20

Aurora si avvicinò alla postazione di Bruno, in commissariato. «Torno ora dal luogo del ritrovamento dell’auto di Gualtieri» annunciò. Era euforica, sembrava impaziente di parlare. «Forse è presto per dirlo, ma credo di aver trovato qualcosa.»

Bruno fece un ampio respiro. «Senti, Aurora, non devi dimostrare a me di essere brava. Io… sono l’ultima ruota del carro, qui dentro.»

«Non sto cercando di dimostrare niente» ribatté lei, contrariata. «Mi hai dato un’opportunità e ho cercato di sfruttarla. Ho pensato di coinvolgerti, di condividere le informazioni, tutto qui.»

«Lascia stare» la interruppe Bruno. «Comunque, non mi devi niente.»

Aurora spostò nervosamente una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Va tutto bene?»

«Mi hanno tolto dal caso» fu la risposta. «Almeno formalmente.»

«Che cosa?» sbottò Aurora.

«Piovani è fuori di sé» disse Bruno. «Ha saputo che ti ho informato sul ritrovamento dell’auto di Gualtieri.»

Aurora incrociò le braccia sul petto. «Tutto qui?»

Bruno si guardò intorno per un istante, poi riportò la sua attenzione sul computer. Dopo aver digitato qualcosa, disse: «Durante la conferenza stampa, Longhi se n’è uscito con certe insinuazioni sul tuo passato».

Aurora strinse i pugni. Piovani l’aveva avvertita che sarebbe stato solo questione di tempo prima che saltassero fuori i fascicoli su di lei, ma non si aspettava che accadesse così presto. «Che bastardo» disse tra i denti.

«Ora scusami, ma devo lavorare. Sto cercando di riordinare gli appunti per dare un senso alle dichiarazioni dei testimoni.»

«Non ti avevano estromesso dal caso?»

«Formalmente, sì.»

«Definisci “formalmente”.»

«Che farò le ragnatele dietro questa scrivania finché Piovani non avrà di nuovo bisogno di me.»

«Vado a parlare con lui» fece Aurora.

Bruno le sfiorò una mano. «È meglio di no. È già abbastanza incazzato.»

«Merda» sibilò Aurora.

Uscì dal commissariato e andò a sedersi di fronte all’entrata.

Qualche istante dopo fu raggiunta da Bruno.

Aurora si sforzò di ignorarlo. Era delusa, ma non dimenticava che l’unica persona a essersi fidata di lei era proprio Bruno. Si chiese per l’ennesima volta se avrebbe potuto fidarsi di lui.

Bruno si accese una sigaretta e aspirò una boccata di fumo.

Aurora lo guardò severa. «Non dovevi smettere?»

Bruno sorrise storto. «Questa è l’ultima, davvero.»

Aurora guardò l’orario sul display del cellulare. Aveva la sensazione che il tempo stesse accelerando, minuto dopo minuto. Era sicura che il soggetto N-I avesse strappato una pagina dal calendario perché era quello il tempo che avrebbe concesso loro per ritrovare Aprile: ventiquattro ore.

L’ultimatum si avvicinava sempre di più.

«Perché mi hai detto dell’auto di Gualtieri?» si decise a chiedere, dopo alcuni istanti.

«Perché sono convinto che Piovani si sbagli sul tuo conto» rispose Bruno. «Sei una brava poliziotta.»

«E allora perché mi sento impotente?»

«Non è colpa tua se Piovani crede che tu abbia soltanto una fervida immaginazione.»

«Vorrei fare qualcosa per salvare quella bambina… Sento che in quello scarabocchio sul calendario c’è la chiave di tutto, ma non ho idea da dove cominciare a cercare.»

«Stai facendo del tuo meglio.» Per un attimo, Bruno sembrò sul punto di aggiungere qualcosa. Ma non disse altro.

Lo sguardo di Aurora si perse verso il fondo della strada. Su un muro campeggiava una scritta fatta con la vernice spray. Era soltanto la dichiarazione di un amore adolescenziale, ma la mente la riportò all’interno della scena del delitto.

Tu non farai alcun male.

Quella frase le appariva come se fosse scritta su ogni muro della città.

Aurora scosse la testa e si coprì il volto con le mani.

«Vuoi ancora dirmi cosa hai scoperto?» chiese Bruno.

«No» rispose lei.

Seguirono alcuni secondi senza che nessuno dei due aggiungesse altro. Poi fu Bruno a rompere il silenzio. «Mi dispiace per come mi sono comportato, prima. Ma anch’io ho avuto la mia lavata di testa da parte di Piovani. Da quando Rossella è stata uccisa è diventato intrattabile, fatico persino a riconoscerlo. Sembra che qualcosa lo stia divorando dentro.»

«Lascia stare. E poi con me non ci dovresti neanche parlare.»

Bruno gettò la sigaretta in un tombino. «Sai, mi sento in colpa per quello che è successo in conferenza stampa. Se Longhi ti ha preso di mira è soltanto perché ti ha visto in mia compagnia.»

«Me lo diceva sempre, mia madre, di non frequentare cattive compagnie» scherzò Aurora.

«A me lo diceva sempre il mio tenente, in Iraq.»

«Non hai la faccia di uno che ascolta i buoni consigli.»

«Nemmeno tu» fece Bruno, rivolgendole uno sguardo intenso.

Aurora arrossì lievemente.

«Facciamo due passi?» le propose Bruno. Senza parlare, i due si misero a camminare per le vie della città. Oltrepassarono un arco medievale e si trovarono nella piazza, circondata da portici, che si apriva di fronte all’imponente facciata in marmo del duomo. Due aquile di pietra, su piedistalli ai lati dell’ingresso, avevano l’aria di due guardiani silenziosi.

Aurora si sedette sulle gradinate. «Ho dato un’occhiata alla macchina di Gualtieri» esordì.

Bruno fece un sorriso storto. «E…?»

«È buffo, ma… quando mi hai detto che l’avevano ritrovata, la prima cosa che ho pensato è che nel bagagliaio avremmo scoperto il suo cadavere.»

«Avrebbe avuto senso» ammise Bruno. «Se Carlo Gualtieri è stato davvero aggredito durante il turno di lavoro, nascondere il suo corpo nel bagagliaio e portarlo fuori città sarebbe stato un buon modo per prendere tempo e preparare la fuga.»

«Già. Ma non c’era nessun corpo nel bagagliaio. A quel punto, però, mi sono messa in testa che non è detto che non ci sia mai stato. Il killer avrebbe potuto chiuderlo lì dentro per poi buttarlo nel fiume. Di notte, con quella nebbia, avrebbe potuto agire indisturbato, lontano da sguardi indiscreti.»

«Sempre che Gualtieri non si sia buttato volontariamente» obiettò Bruno.

Aurora increspò le labbra. «In quel caso, avremmo dovuto trovare le sue orme sull’argine, e magari quelle della bambina» disse poi. «Il terreno è fangoso per via della forte nebbia di ieri notte, e se Gualtieri l’avesse trascinata fino all’acqua avrebbe lasciato molte tracce. Se davvero Aprile avesse visto il padre aggredire la madre avrebbe cercato di fuggire, avrebbe opposto resistenza, avrebbe lottato.»

«Gualtieri potrebbe averla tramortita.»

«Non rientra nel profilo di uno che uccide la moglie in preda a un raptus» puntualizzò Aurora. «Come tutto il resto, d’altronde.»

«Quindi?»

«C’erano diverse impronte sull’argine, ma è anche vero che sulla scena c’era un viavai incredibile di curiosi. E visto che la scientifica tardava ad arrivare, ci ho pensato io a fotografarle e misurarle. Poi ho fatto lo stesso con le suole delle scarpe di tutti i presenti.»

Bruno fece un sorriso storto. «Tu hai fatto… cosa?»

«Qualcuno doveva pur occuparsene» rispose Aurora. «Ho chiesto a tutti quanti di mettersi in fila e ho fotografato e misurato le suole delle scarpe di ognuno. Ci servirà per confrontarle con quelle che ho trovato sull’argine.»

«Ora capisco perché Piovani era furibondo» sogghignò Bruno.

«È andata bene, anche se un maresciallo dei carabinieri per poco non mi faceva portare via dai suoi uomini. Quando sono arrivati i tecnici della scientifica ho passato a loro tutto il materiale che avevo raccolto, compresi dei campioni di terreno che ho trovato nel bagagliaio e che potrebbero provenire dalle scarpe di Gualtieri.» Il corpo di Aurora fu percorso da un brivido di freddo, e lei si strinse nel soprabito. «È stato allora che un contadino che abita nei pressi dell’argine mi si è avvicinato» continuò. «Mi ha detto che un pick-up grigio ha fatto avanti e indietro più volte durante la mattinata di ieri. Non è una strada molto frequentata e la cosa gli è sembrata strana, anche perché non l’aveva mai visto prima. È sicuro che non appartenga a nessuno dei suoi vicini.»

«Un pick-up grigio, eh?» rifletté Bruno a voce alta. «Se è tutto quello che sappiamo, è un po’ poco per una ricerca nell’archivio della motorizzazione.»

Aurora alzò lo sguardo. Il cielo era incolore. Il sole sembrava assente, nascosto dalla foschia. «Forse ha ragione Piovani…» mormorò, scostando la ciocca ribelle dietro l’orecchio. «Forse mi sto solo ostinando a vedere le cose a modo mio, anche quando è tutto fin troppo chiaro.»

Bruno osservò la cicatrice. Sapeva del conflitto a fuoco in cui Aurora era rimasta ferita. Sapeva delle accuse da cui aveva dovuto difendersi. Quando il suo trasferimento era stato annunciato, non si parlava d’altro in commissariato.

«Mi piacerebbe sentire la tua versione dei fatti» disse. «Sulla sparatoria, intendo.»

Aurora gli lanciò un’occhiata di traverso. «Stai scherzando, vero?»

«Ti conosco da poco, ma mi sembra impossibile che proprio tu abbia dovuto affrontare un processo per negligenza in servizio.»

Aurora scosse la testa. «Preferisco non parlarne.»

«Come vuoi» ribatté Bruno. Poi diede un’occhiata all’orologio da polso. «Va be’, l’ora di pranzo è passata da un pezzo, ma ti andrebbe di mangiare qualcosa con me?»

Solo adesso Aurora si rese conto che il suo stomaco stava borbottando. Tuttavia, rifiutò l’invito di Bruno. «Preferisco tornare a casa» disse. «Ho bisogno di cambiarmi.»

I due si separarono, e per tutto il tragitto Aurora cercò di ignorare che le ore continuavano a scorrere inesorabili.

A un takeaway giapponese, gestito da una famiglia di cinesi, comprò del tempura, dei ravioli alla griglia e una bottiglia da mezzo litro d’acqua.

Entrata nella sua stanza si spogliò e, mentre riempiva la vasca, mangiò in fretta qualche boccone di verdure pastellate e bevve tutta la bottiglietta. Poi aprì l’applicazione musicale del cellulare e fece partire la sua playlist preferita.

Saggiò la temperatura dell’acqua con il piede e si immerse fino a scomparire sotto la superficie; riemerse mentre la voce di Leonard Cohen la avvolgeva con la sua Going home. Aurora appoggiò la schiena e chiuse gli occhi.

Going home without my sorrow, going home maybe tomorrow.

Canticchiando, si chiese se sarebbe mai tornata davvero a casa o se avrebbe dovuto accontentarsi, qui o altrove, di una stanza d’albergo. Avrebbe voluto spegnere la mente, ma non ci riusciva.

Si trovò a riflettere su Rossella Gualtieri. Prima che la sua morte diventasse materia di indagine, era stata una persona col suo bagaglio di esperienze e di aspettative. Era stata una madre.

A lungo, per Aurora, l’ipotesi di diventare madre si era scontrata con la sua esperienza personale. Ai tempi dell’università, la sua migliore amica – la sua unica amica, a dire il vero – era stata Cecilia, una ragazza la cui famiglia si era trasferita da Maratea per lavoro. Era stata la sua compagna di stanza allo studentato, un tipo solare e propositivo, sempre aperto a nuove amicizie. Per Aurora era normale passare intere nottate sui libri a preparare gli esami, mentre Cecilia preferiva le uscite con gli amici e gli aperitivi ai Murazzi.

Una mattina di febbraio, lo ricordava bene perché le sessioni d’esame erano in pieno svolgimento, al risveglio Aurora si era accorta che la sua compagna di stanza stava piangendo. Cecilia aveva scoperto di essere incinta e non sapeva cosa fare. Il suo ragazzo era disposto a prendersi le sue responsabilità, ma era lei che non si sentiva pronta.

Per rassicurarla, Aurora le aveva fatto un discorso appassionato. Le aveva detto che il figlio che stava crescendo dentro di lei era come un fiore pronto a sbocciare, che avrebbe portato gioia e colori nuovi nel suo mondo, che con la vicinanza delle persone che le volevano bene ce l’avrebbe fatta anche a terminare gli studi e che presto, nella sua nuova casa, avrebbe organizzato decine di feste alle quali avrebbe invitato tutti i suoi amici.

Cecilia aveva annuito, si era asciugata le lacrime con la manica del pigiama di flanella e alla fine l’aveva abbracciata forte. Il giorno dopo, però, aveva liberato la stanza.

Aurora non aveva saputo come fosse andata a finire fino a qualche anno più tardi, quando era già in servizio alla mobile. Alcuni colleghi della sezione antidroga avevano fatto degli arresti in un centro sociale e si era ritrovata davanti alla sua ex compagna di stanza.

L’aveva riconosciuta dagli occhi, chiari e rotondi, l’unico particolare del viso che non aveva perso luminosità; del resto sembrava molto più vecchia della sua età. In quell’occasione Cecilia le aveva raccontato che avrebbe voluto tenere il bambino, ma era stata convinta dalla madre a interrompere la gravidanza. Secondo la donna, lei non sarebbe stata in grado di prendersi cura del figlio. Questo evento l’aveva sconvolta al punto da trovare rifugio nell’eroina.

La droga aveva fatto a pezzi la sua vita, finché Cecilia si era unita a un gruppo di punk che giravano per le capitali europee, passando da un edificio occupato all’altro. In quegli anni aveva sempre coltivato la speranza, prima o poi, di ritornare a casa, a Maratea, magari ritrovare gli amici d’infanzia e ricominciare da capo.

Cecilia e Rossella erano due madri a cui erano stati portati via i figli, pur se in modo diverso. Ma se il trauma, per Cecilia, aveva spento i suoi colori, ciò che era accaduto a Rossella aveva tinto la sua casa di rosso sangue.

Aurora si scosse dalle sue riflessioni. La sensazione che il tempo stava scorrendo inesorabile non la abbandonava, era come un formicolio costante sulla pelle. Il termine dell’ultimatum del soggetto N-I si avvicinava sempre di più.

Uscì bruscamente dalla vasca. Dalla pila di vestiti ammucchiati sul letto prelevò un kimono di seta nero con un motivo floreale stampato sulla schiena e lo indossò. Poi prese il cellulare e aprì la galleria fotografica.

Servendosi della connessione wireless con la stampante, iniziò a stampare le foto delle orme che aveva scattato sull’argine. Le appese alla parete e cominciò a confrontarle con le immagini delle suole delle scarpe dei presenti sulla scena. Ogni volta che trovava un riscontro accantonava la foto finché appesa al muro ne rimase una sola.

Si avvicinò per guardarla attentamente. Dalla lunghezza dell’orma era chiaro che si trattasse di un piede maschile. Osservò il disegno della suola, sembrava un modello di scarpa piuttosto comune. La particolarità dell’impronta era che il bordo esterno era frastagliato, come se l’uomo che l’aveva lasciata stesse trascinando una gamba. L’orma era più profonda di tutte le altre, e questo poteva significare due cose: che la persona a cui apparteneva era sovrappeso oppure che stava trasportando qualcosa di pesante.

Come una bambina, pensò Aurora.

Colpi alla porta.

Aurora sobbalzò.

Con cautela si avvicinò alla porta, poi chiese: «Chi è?».

«Bruno.»

Aurora aprì e si trovò davanti il viso accaldato del suo collega.

Respirava affannosamente, sembrava che avesse corso per arrivare fin lì. «Credo di aver capito dove hanno portato Aprile.»

Aurora nel buio
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