VI. L'enigma continua
Ricapitoliamo
Oro ha voluto dire molte cose per gli esseri umani da quando è stato scoperto il modo di fonderlo e modellarlo, circa tremila anni fa. Bellezza. Divinità. Valore. Ricchezza. Risparmio. Scambio.
A un certo punto, ma ben presto nella sua storia, l'oro ha incrociato sulla sua strada un'altra grande scoperta dell'umanità, anzi una invenzione, una creazione del tutto astratta, il denaro.
Del denaro l'oro è stato la prima importante manifestazione concreta, sotto forma di monete. E allora il suo destino è davvero diventato grandioso. E ha preso a significare qualcosa di molto preciso, un sentimento archetipico, ancestrale: la fiducia. Chi ne possedeva un pezzetto, fosse in forma di moneta o di ornamento, sapeva di poter avere fiducia, di potersi fidare del fatto che chiunque altro avrebbe accettato quel pezzetto di metallo in cambio di altri beni utili, in qualunque angolo del mondo conosciuto, nel tempo presente ma anche in futuro, per quanto remoto quel futuro lo si immaginasse.
È ancora così? Sarà così anche domani? Apparentemente sì, anche ora che il denaro ha preso molte altre forme, dalla carta alla plastica a un bit digitale. La fiducia si è estesa a questi mezzi meno nobili, più prosaici. Dell'oro si parla poco, non è più l'ossessione di un tempo. Ma la fiducia nell'oro non è mai venuta meno, in nessun angolo del pianeta. In qualche momento essa anzi s'intensifica.
Perché? Che cosa rende ancora questo metallo così speciale agli occhi degli umani, rispetto ad altre materie altrettanto rare e utili, se non molto di più? Il mistero s'infittisce.
In questo piccolo libro abbiamo guardato a varie facce dell'oro. Alcune gli appartengono in senso letterale, altre sono solo metaforiche. L'ordine prescelto per esporle non poteva che rispecchiare la mia appartenenza a una banca centrale, dunque innanzitutto ho affrontato la questione delle riserve auree della Banca d'Italia: da dove vengono, come sono fatte, dove sono custodite, di chi sono in fin dei conti. L'ho fatto muovendo da un episodio dimenticato da molti, ma assai importante e rivelatore, quello della razzia che i nazisti fecero dell'oro italiano dopo l'8 settembre del 1943.
Poiché quest'analisi ci ha subito ricordato quanto l'oro sia stato nella storia emblema di ricchezza, privata oltre che pubblica, ho discettato un po' di ricchezza e di come essa sia distribuita fra gli esseri umani. E siccome dalla ricchezza al denaro il passo è breve, ho fatto qualche riflessione sul denaro, sulla sua origine, sul suo legame con l'oro fisico. L'oro ha svolto nella storia una funzione fondamentale, quella di anima del denaro, da quando quest'ultimo si è diffuso nelle comunità umane. Lo ha dapprima inverato, poi lo ha sostenuto quando il denaro ha assunto vita propria. Pertanto la storia dell'oro si è incrociata in modo stretto con quella del denaro e del suo motore primigenio, il credito, storia che abbiamo brevemente ripercorso. Infine siamo tornati a parlare di oro in senso letterale, e della sua funzione monetaria, passata e presente. Ma ora concludiamo l'excursus tornando sull'enigma: perché l'oro è oro?
L'oro ha vissuto una lunga fase di splendore quando era, almeno nel continente europeo, la principale e più ammirata e desiderata forma di denaro. Sono passate alcune migliaia d'anni poi, nei tempi moderni, hanno preso piede forme ancora più fiduciarie di denaro, cartacee. Sono quindi arrivate le carte di debito e di credito e ora stanno diffondendosi metodi digitali di pagamento, del tipo "borsellino elettronico", o basati sulla tecnologia blockchain. Ma l'oro e la sua capacità di farsi desiderare anche come forma d'investimento di lungo termine non sono venuti meno.
Il mercato ufficiale dell'oro, fisico e virtuale, continua a essere fiorente. Molti risparmiatori desiderano possedere lingotti o monete d'oro coniate apposta per essere tesaurizzate, oppure certificati rappresentativi di oro fisico come gli Etf. L'oro non frutta interessi, com'è ovvio, ma promette una buona tenuta del valore investito soprattutto in caso di gravi turbolenze finanziarie o geopolitiche. Quindi conviene comunque tenere investita in oro una parte sia pur piccola dei propri risparmi, non foss'altro che a mo' di assicurazione contro catastrofi e cataclismi. Oppure perché si pensa che gli altri credano che il suo valore comunque salirà.
Anche le banche centrali, nate per emettere il denaro fiduciario su delega di chi detiene il potere politico, continuano a possedere pingui riserve in oro, anche molti decenni dopo la scomparsa di ogni traccia sia pure indiretta di convertibilità in oro del denaro in circolazione. Secondo quanto esse stesse dichiarano, lo fanno perché le riserve auree ufficiali hanno la funzione di rafforzare la fiducia nella stabilità del sistema finanziario e della moneta, soprattutto quando le condizioni geopolitiche o la congiuntura economica internazionale accrescono i rischi insiti nell'impiego del risparmio, come in occasione di crisi valutarie o finanziarie. Non è estraneo un obiettivo di diversificazione delle loro attività di riserva, per mantenerne equilibrato il valore.
Ma è vero che l'oro mantiene il suo valore nel lungo termine? Chi ha investito in oro ha avuto ragione a farlo, al di là del servizio assicurativo contro le catastrofi geopolitiche di cui ha goduto? Vediamo qualche dato, sempre desunto dal World Gold Council.
Fino al 1971, anno in cui il dollaro statunitense fu dichiarato non più convertibile in oro, quest'ultimo aveva avuto un prezzo in dollari fissato dagli accordi di Bretton Woods e quindi manteneva il suo valore in dollari per definizione, era il governo americano a garantirlo di diritto e di fatto. Dopo di allora, come abbiamo visto, il prezzo lo ha fatto il libero incontro della domanda e dell'offerta.
Il livello di oggi di quel prezzo è oltre 30 volte quello del 1970, quando l'inflazione americana ha portato nel frattempo il livello generale dei prezzi al consumo in quel paese a moltiplicarsi poco meno di 7 volte. Dunque, se si è avuta abbastanza pazienza e si è ragionato per mezzi secoli e non per singoli anni, investire in oro si è rivelata una buona scelta. Anche per le banche centrali, che, come pure abbiamo visto, posseggono oggi oltre 30.000 delle 70.000 tonnellate di oro detenute allo scopo esplicito di farne un investimento.
Ad esempio le riserve auree della Banca d'Italia valgono oggi 91 miliardi di dollari americani (poco meno di 87 miliardi di euro), secondo la contabilizzazione di bilancio. Quarant'anni fa ne valevano, a parità di quantità, meno di 11.
Dunque il valore di mercato, e quindi di bilancio, delle riserve in oro è salito molto in questi anni, nonostante fasi anche lunghe di ribasso. Ma l'interrogativo di fondo rimane: queste riserve servono veramente allo scopo per cui sono tenute? O potrebbero addirittura essere impiegate per altri scopi?
Tentativo di spiegazione dell'enigma oro
L'argomento principale addotto per spiegare come mai una banca centrale moderna, in tempi di denaro totalmente fiduciario, debba continuare ad accumulare un "relitto barbarico" come l'oro (per usare la metafora che Keynes in verità riferì non all'oro ma al gold standard) è: perché è come l'argenteria di famiglia, è come l'orologio prezioso del nonno, è l'estrema risorsa in caso di crisi, di una qualsivoglia crisi che faccia venir meno la fiducia internazionale nei confronti del paese.
La storia italiana dopo la seconda guerra mondiale offre un importante episodio in cui questa eventualità si è effettivamente presentata.
Fu nel 1974[1]. L'Italia aveva da tempo intrapreso il percorso che l'avrebbe definitivamente allontanata dalla stagione del miracolo economico, percorso iniziato con la rivolta giovanile, studentesca e operaia, del 1968-69.
Gli anni Settanta furono un decennio di turbolenze economiche e monetarie, oltre che sociali, non solo in Italia. La guerra nel Vietnam finì male per gli Stati Uniti, con la resa di Saigon del 1975, e il suo costo economico crescente fu all'origine della decisione, all'inizio del decennio, di far cessare la convertibilità in oro del dollaro. Nel 1973 il prezzo del petrolio quadruplicò subitaneamente (primo "shock petrolifero"), un terremoto che colpì in varia misura tutti i paesi importatori di fonti di energia. Non la Germania, punto la cui importanza si capirà poche righe più avanti.
In tutti i paesi con deficit esterni si pose la questione di un eventuale impiego delle riserve ufficiali auree per finanziarli e, soprattutto, del prezzo a cui farlo, visto che un prezzo ufficiale di fatto non esisteva più ma le banche centrali continuavano a contabilizzare le riserve auree al prezzo ufficiale virtuale. La questione fu affrontata in particolare in Europa.
Nel mese di aprile del 1973 i ministri finanziari e i governatori delle banche centrali dei paesi della Comunità economica europea (come si chiamava all'epoca), riuniti a Zeist nei Paesi Bassi, assunsero quello che pudicamente definirono un "orientamento comune", tendente a consentire alle banche centrali di effettuare tra loro acquisti e cessioni di oro a un prezzo agganciato a quello di mercato. Siffatto orientamento fu comunicato ai ministri del Gruppo dei Dieci, due mesi dopo a Washington, e diventò un accordo informale fra tutti i paesi aderenti al Gruppo, secondo il quale nessuno si sarebbe opposto all'uso delle riserve auree quale pegno su prestiti fra banche centrali purché esse fossero valutate al prezzo di mercato.
Era la prima volta che si prendeva ufficialmente atto di una conseguenza pratica del crollo del regime monetario di Bretton Woods, e cioè che il prezzo ufficiale dell'oro non aveva più senso, che c'era un mercato libero dell'oro e il prezzo vero lo faceva il mercato. In effetti, nel 1973 il prezzo superò i 100 dollari l'oncia. Il Gruppo dei Dieci, conseguentemente, convenne di non sollevare obiezioni qualora un paese avesse contabilizzato le proprie riserve auree a un prezzo correlato a quello di mercato.
In forza dell'intesa internazionale raggiunta, le riserve italiane furono subito rivalutate in bilancio da meno di 3,5 miliardi di dollari a 12,3, equivalenti a quasi 8.000 miliardi di lire italiane.
In Italia, tutta la società era in fermento: si affermava l'idea che politiche pubbliche di welfare generose e costose fossero un diritto delle classi lavoratrici e che sarebbero state pagate innalzando l'imposizione tributaria sui ricchi. All'inizio del decennio sanità e previdenza furono riformate fortemente a favore dei beneficiari dei relativi servizi. Si diede anche finalmente attuazione al dettato costituzionale sulle Regioni, col risultato però di aggiungere uno spesso e costoso strato burocratico a quelli delle già esistenti amministrazioni provinciali e comunali. Le risorse aggiuntive per finanziare tutto questo sarebbero dovute scaturire da una riforma fiscale, i cui primi effetti di innalzamento del gettito tardarono invece fino al 1975. Il risultato fu che l'aumento della spesa pubblica fu finanziato a debito, mettendolo in carico alle generazioni future. Si accese il motore dell'aumento del debito pubblico italiano.
Con lo shock petrolifero del 1973, l'Italia, paese fortemente importatore di petrolio e di altre fonti di energia, vide volgere al peggio la sua bilancia dei pagamenti con l'estero. Si diffusero timori, divenuti rapidamente un vero e proprio panico, fra coloro che avevano delle sostanze liquide da spostare oltreconfine: timori dovuti all'inflazione montante più in Italia che altrove, ma soprattutto all'inasprirsi del clima politico e sociale. Iniziò una fuga verso l'estero di denaro e capitali, che minacciava il tasso di cambio della lira e le riserve valutarie. Gli stranieri guardavano con crescente preoccupazione all'Italia, gli investitori esteri nel nostro paese si rarefacevano. Una vera crisi finanziaria e valutaria.
Sebbene tutto il mondo avanzato fosse stato colpito dallo shock petrolifero, l'Italia viveva una difficoltà particolare. La Banca d'Italia chiese un prestito di valuta per tamponare le falle aperte nelle riserve ufficiali dalle fughe di capitali all'estero. Trovò solo la banca centrale tedesca disposta a concederglielo, ma su pegno di oro. Il 31 agosto 1974 la Deutsche Bundesbank prestò alla Banca d'Italia due miliardi di dollari contro la garanzia per un uguale importo di oro delle riserve di quest'ultima, valutato all'80% del prezzo di mercato nelle otto settimane precedenti l'accordo, cioè 120 dollari l'oncia. La Banca d'Italia impegnò un quinto delle sue riserve auree: 41.300 lingotti, più di 500 tonnellate. L'argenteria di famiglia venne, appunto, "impegnata".
L'operazione non fu politicamente indolore, per nessuno dei due governi coinvolti. Il quadro che rimase impresso nell'immaginario popolare italiano fu quello di un povero col cappello in mano (l'Italia) e di un ricco (la Germania) che non si fida e chiede in pegno la fede d'oro del povero; viceversa, nell'immaginario tedesco fu quello di una cicala sventata (l'Italia) che cerca di mantenere il suo insostenibile tenore di vita chiedendo soldi in prestito a una giudiziosa formica (la Germania) che ha risparmiato con sacrificio e che si cautela chiedendo almeno una garanzia. Uno stereotipo ricorrente nella storia dei rapporti fra i due paesi, fino ai giorni nostri. Che, come tutti gli stereotipi, è al tempo stesso vero e falso.
L'oro dato in garanzia non venne spostato fisicamente, ci fu solo una scrittura contabile che registrava i termini della garanzia. Questa non fu mai escussa perché il prestito fu restituito nel 1978 e il pegno di oro conseguentemente estinto. È stato l'unico caso di utilizzo dell'oro ufficiale italiano, ma certo non l'unico nel mondo dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Ma, a parte darlo in pegno, vendere l'oro si può?
A volte si levano voci, in molti paesi fra cui l'Italia, a dire: ma perché tenere tutta questa ricchezza sotto terra? Le banche centrali che la custodiscono sono forse esse stesse dei paperoni che si beano del mero possesso di oro, ancorché inutile? Per esempio, in Italia perché dobbiamo tenere quasi 90 miliardi di euro immobilizzati nei forzieri della Banca d'Italia (ma anche, come abbiamo visto, della Fed di New York, e in quelli inglesi e svizzeri)? Quante belle cose a beneficio della cittadinanza potrebbero invece essere fatte con quei soldi? Scuole, ospedali, o anche solo denaro distribuito a pioggia a tutti?
Domande suggestive, ma, ahinoi, mal poste. Tanto per cominciare, riversare 2.500 tonnellate (quante ne possiede la Banca d'Italia) sul mercato mondiale dell'oro lo squilibrerebbe moltissimo: nel 2016 l'offerta totale di oro sul mercato è stata inferiore alle 4.600 tonnellate, quella di oro "riciclato" (quindi non estratto) alle 1.300. Un aumento dell'offerta di quell'ordine di grandezza farebbe crollare vertiginosamente il prezzo. Questa è la ragione per la quale, come abbiamo già detto nel primo capitolo, diciotto anni fa le principali banche centrali europee concordarono fra loro di razionare eventuali vendite di oro sul mercato, in modo appunto da non determinare forti oscillazioni del prezzo. Ricordiamo che l'accordo fu preso perché tutti furono scottati dall'improvvida decisione inglese di vendere alcune centinaia di tonnellate dell'oro delle riserve, il che provocò un crollo del prezzo di mercato con nocumento generale.
Vendere l'oro fuori mercato richiederebbe peraltro, oltre che informare comunque le altre banche centrali sottoscrittrici dell'accordo, trovare una controparte disposta ad acquistarlo, a un prezzo convenuto vicino a quello di mercato; ma quale controparte accetterebbe ciò sapendo che se la transazione transitasse dal mercato, determinando un forte eccesso d'offerta, il prezzo scenderebbe?
In una situazione simile si trovò il governo tedesco nel 1943-44. L'oro italiano fu portato via dalla Banca d'Italia con l'intenzione di almeno una parte di quel governo di venderlo per contribuire a finanziare la guerra. Furono fatti dei tentativi, ma l'operazione non riuscì, se non in piccola misura, anche per mancanza di tempo.
Si potrebbe pensare allora a una politica di dismissione molto graduale delle riserve auree, che rispetti l'accordo fra le banche centrali e non turbi il mercato dell'oro. Con ciò vendendo tra l'altro a un prezzo che non determinerebbe per la Banca d'Italia (e quindi per lo Stato italiano, a cui in ultima analisi vanno i profitti netti della Banca) troppe perdite in conto capitale. È possibile?
In teoria sì, in pratica no. Intanto non risolverebbe il problema del debito pubblico: quest'ultimo è di quasi 2.300 miliardi di euro, al cui confronto le poche centinaia di milioni ragionevolmente ricavabili ogni anno dalla vendita di partite di oro sarebbero bazzecole. Ma soprattutto una "politica" di questo genere non sarebbe occultabile al pubblico e svelerebbe l'intenzione italiana di liberarsi dell'oro, unico fra i paesi del mondo. Un segno di disperazione, che affretterebbe proprio quella crisi per fronteggiare la quale tutti detengono oro.
E se questa politica fosse decisa simultaneamente da tutte le banche centrali, da tutti i governi? Utopistica ipotesi, che implica la riscrittura di tutti i trattati e gli accordi internazionali sull'argomento, a cominciare da quello che ha istituito l'euro. Ma anche se ci credessimo, in tal caso l'oro, privato del suo appeal di bene rifugio, perderebbe gran parte del suo valore e vanificherebbe lo scopo iniziale di chi ha voluto la vendita.
Dunque l'oro continua e, temo, continuerà per molti anni o secoli a essere stipato in forzieri e caveaux da parte di risparmiatori privati come di soggetti pubblici. Un enigma, perché il suo valore eccede di gran lunga quello che discenderebbe dai soli usi industriali e si regge sul fatto che tutti glielo riconoscono. Come tutti riconoscono al denaro, che sia pezzo di carta o di plastica o bit digitale, un valore stabilito convenzionalmente da qualcuno, tipicamente una banca centrale.
È un enigma, ma perfettamente razionale.
[1] In un mio vecchio libro (S. Rossi, La politica economica italiana 1968-2007, Roma-Bari, Laterza, 2007) il decennio Settanta è analizzato sebbene in sintesi sia sotto l'aspetto economico sia sotto quello politico.