione delle figure e i loro atteggiamenti: tutti i dettagli dei corpi saranno completamente trasformati nella versione definitiva, che conosciamo soltanto grazie a copie realizzate nei secoli successivi.
La struttura di fondo rimarrà identica al primo studio su carta, almeno da quello che possiamo intuire dai frammenti sopravvissuti al terremoto del 1789, che ha distrutto la chiesa di Sant’Agostino e compromesso l’integrità della pala. Giunta nelle mani di Papa Pio VI, il Pontefice decide di smembrarla e conservarne le parti rimaste intatte. Oggi, quelle tessere di un puzzle che nessuno potrà mai più ricomporre sono utili a capire quali siano i modelli a cui Raffaello e i suoi compagni si rifacevano in quel periodo. Di Giovanni Santi resta senza dubbio l’attenzione al dettaglio di ogni piega e la capacità di costruire figure solenni, anche se all’apparenza dimesse. Ma l’espressione di Dio Padre lascia interdetti. La sua barba, perfettamente organizzata in due piccoli vortici, nasconde una bocca curiosa, che accenna a un certo disappunto. Il Signore sta per incoronare un giovane beato che ha sconfitto Satana, disteso ai suoi piedi. Il suo volto non comunica però soddisfazione e onore, bensì disgusto per l’angelo nero che è stato battuto.
Raffaello ha appena iniziato il suo percorso alla scoperta di emozioni avvincenti e inaspettate, che possano rinnovare in modo discreto la tradizione consolidata dai grandi maestri del suo tempo. Il giovane pittore dimostra fin dai primi passi una straordinaria capacità di immedesimarsi nella psicologia dei suoi personaggi, che riesce a raccontare con grande scioltezza e libertà sempre maggiore. In sé, questo dipinto non ha nulla di rivoluzionario: è una composizione perfettamente simmetrica in cui l’artista rispetta la gerarchia dei protagonisti. Subito sotto l’Altissimo, anche la Madonna e sant’Agostino porgono una corona, mentre due angeli in piedi assistono Nicola nella sua impresa. Tutto si svolge in assoluta armonia, ma il volto di Dio costituisce la prova di quell’attenzione alla realtà che Sanzio farà germogliare di opera in opera.
Lo strepitoso successo di questa pala aprirà a Raffaello le porte dei più importanti centri tra Umbria, Toscana e Marche. La sua carriera non poteva prendere il via in un modo migliore.