III. È più facile che un cammello...

 

Oro e ricchezza

Da sempre oro vuol dire ricchezza, e viceversa. L'equivalenza è totale. Ostentare oggetti d'oro ha sempre rappresentato uno status symbol per chi lo fa, da re e regine a criminali e mafiosi d'ogni specie.

I miti e le favole hanno tramandato e alimentato questa identificazione fra oro e ricchezza.

Ne cito alcuni, alla rinfusa. I miti greci, innanzitutto: re Mida, colpito su sua stessa improvvida richiesta dalla maledizione di trasformare in oro tutto ciò che toccava; Giasone, alla spasmodica ricerca del vello d'oro insieme con i suoi compagni argonauti; Danae, ingravidata da Zeus per mezzo di una pioggia d'oro. Nella modernità sopravvenne il mito dell'Eldorado, terra immaginaria invano cercata dai conquistatori del Nuovo mondo.

Poi le favole: quella esopiana della gallina dalle uova d'oro e quelle dei fratelli Grimm sull'uccello d'oro e sui figli d'oro. Infine, né mito né favola ma semplice credulità prescientifica fu l'illusione degli alchimisti di trasmutare il piombo in oro.

Tra le favole contemporanee i fumetti hanno un posto da protagonisti. La fantasia rigogliosa del cartoonist americano Walt Disney non partorì soltanto le maschere immortali di Mickey Mouse (Topolino) e di Donald Duck (Paperino), ma anche quella, altrettanto centrale nella formazione infantile di molte generazioni in tutto il mondo, di Uncle Scrooge: zio Paperone. L'immagine di Paperone che, con l'immancabile traslucido cappello a cilindro calcato sulla sua testa di anziano papero, nuota nel mare delle monete d'oro racchiuse in un immenso deposito corazzato si è stampata nelle menti di miliardi di bambini, che l'hanno trasportata nell'età adulta. Paperone è il ricco, ne è l'epitome; è la rappresentazione al tempo stesso caricaturale, fumettistica e letterale del ricco: infatti, letteralmente, nuota nell'oro.

E i proverbi? Sono innumerevoli quelli che mettono al centro l'oro a significare tutto ciò che di bello, nobile e utile possa esservi. Non citerò quelli più noti perché sarebbe troppo facile, ne ricorderò altri meno noti ma che mi paiono esemplari: la chiave d'oro apre ogni porta; quando l'oro parla, la lingua non ha forza; la lepre piglia il leon col laccio d'oro; la prima acqua d'aprile vale un carro d'oro con tutto l'assile[1].

La letteratura di ogni tempo ha dedicato all'oro, come simbolo dell'abbondanza e della ricchezza, moltissimi capolavori. Esiodo immaginò una "età dell'oro" di felicità primigenia del genere umano, cui seguì una involuzione che fece discendere gli uomini via via in una età dell'argento, poi del bronzo e degli eroi, infine del ferro. Platone e più tardi Ovidio rilanciarono questa fortunata immagine di una felice età dell'oro del passato, che per Virgilio poteva addirittura tornare.

Le arti figurative hanno molto contribuito a diffondere l'immagine dell'oro come abbondanza, floridezza, felicità. Ricordo soltanto due capolavori: nel XVI secolo Lucas Cranach il Vecchio dipinse una palpitante allegoria dell'età dell'oro; nel XX secolo Gustav Klimt diede una sua interpretazione del mito di Danae di folgorante bellezza. Ma non posso non citare il fatto che fino al Rinascimento e all'avvento del realismo in pittura era usuale che, per rappresentare la volta celeste, si usassero sottilissime lamine d'oro: ne troviamo esempi anche in tele di Giotto e del Beato Angelico.

Tuttavia l'oro non ha significato solo celeste abbondanza. Se l'oro equivale a ricchezza, quest'ultima spesso è equivalsa, nella rappresentazione poetica e pittorica, ad avidità, avarizia, disumanità. Il vecchio avaro che con mani ad artiglio nasconde le sue monete d'oro è una figura ricorrente nel teatro classico, da Plauto all'immortale Arpagone di Molière.

Possiamo rinvenire tanti altri casi di uso dell'oro come rappresentazione di nequizia, di quanto vi è di più oscuro nell'animo umano. Virgilio racconta come l'auri sacra fames spinga Polimestore a uccidere Polidoro, figlio di Priamo, per impossessarsi delle sue ricchezze. Molti secoli più tardi Richard Wagner, nel prologo della tetralogia L'anello del nibelungo, fece dell'oro nascosto in fondo al Reno il motore di tutte le sventure e le maledizioni causate dalla cupidigia degli umani e degli dei.

Negli anni più recenti le arti hanno guadagnato una nuova forma espressiva, il cinema. Ricordiamo allora due film fondamentali nella storia del cinema: La febbre dell'oro di Charlie Chaplin, del 1925, sulla famosa epopea dei cercatori d'oro nell'Ovest americano; ma soprattutto il quasi coevo e maledetto Greed (Rapacità) di Erich von Stroheim, con la celeberrima immagine finale delle monete d'oro sporche di sangue, origine del destino tragico di coloro che hanno duellato per il loro possesso e che finiscono per uccidersi a vicenda.

Infine la religione. La parabola evangelica del cammello (o della grossa fune, ma il senso è lo stesso) che passa per la cruna di un ago più facilmente di quanto un ricco possa entrare nel regno dei cieli (Luca 18,25, Matteo 19,24) confermò e rilanciò duemila anni orsono il pregiudizio contro la ricchezza. Con tutta la virulenza visionaria di un neonato movimento religioso-politico che faceva del riscatto degli ultimi la sua anticonformistica (per quei tempi) parola d'ordine.

A distanza di due millenni i ricchi, i paperoni, quelli che nuotano metaforicamente nell'oro continuano a essere esaltati da alcuni, ma vituperati da altri.

 

Ricchezza e povertà: come sono distribuite?

Il tema della numerosità relativa dei ricchi e dei poveri e della distanza di opportunità fra loro ha acquistato forza, importanza concettuale e politica nel corso dei passati due secoli e mezzo, almeno da quando la rivoluzione francese ha riproposto con violenza l'intollerabilità dei privilegi di sangue. Poi sono venuti il socialismo e il comunismo, Bakunin e Marx. Centinaia, migliaia di pensatori e uomini d'azione, centinaia di migliaia di pagine stampate. Chiunque voglia studiare, analizzare, gli esseri umani e le loro società organizzate non può non porsi il problema della divisione delle risorse fra le diverse categorie e classi sociali, della sua misura, delle sue cause: questo è stato il caso di letterati, sociologi, filosofi, storici, economisti. Non è mia intenzione né ambizione ripercorrere questa ricchezza di pensiero e di eventi storici. Mi limiterò a svolgere qualche semplice considerazione sul pensiero degli economisti in questa materia.

Al lettore di questo libro potrà sembrare una digressione fuori tema, ma capire come si può analizzare la ripartizione fra esseri umani della ricchezza, di cui l'oro è da sempre simbolo, è parte delle nostre riflessioni. Ancor più capire se quella ripartizione è cambiata nel tempo e come.

Gli economisti hanno dato vita a un filone di pensiero molto denso e vasto sulla "distribuzione" del reddito e della ricchezza.

Giustamente i due concetti vanno distinti. Il reddito è quanto si guadagna in un dato arco temporale, ad esempio in un anno: lo stipendio per i lavoratori dipendenti, il profitto per quelli autonomi (professionisti, artigiani, imprenditori), interessi, cedole e dividendi per i possessori di attività finanziarie. La ricchezza è il cumulo di ciò che si è finito col possedere in un determinato momento del tempo, frutto dei redditi guadagnati fino a quel momento dalla persona in questione o dai suoi ascendenti: contanti, case, capannoni, depositi bancari, obbligazioni, azioni, e così via[2]. Le due caratteristiche sono ovviamente connesse ma non in modo assoluto: ad esempio io posso avere un reddito annuo molto alto ma non avere ricchezze accumulate, perché ho le mani bucate e non risparmio nulla del molto che guadagno o perché sono nato povero e ho dovuto prendere a prestito i capitali necessari ad avviare la mia attività.

Ora, tutti i grandi economisti che si sono occupati di distribuzione e povertà - stando solo al tempo contemporaneo, Amartya Sen, Angus Deaton, Tony Atkinson, per citarne alcuni - si sono imbattuti nel problema della scarsità di dati affidabili e comparabili fra paesi sui redditi e la ricchezza dei singoli. Il problema sta in parte nel fatto che gli istituti statistici ufficiali, nati nel Novecento, hanno investito tempo e risorse soprattutto nella costruzione dei conti nazionali (per intenderci, il Pil e le sue componenti di domanda, da un lato, di offerta produttiva, dall'altro), certo essenziali per le analisi e le politiche macroeconomiche che hanno dominato il pensiero economico nei decenni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale.

Queste analisi e politiche guardano però all'economia del paese nel suo complesso, non badano ai singoli soggetti (individui o imprese) che la compongono, ipotizzano che i loro comportamenti siano uniformi, almeno per quanto attiene alle grandi leggi macroeconomiche. Invece il problema di come si distribuiscano nella società nazionale o nel mondo intero i redditi e le ricchezze fra le singole persone o famiglie è intrinsecamente "disaggregato", parte dalla constatazione della diversità o eterogeneità dei singoli, nega in radice che tutto possa essere nascosto sotto una coltre di uniformità.

Ecco perché la questione dati è così delicata e in parte irrisolta nella riflessione distributiva.

Alla mancanza di sufficienti dati ufficiali hanno supplito in parte altre istituzioni pubbliche o private; fra le prime, le banche centrali. La Banca d'Italia, ad esempio, da oltre cinquant'anni realizza e pubblica un sondaggio sui redditi e la ricchezza delle famiglie italiane, attraverso interviste dettagliate a un vasto campione di famiglie[3]. È considerata una delle migliori indagini al mondo su questo tema, per molto tempo tra le poche a raccogliere simultaneamente dati su reddito e ricchezza[4].

Si consideri che rispondere con sincerità a domande su quello che si guadagna e su quanto si possiede non è ovvio, soprattutto da parte di chi teme il fisco, cioè da parte dei lavoratori autonomi e di coloro che possiedono molti beni. Con l'esperienza si è capito che, per i capifamiglia interpellati, rispondere alla Banca d'Italia è meno disagevole che rispondere a un intervistatore di amministrazioni pubbliche o di società private, ci si fida un po' di più della riservatezza della prima, dell'impegno a utilizzare i dati solo in forma anonima e per ricerche scientifiche.

Non è ovviamente solo una questione di reticenza degli intervistati: è spesso difficile stimare il valore della propria ricchezza (quanto vale la propria casa? quanto vale un'impresa non quotata o una piccola attività commerciale?); inoltre è assai improbabile che i molto ricchi siano inclusi in un campione selezionato casualmente come quello della rilevazione della Banca d'Italia. Comunque è noto che man mano che si sale verso le fasce alte di reddito/ricchezza aumenta, anche nell'indagine della Banca d'Italia, l'imprecisione delle risposte ai sondaggi e quindi dei dati, che sono sistematicamente sottostimati. A questa sottostima si cerca di ovviare con tecniche statistiche, anche molto sofisticate.

Grazie ai dati della Banca d'Italia sappiamo, ad esempio, che la ricchezza di tutte le famiglie italiane supera i 10 trilioni di euro (6 investiti in case ma oltre 4 in attività finanziarie)[5]. Ma i dati sulle ricchezze individuali sono nel mondo scarsi e meno affidabili di quelli sui redditi guadagnati mese dopo mese o anno dopo anno. Anche questo spiega il fatto che le analisi economiche sulla distribuzione e la povertà si siano concentrate sul reddito anziché sulla ricchezza degli individui.

 

Un tema di nuovo discusso

Per tutti gli anni Novanta del secolo scorso e nel primo decennio di questo secolo la riflessione degli economisti sulla distribuzione redditi/ricchezze e sulla povertà è stata importante ma tutt'altro che centrale. La macroeconomia è stata per anni costruita intorno all'ipotesi di "agente rappresentativo", un ipotetico operatore economico il cui comportamento ottimizzante spiegherebbe l'andamento dell'economia nel suo complesso. Si è ritenuto che la microeconomia dei comportamenti individuali applicata a questo fittizio agente rappresentativo desse fondamenta sicure alla macroeconomia delle variabili aggregate a livello di paese o di mondo; l'innovazione scientifica e le sue applicazioni tecnologiche, si è infine teorizzato, possono garantire crescita e occupazione a chi le sappia coltivare o utilizzare.

Vi era spesso sottostante l'idea espressa dal premio Nobel per l'economia Robert Lucas:

Tra le tendenze dannose per una solida analisi economica, la più seducente, e a mio parere la più velenosa, è concentrarsi sulle questioni distributive. [...] Il potenziale per migliorare le vite dei poveri trovando modi diversi di distribuire la produzione corrente è nulla in confronto al potenziale apparentemente illimitato di incrementare la produzione[6].

Il ciclo economico, fino alla grande recessione innescata dalla crisi finanziaria globale, sembrava vinto dalle politiche monetarie, l'inflazione battuta. Prima di quel terribile evento (che d'ora in avanti chiameremo la Crisi), i bilanci pubblici erano considerati ormai svincolati da compiti di stabilizzazione del ciclo economico e potevano impegnarsi solo in un risanamento finanziario di medio-lungo termine che ne riducesse al tempo stesso il peso nelle economie; dopo la Crisi il precetto del risanamento finanziario è rimasto applicato solo a quei bilanci pubblici che si erano fortemente squilibrati nei decenni precedenti, fra cui quello italiano.

Quindi il Leitmotiv dominante del pensiero di molti economisti è stato a lungo: libertà d'impresa, mercati finanziari liberi di esplicare i propri effetti di riduzione del rischio in capo ai singoli, libera globalizzazione di tutto, dagli smartphones alle fiction Tv.

La globalizzazione, in particolare, è stata considerata un fenomeno benvenuto anche sotto il profilo distributivo. Ricordiamo che per globalizzazione non si intende soltanto maggiore libertà di commercio fra nazioni, meno dazi e tariffe, ma quel fenomeno tipico del passaggio fra il secolo scorso e l'attuale che ha visto le nuove tecnologie dell'informazione e della comunicazione abbattere i costi di trasferimento delle informazioni determinando una vera e propria globalizzazione dei commerci, cioè l'allargamento all'intero globo terracqueo dei mercati di sbocco e delle "catene del valore": quelle sequenze di fasi e compiti produttivi che stanno dietro a qualunque bene o servizio prodotto e offerto sul mercato[7].

In molti siamo stati allora conquistati da un'idea semplice: questi accadimenti fanno uscire dalla povertà grandi masse di esseri umani, essenzialmente nei paesi asiatici, Cina e India in primis. Vi sono dati inoppugnabili a dimostrarlo. Quindi la distribuzione dei redditi fra le varie regioni del mondo, in particolare fra i paesi già "avanzati" e fra quelli "emergenti", migliora, diviene meno sperequata, meno ingiusta.

Quest'idea ha forse occasionalmente sedotto anche le sinistre politiche di molti paesi avanzati: partiti, movimenti d'opinione, singole persone ancora sotto l'influenza, che ne fossero consapevoli o no, dell'internazionalismo e del terzomondismo che per decenni avevano segnato i socialismi e i comunismi di ogni specie e longitudine.

Col senno di poi non si è forse sufficientemente badato a un fenomeno strisciante, ma evidente nei dati, oltre che segnalato da molti osservatori e studiosi[8]: le masse asiatiche che uscivano dalla miseria perché messe al lavoro in immense fabbriche produttrici di beni per il consumo mondiale diventavano concorrenti dei colletti blu occidentali, spesso anche di qualche colletto bianco, e nel gioco competitivo li sbaragliavano facilmente perché i loro salari erano molto più bassi. Con la complicità delle grandi multinazionali manifatturiere.

Questa visione è stata più volte avanzata anche prima della Crisi. L'argomento più usato per contrastarla è stato che la gigantesca migrazione di lavori ripetitivi e dequalificati dai paesi avanzati a quelli emergenti avrebbe aperto nei primi grandi spazi per una specializzazione del lavoro nei segmenti più qualificati, più innovativi e creativi. Un gioco in cui tutti sono vincitori: le masse povere dei paesi emergenti, perché un lavoro per quanto sporco e dequalificato è meglio che morire di fame; le (meno oceaniche) masse dei paesi avanzati, perché un lavoro più qualificato è meglio di uno che lo è meno.

L'argomento è convincente, anche se ha il difetto di essere astratto, di trascurare cioè come minimo i ritardi, le fasi storiche di passaggio tra un assetto e l'altro. Tuttavia fino alla Crisi esso ha retto.

Invece, la competizione, la contrapposizione anche cruda fra i ceti produttivi dei paesi avanzati e le masse arrembanti di quelli emergenti, favorita da chi può scegliere luogo e modalità del produrre, è diventata evidente e politicamente rilevante quando i tempi si sono messi al brutto, cioè appunto con la crisi finanziaria e la conseguente recessione economica in molti paesi avanzati. Se le vacche sono grasse per tutti non si bada granché agli squilibri che si vanno accumulando, ma se le vacche diventano magre, questioni fino a quel momento accantonate balzano prepotentemente all'attenzione.

Le migrazioni fisiche di poveri e perseguitati verso le aree ricche del mondo hanno aggiunto un elemento di dolorosa fisicità a questa contrapposizione. Chi nei paesi avanzati aveva la confusa percezione di venire messo in un angolo, proprio nella società in cui la sua famiglia si era ricavata negli anni un posto dignitoso, a causa di invisibili concorrenti asiatici che gli portavano via il lavoro, ha visto nei migranti, che fossero messicani frontalieri o fuggitivi dai teatri di guerra del Medio Oriente, la concretizzazione dei propri fantasmi, del proprio senso di ingiustizia patita.

Ne sono discesi, in paesi retti da regimi di democrazia rappresentativa, orientamenti elettorali antiglobalizzazione. Si è levato un vento minaccioso, che ha caratteristiche sia di destra sia di sinistra, se vogliamo seguire la tradizionale classificazione in famiglie politiche figlia dei due passati secoli.

Dunque c'è un rinnovato interesse nei confronti del tema della distribuzione dei redditi e delle ricchezze, dovuto al fatto che la Crisi ha rivelato come al miglioramento di quella fra paesi sia corrisposto il peggioramento di quella all'interno di ciascun paese avanzato[9].

Che nella maggior parte di questi paesi la disuguaglianza dei redditi sia aumentata negli ultimi trent'anni è un fatto su cui gli studiosi concordano[10]. Dove ci si divide tuttora è nel rispondere a un interrogativo di fondo: il modo e la misura in cui redditi e ricchezze sono distribuiti fra i membri di una comunità all'inizio di un certo anno influenza la loro capacità aggregata di produrre ulteriore reddito in quell'anno? In altri termini, dobbiamo prima preoccuparci di ingrandire la torta complessiva e solo poi porci il problema di distribuirne le fette? Oppure la consapevolezza ex ante di come saranno distribuite le fette influenza le dimensioni che la torta può assumere?

I fautori della prima teoria ritengono che esista un conflitto equità-efficienza nella fase di produzione dei beni, che ogni preoccupazione equitativa sia in quella fase dannosa e che sarà poi l'equilibrio politico del momento a decidere quale redistribuzione debba farsi del reddito prodotto. I fautori della seconda teoria pensano che una società incline a una forte disuguaglianza nella distribuzione dei redditi sia, oltre certi limiti, meno produttiva, meno capace di generare prosperità e crescita economica. Alcuni hanno visto nell'aumento delle sperequazioni di reddito negli Stati Uniti una delle cause della Crisi[11].

L'evidenza empirica più recente, riferita a molti paesi del mondo, sia avanzati sia emergenti, non assegna con nettezza il primato della ragione a nessuna delle due teorie. Ma il dominio, ideologico e politico prima ancora che concettuale, della visione secondo cui occorre preoccuparsi prima della produzione e poi della distribuzione è durato nel mondo per oltre trent'anni.

Concentriamoci ora sull'Italia e sulle categorie che sono state normalmente oggetto di indagine statistica e di analisi economica: i redditi personali e il conflitto distributivo classico, quello fra capitale e lavoro, fra profitti e salari.

Misurata così, la disuguaglianza toccò il suo minimo storico nei primi anni Ottanta, al termine di quella stagione di rivendicazioni sociali, di turbolenze politiche, di forza sindacale che portò ai due eventi forse fra i più rappresentativi di quel tempo: l'ascesa elettorale del Partito comunista, che alle elezioni regionali del 1975 ebbe un clamoroso successo e si avvicinò alla Democrazia cristiana, tradizionale primo partito italiano; l'intesa dello stesso anno fra Confindustria e sindacati sul cosiddetto punto unico di contingenza, il quale stabiliva l'indicizzazione ex post dei salari all'inflazione in cifra fissa uguale per tutti. Una misura ugualitaria per definizione, che portò in pochi anni a una forte riduzione del ventaglio retributivo, complice l'impennarsi dell'inflazione.

Alla fine di quel decennio arrivò la "marcia dei quarantamila", una manifestazione in cui sfilarono a Torino gli impiegati e i quadri della Fiat e cittadini che simpatizzavano con loro. Fu simbolo di una reazione della "maggioranza silenziosa", come molti la definirono, alla strada ugualitaristica intrapresa nel decennio precedente, al termine della quale vi poteva solo essere, sostennero alcuni, una società in cui tutti avrebbero guadagnato la stessa cifra e avrebbero avuto lo stesso tenore di vita (eccetto i gerarchi del partito egemone, ovviamente).

Quale sia stato il ruolo effettivo di quella manifestazione, così come la sua vera numerosità, è questione che riguarda gli storici contemporanei. Sta di fatto che il conflitto distributivo negli anni Settanta si era volto a favore dei salariati dell'industria come mai prima e come mai più dopo: in Italia la quota del valore aggiunto (una misura del prodotto nazionale) che andava al lavoro dipendente raggiunse in quel comparto i due terzi a metà del decennio, da meno del 45% nel 1950. Ricadde fino al 50% nei vent'anni successivi, è risalita fin poco sopra il 55% ai giorni nostri. Traggo questi dati dal bel saggio recente di Andrea Brandolini in onore del sindacalista della Cisl Pierre Carniti.

L'industria non è necessariamente rappresentativa dell'intera economia produttiva, contribuendo al valore aggiunto nazionale ormai solo per un sesto. Inoltre le retribuzioni nell'industria sono anch'esse non necessariamente simili a quelle, per esempio, del commercio, che assorbe quasi lo stesso numero di occupati della manifattura. Coloro che operano nell'industria poi, o come percettori di retribuzioni o come beneficiari di profitti, sono ancor meno rappresentativi dell'intera società, pensionati e disoccupati compresi. Per questo dobbiamo passare dalle singole persone alle famiglie e ricorrere a indagini come quella della Banca d'Italia, che usa il concetto di "reddito medio equivalente reale", una misura convenzionale del livello di benessere individuale di tutti i cittadini, che parte dal reddito familiare e lo corregge per tenere conto delle economie di spesa che derivano dalla coabitazione familiare.

Con questa misura si ottiene un quadro diverso. La disuguaglianza nella distribuzione dei redditi equivalenti è, sì, discesa fino alla prima metà degli anni Ottanta, ma da allora la disuguaglianza ha registrato oscillazioni contenute, fatta eccezione per l'impennata della recessione del 1992-93. In particolare, negli anni della Crisi non è cambiata molto, stabilizzandosi su valori prossimi a quelli della fine degli anni Settanta, relativamente elevati nel confronto internazionale[12].

In Italia il problema principale sembra essere stato la contrazione di tutti i redditi, più che la loro distribuzione. Però l'impoverimento complessivo del paese ha acuito le difficoltà di chi è nella parte bassa della distribuzione, aumentando la quota degli individui in povertà assoluta, ovvero di chi ha una spesa per consumi insufficiente a raggiungere standard giudicati socialmente dignitosi. Si è poi accentuato il divario per classi di età: quelle giovani hanno sofferto in particolare gli esiti della Crisi[13].

E nel confronto internazionale? Tony Atkinson diceva che non è corretto fare riferimento a tendenze comuni perché ogni paese produce una sequenza di episodi distributivi che dipendono dalle specificità storiche, sociali, politiche di ciascuno[14]. A fattori comuni ai vari paesi si sono sommati nel nostro fattori tipicamente italiani, legati alle vicende sociali e politiche del nostro paese.

Tra i fattori comuni spicca la rivoluzione tecnologica. Che però in Italia è stata meno sfruttata che altrove. Secondo un'opinione diffusa[15] essa è la causa principale della crescita economica bassa dell'economia italiana dalla metà degli anni Novanta a oggi, quindi anche della mancata crescita dei redditi. La tecnologia, che ha concorso ovunque ad allargare le disuguaglianze, in Italia sta invece dietro al fatto che la torta del reddito complessivo è cresciuta poco; il risultato è stato comunque un acuirsi del malessere della società, soprattutto nelle fasce di reddito basse, anche se le disuguaglianze in senso proprio non si sono ampliate come altrove.

Quello che rileva ai nostri fini è che, in tutto il mondo avanzato, le disuguaglianze vengono percepite e combattute in modo diverso dal passato. La protesta sociale si rivolge prevalentemente contro il diverso, l'alieno, lo straniero accusato di rubare il lavoro, più che contro chi organizza la produzione e decide chi e dove debba produrre, secondo le convenienze dell'impresa. Si guarda al vicino, si invidia o si denuncia il fatto che guadagni un po' più di noi, si grida all'immoralità e al tradimento se i soldi che percepisce hanno una qualche natura pubblica.

Tutto giusto, tutto sacrosanto. Ma è un tradizionale conflitto distributivo? È un conflitto salari contro profitti, lavoro contro capitale? No, è un conflitto prevalentemente lavoro contro lavoro, è una guerra tra poveri. Non è la rabbia contro il ricco Arpagone che accumula oro nei suoi cassetti, non è l'iraconda rivendicazione, pugni alzati al cielo, dei lavoratori manuali e subordinati contro chi si pasce intascando cedole. Questa è l'iconografia del passato, non vale più. Ora ci si strappa di mano una singola moneta d'oro, accusandoci l'un l'altro di averla rubata. Si presta poca attenzione a chi l'ha lanciata nel mucchio dei pretendenti.

C'è un'eccezione a quest'apparente distrazione, ed è la finanza. Contro l'industria finanziaria si lanciano occasionalmente invettive, in ogni paese del mondo, da parte di chiunque non vi lavori. In questo caso la vecchia iconografia vale ancora, si continua a immaginare fantasticamente il banchiere o il fund manager - come al tempo dell'espressionismo tedesco e di George Grosz - nelle vesti di un grasso signore con sigaro e anello d'oro, che si arricchisce delle miserie altrui; o se si vuole aggiornare il proprio repertorio di caricature, come un abbronzato e brizzolato Mercurio disteso su un panfilo al largo di Portofino o di Miami mentre gli altri faticano. È un pensiero vecchio come la finanza stessa, come il denaro.

Ma il vecchio conflitto fra lavoro e capitale è passato in secondo piano, i sindacati sono l'ombra di quel che erano negli anni Settanta, almeno in alcuni paesi europei, sono frammentati e corporativizzati. Nessuna nostalgia, per carità, sono tempi lontani, consegnati alla storia, tempi duri e cupi in cui molti dei problemi che tuttora ci affliggono in Italia hanno avuto origine. Mi limito a descrivere un fatto.

Arpagone non è più il padrone delle ferriere di tanti anni fa, è diventato il nostro vicino di casa, magari impiegato pubblico, magari immigrato. In Italia come negli Stati Uniti, o in Inghilterra, o in Francia, o in Germania.

 

[1] Prendo questi proverbi da: E. Soletti, I proverbi dell'oro, in L'oro e l'alloro. Letteratura ed economia nella tradizione occidentale, San Salvatore Monferrato, Interlinea edizioni, 2001.

[2] Il premio Nobel per l'economia John Hicks definiva "il reddito di un individuo come il massimo valore che egli possa consumare durante la settimana, potendo tuttavia attendersi altrettanto benessere alla fine della settimana quanto ne aveva al principio" (Valore e capitale, Torino, Utet, 1954, p. 189).

[3] A. Baffigi, L. Cannari e G. D'Alessio, Cinquant'anni di indagini sui bilanci delle famiglie italiane: storia, metodi, prospettive, Banca d'Italia, "Questioni di Economia e Finanza", n. 368, dicembre 2016.

[4] Dai primi anni Duemila, la Bce e le banche centrali dell'area dell'euro conducono la Household Finance and Consumption Survey, un'indagine armonizzata a livello europeo che ha caratteristiche simili a quella della Banca d'Italia. Si veda https://www.ecb.europa.eu/pub/economic-research/research-networks/html/researcher_hfcn.en.html.

[5] I. Visco, La ricchezza della nazione. Educazione finanziaria e tutela del risparmio, Senato della Repubblica, Commissione Finanze e Tesoro, 30 marzo 2017.

[6] R.E. Lucas Jr., The Industrial Revolution: Past and Future, in Federal Reserve Bank of Minneapolis - The Region, maggio 2004. La traduzione è di Andrea Brandolini ed è contenuta nel suo saggio Riflessioni sparse in margine al dibattito sulla disuguaglianza, in Pensiero, azione, autonomia. Saggi e testimonianze per Pierre Carniti, a cura di M. Colombo e R. Morese, Roma, Edizioni Lavoro, 2016, pp. 143-172.

[7] R. Baldwin, The Great Convergence. Information Technology and the New Globalization, Cambridge, Harvard University Press, 2016.

[8] D. Rodrik, Has Globalization Gone Too Far?, Washington, Institute for International Economics, 1997; A.B. Atkinson, Is Rising Income Inequality Inevitable? A Critique of the Transatlantic Consensus, Third Wider Annual Lecture, 1999.

[9] Basti qui ricordare il successo planetario del libro di Thomas Piketty, Il capitale nel XXI secolo, Milano, Bompiani, 2014. Per una sintesi del dibattito successivo, si veda R. De Bonis, Thomas Picketty. Il capitale del XXI secolo: istruzioni per l'uso, in "Rivista di storia economica", dicembre 2015.

[10] Cfr. A. Brandolini e T.M. Smeeding, Income Inequality in Richer and Oecd Countries, in The Oxford Handbook of Economic Inequality, a cura di W. Salverda, B. Nolan e T.M. Smeeding, Oxford, Oxford University Press, 2009, pp. 71-100; A.B. Atkinson e T. Piketty (a cura di), Top Incomes. A Global Perspective, Oxford, Oxford University Press, 2010.

[11] J. Stiglitz, Il prezzo della disuguaglianza: come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro, Torino, Einaudi, 2014.

[12] L'indice di Gini, un indice che varia tra 0 quando vi è perfetta uguaglianza nella distribuzione e 100 quando tutto il reddito è concentrato nelle mani di una sola persona, è aumentato dal 29% nel 1991 al 33% nel 1993; ha raggiunto un massimo di 34% nel 1998 e sta da allora oscillando tra il 32% e il 33%.

[13] A. Brandolini, I bilanci delle famiglie italiane dopo la Grande Recessione, in Politica in Italia. I fatti dell'anno e le interpretazioni. Edizione 2014, a cura di C. Fusaro e A. Kreppel, Bologna, Il Mulino, 2014, pp. 247-271.

[14] A.B. Atkinson, Disuguaglianza. Che cosa si può fare?, Milano, Cortina, 2015.

[15] Cfr., ad esempio, S. Rossi, La nuova economia: i fatti dietro il mito, Bologna, Il Mulino, 2003.