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Ondine in America Parte seconda, 1952
Julie aveva compiuto quindici anni e, grazie al successo del ristorante, i genitori l’avevano iscritta a un ottimo liceo privato femminile. La famigliola aveva lasciato da tempo il monolocale per affittare una bella villetta vittoriana, con tanto di veranda al pianterreno, in un elegante quartiere sul mare, il Sans Souci, dove i cigni scivolavano muti e maestosi lungo i canali, seguiti dai loro anatroccoli, in attesa che i passanti lanciassero in acqua qualche briciola di pane.
D’estate, nel giorno di chiusura del ristorante, Luc portava moglie e figlia in barca fino a Glen Island Park, una lussuosa stazione balneare circondata da ville ottocentesche, con un porticato e un casinò. Si fermavano sulla spiaggia a mezzaluna per un picnic e sguazzavano nelle onde del Long Island Sound fino al tramonto. Poi sedevano sull’argine ad ascoltare la musica dell’orchestra che si esibiva al casinò, e madre e figlia scrutavano gli abiti da sera delle signore.
Per il trentatreesimo compleanno di Ondine, Luc la sorprese prenotando un tavolo per due al casinò. Dopo la cena, a base di aragosta, riso allo zafferano e sogliola amandine, salirono nella sala da ballo al primo piano e uscirono sulla terrazza a contemplare il mare e la luna dorata che si specchiava nell’acqua scura.
«Vedi? Le nostre stelle brillano come un tempo» disse Luc, indicandole e prendendo Ondine tra le braccia. Con la guancia appoggiata alla sua, lei restò ad ascoltare la sonata Chiaro di luna. Poi, canticchiando il testo sottovoce, ballarono sulle note di Walkin’ My Baby Back Home, uno dei loro swing preferiti.
«Chi ti ha insegnato quei passi?» domandò Luc con una punta di gelosia, quando Ondine sperimentò una nuova combinazione.
«Julie» rispose lei. «Adesso le ragazze ballano in modo un po’ diverso rispetto a noi.»
«Un giorno la porteremo in Francia» promise Luc. «I tuoi genitori devono conoscerla.»
Era un loro sogno, quasi un progetto. I signori Belange non avevano mai risposto alle lettere di Ondine, ma Julie era la loro unica nipote, e Luc era certo che l’avrebbero accolta a braccia aperte.
Era una ragazza graziosa e la corporatura minuta la faceva sembrare più giovane della sua età. Come altri figli di immigrati, era cresciuta bilingue – tanto da pensare e sognare indifferentemente in inglese o in francese – e sicura nell’affetto dei genitori. Al tempo stesso, però, presentiva che loro le nascondevano qualcosa: avevano segreti, assilli e preoccupazioni di cui non le facevano parola. Senz’altro doveva trattarsi di questioni di lavoro, anche se, considerato l’andamento del ristorante, lei non riusciva a immaginare quali. Ma, a prescindere dal motivo, nell’atmosfera di casa avvertiva l’eco di un’angoscia inquietante e inconfessata.
A scuola, invece, Julie aveva cominciato poco a poco a superare la sua timidezza, facendosi delle amiche e acquisendo sicurezza. Il suo comportamento era diventato più simile a quello delle sue coetanee americane, di cui imitava l’ottimistica esuberanza. E a Ondine si scaldava il cuore nel sentirla chiacchierare allegramente quando tornava da scuola insieme alle compagne, tutte vestite allo stesso modo, con i blazer di lana e le gonne plissettate della divisa, le braccia colme di libri e i capelli raccolti in un nastro colorato o fermagli coperti di strass.
Una domenica pomeriggio, mentre Luc era a giocare a carte e Julie sfogliava riviste di moda in giardino con le amiche, un uomo elegante si presentò sul vialetto, con un mazzo di fiori per la padrona di casa e una scatola di cioccolatini per la figlia. Spandendo intorno a sé una nube di acqua di colonia, si chinò a fare un buffetto sulla guancia di Julie; poi, con aria untuosa e formale, andò a cercare sua madre.
Quando se ne fu andato, Julie chiese a Ondine: «Chi era quel signore tanto gentile?».
«Non era un signore» rispose lei, secca. «E non voglio mai più sentirti parlare di lui. Se ti capitasse di rivederlo, avverti subito tuo padre.» Il visitatore inatteso l’aveva colta alla sprovvista, entrando dall’ingresso di servizio e attraversando in silenzio tutta la casa fino a comparire sulla porta del suo salotto, come un fantasma. Parlava in tono così sommesso che all’inizio Ondine si era illusa di aver capito male. E a Julie non avrebbe mai riferito le sue parole: «Carina la ragazza. Se volete vederla adulta, pagherete ciò che i miei uomini chiedono a vostro marito. In caso contrario, le capiterà un terribile incidente, e le sue ossa finiranno sparpagliate ai quattro angoli della città».
«Manda a casa le tue amiche, poi torna subito qui» ordinò tra i denti Ondine alla figlia.
«Non posso scacciarle!» obiettò la ragazza.
«Trova una scusa plausibile e obbedisci» ribatté sua madre, con una severità insolita. Con un sospiro rassegnato, Julie andò a parlare con le amiche. Appena rientrò in casa, Ondine chiuse a chiave tutte le porte e sbarrò le persiane.
Al suo ritorno, raggiante di sicurezza, Luc annunciò: «Ho trovato un nuovo fornitore per il pesce! È identico all’uomo per cui lavoravo a Juan-les-Pins. Onesto, diretto, una bravissima persona. Di lui possiamo fidarci». Ondine riuscì a spremersi un sorriso incoraggiante prima di parlargli dell’intruso. Luc capì subito di chi si trattava: era il boss degli uomini che gli estorcevano il pizzo.
Andò su tutte le furie. «Quel bastardo si è introdotto in casa per minacciare nostra figlia?» ruggì. «Ha superato i limiti. E per Dio, gliela farò pagare!» Negli occhi gli sfolgorava la stessa luce cupa e minacciosa con cui Ondine l’aveva visto guardare Monsieur Renard, e che negli ultimi tempi sembrava accendersi sempre più spesso nel suo sguardo. Luc non perdeva facilmente le staffe, ma quando accadeva era capace di gesti inconsulti. Finora, però, lei era sempre riuscita a farlo ragionare.
«Che cosa vuole esattamente da noi?» gli domandò, sottovoce, mentre entravano in cucina.
Luc scosse la testa, ancora con quella luce torbida negli occhi. «È proprio questo il problema: ogni volta che accetto di pagare, lui pretende di più. Non sarà contento finché non ci avrà tolto tutto. È proprietario di una catena di pessime tavole calde, e i ristoranti come il nostro lo fanno sfigurare. Pretendeva di rilevare il nostro bistrot per una cifra irrisoria.»
«Non me l’avevi detto» lo rimproverò lei. Le era sempre più difficile distinguere tra Luc e i suoi nemici: l’uno e gli altri erano uomini duri.
Lui si strinse nelle spalle e sedette al tavolo. «Non volevo farti preoccupare e credevo che stesse solo facendo la voce grossa. Ma adesso che ha capito di non poterci comprare, deve aver deciso di farci fallire. Be’, ci sono pesci più grossi di lui, nel Bronx. Proprio oggi ne ho conosciuto uno che potrebbe proteggerci dagli squaletti locali. Quand’è troppo è troppo. Gli parlerò stasera stessa.»
Ondine gli servì la cena e lui cominciò a mangiare con gesti lenti e metodici, guardando l’acqua tranquilla del Long Island Sound oltre la finestra. «Che cos’hai in mente?» gli domandò lei, sedendosi al suo fianco.
«Dovremo accettare questo boss del Bronx come “investitore” nell’attività» rispose lui, nel tono di chi dà voce a una decisione che ha preso da un pezzo. «È un uomo d’affari. Può presentarci fornitori migliori per tutto, salvo per il pesce. Di questo, come ho detto, mi sono già occupato io.»
Ondine gli posò una mano sul braccio. «Non uscire, stasera» gli disse, con urgenza. «Aspetta domattina. Si è più al sicuro alla luce del giorno.» Bastò la sua voce a distendere l’espressione contratta di Luc, e lui annuì. Quando andarono a letto, lei si strinse al suo corpo caldo e lui, sfinito dalla tensione, si addormentò subito. Ondine dormì un sonno agitato.
L’indomani mattina Luc uscì presto per accompagnare Julie a scuola e poi andare nel Bronx. Ondine si occupò da sola del servizio di pranzo, ma Luc non tornò in tempo per passare a prendere Julie, quindi ci andò lei stessa. Lui l’aveva avvertita che forse avrebbe fatto tardi.
«Oh, maman, tu e papà dovete smetterla di trattarmi come una bambina» si lagnò la ragazza. «È imbarazzante essere sempre scortata dai genitori davanti a tutte le mie compagne.»
Per non spaventarla, Ondine e Luc non le avevano spiegato la situazione, perciò lei rispose soltanto: «Chère fille, porta i tuoi libri a casa della signora O’Malley e resta a studiare da lei finché non verrò a prenderti». La signora O’Malley era una vicina gentile, sposata a un ex allenatore di baseball. A loro Ondine aveva riferito la minaccia di rapimento, e gli O’Malley avevano accettato di vigilare sulla ragazza mentre la madre era al lavoro. Avevano due figli maschi entrambi piuttosto attraenti, quindi Julie non sollevò obiezioni.
Poi Ondine tornò al ristorante. Entrando sentì squillare il telefono e corse a rispondere. Era il cameriere che in genere accompagnava suo marito a ritirare le consegne all’ingrosso, ma le parole che le disse quel giorno Ondine non le avrebbe più scordate. «Signora, mi dispiace tanto. C’è stato uno scontro, vicino alla stazione, con molti feriti. Ma Luc… Luc è morto.»
«È impossibile» rispose lei, brusca. «Non può essere lui. Deve trattarsi di un errore. Oggi era da tutt’altra parte. È andato… nel Bronx.»
«Lo so, ma poi si sono riuniti tutti qui, al deposito della stazione. Io non ero presente quand’è accaduto, ma ho parlato con i testimoni. Le bande rivali avrebbero dovuto trovare un accordo, invece la situazione è degenerata. Non so se i boss avessero già deciso di uccidere suo marito o se ci è andato di mezzo per caso.» L’aveva detto d’un fiato, come se avesse fretta di arrivare in fondo. «Secondo il coroner è stato… un colpo alla testa.»
«Sto arrivando. Voglio vederlo» ribatté Ondine, strappandosi il grembiule. Si aggrappava ancora alla speranza che si fossero sbagliati, come quando a Juan-les-Pins si erano convinti tutti che Luc fosse sparito per sempre.
«Meglio di no» rispose lui, con un tono talmente perentorio che lei si impietrì. «Qui tira aria cattiva, non è un posto adatto a una signora. Sembra incredibile, ma stanno cercando di liquidarlo come un incidente. Sostengono che a ferire gli uomini sia stato il crollo accidentale di una pila di pallet. E gli sbirri… be’, alcuni sono al soldo dei boss. Penso io a occuparmene. Se la polizia viene a interrogarvi, rispondete la verità: che voi non ne sapete niente.»
«Ma io devo vederlo!» gemette Ondine.
«Lo so. Ho già chiamato le pompe funebri. Lo stanno trasportando alla camera mortuaria.»
Il ricevitore le cadde dalle dita e atterrò di schianto sul pavimento. Ondine si appoggiò alla parete e si lasciò scivolare a terra. E il grido che le uscì dalla gola era così simile all’ululato di un animale che si tappò la bocca per paura di doverlo sentire di nuovo.
Con fare cerimonioso, l’impresario delle pompe funebri la accompagnò in una stanza semibuia dove, su un lettino di metallo, giaceva una sagoma coperta da un lenzuolo. In silenzio, l’assistente sollevò il drappo, rivelando la salma. Nel tentativo di renderlo presentabile, avevano tramutato Luc in un estraneo. I suoi bellissimi capelli erano intrisi di brillantina – un prodotto che lui non aveva mai usato – e anche la scriminatura era diversa, per coprire il punto in cui avevano dovuto tagliare le ciocche incrostate di sangue. L’espressione del volto, però, era stranamente serena, come se lui stesse solo aspettando l’arrivo di Ondine per svegliarsi.
«Luc» sussurrò lei, crollando su una sedia là accanto. «Non lasciarmi.» Non sapeva che fare. Davanti a un problema, il suo primo pensiero era sempre stato: Ne parlerò con Luc appena torna a casa. La sua mente non riusciva a rinunciare alla convinzione che anche questa volta ne sarebbero usciti insieme, infondendosi a vicenda la forza necessaria a superare l’ostacolo. A chi altri poteva raccontare quanto era accaduto in quel pomeriggio terribile, dopo la telefonata?
Come previsto dal cameriere, al ristorante si era davvero presentato un poliziotto, che però si era limitato a snocciolare con aria distratta le domande di rito. Quanti anni aveva Luc? Che lavoro faceva? Era cittadino americano? Lei aveva risposto come un automa. E quando lo sbirro se n’era andato, Ondine aveva continuato a muoversi come una sonnambula: aveva appeso il cartello di CHIUSO sulla vetrina, spento le luci, girato la chiave nella serratura.
Poi, di colpo, il pensiero di Julie l’aveva riscossa dalla trance ed era corsa a casa della signora O’Malley. Alla notizia la povera ragazza aveva avuto una crisi tale che avevano dovuto chiamare un medico per sedarla. Adesso dormiva, perciò Ondine era andata da sola alle pompe funebri.
Ora sedeva in quella stanza semibuia, stordita dal lutto accanto al cadavere di suo marito. Dal campanile di una chiesa vicina le arrivava il rintocco lento e lugubre delle campane. Prese la mano fredda di Luc tra le sue, e fu quel gelo a metterle di fronte la realtà: lui non c’era più. Lei stessa si sentiva come imprigionata dentro un blocco di ghiaccio. Eppure sarebbe voluta restare là in eterno, accanto a suo marito, in attesa che si risvegliasse, come l’eroe di un mito antico capace di vincere persino la morte.
Invece Luc continuava a dormire, così anche lei chiuse gli occhi, e ripensò alla lettera che le aveva scritto tanto tempo prima e nella quale, lontano da casa e malato di tifo, le aveva chiesto di riservargli un angolino di cuore dove la sua anima potesse riposare. «Sì, resta con me» sussurrò.
Però non pianse. Le lacrime le sembravano un lusso pericoloso. Se avesse ceduto, l’avrebbero annegata. Quando mia figlia sarà al sicuro, allora potrò piangere, si disse.
Il pensiero di Julie la richiamò al presente, costringendola ad alzarsi. Ma in quel momento l’impresario bussò piano alla porta: un visitatore insisteva per vederla. «Dice di chiamarsi Sal Miucci. Lo conoscete?»
«No» rispose Odine. Il nome però le suonava vagamente familiare.
Lui la aspettava all’ingresso di servizio. Era un ragazzo alto e stringeva un berretto tra le mani. «Potremmo parlare in privato?» domandò, indicando l’impresario con un cenno impercettibile della testa. «Fuori, magari?»
«Io resto nel mio ufficio, per qualsiasi evenienza» le disse l’impresario, in tono eloquente.
Ondine seguì lo sconosciuto nel parcheggio sul retro. «Mi chiamano Big Sal» esordì lui, rigirandosi il cappello tra le dita e rivolgendole uno sguardo desolato. «Forse suo marito le ha parlato di me. Ho una pescheria a Boston, ma consegno il mio pesce anche qui. Luc mi aveva chiesto di aiutarla se a lui fosse successo qualcosa.»
Ondine restò in silenzio, cercando di capire dal volto e dalla voce se era sincero o mentiva.
«Luc temeva che senza la sua protezione i gangster di qui avrebbero cercato di spaventarla, per farle accettare pretese che lui aveva sempre respinto» proseguì lo sconosciuto. «Diceva che lei e sua figlia non sareste più state al sicuro, qui… e aveva ragione. Perciò mi aveva incaricato di portarvi via. Diceva che avevate già concordato un piano d’emergenza.»
Finora Ondine era rimasta sulle sue, ma a quelle parole capì che l’uomo stava davvero dalla sua parte. Perché appena i gangster avevano cominciato a esigere il pizzo, Luc l’aveva fatta sedere in cucina e le aveva detto che dovevano preparare proprio quello: un piano d’emergenza.
Con uno sguardo risoluto l’aveva guardata dritta negli occhi, per accertarsi che lei lo ascoltasse con attenzione, e aveva detto: «Se dovesse succedermi qualcosa, prendi tutti i contanti – sai dove sono nascosti – e porta subito Julie via di qui. Mi hai sentito, Ondine? Senza perdere un attimo di tempo, nemmeno per prelevare il resto dei soldi in banca. Nascondi i contanti nella fodera del cappotto, metti lo stretto indispensabile in una valigia, e sparisci. Senza dire a nessuno dove sei diretta e senza guardarti indietro».
«C’è un modo semplice e discreto per lasciare la città» proseguì Sal. «Vi accompagnerò con la mia barca al porto di New York. Da là potrete prendere una nave per la Francia. Luc aveva detto che non avreste impiegato molto a prepararvi».
«Non posso lasciarlo» mormorò lei. D’un tratto si era accorta di tremare e non riusciva a smettere. Intrecciò con forza le dita per tenerle ferme.
«Se aspettiamo, c’è il rischio che rapiscano Julie per costringerla a cedere» insistette Sal. «Dite all’impresario che preferite la cremazione. Mi occuperò io di tutto e custodirò l’urna. Voi intanto pensate ai preparativi. Stanotte però non restate a casa vostra. Avete un vicino che possa ospitarvi? Bene. La mia barca salpa domattina all’alba.»
Ondine impartì all’impresario le istruzioni suggerite da Sal. Ma prima di andarsene tornò nella camera mortuaria a baciare un’ultima volta le labbra fredde di Luc. Guardandolo le sembrò di sentirgli dire: «Segui il piano».
Si affrettò fuori dalla porta. Al riparo del buio raggiunse il ristorante ed entrò dalla porta di servizio. Non osava accendere la luce, e comunque la cucina le era così familiare che avrebbe saputo muoversi anche a occhi chiusi. La dispensa del pane aveva un falso fondo, e lei ne estrasse un involto. Quando lo aprì, ci trovò molti più soldi dell’ultima volta che aveva controllato, appena pochi giorni prima.
«Luc ha svuotato il conto in banca per aiutarmi» sussurrò, con gli occhi colmi di lacrime. Erano tutti i loro risparmi. Scucì la fodera del cappotto, ci infilò le banconote, poi, sforzandosi di trattenere il tremito alle dita, cominciò a ricucirla.
Aveva quasi finito quando sentì un rumore di vetri infranti, e un boato nella sala. L’esplosione scosse il ristorante fino alle fondamenta, e d’istinto lei si gettò a terra. In un attimo fumo e fiamme cominciarono a propagarsi. Ondine aveva sentito parlare delle molotov usate dai gangster per appiccare incendi dolosi. Raggiunse carponi la porta di servizio, poi si rialzò e corse verso casa.
Il signor O’Malley aveva già insistito per ospitare lei e Julie. Ascoltò con aria truce il racconto di Ondine, poi disse che in casa sua erano al sicuro: i suoi figli avrebbero passato la notte facendo la guardia a turno, nel caso in cui qualche malintenzionato avesse cercato di avvicinarsi.
Ondine svegliò Julie prima dell’alba, e subito la ragazza cominciò a tempestarla di domande. La risposta di sua madre le tolse il fiato: «Ieri sera tuo padre è stato ucciso da una banda di criminali che voleva i suoi soldi. Non dovrai mai parlarne con nessuno. Qui non siamo più al sicuro. Avevo promesso a tuo padre di portarti in Francia».
Scioccata, Julie non ebbe la forza di piangere o protestare. Si limitò a restarle incollata, come se temesse che anche sua madre sarebbe svanita nel nulla se l’avesse persa di vista anche un solo istante. Mentre, in fretta e furia, si vestivano e preparavano il necessario, colse a stento le parole concitate con cui Ondine le spiegava che un pescatore sarebbe venuto a prenderle e le avrebbe accompagnate al porto, nascoste sul retro del suo furgone. A colpirla davvero fu lo sguardo lugubre con cui la salutarono i figli della signora O’Malley.
Ancora confusa dai sedativi, salì sul furgone e poi sul peschereccio. Mentre superavano le tre piccole isole al largo della costa di New Rochelle, a Ondine sembrò che il grido dei gabbiani le perforasse i timpani, e si premette le mani sulle orecchie finché Manhattan comparve alla vista. Al porto, un mozzo le tese due biglietti di terza classe, e indicò una nave vecchia e malconcia attraccata al molo. Con la mano che tremava lei pagò i biglietti, e l’uomo la accompagnò a bordo e fino a una piccola cabina. Julie li seguiva smarrita, trascinando i piedi. Un attimo dopo il suono luttuoso della sirena lacerò l’aria e la nave salpò alla volta della Francia.