La conclusione è che Sotiropoulos aveva trovato da qualche parte il bandolo della matassa, ma non ha voluto condividere con me le sue informazioni perché mirava all'effetto Big Bang. Solo che il Big Bang gli è costato la vita.

Mentre rifletto arrivo in ufficio e trovo sulla scrivania un pacco di relazioni. Le prime tre sono quelle del medico legale: la prima sull'omicidio Sotiropoulos e le altre due sugli omicidi Lalopoulos e Chardakos. Le lascio da parte perché non mi direbbero nulla che già non sappia.

L'altro documento è la perizia balistica. Sotiropoulos è stato ucciso con una Beretta Px4 Storm. La Beretta è un'arma molto diffusa, chiunque potrebbe averne una, il che significa che dall'arma del delitto non possiamo dedurre nulla circa l'omicida.

Continuo a vagliare ossessivamente i dati fornitimi da Kyriazidis. Cerco un sistema per completarli, ma non lo trovo. Se cominciassi a far visita agli armatori, qualcuno potrebbe parlarne con il ministero della marina mercantile, la voce arriverebbe in quattro e quattr'otto al vicecomandante e allora, buonanotte al secchio!

Finisco per scegliere la mossa meno pericolosa: una visita a Cleante Chardakos. Chardakos figlio è direttamente coinvolto nel caso, quindi la mia iniziativa può avere una sua ragione intrinseca.

Telefono alla segretaria che mi comunica che il signor Cleante Chardakos sarà disponibile tra qualche ora.

Parto per il lungomare Kondili senza i miei assistenti, sia per non caricarli di responsabilità che sono solo mie, sia perché voglio dare l'impressione di una visita di cortesia anziché di un colloquio di lavoro.

La prima sensazione che ho entrando negli uffici della West Shipping è quella della normalità. Gli impiegati sono alle loro postazioni, nessuno dà peso al mio arrivo. La morte del fondatore della compagnia sembra appartenere a un passato ormai remoto.

Lo stesso vale per la segretaria di Chardakos. Mi saluta con il tipico sorriso delle segretarie e un'aria che sta a significare che mi vede per la prima volta. L'unica differenza è che non mi fa entrare nell'ufficio di Chardakos padre ma in quello a fianco, dove regna Chardakos figlio.

Cleante Chardakos si alza per accogliermi. Il suo sguardo e la sua stretta di mano non mi rivelano se la mia visita lo sorprenda o no.

"C'è qualcosa di nuovo, signor commissario?" mi chiede mentre ci sediamo.

"Non so se ha saputo dai giornali o dalla televisione dell'omicidio di un giornalista, Menis Sotiropoulos."

"Sì, ho saputo. Era quello che aveva fatto le domande alla press conference del ministro della marina mercantile."

"Proprio lui. Volevo chiederle se era mai venuto a farle visita."

"Sì, era venuto ma non l'avevo ricevuto. Sono un imprenditore, non gradisco troppo parlare con i giornalisti."

"Si ricorda se l'ha incontrato prima o dopo la conferenza stampa del ministro?"

Ci pensa ma non riesce a ricordare, quindi chiama la segreteria. "Ourania, per caso ti ricordi quando è venuto a chiedere una interview quel giornalista che poi hanno ammazzato?" Ascolta la risposta e me la riferisce: "È stato dopo."

Ora arriva la parte difficile, devo stare attento a come gliela servo. "Dagli interrogatori che stiamo facendo sull'omicidio di Sotiropoulos risulta che il giornalista si interessasse ai due incidenti occorsi alle vostre navi, in Thailandia e a Odessa," gli dico con il tono più neutro che riesco ad assumere.

"E perché lo interessavano?" mi chiede.

"Da quel che abbiamo saputo, Sotiropoulos credeva che a Odessa la vostra nave fosse stata affondata dalla mafia ucraina in combutta con quella russa."

Chardakos alza le spalle. "Fino a questo momento non sappiamo chi ha affondato il carico di armi per il governo ucraino. In quei paesi le mafie hanno un grande potere. Potrebbero essere stati loro, ma a noi non risulta né questo né altro."

"E riguardo al disastro in Thailandia, c'è qualcosa che potrebbe dirmi?"

Mi guarda, d'un tratto, con uno sguardo ostile: "Crede che siamo stati noi stessi ad affondare la nave per incassare l'assicurazione?" mi chiede.

"Signor Chardakos, io non rappresento una compagnia di assicurazioni ma la polizia," gli rispondo. "Stiamo indagando su un crimine e cerchiamo di capire se i due disastri navali che avete subito possano essere collegati con quel crimine, visto e considerato che Sotiropoulos se ne stava occupando. Altrimenti non sarei qui a chiederle ragguagli."

La mia risposta sembra tranquillizzarlo. "La nave in Thailandia l'hanno affondata i pirati," riprende. "Chiedevano denaro, ransom. Noi non abbiamo pagato e loro l'hanno incendiata. Ma vede, la nave era assicurata, il carico era assicurato. Perché pagare? Certo, sono morti tre membri dell'equipaggio, e questo è un collateral damage: come si dice in greco?"

"Più o meno come in inglese", rispondo con qualche esitazione perché non sono del tutto sicuro di aver compreso cosa ha detto.

"Giusto: danno collaterale. Non potevamo farci nulla," mi risponde.

Bene, ma se il danno collaterale è costato la vita a suo padre, come hanno confessato i due assassini? Chissà. Non abbiamo ancora una risposta a questa domanda.

"La vostra compagnia di navigazione ha ricevuto altre minacce?" chiedo.

"No, da nessuno," mi risponde con sicurezza.

Se anche le minacce non fossero venute dai pirati ma da qualcun altro, e avessero avuto a che fare con la sua azienda, non me lo direbbe.

Non ho altro da chiedergli, mi alzo. "La ringrazio per il suo tempo, signor Chardakos," lo saluto avviandomi. Saluto con un cenno anche la segretaria e me ne torno come ero partito: senza sapere niente di più.

 

 

29

Entro nel mio ufficio con la brutta sensazione che l'omicidio di Sotiropoulos sia a un passo dal vicolo cieco. Tutti i fili si spezzano prima di riuscire a farli passare attraverso la cruna dell'ago. Cerco in ogni modo di trovare un pertugio per entrare, finché un salvagente me lo lancia la stazione di polizia di Ilioupoli.

"Qui Papadias, dirigente della stazione di Ilioupoli, signor collega. Abbiamo individuato quell'asiatico di cui le ha parlato l'edicolante, quello che si aggirava nella zona. Immagino che voglia interrogarlo."

"Immagina bene, collega," gli rispondo. "Gli avete già fatto qualche domanda?"

"No, l'abbiamo lasciato agli esperti. Abbiamo solo provveduto a far venire l'edicolante per il riconoscimento, così abbiamo scoperto anche il suo indirizzo. Sta ad Aghios Dimitrios."

"Perfetto. Mando un'autopattuglia per recuperarlo."

Chiudo e affido al trio degli assistenti il compito di portarmelo in Centrale. Approfitto dell'attesa per chiamare Stella e informare Ghikas, ma la segretaria mi dice che il capo è in riunione con la divisione Narcotici, e che mi farà telefonare quando avrà finito. In effetti, non faccio in tempo a bere il caffè che Ghikas mi chiama e mi invita a salire.

Lo trovo seduto alla scrivania che si tiene la testa con entrambe le mani. "Questi della Narcotici ti fanno uscire pazzo. L'unica cosa che sanno dire è che vogliono salvare i ragazzini dalla droga. Non si rendono conto che, contemporaneamente, dobbiamo proteggere la città dai terroristi, dai criminali e persino dagli incidenti stradali." Poi si concentra e torna a noi. "Ma tu vuoi dirmi qualcosa."

Lo informo che abbiamo individuato l'asiatico che si aggirava nei dintorni della casa di Sotiropoulos, e che me lo sono fatto portare in Centrale per interrogarlo.

"E allora che cosa ti aspetti da lui?"

"Che ci dia qualche indizio per procedere nelle indagini, perché stavolta siamo sperduti nello spazio."

"D'accordo, quindi non c'è bisogno che telefoni al vicecomandante. Ho i nervi a pezzi e non ho proprio voglia di stare a sentire le sue trovate."

"Era proprio quello che volevo chiederle: di non informare il vicecomandante."

"Bene. Allora cerca di tirar fuori dall'asiatico quello che ti serve e poi ne riparliamo."

Di ritorno nel mio ufficio Papadakis mi dice che l'asiatico è nella sala degli interrogatori. Passo prima nell'ufficio dei miei assistenti e dico a Vlasopoulos e a Papadakis di andare con un fabbro e un agente della Scientifica a ispezionare la casa dell'asiatico, conoscendo l'indirizzo che ci ha dato il dirigente della stazione di polizia di Ilioupoli. Io e Koula, intanto, andiamo a interrogarlo.

Questo asiatico è un omino magro, intorno ai cinquant'anni. Indossa una camicia e una giacca a vento di poco prezzo. Ha ancora le manette ai polsi, ma non sembrano infastidirlo. Mi sorride. Dermitzakis gli siede di fronte.

"Levagli le manette," dico.

L'omino si massaggia i polsi.

"Come ti chiami," gli chiedo.

"Mahmud. Mahmud Teraki."

"E di dove sei?"

"Iraq. Sono scappato con la guerra. Passato Turchia e venuto Grecia."

"Che lavoro fai?"

"Quello che trovo. Un giorno ho lavoro e dieci no."

"E a Ilioupoli che ci fai?"

"Lavoro."

"Lascia perdere, va'," gli dice Dermitzakis a muso duro, perché deve fare la parte dello sbirro cattivo. "Chi cerca lavoro lo cerca dalle parti dove abita, dove ce n'è. Non va in giro per quartieri estranei. Il lavoro non si fa trovare da solo."

"Un uomo detto che mi prendeva per mettere parquet casa sua. Buon lavoro e aspettavo per non perdere. Ma non venuto."

"E come si chiama questo che ti ha promesso il lavoro?"

"Signor Pandelis."

"E hai aspettato questo signor Pandelis per una settimana? Ci prendi in giro?"

"Se non c'è lavoro aspetti."

"Quello che hanno ammazzato lo conoscevi?" gli chiedo.

"Lo vedevo quando entrava e usciva di casa."

"Hai visto con chi parlava?"

"Parlava con tutti. Diceva buongiorno alla gente. Parlava con edicolante."

"Sei stato parecchio tempo in giro nella zona. Ormai sai chi ci abitava e chi era solo di passaggio. L'hai visto parlare sempre con gente del quartiere o anche con altri?"

"Solo con gente che abitava lì."

"E hai visto qualcun altro che girava lì come te?"

"No. Ogni giorno sempre stesse persone."

In quell'istante mi squilla il cellulare. È Vlasopoulos. "Abbiamo trovato la pistola, signor commissario," mi annuncia trionfante.

"Complimenti, vi aspetto."

Dermitzakis mi scocca un'occhiata interrogativa, io lo ignoro. "Ti teniamo ancora un po' per acquisire i tuoi dati, e poi ti lasciamo andare," dico a Mahmud.

Non accenno alla pistola, preferisco vedere la sua reazione quando gliela metteremo sotto il naso.

Spedisco l'asiatico in cella in attesa dell'arrivo della pistola. A quel punto ricominceremo da capo.

"Le sembra credibile come assassino?" mi chiede Koula quando usciamo dalla sala degli interrogatori. "A me sembra piuttosto un disperato."

"Abbiamo trovato la pistola a casa sua. Questo è quanto mi ha detto Vlasopoulos al telefono."

Tiene il computer sotto il braccio sinistro e con il destro si fa il segno della croce. "In questo lavoro ogni giorno c'è una sorpresa. È impossibile annoiarsi, signor commissario."

La lascio e vado nel mio ufficio. Se la pistola che hanno ritrovato i miei assistenti è l'arma del delitto, è quasi certo che si è trattato di una rapina. Un ometto come Mahmud può aver ucciso Sotiropoulos solo per derubarlo. Quello che ha raccontato, che stava lì in zona perché gli avevano promesso un lavoro, è una balla. Stava ispezionando i dintorni per scegliersi una vittima. Si è accorto che di notte il quartiere è tranquillo, senza traffico, e quando ha visto Sotiropoulos uscire di casa con lo zaino l'ha ammazzato e gliel'ha portato via.

La porta del mio ufficio si spalanca con violenza e irrompono i miei due assistenti, strafelici. Vlasopoulos lascia sulla mia scrivania un sacchetto di plastica con dentro la pistola. La riconosco alla prima occhiata: è una Beretta.

"È successo di tutto!" dice Vlasopoulos.

"Cioè?"

"Appena il fabbro ha cominciato ad armeggiare con la serratura, si è aperta la porta e ne è uscita una donna con il velo che si è messa a strillare. Le abbiamo detto che siamo della polizia e allora ha cominciato a urlare ancora di più. Il tizio vive in due locali con la moglie e due figli. Per fortuna i ragazzi erano a scuola."

"Dove avete trovato la pistola"? gli chiedo.

"La coppia dormiva sul pavimento su due materassi accostati. La pistola era nascosta proprio nel mezzo, tra loro due. Ma si vede che lei non ne sapeva niente, si è sorpresa e ha cominciato a strapparsi i capelli con tanta violenza che le è persino caduto il velo. Abbiamo cercato di farle capire che non abbiamo nulla contro di lei, ma niente: ha continuato a strapparsi i capelli e a strillare. Alla fine l'abbiamo lasciata così e ce ne siamo andati."

"Dite a Dermitzakis di riportare l'asiatico nella sala degli interrogatori."

Mi avvio anch'io con la pistola. Tutti e quattro i miei assistenti si sono radunati per godersi lo spettacolo.

Poggio la Beretta davanti all'asiatico. "Ecco che cosa abbiamo trovato a casa tua, tra i due materassi dove dormi."

La notizia lo sconvolge, si alza in piedi e si mette a gridare: "Mia moglie! Dov'è mia moglie? Dove sono miei figli?"

"Sono a casa," lo tranquillizza Vlasopoulos. "Non abbiamo nulla contro tua moglie o i tuoi figli."

Mahmud si calma, respira a fondo e torna a sedersi.

Guarda prima la pistola, poi me e abbassa lo sguardo. Non apre bocca. Non dice niente.

"Abbiamo trovato la pallottola che ha ucciso il giornalista," gli spiego per rendergli la cosa più facile, visto che preferisce stare zitto. "Sottoporremo la pistola a un controllo, e se scopriremo che si tratta dell'arma che ha sparato non ci sarà più nessun dubbio che sei stato tu a ucciderlo. Se però confessi prima, diremo che hai collaborato e questo avrà la sua importanza in tribunale. Ti suggerisco quindi di parlare, per alleggerire la tua posizione."

Continua a tacere e a guardare davanti a sé.

"Sono stato io a ucciderlo," mormora alla fine.

"Perché?"

"Per rubargli zaino. Erano giorni che aspettavo signor Pandelis, ma niente signor Pandelis. Alla fine ho detto: se oggi signor Pandelis non viene, rubo chi trovo perché bambini hanno fame. Mezzogiorno sono andato via, ma sono tornato sera, per non farmi vedere. Mi nascondo e aspetto. Vedo signore che esce con zaino e va sua macchina. Apre porta e mette dietro zaino, poi apre davanti e si siede. Allora io corro e dico: 'Voglio parlarti.' Lui abbassa finestrino e io allora sparo. Poi apro porta dietro, prendo zaino e corro via." Si ferma, tira il fiato e conclude. "È andata così."

"D'accordo, ma non hai pensato a tua moglie e ai tuoi figli?" gli chiede Papadakis.

"Se hanno fame ci penso anche di più."

"Dove hai trovato la pistola?"

"L'avevo."

"Come facevi ad avercela? Non mi dirai che te l'hanno regalata?" interviene Vlasopoulos.

"Ho fatto altre rapine e avevo con me, se va male qualcosa."

"Quante rapine hai fatto?" gli chiedo.

"Tre con questa. Ma è prima volta che ammazzo persona."

Le rapine non ci interessano. Quando avremo finito con lui lo prenderanno in carico i colleghi. Comunque, le cose che ci ha detto suonano convincenti. Aspettava un lavoro, il lavoro non è arrivato, ha perso le speranze e ha ammazzato Sotiropoulos per rubargli lo zaino.

"E perché oggi sei tornato nello stesso posto dove hai commesso l'omicidio?" gli chiede Papadakis.

"Volevo sapere che cosa era successo e cosa diceva la gente."

"E non hai avuto paura?"

"No, perché tutti sapevano che andavo lì per cercare lavoro." Scuote la testa. "Ma ho sbagliato. E sono qui."

"Hai trovato dei soldi nello zaino?"

"Trecento euro. Con trecento euro vivo due mesi."

"E dello zaino che ne hai fatto?"

"L'ho buttato. Zaino, portafogli. Tutto."

Ecco che si chiarisce ogni cosa. Non c'è più niente: né denaro sporco né pulito. Sotiropoulos, il giornalista investigativo, che cercava tutto e se la prendeva con tutti, è morto come un cane ucciso dalla pallottola di un rapinatore. Che poi Sotiropoulos indagasse anche sul denaro sporco nel caso Chardakos, be', quello non ci interessa più perché non ha niente a che fare con il suo omicidio.

"Prepara la sua deposizione e fagliela firmare," dico a Koula. Poi mi rivolgo agli altri. "Una volta raccolta la deposizione, passatelo alla sezione Rapine, stabiliranno loro gli altri crimini che ha commesso."

Lascio ai miei assistenti le questioni burocratiche e vado dritto filato al quinto piano per aggiornare Ghikas.

Lo trovo nell'atrio mentre rimprovera Stella, che lo ascolta a capo chino.

Mi vede e interrompe la ramanzina. "Cosa c'è?"

"C'è che abbiamo arrestato l'assassino di Sotiropoulos," gli rispondo.

"Vieni a raccontarmi tutto."

Lo seguo nel suo ufficio, mentre Stella mi lancia uno sguardo pieno di gratitudine per averla salvata dal resto della predica.

Gli faccio un rapido rapporto che comprende l'identificazione di Mahmud da parte della stazione di polizia di Ilioupoli, la scoperta dell'arma del delitto e la confessione del responsabile.

"Perciò si tratta di una rapina," conclude.

"Non abbiamo elementi che ci facciano pensare ad altro."

"Da un lato mi dispiace per Sotiropoulos, morto davvero in modo insensato. Dall'altro sono contento che non ci sia dietro niente di più complicato. Altrimenti avremmo avuto a che fare sia con i giornali sia con i politici," mi dice, sollevato. "Ora possiamo telefonare al vicecomandante."

Lo chiama e gli illustra il mio rapporto. Ascolta la replica del vice con un sorriso, e mi passa la cornetta. "Vuole parlarti."

"Buongiorno, signor vicecomandante."

"Congratulazioni, signor commissario. Non solo ha risolto il caso, ma ha anche messo a tacere qualunque diceria. C'erano voci fatte circolare dai colleghi di Sotiropoulos su chissà quale complotto."

Riattacco con i ringraziamenti e le belle parole, ma anch'io mi sento più sollevato. Per quanto mi dispiaccia per Sotiropoulos, non posso non essere soddisfatto che ce la siamo cavata senza complicazioni.

 

 

30

Finalmente, ieri è stata la prima sera tranquilla e la prima notte in cui ho dormito come un ghiro. La solitudine di coppia, nella nostra famiglia, è il segnale che tutto va per il meglio. Lo studio legale di mia figlia ha fatto un salto di qualità; mio genero ha la prospettiva di un aumento di stipendio: non c'è nessuna ragione per farsi venire preoccupazioni e piangere sull'amaro destino.

Siedo con Adriana davanti al televisore, mentre i giornalisti ci illustrano quelle che, durante la crisi, quando stavamo affondando, chiamavano success stories. Ora i successi del governo arrivano uno dopo l'altro, gli encomi degli europei per "il miracolo greco" non accennano a diminuire, e noi ce ne stiamo qui, muti, come tutte le persone che di fronte al sublime perdono la parola.

Dopo, vado al lavoro con la mia Seat, riposato e di buon umore. Persino l'orda dei giornalisti non riesce più a rovinarmi la giornata. Del resto, l'accoglienza che mi rivolgono è tutt'altro che aggressiva.

"Congratulazioni, signor commissario, l'avete catturato," mi dice la bassina con i collant rosa.

"Tutti abbiamo festeggiato per la cattura del responsabile dell'omicidio di Sotiropoulos," commenta il giovanotto con la T-shirt.

"Sì, abbiamo festeggiato, ma non è facile rassegnarsi al fatto che Menis abbia terminato la sua vita come vittima di una rapina," commenta Merikas, abbattuto.

L'unica che non apre bocca è quella alta e secca. Sotiropoulos non le andava giù, ma non osa fare commenti acidi perché sa bene che gli altri le salterebbero addosso. Di conseguenza, preferisce tacere.

"Come avete fatto a catturarlo?" chiede Merikas.

"A volte la fortuna è dalla nostra parte, e comunque ci sono state alcune coincidenze che ci hanno favorito," gli rispondo prima di spiegargli per filo e per segno come siamo arrivati all'arresto dell'asiatico.

Mi rifanno i complimenti e se ne vanno, mentre io entro in ufficio per la prima volta soddisfatto: non è cosa di tutti i giorni ricevere congratulazioni da parte dei giornalisti.

Mi siedo a godermi il caffè e la brioche, certo che, almeno per oggi, non dovrò correre dietro a nulla. Ma, com'è ben noto, l'uomo propone e Dio dispone, e quindi, più o meno al secondo morso, squilla il telefono. È Vellidis, della sezione crimini informatici.

"Ho delle novità."

"Buone o cattive?" gli chiedo giusto per la voglia di scherzare.

"Vieni nell'ufficio di Ghikas, così non mi devo ripetere due volte."

Non posso dire che l'idea mi faccia impazzire, essendomi immaginato una giornata tranquilla. D'altra parte non posso far finta di nulla fischiettando con indifferenza, perciò mi adatto a una soluzione intermedia: finisco il caffè prima di prendere il direttissimo per il quinto piano.

Vellidis è già lì con Ghikas. Entrambi hanno il viso corrucciato, capisco che è successo qualcosa di grave.

"Siediti, quello che stai per sentire non ti piacerà," mi annuncia Ghikas.

"È probabile che Poseidon 16 fosse Menis Sotiropoulos," dichiara Vellidis.

Resto di stucco.

"Ne sei certo?" gli chiedo quando ritrovo la voce.

"Siamo entrati nel suo blog e da lì siamo risaliti all'indirizzo elettronico. A quel punto abbiamo individuato i file e scoperto tutto."

Apre una busta e rovescia sulla scrivania le fotocopie dei comunicati pubblicati da Poseidon 16.

Qualunque indagine avessi svolto per individuare Poseidon 16, non mi sarebbe mai passato per la testa che potesse trattarsi di Sotiropoulos. La prima cosa che mi viene da pensare è che facesse circolare quei comunicati un po' come il pescatore che butta le reti sperando di acchiappare qualcosa. Sotiropoulos non era il classico habitué dei social. Evidentemente, il suo obiettivo era di provocare delle reazioni per scovare notizie interessanti.

"In ogni caso, questa scoperta ha per noi solo un interesse accademico, dato che Sotiropoulos ci ha lasciato per sempre," commenta Ghikas.

Ma all'improvviso scatto in piedi. "Il computer!" esclamo.

Entrambi mi guardano come fossi pazzo. "Quale computer?" mi chiede Ghikas.

"Il computer di Sotiropoulos. Non abbiamo trovato il suo computer. Né in casa né in auto."

"Dove potrebbe essere?" chiede Vellidis.

"Ce l'aveva nello zaino e gliel'ha preso l'asiatico. Sotiropoulos doveva forse temere che potessero fare irruzione nel suo appartamento e prenderglielo, per questo lo portava con sé. L'asiatico ci ha detto di aver trovato trecento euro nello zaino, ma la verità è che ci ha trovato anche il suo computer. Ed era proprio quello che cercava," esclamo fuori di me per la mia coglionaggine.

"E cosa ne ha fatto? L'ha venduto?" chiede Ghikas.

"Lo ha consegnato ai mandanti, a coloro che gli hanno ordinato di uccidere Sotiropoulos," gli rispondo. "L'omicidio di Sotiropoulos non è avvenuto a causa di una rapina. Qualcuno ha scoperto prima di noi che Poseidon 16 era lui, e volevano il suo computer. Sospetto che non avessero interesse per i messaggi che aveva caricato sul sito. Volevano capire se sapeva di più. Non prendiamoci in giro: Sotiropoulos seguiva le tracce di persone che di sicuro sono molto più abili di noi con i computer e ci hanno anticipato. Quanto all'asiatico, non è un ladro ma lo strumento per uccidere. La rapina era una messa in scena."

Mi fermo, senza fiato. Quando mi riprendo mi rivolgo a Vellidis. "Ghiannis, non ti limitare a quello che è stato caricato in internet. Cerca dappertutto, anche se temo che non troverai niente perché quelli avranno già cancellato ogni cosa. Ma qualche particolare, chissà, potrebbe anche essergli sfuggito."

Mi alzo e mi dirigo alla porta. "Dove vai?" mi chiede Ghikas.

"A interrogare l'asiatico, poi torno," spiego.

Non ho tempo di aspettare l'ascensore, scendo le scale a due a due e irrompo nell'ufficio dei miei assistenti.

"Portatemi subito qui l'asiatico."

Prima mi guardano, poi si guardano tra di loro cercando di capire a che cosa si debba la mia aria sconvolta.

"Ha firmato la confessione e l'abbiamo mandato dal giudice istruttore," mi comunica Koula.

"Ma è ancora in cella?"

"Non lo so. Chiedo." Telefona, scambia due parole e poi mi informa: "Sono sulla strada verso Koridallos."

"Ordinate all'autopattuglia di tornare indietro."

Koula riprende in mano la cornetta, mentre gli altri tre assistenti continuano a osservarmi come se avessero a che fare con un folle. Mi rendo conto di dovergli spiegare che cosa sta succedendo, perciò faccio un rapido sunto della conversazione con Vellidis a proposito di Poseidon 16. Dopodiché ripropongo la mia ricostruzione dei fatti, quella già esposta a Ghikas.

Segue una pausa di silenzio, indispensabile per mandar giù la sorpresa.

"Non mi sarebbe mai passato per la testa che Poseidon 16 potesse essere Sotiropoulos," dice Papadakis.

"Neanche a me," gli confesso. "Ma questo cambia completamente il contesto dell'omicidio."

Li lascio a digerire il fatto e vado nel mio ufficio. Telefono subito a Kyriazidis, e ora tocca a lui rimanere di stucco quando gli racconto la storia di Poseidon 16.

"Ma come gli è venuto in mente di organizzare tutto questo gioco?"

"Perché sparava a casaccio sperando di beccare qualcosa. Forse pensava di ottenere notizie sulla base delle reazioni che avrebbe suscitato in rete. Ma è una tattica che gli è costata la vita. Sa niente, lei, del computer di Sotiropoulos? Era un portatile?"

"Certo. Era un Mac. L'aveva sempre con sé. Anzi, l'ultima volta che l'ho visto l'aveva pure acceso prima di farmi le sue domande."

La conferma di Kyriazidis non mi lascia dubbi: nello zaino che ha preso l'asiatico c'era anche il computer.

Ma ecco che Vlasopoulos mi interrompe. "È qui, signor commissario."

"Arrivo subito."

Riattacco e mi dirigo nella sala degli interrogatori. Dopo pochi istanti, Vlasopoulos e Dermitzakis fanno entrare Mahmud in manette.

"Cosa ne hai fatto del computer che la tua vittima aveva nello zaino?" gli chiedo prima ancora che faccia in tempo a sedersi.

Non sa che dire, resta in silenzio. Poi, mentre Vlasopoulos gli fa cenno di sedersi, risponde: "Non aveva computer."

"Lascia stare. Sappiamo che Sotiropoulos nello zaino teneva il suo computer. Che cosa ne hai fatto?"

"Io ho preso da zaino trecento euro," insiste. "No computer."

"Stammi bene a sentire," gli dico. "Volevi venderci la storiella della rapina, ma non si è trattato di una rapina. Qualcuno ti ha detto di ammazzare quell'uomo e di prendergli il computer. Dicci chi è stato e a chi l'hai dato."

"Io solo rubare. Trecento euro. Niente computer," insiste. "In zaino niente computer."

"Ma brutto coglione, ti rendi conto in quali guai ti sei messo?" gli urla nelle orecchie Dermitzakis. "Di' la verità, se no non possiamo aiutarti con il giudice istruttore e finisci molto male."

"Io solo rubare," ripete ancora una volta l'asiatico.

È difficile interrogare una persona se non hai modo di fargli pressione. Sono costretto a cambiare metodo. "Va bene. Hai solo rubato," gli dico. "Hai rubato lo zaino, hai trovato il computer e l'hai rivenduto a qualcuno. Dicci a chi l'hai venduto."

"Io trovato soldi e basta, giuro."

"È solo una questione di tempo. Scopriremo a chi l'hai venduto. E allora sì che saranno guai per te."

"Giuro," ripete.

Non ha senso, dico tra me e me. Non parlerà. Non l'ha fatto per rubare ma per i soldi che gli hanno dato e ora ha paura di parlare perché, una volta in carcere, potrebbero fargliela pagare.

"Non mandatelo ancora dal giudice. Non ho ancora finito con lui," dico ai miei.

Torno in ufficio e cerco di fare ordine nei miei pensieri. Per come la vedo, l'omicidio Lalopoulos non può avere a che fare con quello di Sotiropoulos. Di conseguenza Poseidon 16 e il computer si collegano al caso Chardakos e ai naufragi delle due navi.

I due assassini di Chardakos hanno confessato e sono in carcere a Koridallos. Il mistero si concentra allora sui naufragi. Era su quelli che indagava Sotiropoulos. Non gli interessavano gli assassini, ma i naufragi. La questione, però, è che ogni volta che ci muoviamo per cercare qualcosa andiamo a sbattere contro un muro.

 

 

31

Devo a ogni costo trovare il computer di Sotiropoulos. Sono certo che Mahmud se n'è impadronito insieme allo zaino, ma non posso sapere a chi l'ha consegnato. L'asiatico non confesserà perché teme di avere ancora più problemi con noi, ma soprattutto perché ha paura di quelli che gli hanno commissionato il furto. Non ho il minimo dubbio che la rapina e l'omicidio siano il frutto di uno scambio: se avesse venduto il computer ci avrebbe detto a chi proprio per alleggerire la sua posizione.

La necessità aguzza l'ingegno, dice il proverbio, per cui invece di starmene qui a piangere sul mio destino preferisco fare un tentativo estremo e andare di nuovo a perquisire la casa di Mahmud. Non che mi aspetti di trovare il computer - le mie speranze sono pari a zero -, ma potrei scoprire qualcos'altro che mi faccia magari intravedere una luce in fondo al tunnel.

Chiamo Papadakis e gli chiedo di preparare un'autopattuglia. Stavolta porto con me Koula, considerando che potremmo imbatterci nella moglie e nei figli di Mahmud, e la presenza di Koula potrebbe rassicurarli.

Papadakis sceglie a ragione l'itinerario che prevede il passaggio da Nea Smirni: il traffico non è un granché e arriviamo facilmente in viale Papanastasiou. Di lì, scendiamo in via Aghiou Dimitriou.

Mahmud abita in una stradina, via Elassonos, non distante dalla scuola elementare n. 6. È un seminterrato a cui si accede dopo aver sceso cinque scalini dall'ingresso.

Ci apre la moglie, con il velo, proprio come ce l'ha descritta Vlasopoulos. Ci lancia uno sguardo di paura e angoscia, riconosce Papadakis e si mette subito a strillare perché capisce che siamo della polizia.

Koula accorre subito al suo fianco. "Non aver paura," le dice col tono più dolce che riesce a trovare. "Non ti faremo nulla. Cerchiamo una cosa, e appena l'avremo trovata ce ne andremo."

Non so cosa capisca questa donna di quanto Koula le sta dicendo, sta di fatto che, forse tranquillizzata dalla sua dolcezza, comincia sommessamente a singhiozzare, mentre mormora: "Mio marito... mio marito..."

Koula si siede al suo fianco e le tiene la mano senza più parlare, non potendo dirle che non sa quando potrà rivedere il marito. Del resto, neanche la donna si aspetta una risposta. Sta semplicemente piangendo e rimpiangendo la sua assenza.

"Come ti chiami?" le chiede.

"Fatima."

"Sai parlare greco?"

"Poco... So dire forno, pane... So dire fagioli, patate... so dire tè..."

"Fatima: cerchiamo un computer. Tuo marito ti ha portato un computer?"

Non capisce. "Com...?" ripete, ma non riesce a dire la parola intera.

Allora Koula fa il gesto di digitare con le mani e mima le dimensioni di un portatile aperto, con tanto di schermo.

"No, no... no computer!" esclama Fatima, che ha capito.

"Va bene. Diamo un'occhiata e ce ne andiamo. Non aver paura, non ti succederà niente."

"Mio marito... prison?" le chiede.

"Sì. Tuo marito ha ucciso un uomo e ora è in prigione," le spiega Koula, non avendo senso nasconderglielo.

"Iraq, bum!" dice la donna mimando con le mani un'esplosione. "Grecia... prison," e si rimette a piangere.

Mentre Koula la consola, noi iniziamo la perquisizione. È come se questa famiglia vivesse in una tenda con i muri e il soffitto. Gli unici mobili in cucina sono un tavolo e quattro sedie. Nelle altre due stanze, per terra, ci sono due materassi doppi. In uno dorme la coppia, nell'altro i bambini. Gli indumenti sono stesi sui materassi o appesi al muro a dei chiodi.

In teoria avremmo finito in dieci minuti, se non fosse per tre bauli. Papadakis apre il primo e ci trova solo camicie e indumenti intimi per bambini. Nel secondo lo stesso, ma i capi sono da uomo, mentre il terzo contiene indumenti femminili.

Papadakis non si perde d'animo e fruga dentro i tre bauli con meticolosità. Dal fondo del baule della donna tira fuori un grosso braccialetto d'oro, che ci mostra. Anche a noi, che non siamo esperti, sembra molto costoso: oro a ventiquattro carati.

"Andiamo a chiedergli dove l'ha trovato," mi dice Papadakis Koula si è spostata con Fatima in cucina per lasciarci fare la nostra perquisizione con calma.

Papadakis le posa il braccialetto davanti agli occhi, sul tavolo. "Questo è tuo?" le chiede.

La donna lo guarda, poi guarda il braccialetto. "Sì... da Iraq... mio papà," risponde, ma ha lo sguardo sfuggente. Si vede lontano un miglio che mente.

Papadakis prende di nuovo il braccialetto e mi fa cenno di andare nell'altra stanza. "Questo braccialetto viene da qui," mi dice. "Non l'ha portato dall'Iraq."

"Lo so anch'io, ma come dimostrarlo?" replico. "Pensi che sarebbe facile trovare il gioielliere che l'ha venduto a suo marito? E se anche qualcuno ti dicesse che è stato fatto qui, come faresti a sapere che non ne abbiano fabbricato uno uguale in Iraq? Andiamo in Iraq a fare un'indagine? O lo mandiamo alla polizia irachena per accertamenti? Ma a quale polizia? Quella sciita? Quella sunnita? Quella curda? E anche se decidessimo di farlo, che grado di affidabilità avrebbe, per il nostro tribunale, la polizia irachena?"

Papadakis mi guarda e tace. "Non capisci cosa è successo?" riprendo. "Con i soldi che ha ricavato dalla vendita del computer, Mahmud ha comprato il braccialetto d'oro. Se avessimo trovato gli euro in casa, non avrebbe potuto dire che li ha portati dall'Iraq. Allora ha istruito la moglie affinché dicesse che si tratta di un regalo di suo padre. Puoi star certo che manterrà questa posizione. Non solo perché non vuole tradire il marito, ma anche perché quella è la sua unica proprietà, ora che Mahmud è in carcere e ha due figli da crescere. Se sarà costretta lo venderà, oppure lo darà in pegno."

Torniamo in cucina e riporto il braccialetto davanti alla moglie di Mahmud. "Abbiamo finito," annuncio a Koula.

La donna vede che non le portiamo via il gioiello e riprende coraggio. "Quando vado da mio marito?" chiede.

"Ora non è possibile," le risponde Koula. "Ma verrò io stessa ad avvertirti quando potrai andare a trovarlo. Hai la mia parola." E le accarezza le spalle. La donna le sorride con gli occhi gonfi.

Prima di uscire Koula si volta di nuovo verso la donna: "Che cosa hai detto ai ragazzi?" le chiede.

"Ho detto che padre lavoro... Iraq..." risponde Fatima.

Koula annuisce.

Appena entriamo nell'autopattuglia mi squilla il cellulare.

"Kyriazidis, signor commissario. Volevo solo dirle che altre due compagnie di navigazione si sono trasferite in Grecia. Prima erano registrate a Cipro. Ho pensato che potesse interessarle."

"Mi interessa, e molto. Grazie," rispondo. Poi ho un'illuminazione istantanea. "Si ricorda per caso chi era l'armatore che ha risposto a Sotiropoulos alla conferenza stampa col ministro?"

"Intende Filippos Zacharakis?"

"Esattamente. E come si chiama la sua compagnia di navigazione?"

"Ionian Marine Enterprises."

"La ringrazio molto per l'aiuto, signor Kyriazidis."

Se il figlio di Chardakos è avaro di informazioni perché vuole proteggere il buon nome del padre assassinato, forse Filippos Zacharakis non ha di questi problemi e potrebbe essere più ciarliero. Vale la pena andare a fargli visita.

Gli uffici della Ionian Marine si trovano sulla Dimitriou Gounari. Telefono, e quando mi danno la comunicazione con l'ufficio di Zacharakis chiedo un incontro alla segretaria. Vuole conoscere il motivo della visita e glielo spiego. Mi mette in attesa, dopodiché mi annuncia che Zacharakis mi aspetta entro un'ora.

Prendo la direzione per il Pireo, stavolta con la mia Seat e da solo. Oggi faccio la spola tra Atene e il Pireo come fossi un autobus navetta. Potrei anche prendere la metropolitana, ma siccome dopo conto di andarmene direttamente a casa, non avrebbe senso.

Sul viale Pireos incappo in un ingorgo che per fortuna non va oltre il ponte Poulopoulou. Tornato regolare il traffico, arrivo a destinazione dieci minuti prima dell'ora fissata per l'appuntamento con Zacharakis.

Gli uffici della Ionian Marine occupano quattro piani del palazzo che li ospita. Al pianterreno ci sono dei negozi. Dico alla ragazza in portineria che ho un appuntamento con il signor Zacharakis, e lei mi manda al quarto piano.

La segretaria è una sessantenne alta, magra, con i capelli corti e senza trucco. Avverte il principale e mi accompagna subito nel suo ufficio.

Zacharakis sembra più anziano dal vivo che in televisione. Forse l'avevano leggermente truccato. Per come lo vedo ora, dev'essere sulla settantina.

"A cosa devo l'onore della sua visita?" mi chiede in tono un po' ironico.

"Voglio farle alcune domande relative alle indagini sulla morte dell'armatore Stefanos Chardakos. Cercherò di essere breve," lo rassicuro in modo da non farlo stare sui carboni accesi. "Si ricorda, suppongo, il giornalista che aveva posto alcune domande durante la conferenza stampa del ministro della marina mercantile."

"Certo che lo ricordo," risponde senza esitare. "A quanto ho saputo è stato ucciso nel corso di una rapina."

"Esatto. Tuttavia, abbiamo appurato in seguito che Sotiropoulos, il giornalista ucciso, stava indagando sui moventi dell'omicidio Chardakos. E in realtà questo era già deducibile dalle domande che aveva fatto durante la conferenza stampa."

"Sì, ma da quanto ne so, Stefanos è stato ucciso da due stranieri che rivendicavano dei soldi per la vedova di un loro amico morto nel rogo di una nave della West Shipping, in Thailandia."

Mi affretto a tranquillizzarlo.

"È quello che crediamo anche noi. Sembra però che Sotiropoulos si fosse convinto, dalle informazioni che aveva raccolto, che i naufragi delle due navi di Chardakos non andassero ricollegati a un incidente ma a un ricatto. E per essere del tutto sincero con lei, le comunico che ho già parlato con Cleante Chardakos, il quale, da parte sua, esclude categoricamente tale possibilità. Mi servirebbe però anche l'opinione di una persona che non sia coinvolta nelle indagini. Come lei, per esempio."

Zacharakis ci pensa sopra un attimo. "In effetti, l'ipotesi di un ricatto non può essere esclusa a priori. Ma comprendo le ragioni di Cleante. Anche se fosse vero, neanch'io l'ammetterei, signor commissario." Fa una pausa e ricomincia: "D'altro canto, nessun armatore subirebbe il ricatto. La nave e il suo carico erano assicurati, anche nel caso di affondamento doloso l'assicurazione paga. Perché allora Chardakos avrebbe dovuto subire il ricatto? Io non l'avrei fatto."

Fin qui tutto bene. Ma ora arriva il difficile, devo stare attento a come mi muovo. "Sono stato informato che altre due compagnie di navigazione hanno trasferito la loro sede in Grecia," gli dico nel modo più neutro possibile.

Zacharakis sorride. "Sì, ora siamo in cinque. E sono felice di essere tra coloro che danno il buon esempio."

"Ricorda la domanda di Sotiropoulos?" gli chiedo. "Le aveva domandato come mai avevate deciso all'improvviso di trasferire le vostre imprese in Grecia."

"E ricordo bene anche la mia risposta. Gli ho detto che siamo tornati per contribuire allo sviluppo della Grecia, ora che ci sono i giusti presupposti."

"Sotiropoulos sospettava che il ritorno delle compagnie di navigazione in Grecia facesse parte del ricatto. Mi limito a riferirle questa ipotesi, senza per altro condividerla," chiarisco per mettermi al riparo.

Zacharakis balza in piedi e di colpo il suo tono cambia. "Non posso occuparmi delle teorie di un giornalista, signor commissario. Ho cose più importanti da fare e non ho tempo da perdere. La nostra conversazione finisce qui."

Non mi resta altro che ringraziare e andarmene. Quando entro nella mia Seat, prima di mettere in moto, cerco di raccogliere le mie impressioni. Sostanzialmente non è emerso niente che già non sapessi. Di certo trovo la reazione di Zacharakis eccessiva, ma poteva essere il suo modo per evitare di finire in un campo minato.

 

 

32

È la seconda volta nel giro di pochi giorni che Adriana fa i ghemistà. Stavolta il pretesto è l'arrivo dei consuoceri da Volos. Ha fatto di tutto per convincerli a venirci a trovare ad Atene, e alla fine c'è riuscita. Sicché oggi festeggiamo l'incontro delle due famiglie con pomodori e peperoni ripieni.

Mi unisco anch'io volentieri all'allegra combriccola. Sevastì scatta in piedi per abbracciarmi, mentre Prodromos aspetta disciplinatamente il suo turno.

"È una vita che non vi vediamo," gli dico. "E che fatica ha fatto Adriana per convincervi!"

"Abbiamo tardato un po', è vero, ma alla fine siamo arrivati," dice Sevastì.

"Con pazienza e costanza ogni cosa si ottiene," commenta Adriana con una delle sue massime di saggezza.

Tutti ridono. "Insomma, da oggi smetterò di chiamarti 'signora Adriana'," dichiara Fanis.

"E come mi chiamerai?"

"Nonna Proverbina," le risponde ridendo.

"Temo che ci vorrà del tempo," gli risponde Adriana, improvvisamente seria.

"Perché?"

"Perché non mi vedo nonna in tempi brevi."

"Brava, Adriana, diglielo, che siano benedette le tue labbra!" esclama Sevastì.

"Ora poi che mia figlia è diventata consulente legale, non lascerà certo giurisprudenza per ostetricia."

Lancio un'occhiata a Caterina ma lei guarda fuori dalla finestra, come se non fosse di lei che stanno parlando. Sa che la madre aspetta la sua reazione per punzecchiarla ancora, ed è per questo che fa l'indifferente.

"Come vanno le cose a Volos, consuocero?" chiedo a Prodromos per cambiare discorso.

"Commissario, mi faccio il segno della croce e accendo un cero alla Madonna perché questo governo duri a lungo. Volos è ormai irriconoscibile. Hanno aperto negozi nuovi, arrivano imprese nuove. Il mio negozio, per esempio: l'avevo dato in affitto per farne un souvlatzidiko; ora lo vogliono comprare, insieme a quello a fianco, per aprire un'esposizione di mobili."

"Ci siamo già passati anni fa, e sappiamo tutti come siamo andati a finire," commenta Adriana.

"Mamma, mi spieghi perché sei sempre così negativa?" le chiede, irritata, Caterina; aveva taciuto sulla questione del nipote ma ora cerca l'occasione per rifarsi. "Sono tutti contenti. Solo tu non fai altro che lagnarti. Certe volte mi viene il sospetto che con la crisi tu te la passassi meglio. Mi spieghi che cos'hai?"

"Cara mia, lo scapaccione ti serva di lezione. Alla fine, l'unico che mi capisce è Lambros," aggiunge, trovando rifugio in Zisis. "Se me l'avessero detto che avrei trovato appoggio in un vecchio comunista, non ci avrei creduto."

Si alza e va in cucina, per prepararsi a servire la cena, ma si ferma sulla porta: "Dalla televisione alla radio alle persone che mi stanno intorno, vedo tutti entusiasti. E io mi chiedo: da dove arrivano questi soldi? In passato lo sapevamo. Prima dagli investimenti europei e poi dai prestiti. E abbiamo visto come siamo andati a finire. Ma ora? Da dove arrivano tutti questi soldi?"

Lascia la domanda in sospeso e va in cucina. La guardiamo ma nessuno apre bocca, perché nessuno ha la risposta.

"In un certo senso ha ragione," commenta Sevastì dopo un po'. "Ci siamo scottati così tante volte che ora soffiamo anche sullo yogurt."

"Sì, d'accordo, ne abbiamo passate tante, ma stavolta c'è una differenza," le risponde Caterina.

"E quale sarebbe?" chiedo.

"Stavolta si tratta di persone serie. E ve lo dico per esperienza personale. Sanno quel che vogliono, ti ascoltano quando parli e se chiedi una cosa il giorno dopo ce l'hai. Sono organizzati, efficienti, perché non dovrebbero avere successo?"

Si alza per apparecchiare la tavola, ma Sevastì la anticipa. "Lascia, faccio io."

"Impossibile. La regola vuole che la mamma cucini e la figlia apparecchi," ribatte ridendo Caterina.

"Dai, non ci far sentire estranei," protesta Sevastì e va a prendere i piatti, mentre Caterina torna al suo posto.

"Io sono d'accordo con Caterina," interviene Prodromos. "Anch'io ho notato la stessa cosa: la Grecia è diventata un paese serio. Non so, forse è stata la crisi a metterci la testa a posto. Ma è indubbio che ora abbiamo un governo che lavora e sa il fatto suo. Insomma, il clima è cambiato. Ho aperto un conto in una delle nuove banche che sono sbarcate in Grecia: rapidità, ottimo servizio, come non avevo mai visto prima."

"E questa storia del giornalista ucciso?" chiede Fanis.

"È stata una rapina. L'hanno ucciso per derubarlo," gli rispondo e mi fermo lì, senza entrare in ulteriori dettagli.

Mi viene l'allergia quando parlo di omicidi, criminali e vittime a casa. Vorrei riuscire a chiudere in ufficio le indagini su cui lavoro, tenerle fuori di casa e cercare di rilassarmi davanti al televisore o con la mia famiglia.

Per fortuna la conversazione finisce all'ingresso di Adriana con i ghemistà, e tutti ci trasferiamo a tavola.

Per antipasto, Adriana ha preparato le acciughe marinate e il polpo con la cicoria.

"Io salto l'antipasto," dichiara Sevastì. "Non vorrei saziarmi e poi non riuscire a gustarmi i ghemistà."

"Davvero, mamma, perché hai preparato anche l'antipasto?" chiede Caterina. "Ghemistà e feta sono più che sufficienti. Il resto è superfluo."

"Acciughe e polpo si accompagnano benissimo ai ghemistà," ribatte Adriana.

"Io comunque assaggio tutto," dichiara Fanis. "Quel che arriva sulla tavola della signora Adriana merita sempre l'assaggio. Questa è la regola."

"Bravo, Fanis!" gli risponde Adriana, soddisfatta. "Meno male che ci sei tu a sostenermi."

"Mamma, quando mi insegni a preparare i ghemistà?" chiede Caterina.

"Prima impara a fare i fagiolini stufati con il pomodoro," le risponde Adriana.

"Qui ti sbagli," interviene Fanis. "Li sa cucinare, e anche molto bene."

"E allora la prossima volta vi invito a casa io, e così tapperemo la bocca a qualcuno," annuncia, decisa, Caterina.

"Volesse il cielo, ho proprio voglia di farti i miei complimenti," le dice Adriana, ma io so che se il pranzo si farà Adriana qualche difetto glielo troverà senz'altro.

A questo punto segue un silenzio bulimico, perché tutti ci avventiamo sui piatti.

 

 

33

Mi bevo il caffè mentre rifletto in che modo potrei trovare il computer di Sotiropoulos. Non ha senso interrogare di nuovo Mahmud. Capirebbe che non ho fatto passi avanti e si ostinerebbe ancora di più nella sua posizione. Del resto, i pensieri che mi tormentano sono ben altri. Anche ammettendo che trovassi il computer, è certo che chi l'ha avuto tra le mani ne avrà già cancellato il contenuto.

Siccome non vedo luce da nessuna parte telefono a Vellidis, ammesso che lui abbia trovato qualcosa che possa essermi d'aiuto.

"Niente di nuovo," mi annuncia. "Sono rimasto a quanto ho detto a te e a Ghikas. Niente di nuovo."

Devo rassegnarmi, dico tra me e me. L'omicidio di Sotiropoulos verrà archiviato tra le rapine. Avrò anche dei dubbi che sono diventati certezza, ma non ho elementi per procedere.

Il telefono mi tira fuori dalle rimuginazioni. "Il signor vicecomandante la vuole subito nel suo ufficio, commissario."

Mi chiedo cosa possa volere. L'unica spiegazione che trovo è che Ghikas lo abbia informato dei messaggi che Sotiropoulos ha caricato sul suo blog e ne voglia discutere.

Telefono a Ghikas per assicurarmi di essere pronto al colloquio, ma Stella mi dice che in questo momento è impegnato e ne avrà per molto.

Non mi resta che andare dal vicecomandante per scoprire di prima mano il motivo della convocazione. Informo i miei assistenti e parto con la Seat. Durante il tragitto cerco di evitare ipotesi e profezie, per lasciare che le cose procedano da sole.

"Prego, si accomodi. È atteso," mi dice il responsabile della sala d'aspetto.

Entro nell'ufficio e i miei dubbi si sciolgono. Davanti al vicecomandante siede Ghikas. Finge di non avermi visto entrare e fissa il muro dinnanzi a sé.

"Si sieda, signor commissario," mi accoglie il vicecomandante. Aspetta che mi sia seduto per venire prontamente al dunque: "Ieri ha fatto visita al signor Filippos Zacharakis, il proprietario della Ionian Marine Enterprises?"

Non mi ha neanche sfiorato l'idea che Zacharakis potesse raccontare al vicecomandante della mia visita.

"Sissignore," rispondo tranquillo, mentre Ghikas finge sempre di guardare il muro.

"Posso sapere le ragioni della sua visita?"

"Certo." Gli spiego lo sviluppo delle indagini dal momento in cui abbiamo scoperto che i messaggi caricati su internet erano di Sotiropoulos fino alla scomparsa del suo computer.

"Sotiropoulos non era uno di quei giornalisti da bolle di sapone," concludo. "Indagava perché aveva dei dubbi sulle due navi naufragate di Chardakos. Ho fatto visita all'armatore solo per avere il parere di un esperto che avrebbe potuto chiarirmi fino a che punto i sospetti di Sotiropoulos avessero un fondamento. Il furto del computer rafforza l'ipotesi che avesse scoperto qualcosa: chi l'ha rubato voleva sapere ciò di cui lui era al corrente."

"Che cosa le fa pensare che il computer sia stato rubato?" mi chiede.

"Innanzitutto perché non è stato ritrovato da nessuna parte. In secondo luogo perché Sotiropoulos aveva un blog personale, e non è possibile che lo gestisse senza possedere un computer. Terzo, perché ho avuto la conferma che Sotiropoulos aveva un portatile: era un Mac e lo teneva sempre con sé. Quindi non c'è dubbio che il computer sia stato rubato."

"E che cosa si aspettava di sapere dal signor Zacharakis?"

"Nulla, non mi aspettavo nulla di preciso. Volevo solo la sua opinione sulla fondatezza dei sospetti di Sotiropoulos circa i naufragi in cui era implicata la West Shipping."

"E a chi ha chiesto l'autorizzazione per andare a interrogare l'armatore Zacharakis? Da quel che ne so, non l'ha chiesta a me e neanche al suo diretto superiore."

Lo guardo stupefatto.

"Non sapevo che mi servisse un'autorizzazione per interrogare qualcuno quando indago su un caso," rispondo.

"Da me non aveva certo bisogno di ottenere alcuna autorizzazione."

È la prima volta che Ghikas apre bocca. "Ha la mia approvazione per procedere liberamente nelle indagini e farmi in seguito una relazione dettagliata."

Ed è anche la prima volta che parla in mia difesa.

Il vicecomandante lo ignora.

"Da quel che so, l'omicida di Sotiropoulos ha confessato. E sempre a quanto ne so, anche i due assassini di Chardakos si trovano in prigione. Quindi non capisco su quale crimine stava indagando. Si è semplicemente basato sui sospetti e sulle teorie di un giornalista, quando sa benissimo che i giornalisti di qualunque testata non fanno altro che inventarsi storie. Devo dirle che la sua iniziativa ha causato un grave danno. Nel momento in cui il governo compie sforzi sovrumani per convincere gli armatori a tornare nella madrepatria e contribuire al rilancio dell'economia, lei, con la sua iniziativa superficiale e frettolosa, è riuscito a gettarli nel panico. Se avesse chiesto l'autorizzazione a me o al suo diretto superiore non l'avrebbe mai ottenuta, così ha deciso di fare di testa sua. Zacharakis mi ha telefonato stamattina presto ed era fuori di sé. Mi ha raccontato del vostro incontro e mi ha chiesto se era questo il ringraziamento per aver riportato la sua compagnia di navigazione in Grecia. E ha anche aggiunto che sta pensando seriamente di ritornarsene a Londra. Con l'imprudenza e la superficialità del suo comportamento ha rischiato di vanificare il lavoro del governo."

Ora capisco a cosa si deve questo incontro. Ma mi pare comunque eccessivo tutto questo scandalo.

"Non ho fatto altro che pregare il signor Zacharakis di risolvermi alcuni dubbi. Non gli ho fatto pressioni e tanto meno l'ho minacciato," replico al vicecomandante.

"Lei è sospeso, signor commissario. Convocherò una commissione d'inchiesta nei suoi confronti per abuso di potere. Da oggi non deve avere contatti con i casi gestiti dalla Squadra Omicidi fino alla conclusione dell'inchiesta a suo carico."

Stringo i braccioli della poltrona per evitare di saltare in piedi e mettermi a gridare. Resto inchiodato al mio posto, non perché abbia qualcosa da aggiungere, ma perché cerco di recuperare il sangue freddo. Il vicecomandante e Ghikas a loro volta tacciono, in attesa della mia reazione.

"Faccia come crede," sono le mie uniche parole. Mi alzo e mi dirigo verso la porta. La apro ed esco.

Attraverso l'anticamera, scendo e prendo la Seat. Sono molto agitato, non riesco né a pensare né a guidare. Resto seduto in macchina e provo a respirare profondamente, per ritrovare un minimo di autocontrollo ed evitare di fare qualche incidente.

Alla fine riesco a mettere in moto e a partire, ma capisco che sto guidando male dalle imprecazioni e dagli insulti che mi lanciano gli automobilisti: "Ma dove vai, coglione?" "Chi ti ha dato la patente?" "Ma sei cieco oltre che scemo?"

Arrivo comunque sano e salvo in Centrale dopo un percorso che mi è sembrato interminabile, e convoco subito i miei assistenti in ufficio. Mi ascoltano senza parlare mentre gli descrivo l'incontro con il vicecomandante e il suo esito.

"E ora chi prenderà il suo posto?" mi chiede Dermitzakis.

"Non lo so. La cosa più probabile è che non venga incaricato nessuno, ma che Vlasopoulos sia nominato mio sostituto, dato che è il più anziano della squadra, almeno finché la questione non verrà chiarita."

"E tutto solo perché è andato a far visita a quell'armatore?" chiede Papadakis.

"Sì. Almeno questa è stata la giustificazione."

"Ma anche lei, signor commissario, che cosa le passa per la testa di andare a immischiarsi?" mi dice Vlasopoulos. "Dal momento che i responsabili di entrambi gli omicidi hanno confessato, perché andare a inzigare le cose, tanto più che i diretti superiori non ci consentono di proseguire con le indagini?"

"In fin dei conti, i nuovi si stanno comportando molto bene con noi," continua Dermitzakis. "Hanno riportato gli stipendi ai livelli precedenti la crisi e abbiamo potuto tirare il fiato. Se vogliono smettere di indagare, sono pur sempre loro che hanno il coltello dalla parte del manico. Non sta a noi decidere."

"Perché, con gli altri che ci tagliavano gli stipendi e le pensioni si stava meglio?" riprende Vlasopoulos che spalleggia Dermitzakis. "Quelli di prima tagliavano e pretendevano. Questi pagano e pretendono. La differenza è tanta: come tra il giorno e la notte."

Gli unici che non aprono bocca sono Papadakis e Koula. Tengono la testa bassa e si guardano la punta delle scarpe.

"Ognuno fa il suo lavoro come se lo sente," rispondo ai primi due, tranquillo. "A me l'esperienza ha insegnato a non lasciare questioni in sospeso, perché arriva un momento in cui te le ritrovi davanti."

Vlasopoulos ritiene inutile rispondermi e si rivolge agli altri: "Ragazzi, allora vi dico una cosa: se sarò nominato sostituto, ci muoveremo all'interno del nostro orticello senza sconfinare in quello degli altri."

Non c'è bisogno che dia seguito alla conversazione, anche perché squilla il telefono.

"La vuole," mi annuncia Stella.

"Devo salire da Ghikas," spiego ai miei dando il rompete le righe.

Solo Dermitzakis si ferma sulla porta e mi augura "Coraggio e pazienza". Gli altri se ne vanno senza proferir verbo.

Prendo le scale per avere un altro po' di tempo a disposizione e risolvermi ad affrontare la conversazione con calma, senza mettermi a urlare e a protestare, tanto non cambierebbe nulla.

Mi accoglie in piedi. "Non ne posso più," mi dice, e come se una volta sola non gli bastasse me lo ripete: "Non ne posso più."

Non dubito che non ne possa più, ma nemmeno poi troppo, non al punto, almeno, di entrare in rotta di collisione con il vicecomandante per causa mia.

"E tu, benedett'uomo... non avermi detto nulla!" aggiunge con aria di rimprovero. "Se mi avessi informato ti avrei detto di non farlo."

"Lei stesso ha spiegato al vicecomandante che non sono obbligato a informarla passo per passo quando conduco un'indagine."

"È così. Ma noi abbiamo a che fare con un burocrate che continua a tenderci trappole. Per questo sarebbe stato meglio che noi due ci fossimo accordati prima. Ti ricordi cosa ti avevo detto dopo averlo conosciuto? Parati il didietro, perché neanch'io potrò difenderti. E avevo ragione. Con quella gente non sai mai che cosa ti aspetta."

Il classico Ghikas, dico tra me e me. Coi pesci grossi non si fa notare, ma alle spalle gliene dice di tutti i colori.

"In ogni caso sono convinto che sia tutto solo un teatrino. Ho anch'io i miei appoggi. Vedrò cosa posso fare."

Tanto per cominciare non credo affatto che il vicecomandante abbia messo su un teatrino. Sono convinto che la mia iniziativa avrebbe potuto far emergere altri risvolti, ed è per questo che ha subito pensato di tarparmi le ali. Quanto a Ghikas, so che ha i suoi appoggi, ma li userà solo quando a essere in pericolo sarà lui.

"In ogni caso, per qualsiasi cosa chiamami," conclude.

"La ringrazio," rispondo freddamente e mi avvio alla porta con una certa fretta, giusto per evitare di perdere la calma.

Trovo Koula ad aspettarmi in corridoio. Mi abbraccia. "Non sa quanto mi dispiace," mi sussurra. "Lei è come un padre per me."

"Lo so che ti dispiace, ma non piangiamo sul malato finché è ancora vivo," le rispondo sorridendo. "Dai, portami un sacchetto, voglio raccogliere le mie cose prima di lasciare la Centrale."

Lei si allontana e io entro in ufficio. Apro i cassetti e raduno le mie cose. Per fortuna non sono molte e finisco in fretta: è un'operazione che mi distrugge.

La porta si apre ed entra Papadakis. "Gliel'ho portato io il sacchetto, volevo dirle che sono al tempo stesso avvilito e incazzato," mi dice. "È una grande ingiustizia."

"La vita è piena di ingiustizie," gli rispondo. "Stiamo a vedere come si svilupperanno le cose."

Ci stringiamo la mano e anche lui mi lascia solo. Metto i miei pochi effetti personali nel sacchetto. Dopo di che esco dall'ufficio chiudendomi la porta alle spalle.

 

 

34

Mi fermo alla prima caffetteria di via Spirou Merkouri, parcheggio la Seat in una stradina laterale e vado a sedermi. Devo urgentemente riordinare i miei pensieri, sia dal punto di vista professionale che famigliare.

Non c'è niente da fare: la sospensione dal servizio e la commissione di inchiesta mi bruciano, c'è poco da dire. Sì, lo so: è anche colpa mia, perché ho dentro questo maledetto demone che mi spinge sempre a cercare. So anche che non è la prima volta che arrivo a uno scontro su un tema come questo. La mia ostinazione mi ha condannato a non fare carriera: i piani alti mi hanno sempre considerato "poco collaborativo", il che significa che non seguivo le consuetudini e facevo di testa mia. Me lo diceva Ghikas, ma io me ne sono sempre fregato. Non è escluso che avessero ragione: non avendo io fatto carriera rientro automaticamente nella categoria degli imbecilli, e gli imbecilli hanno sempre torto. Ma da qui a venir sospeso e vedermi anche accusato e trascinato davanti a una commissione disciplinare solo perché voglio fare bene il mio lavoro ce ne corre.

E queste sono considerazioni che riguardano me e il mio carattere. Devo però ridimensionare anche i fatti oggettivi se voglio avere un quadro completo della situazione. Da qualunque lato guardi le cose, mi riesce molto difficile pensare che il vicecomandante mi abbia sospeso dal servizio e abbia ordinato un'inchiesta interna solo per mettermi in riga e farmi capire chi comanda. E non credo neanche al pretesto che mi ha servito sul piatto come motivazione ufficiale, che le compagnie di navigazione sono state prese dal panico a causa della mia visita a Zacharakis e hanno minacciato di tornarsene a Cipro o a Londra. Un commissario di polizia non può indurre alla fuga compagnie di navigazione internazionali le cui navi incrociano sugli oceani di tutto il mondo. La verità è che gli armatori hanno voluto, tramite il vicecomandante, interrompere di proposito le indagini.

E qui si pone la domanda: che cosa c'è dietro i naufragi e la morte di Chardakos che non si deve venire a sapere? E che cosa ha scoperto Sotiropoulos per farli arrivare al punto di ucciderlo e di rubargli il computer? Quello che so di lui è che aveva caricato su internet alcuni messaggi firmati Poseidon 16, oltre alla conversazione che aveva avuto con Kyriazidis. Non mi illudo: tutto questo non costituisce neanche lontanamente una prova. Sono indizi validi per proseguire nelle indagini, cosa che ho fatto. Ma non sono elementi di prova. Ed è questo il mio punto debole.

E ora che faccio? Continuo la ricerca anche se sono stato sospeso dal servizio? La risposta è un "no" categorico. Accetto di essere un idiota, ma non proprio il Capitan Fracassa dei coglioni. Se continuassi, sarebbe come pormi volontariamente fuori dal corpo di polizia. Posso immaginare le voci che hanno già cominciato a circolare. Dal "Ma è possibile? Non lo facevo così coglione, Charitos!" a "Chissà quanti altri casini avrà combinato in questi anni". E non ho alcun dubbio che il vicecomandante prenderà a buttarmi addosso fango, per giustificare la sua decisione e per predisporre il terreno alla punizione. Non ho altra scelta che chinare il capo e riconoscere la sconfitta, sperando di cavarmela con un richiamo ufficiale oppure con un trasferimento punitivo. Nel secondo caso, tutto è possibile: che mi spediscano a dirigere qualche stazione di polizia in un paesino di provincia, o che mi mandino a contare i proiettili e a tenere l'inventario in qualche deposito di armi.

Ma passiamo ora alle questioni famigliari. La prima domanda è: lo dico o non lo dico a Adriana? E se glielo dico, come? Di sicuro mi dirà che ho fatto la cosa giusta. È vero, con tutti i suoi proverbi e le sue stoccate è pesante, ma non è donna da permettere che anche un solo granello di polvere si posi su suo marito o sulla sua famiglia.

Allo stesso tempo so che la roderà il tarlo dell'incertezza e della paura. Ha già avuto il suo calvario nel periodo della crisi per riuscire a tenere in piedi la famiglia. Se le dicessi tutta la verità, il timore che le si prepari un nuovo Golgota potrebbe stroncarla.

La soluzione alternativa sarebbe di tenere la bocca chiusa e far finta di niente seguendo una routine di facciata. In tal caso, dovrei trovare la maniera di passare il tempo lontano non solo dall'ufficio ma anche da casa.

Le porte che mi si aprono allora sono due. O lo studio di mia figlia oppure il centro di accoglienza di Zisis. Potrei anche nascondere a Adriana quel che mi è capitato, ma non potrei però nasconderlo a Caterina o a Zisis. Loro dovrebbero sapere la verità, anche per essere pronti a ogni evenienza.

Valuto a chi devo rivelare la situazione per primo, a mia figlia o a Zisis, e alla fine scelgo mia figlia, perché è mattina e si troverà in un momento di relativa calma, dato che i clienti li riceve di solito nel pomeriggio. Invece il centro di accoglienza è tutto il giorno sotto pressione. Certo, c'è anche la possibilità che mia figlia sia in tribunale, nel qual caso andrò da Zisis.

Riparto di nuovo con la mia Seat e mi dirigo verso lo studio di Caterina. Suono il campanello, e con mia grande sorpresa mi apre una ragazza intorno ai venticinque anni.

"Prego, chi desidera?"

"L'avvocata Charitou."

"L'avvocata Charitou è assente. Lei ha un appuntamento?"

"Non ho bisogno di avere un appuntamento per vedere mia figlia," le rispondo.

Il suo atteggiamento cambia all'istante.

"Mi scusi, non avevo ancora avuto l'occasione di conoscerla."

"E tu chi sei?" le chiedo anche se posso benissimo immaginarlo.

"Sono Lilian, la segretaria."

"Puoi avvertire la dottoressa Mania che sono qui?"

"Volentieri."

Bene: mia figlia ha fatto un bel balzo in avanti come avvocata, e ora ha anche una segretaria. Se me lo avesse detto, le avrei chiesto di tenermi libero il posto per un po', visto che non si può sapere ora dove andrò a finire. In fin dei conti so anche un po' di inglese zoppicante.

Mania mi accoglie con l'ansia dipinta sul volto. "Come mai da queste parti a quest'ora? Qualcosa non va?"

"No, ma possiamo parlare?"

"Sì, andiamo nel mio studio," mi fa, senza che l'apprensione scompaia dal suo viso.

"Dov'è Caterina?" le chiedo dopo essermi seduto.

"Aveva una riunione in azienda. Dovrebbe tornare tra non molto." Ma si vede che non resiste: "Allora, vuol dirmi finalmente che cosa succede?"

Le faccio un riassunto per sommi capi di quanto è successo fino a stamane.

"E per questo, quella carogna l'ha sospesa e ha ordinato una commissione di inchiesta? Perché lei ha fatto il suo lavoro?" esclama fuori di sé.

"La mia opinione è che non voleva che continuassi a fare il mio lavoro per timore che scoperchiassi cose che dovevano rimanere nascoste."

"Vedrà che alla fine verrà fuori che Uli e la signora Adriana avevano ragione."

"Perché?"

"Perché continuavano a chiedersi da dove arrivano i soldi," mi risponde. "Due cose vanno sempre seppellite: i morti e gli affari sporchi. Il mondo intorno a noi puzzerebbe troppo se lasciassimo i morti insepolti, e puzzerebbe anche il denaro se non seppellissimo gli affari sporchi."

"Papà, che c'è?"

Mi giro e vedo Caterina in piedi nel vano della porta con un'espressione sconvolta. "Di salute stiamo tutti bene, non preoccuparti," le rispondo con un sorriso. "Siediti."

Ricomincio da capo a raccontare. Quando finisco la sua reazione è completamente diversa da quella di Mania.

"Ma anche tu, papà, possibile che tu debba sempre tirar fuori il serpente dal buco? Se gli basta l'arresto degli assassini, lascia che si freghino le mani e non ti impicciare a tutti i costi!"

"Ma cosa dici?" salta su Mania. "Vuoi che sapendo o sospettando che nella questione si nasconda dell'altro, giri la testa dall'altra parte? Tuo padre lavora in polizia, non all'urbanistica, dove uno può anche far finta di non vedere una costruzione abusiva."

"Sì, però per la Fede e la Patria in tutti questi anni non ha fatto un passo avanti nella carriera," le risponde Caterina non meno irritata di lei. "Oggi si meriterebbe di essere al posto di Ghikas."

"Calmatevi," intervengo, e rivolgendomi a mia figlia le dico: "Tu e io siamo su sponde opposte," le spiego. "Tu hai il diritto legale e morale di difendere un criminale, anche se si tratta di un assassino. Io ho il dovere legale e morale di combattere il crimine e risolvere i casi, non solo quello di catturare gli assassini. Di conseguenza, tu e io vediamo lo stesso fatto da due punti di vista diversi."

"E ora che facciamo?" mi chiede Caterina senza continuare il discorso.

"Ci ho pensato, e credo sia meglio non dire nulla a tua madre. È stata molto sotto pressione in questi anni di crisi, e non c'è ragione che adesso le scarichi addosso anche l'ansia per la sopravvivenza e per quello che potrebbe capitarci se mi licenziassero in tronco. Lasciamo che la situazione si risolva in qualche modo, e poi gliene parleremo. Io, però, nel frattempo, dovrò vivere e pensavo di stare un po' da voi e un po' da Lambros, perché ovviamente non posso restare a casa."

"E come fai a essere sicuro che la mamma non verrà a saperlo da qualcun altro?" mi chiede Caterina.

"Mi sembra improbabile. Adriana mi telefona molto raramente in ufficio, e quando capita mi chiama sempre sul cellulare, mai sul telefono della Centrale."

"Papà, ti prego, torna in te. La mamma tutte le sere si piazza davanti al televisore. Pensi che la notizia che sei stato sospeso dal servizio per motivi disciplinari non verrà comunicata, e per di più in un momento in cui i giornalisti sospettano che le tue disavventure siano legate all'assassinio del loro collega Sotiropoulos?"

Se non avessi come attenuante lo stress e lo shock che ho subito, mi prenderei a schiaffi. Non solo non posso nasconderglielo, ma devo dirglielo, prima che lo apprenda dalla televisione e le crolli il mondo addosso!

"Hai ragione, Caterina," ammetto. "E per di più, devo dirglielo prima che lo venga a sapere dal telegiornale."

"Va bene. Chiamerò Fanis e gli dirò che veniamo a cena da voi stasera, così non sarete soli. E poi: quando c'è gente la mamma non accende mai il televisore."

All'improvviso mi balena davanti un'immagine che mi sconvolge. "E che ne sarà dei tuoi suoceri?" le chiedo. "Non voglio che ne parli davanti a loro."

"Non preoccuparti. Sono tornati stamane a Volos. Avevano telefonato a mio suocero per la firma del contratto di compravendita del negozio."

Ed ecco che anche Uli fa la sua comparsa. Ci guarda sorridendo: "C'è un consiglio di famiglia?"

"No, è un consiglio di guerra," gli risponde Mania e gli riassume in poche parole la situazione.

Uli si fa subito serio: "Mi spiace molto, signor commissario."

"Com'è che non fai salti di gioia?" gli chiede Mania.

"E perché dovrei?"

"Perché hai sempre detto che dietro tutto questo c'era qualcosa di sporco. Ecco: la tua idea si rivela giustificata."

Lo dice più che altro per alleggerire l'atmosfera. Uli, però, non le dà retta e si rivolge a me: "Se vuole navigare su internet per trovare elementi di prova, posso aiutarla."

"Ti ringrazio, Uli, ma mi accusano di qualcosa che non si può controbattere con le informazioni che può fornire la rete."

"È un'accusa generica e senza prove," mi risponde. "E la rete può aiutare a chiarire le cose troppo generiche."

"Ti ringrazio moltissimo, lo terrò presente," gli rispondo e gli sono veramente grato. Poi mi viene un'idea: "Se dobbiamo riunirci, allora dobbiamo invitare anche Zisis. Tra l'altro lui ha il potere di tranquillizzare Adriana. Vado a parlargli."

Mi alzo, e lo stesso fa Caterina. Mi si avvicina e mi abbraccia. "Non ho paura per te. Saprai come cavartela," mi sussurra, ma ha gli occhi gonfi e sta per scoppiare a piangere.

 

 

35

Per trovare un parcheggio in via Tenedou sudo sette camicie. Tutti i greci che al tempo della crisi avevano riconsegnato le targhe, ora le hanno riprese, hanno tirato fuori le automobili e intasano le strade. Alla fine il parcheggio lo trovo, in alto, verso la Fokionos Negri.

Il posto che Zisis preferisce, di fianco all'ingresso, è vuoto. Entro nel locale mensa, ma non lo trovo neanche lì. Ci sono due persone anziane che giocano a tavli, e tre donne che sedute a un tavolino parlano a bassa voce.

"Sapete dov'è il signor Lambros?" chiedo in giro. Tutti qui chiamano Zisis per nome.

"È in cucina a preparare qualcosa," mi risponde una donna.

La prego di chiamarmelo e aspetto di fianco alla porta. Zisis fa la sua comparsa poco dopo asciugandosi le mani con uno strofinaccio.

"Eccolo, benvenuto!" mi fa. Ma si vede che ho una faccia che parla da sola perché subito aggiunge, preoccupato: "Cosa c'è?"

"Possiamo andare da qualche parte a parlare con calma?" gli chiedo.

"Vieni."

Mi fa strada fino al primo piano, dove apre la porta di una camera vuota. "Qui nessuno ci disturberà."

Si siede sul letto e lascia a me l'unica sedia. Comincio a raccontare i fatti della giornata per la terza volta e con la stessa sequenza, perché ormai l'ho imparata a memoria.

Finito di raccontare lui mi fissa per un po', e poi mi dice: "L'ultima volta che ci siamo visti e abbiamo parlato ti ho detto: 'Questa è la linea, compagno', ma tu non mi hai dato ascolto. Hai continuato a mettere in discussione la linea, che consisteva nel non indagare oltre, e sei così entrato a far parte della categoria dei revisionisti, il che dal mio punto di vista è la cosa peggiore che poteva capitarti." Si ferma e scuote la testa. "Se non ti conoscessi e non sapessi quello che stai passando, non riuscirei a credere quanto siano simili l'organizzazione del partito comunista e quella della pubblica amministrazione. Sei uscito dalla linea e sono fatti tuoi, sia in un caso che nell'altro." Scoppia suo malgrado in un'amara risata, ma subito la reprime e riprende a scuotere la testa.

"Va bene," gli dico. "Probabilmente sto attraversando gli stessi guai che hai passato tu dall'altra parte della barricata. Ma non sono venuto da te per chiederti di aiutarmi a uscire dalla categoria dei 'revisionisti', come mi hai definito. Il problema per cui mi serve il tuo aiuto è un altro."

Passo al secondo capitolo e gli spiego che cerco un modo per dirlo a Adriana senza farla angosciare troppo, e che la sua presenza potrebbe essere utile.

Ci pensa, quindi si alza. "Aspettami un attimo," ed esce di corsa dalla camera.

Non so cosa gli sia venuto in mente, ma mi fido di lui. Quanto ha passato nella sua vita fa sì che a volte sappia trovare soluzioni a cui un altro non penserebbe mai.

Torna dopo un po' con un sacchetto del supermercato. "Andiamo," mi fa ed esce dalla camera con il sacchetto in mano.

"Che cosa hai comprato?" gli chiedo mentre scendiamo le scale.

"Gli ingredienti per preparare una hortopita, la torta di cicoria selvatica," mi risponde. "Tua moglie è una di quelle donne di casa che stanno estinguendosi. Il modo migliore per calmarle è metterle alle strette in cucina e insegnar loro una nuova ricetta."

"Sono queste le cose che vi insegnavano al KKE, al partito comunista?" gli chiedo ridendo, ma più che altro per cercare di tonificarmi l'animo.

"No, queste cose le ho imparate da mia madre."

Entriamo in automobile e percorriamo il tragitto verso casa mia in silenzio, ognuno sprofondato nei propri pensieri. Non so se Zisis stia rivivendo il passato sull'onda di quel che sta capitando a me. Io, invece, sono preoccupato perché non so immaginare quale sarà la reazione di Adriana alla cattiva notizia.

"Benvenuto!" esclama mia moglie tutta contenta, quando lo vede. "Sono anni, anzi secoli che non ti si vede."

"È passato tuo marito per salutarmi e mi sono ricordato che una volta ti avevo promesso di insegnarti a cucinare la hortopita," le risponde ridendo Zisis. "Allora ho pensato che stasera poteva essere l'occasione buona, dato che arrivo senza essere stato invitato."

Adriana gli lancia un'occhiata di fuoco e poi si fa il segno della croce senza parlare, mentre alza lo sguardo, ben oltre il soffitto.

"Verranno anche Caterina e Fanis," le dico.

Zisis coglie al volo l'occasione e continua a spiegarsi: "Ha invitato anche me e così ho pensato di prendere due piccioni con una fava. Almeno avremo qualcosa da mettere sotto i denti."

"Ah, perché io ti ho lasciato spesso a digiuno, eh, ingrato!" replica scherzosamente Adriana. "D'accordo, vieni in cucina."

Loro vanno in cucina, mentre io mi accomodo in soggiorno. Mi prude la mano per la voglia di schiacciare il bottone del telecomando e sentire che cosa dicono al telegiornale della mia riverita persona, ma mi trattengo temendo che Adriana entri all'improvviso e il fulmine cada prima del tempo. L'altra soluzione sarebbe di combattere l'ansia rifugiandomi nel Dimitrakos, ma penso che sia più giusto essere presente quando arriveranno Caterina e Fanis.

Per fortuna, la somma di solitudine e pensieri funesti non dura troppo a lungo, perché dopo una decina di minuti suona il campanello e vado ad aprire.

Mia figlia mi dà un bacio sulla guancia. Fanis mi stringe la mano destra in silenzio e mi batte la sinistra sulla spalla, come a farmi coraggio. Caterina non vede Adriana davanti al televisore e mi fa un cenno, preoccupata. "Dov'è?"

"In cucina con Zisis," le spiego a bassa voce. "Le insegna a cucinare la hortopita."

Caterina, suo malgrado, scoppia in una risata, ma ridiventa subito seria. "Glielo hai detto?"

"No. Aspetto che siamo tutti insieme."

"Una volta in Grecia davano la caccia ai dissidenti, sia dopo la guerra civile che ai tempi della giunta militare," mi dice Fanis. "Dagli anni ottanta dissidente è diventato chi vuol fare il suo lavoro nel modo giusto, senza chiudere un occhio o tutt'e due."

Non faccio in tempo a rispondergli che fa il suo ingresso Adriana. La conversazione cade e tutti ci guardiamo con aria complottista.

Adriana non dice buonasera né alla figlia né al genero, ma viene difilato da me e mi abbraccia: "Sono orgogliosa di te," mi fa.

È un gesto tanto imprevedibile che mi coglie del tutto impreparato. "Perché sei orgogliosa di me?" le chiedo.

"Lo sai," mi risponde e si stacca dalle mie braccia.

Volto lo sguardo e vedo Zisis sulla porta del soggiorno che si gode la scena. "Gliel'hai detto?" gli chiedo stupito.

"Le cattive notizie non vanno dette a stomaco pieno, perché chi le riceve potrebbe svenire o dare di stomaco," mi spiega. "Invece cucinare è un godimento e in quel mentre riesci a mandar giù tutto con facilità."

"Zio Lambros, non ti batte nessuno," esclama ammirata Caterina.

"Lo sapevate anche voi?" chiede Adriana.

Vedo che sta per arrabbiarsi perché l'ha saputo per ultima, ma sono io a prendermene la responsabilità. "L'ho detto a Caterina e a Lambros perché volevo che fossero qui stasera insieme a noi. Non avevo il coraggio di dirtelo da solo," le spiego.

"Hai fatto bene," mi risponde calma. "Anch'io preferisco che siamo tutti insieme. Le cattive notizie sono come i kolliva, i dolcetti che si offrono alle commemorazioni: bisogna condividerle."

"Dai, ora andiamo a finire la hortopita," le dice Zisis ed escono insieme dal soggiorno.

"L'hai chiesto tu a Zisis di dirglielo?" mi chiede Fanis.

"No. Si vede che mentre preparavano la torta di cicoria gli è venuta l'ispirazione giusta."

"Facciamoci il segno della croce, è andato tutto per il meglio," commenta Caterina.

Neanche il tempo di dirle che è ancora troppo presto per vedere come reagirà quando le sarà passato il primo shock che mi squilla il cellulare.

"Sono Papadakis, signor commissario, buonasera."

"Aspetta un momento."

Esco dal soggiorno e vado nell'ingresso mentre mi chiedo che cosa possa volere da me Papadakis. "Ora ti ascolto. Parla."

"Possiamo vederci domani all'ora che vuole, signor commissario?"

"Papadakis, quello che avevo da dirvi ve l'ho detto stamattina. Da questo momento in poi non voglio più discutere questioni che abbiano a che fare con il servizio, almeno finché sono in congedo."

"Non si tratta di una questione di lavoro. Ho bisogno di parlarle di una cosa personale. Non le ruberò molto tempo."

Dentro di me impreco perché non ho voglia di vedere nessuno dell'ufficio, neppure i miei assistenti. Però è anche vero che Papadakis mi è simpatico e non posso proprio dirgli di no.

"D'accordo, possiamo vederci domattina verso le dieci," e gli do l'indirizzo della caffetteria in via Spirou Merkouri, dove mi sono seduto stamattina per tranquillizzarmi e raccogliere le idee.

Quando torno in soggiorno trovo la tavola imbandita e Zisis che porta la hortopita.

"Non fatemi i complimenti perché l'ha preparata Lambros," ci annuncia Adriana. "Io sono stata l'allieva che ha seguito il maestro artigiano. Ma devo ammettere che Lambros è un buon maestro."

Poggia sul tavolo la grappa, lo tsipouro, che beve solo Zisis, e una bottiglia di vino per tutti gli altri.

Adriana aspetta che siamo seduti e solleva il suo bicchiere. "Beviamo alla nostra salute; voglia il cielo che stiamo tutti bene, sempre tutti insieme e accidenti ai nostri nemici!" Quindi, rivolta a me: "Sei la mia gioia, marito mio!"

Sento un nodo alla gola, non sono in grado di articolare neanche una parola. Mi limito ad alzare il bicchiere. E mentre me ne sto lì, muto con il bicchiere alzato, mi passa davanti agli occhi tutta la vita che abbiamo vissuto insieme, Adriana e io, sempre così, a metà strada tra la catastrofe e la commozione.

Il resto della serata passa tra risate e scherzi. Se qualcuno ci vedesse non crederebbe che ci siamo riuniti per affrontare una situazione difficile. È come se ce ne fossimo dimenticati persino noi, tanto siamo di buonumore quando ci diamo la buonanotte.

"Vai a letto," mi dice Adriana. "Sparecchio io."

"Non vuoi che ti aiuti?"

"E perché mai? Quando mai mi hai aiutata?" mi risponde.

Di colpo, invece di cominciare a sparecchiare, si accascia su una sedia e si mette a piangere.

Le vado incontro e la abbraccio. "Dai, non fare così. Abbiamo superato anche cose peggiori," le dico. "In fondo non mi succederà niente di tragico. Al massimo mi puniranno con un richiamo formale, o alla peggio mi trasferiranno. Cosa che sarebbe potuta avvenire comunque. Nessuno mi ha garantito che sarei rimasto vita natural durante alla Squadra Omicidi."

"Non piango per questo, ma per l'ingiustizia," mi spiega. "Ecco cosa mi uccide: l'ingiustizia. Non ho mai potuto capire perché in questo paese vieni punito quando fai la cosa giusta." Si asciuga gli occhi e si alza. "Dai, vai a dormire. Io arrivo appena ho finito di sparecchiare."

Non mi oppongo, pensando che voglia restare da sola. Io ormai mi sento completamente distrutto, ma nonostante questo sono sicuro che stanotte non chiuderò occhio.

 

 

36

Quando arrivo alla caffetteria di via Spirou Merkouri, trovo Papadakis che mi sta già aspettando. Appena mi avvicino, si alza per ricevermi.

"Buongiorno, signor commissario."

"Buongiorno."

"Cosa prende?"

Avevo già bevuto il mio caffè dolcebollito a casa, quindi ordino un espresso. Non aspetto che arrivi il caffè ma entro subito in argomento.

"Cosa c'è che non può essere rimandato e per cui hai chiesto di vedermi oggi, a un solo giorno dal mio allontanamento dal servizio?" gli chiedo. Mi guarda, a disagio, senza parlare. "Se hai chiesto di vedermi, significa che hai deciso di dirmi qualcosa. Parla, quindi." Gli faccio pressione perché non ho voglia di moine e salamelecchi.

"Si ricorda che le avevamo chiesto, Koula e io, di farci da testimone per le nostre nozze?"

"Mi ricordo."

Si vede che la cosa che sta per dire gli costa molto, e non sa da che parte iniziare. "Dunque, ne abbiamo discusso ieri sera, dopo la svolta che hanno preso gli eventi." Tace di nuovo. Cerca le parole giuste. "Se ci sposassimo con lei come testimone, signor commissario, quelli di sopra la prenderebbero come una provocazione, penserebbero che siamo amici stretti, pappa e ciccia con lei. Ma noi siamo due semplici agenti, possono spedirci ovunque. Vede, non hanno esitato con lei, non avranno certo paura di noi. Mi capisce, vero? Nulla gli impedisce di accanirsi. Ci troveremmo sbattuti chissà dove, e cominceremmo a litigare sin dal primo giorno di matrimonio. Per questo vorremmo che ci scusasse e ci mostrasse comprensione se cercheremo un altro testimone di nozze."

Mi guarda e aspetta una risposta. Ma io rimango in silenzio, e continua: "Koula ha pianto tutta la sera. Non ha trovato il coraggio per dirglielo lei stessa, me ne sono fatto carico io. Mi creda: questo non cambia di una virgola la stima e i sentimenti che nutriamo per lei. Semplicemente, dobbiamo stare attenti a non fare la fine di chi si trasforma in danno collaterale."

"Decidete come credete giusto," gli rispondo. "Non ha alcuna importanza che io sia il vostro testimone. Quel che è importante è che viviate felici, senza problemi e senza rimpianti."

Metto la mano in tasca per pagare, ma lui mi ferma: "No, lasci. Lasci che sia io a pagare," dichiara, deciso a offrirmi almeno il caffè di consolazione.

"Porta i miei saluti a Koula."

Tra tutti i mal di testa che mi ritrovo, l'ultimo mio problema era fare da testimone a Papadakis e Koula. Ma sono sicuro che non ne hanno discusso solo tra di loro. Ne hanno parlato anche con Vlasopoulos e Dermitzakis, che gli avranno fatto capire che non si stringono rapporti con la pecora che fugge dal gregge, con il "revisionista", come mi ha definito Zisis.

Torno a casa a piedi, per ammazzare il tempo e ridurre il mio periodo di permanenza a casa. Adriana e io saremo in tensione ventiquattr'ore su ventiquattro e non è proprio il caso che io le stia tra i piedi tutto il giorno.

"Cosa voleva Papadakis?" mi chiede dalla cucina.

"Voleva dirmi quanto è dispiaciuto," le rispondo. Non faccio parola della questione delle nozze perché so che la prenderebbe male e si sentirebbe offesa.

"Vuoi un caffè?"

"No, ne ho bevuto uno con Papadakis."

Prendo il Dimitrakos sottobraccio e vado a sedermi in soggiorno.

sospeso agg. part. pass. di sospendere. 1. Attaccato, appeso in alto: un lampadario s. al soffitto; spesso con l'idea di precarietà: sulla testa di Damocle era s. a un filo una spada || Interrotto, revocato temporaneamente: tutte le licenze sono s.; s. gli ingressi di favore || Trattenuto, restare col fiato s. || Che si trova in uno stato di incertezza: star con l'animo s; non tenermi in s. || neol. caffè s. a disposizione di chi non può pagare la consumazione.

sospensione s.f. 1. Il fatto di essere sospeso || In chimica-fisica, sistema liquido-solido nel quale il solido costituisce la fase dispersa; a seconda delle dimensioni delle particelle solide si va dalle s. grossolane alle s. di particelle minutissime || Nel diritto processuale s. del dibattimento || Nel diritto internazionale s. d'armi || Interruzione provvisoria o temporanea di un'attività, imposta d'autorità come punizione per gravi motivi: s. cautelare di un impiegato sottoposto a procedimento penale o disciplinare.

La seconda definizione si adatta perfettamente al mio caso: io sono sospeso, ma su di me è sospesa una spada di Damocle di ignote dimensioni: posso essere spedito ovunque. Sì, almeno in teoria non corro il rischio di essere licenziato, ma potrei ritrovarmi in qualche paesino non segnato nemmeno sulle carte fino alla prossima crisi della polizia, quando mi spediranno definitivamente a casa. A quel punto potrò sperare che qualcuno mi lasci, in qualche bar, un caffè sospeso.

Riguardo alla sospensione, invece, resto come un solido disperso in un liquido burocratico, in attesa che mi frullino ben bene e da grossolano mi riducano in particelle minutissime.

Stare in compagnia del Dimitrakos, stavolta, non mi ha messo di buonumore, ma non posso neanche fargliene una colpa. Nessuno può riuscire a sradicare questa sospensione di paura e collera che mi sta intasando la mente.

Mi riduco a guardare lo schermo nero del televisore, con il Dimitrakos sulle ginocchia e i pensieri da nessuna parte, quando lo squillo del cellulare mi riporta sulla terra.

"Kyriazidis. Buongiorno, signor commissario."

"Buongiorno, signor Kyriazidis." Sto per dirgli che non mi occupo più del caso, ma è lui ad anticiparmi.

"Stamattina mi ha telefonato Rena, l'ex moglie di Sotiropoulos. Si erano separati anni fa, ma avevano mantenuto relazioni amichevoli. Rena mi ha detto che Menis le aveva dato una cosa in custodia. E ora che lui non c'è più, non sa cosa farne."

Sto per dirgli che non lo so neanch'io, ma le cattive abitudini non si perdono da un giorno all'altro.

"Di che cosa si tratta?"

"Di una chiavetta usb, signor commissario. Per questo le ho telefonato: mi sono ricordato che l'ultima volta che ci siamo parlati mi aveva chiesto se Sotiropoulos aveva un computer."

Sento che la mano mi trema, mentre mi mordo il labbro per non urlare. "Può darla a me," dico cercando di non lasciar trasparire la mia agitazione. "Se la chiavetta non ha alcun legame con le indagini gliela restituirò, altrimenti verrà trattenuta come prova e farò in modo che le diano una regolare ricevuta."

"Benissimo. La signora si chiama Rena Pandazidou, e lavora come insegnante in una scuola materna dalle parti dei Patisia. Le invio il suo numero di cellulare con un sms."

Mi trattengo per non gioire anzitempo, dato che la delusione potrebbe gettarmi direttamente nella depressione più profonda. Se Sotiropoulos ha copiato sulla chiavetta quei dati che Vellidis ha cercato senza trovarli, allora tutto si ribalterà. Una cosa è certa: Sotiropoulos aveva paura. E dato che era tutto fuorché imprudente, è molto probabile che abbia archiviato i suoi dati su una chiavetta per poi lasciarla in mani sicure. Se non sbaglio, quindi, tutto può ribaltarsi per davvero.

Il suono del cellulare mi avverte dell'arrivo di un messaggio. È il numero della Pandazidou, e la chiamo subito.

"Pronto," mi risponde una voce di donna.

"La signora Pandazidou?"

"Sì, sono io."

"Sono il commissario Charitos. Mi ha chiamato il signor Kyriazidis per avvertirmi che voleva consegnarmi qualcosa."

"Esatto. Quando possiamo incontrarci e dove?"

"So che lavora in una scuola materna dalle parti dei Patisia. Verrò volentieri io, per non sottrarle troppo tempo."

Mi dà appuntamento dopo un'ora in un caffè all'angolo tra piazza Amerikis e via Mithimnis. "Mi riconoscerà facilmente. Sono bionda, porto gli occhiali e indosso una giacca verde."

Sto sulle spine. Mi alzo per mettere il Dimitrakos al suo posto, poi faccio una sosta in cucina per perdere del tempo e non precipitarmi subito fuori di casa. Adriana sta stirando.

"È rimasta un po' di hortopita da ieri, così non devo cucinare," mi spiega. "Se non dovesse bastare per stasera, preparerò dei piselli." Poi mi manifesta la sua inquietudine. "Come stai?"

"Sto bene, non preoccuparti, ma non aspettarmi a pranzo."

"Perché?"

"Ho un appuntamento che potrebbe aprire una finestra."

"Voglia il cielo!"

Mi chiedo se ho fatto bene ad accennarle questa eventualità, ma la speranza, com'è noto, è l'ultima a morire e voglio tenerla in vita per entrambi.

Non ha senso che cerchi scuse per tardare oltre, così salgo in macchina. Secondo il buon senso dovrei scegliere l'itinerario che prevede il passaggio da viale Alexandras, per non impelagarmi nel traffico del centro, ma non ce la faccio proprio a passare davanti alla Centrale. Quindi transito dalla Righillis a piazza Sindagma ed entro nella Panepistimiou. La complicazione arriva in piazza Omonia e continua sulla Tritis Septemvriou.

Mi arrabbio con me stesso per non essere partito prima, ma avevo davvero intenzione di prendere il viale Alexandras. Solo dopo essere entrato in macchina mi sono accorto che non sarei riuscito a passare davanti al mio ufficio. Per fortuna, il traffico si dirada all'altezza di via Marni, e riesco a recuperare un po' di tempo. Svolto sulla Aghiou Meletiou, a sinistra della Patision, e per fortuna riesco a trovare parcheggio sulla Mithimnis.

Do un'occhiata ma non vedo nessuna signora bionda con gli occhiali e una giacca verde. Mi siedo e ordino il secondo espresso della giornata. Lo bevo a piccoli sorsi. Per fortuna non devo aspettare troppo. Nel giro di cinque minuti vedo arrivare una donna che coincide con la descrizione. Cerca con lo sguardo tra i tavolini e questo mi conferma che è lei.

"La signora Pandazidou?" le chiedo, alzandomi.

"Sì, sono io. Buongiorno, signor commissario."

Le chiedo che cosa posso offrirle. "Niente, grazie," mi risponde. "Non ho molto tempo, devo rientrare a scuola."

Apre la borsa, prende la chiavetta e me la dà. "Ecco. Sono contenta che sia finita in buone mani."

Non può immaginarsi quanto buone siano. "Ha tempo per qualche domanda?"

Guarda l'orologio. "Devo rientrare fra un quarto d'ora."

"Bene. Quando le ha dato la chiavetta, Menis?"

"Una settimana prima che..." si ferma. La parola non le viene e ne cerca un'altra. "Prima della morte," dice infine coprendosi gli occhi con il palmo della mano. "Mi ha detto di tenerla e che me l'avrebbe richiesta se gli fosse servita. Ma non mi chieda che cosa contiene perché non l'ho toccata."

"Quando è venuto a portargliela, ha notato qualcosa di diverso nel suo comportamento? Le è sembrato inquieto o impaurito?"

Ci pensa su.

"Impaurito no, non direi. Inquieto sì, almeno a giudicare da quello che mi ha detto."

"Che cosa le ha detto?"

"Che di certi segreti è meglio tenere una copia, perché non si può mai sapere."

Non so se si può definire inquietudine, ma di certo Menis si sentiva le serpi intorno.

"La ringrazio molto, signora Pandazidou. Mi ha dato un aiuto che non mi aspettavo," le dico, e ci credo davvero, anche se lei non può capirlo fino in fondo.

"Me lo auguro," mi risponde e si alza. "È davvero molto difficile per me accettare di aver perduto Menis a causa di una rapina."

Mi saluta dandomi la mano e se ne va. Avrei voluto dirle che è molto difficile anche per me, ma mi trattengo.

Il mio primo pensiero è tornare a casa e inserire la chiavetta nel mio computer, ma rinuncio subito all'idea perché io il computer lo accendo una volta l'anno. Potrei combinare qualche pasticcio cancellando i file.

Allora telefono a mia figlia e mi risponde la segretaria. "Sono Charitos, il padre," mi presento. "C'è per caso Uli?"

"Sì. La metto in comunicazione."

"Se non disturbo."

Poco dopo sento la voce di Uli.

"Buongiorno, signor Charitos."

"Buongiorno, Uli. Ieri ti sei offerto di aiutarmi a fare una ricerca su internet."

"Certo."

"Ora, io non devo cercare su internet, ma ho tra le mani una chiavetta di cui vorrei conoscere il contenuto con il tuo aiuto. Quando posso venire?"

"Anche adesso."

Riprendo la Seat con la convinzione, forse prematura, che la fortuna stia cominciando ad arridermi.

 

 

37

Telefono a Adriana e le dico che sono nell'ufficio di Caterina, in modo che non si roda il fegato.

Prendo una sedia e mi piazzo di fianco a Uli, davanti al computer. Uli clicca sull'icona e compaiono una serie di cartelle:

Appunti

Fotografie

Video.

"Da dove comincio?" mi chiede Uli.

"Ti direi dagli appunti; non ha senso cercare tra le foto e i video se non sappiamo quali sono le altre informazioni che ha raccolto."

Il primo appunto risale al 14 maggio, un giorno dopo la conferenza stampa del ministro della marina mercantile.

Ma com'è possibile che ci siano due naufragi e sia stato ucciso il proprietario di una compagnia di navigazione, e questa gente sostenga di essere tornata in Grecia per contribuire alla ricostruzione del Paese? Con due incidenti, uno di seguito all'altro, con Chardakos morto... possibile che nessuno senta puzza di bruciato? Io sì, la sento, eccome! Posso anche accettare che il figlio di Chardakos volesse tornare in Grecia, e suo padre no. E che quando il padre è salito ai campi Elisi il figlio abbia finalmente potuto trasferire l'azienda in Grecia. Ma gli altri due armatori? Negli anni precedenti la crisi, quando la Grecia, almeno teoricamente, volava alto, quei due non si sono spostati di un millimetro da Londra. Dov'era, allora, il patriottismo?

Dovrei indagare sui naufragi, ma non è semplice. Se riuscissi a beccare Sergej, forse potrei trovare qualcosa su Odessa. Basta che Sergej si ricordi dei vecchi tempi.

"Che ne dice?" mi chiede Uli.

"Innanzitutto che ho sbagliato a giudicare Sotiropoulos. Per un certo periodo ho pensato che cercasse delle complicità, come di solito fanno tutti, dato che è il nostro sport nazionale. Al contrario, ora sono certo che avevamo gli stessi sospetti e gli stessi dubbi," rispondo. "C'era qualcosa che non mi tornava, ed è per questo che ho continuato a indagare. Ma avevo anch'io lo stesso problema: non sapevo da dove cominciare."

"Vediamo che cosa ha trovato Sotiropoulos," commenta Uli e procede.

17/5

Sergej ha fatto le sue ricerche e non ha alcun dubbio che l'affondamento di Odessa sia frutto della collaborazione tra mafia russa e mafia ucraina. Potrebbe essere opera degli autonomisti russi? Potrebbe, ma allora che c'entra la mafia ucraina? Anche Sergej è della stessa opinione. In ogni caso, non ci può essere certezza se non indirettamente: se anche l'affondamento in Thailandia è un affare sporco, allora potremmo avere una conferma. Il fatto, però, è che non ho un Sergej in Thailandia e dovrò trovare un'altra strada. Kyriazidis potrebbe darmi una mano, ma non voglio coinvolgerlo.

L'appunto successivo è di tre giorni dopo: 20/5 Alla fine ho telefonato al contatto che mi ha dato Kyriazidis. Johnson è un broker che mi ha confermato quel che sospettavo: è impossibile che i pirati abbiano incendiato la nave di Chardakos. Su questo è stato chiarissimo: i pirati attaccano sempre in mare aperto e mai in un porto. Secondo lui è stato un lavoro della mafia asiatica, anche se non sa quale potrebbe essere il movente. Ho saputo anche un'altra cosa, che potrebbe rivelarsi interessante. Johnson mi ha detto che Zacharakis era sull'orlo del fallimento e cercava disperatamente qualcuno a cui vendere la flotta. Il fallimento non era dovuto alla crisi della marina mercantile ma a certi suoi investimenti sbagliati. Ha provato a spiegarmi qualcosa riguardo a piattaforme marine e unità cantieristiche, ma non ci ho capito niente. La cosa interessante, invece, è che, secondo una serie di voci che circolano a Londra, nelle casse di Zacharakis sono entrati all'improvviso molti soldi, dopodiché l'armatore ha trasferito la compagnia in Grecia. E questa è la favola che Johnson mi ha raccontato riguardo al presunto interessamento di Zacharakis alla ricostruzione del paese.

 

"Da dove arrivano i soldi?" chiedo a Uli. "Tu e mia moglie continuate a farvi questa domanda. Ecco, ora hai l'occasione per risponderti."

Mi guarda con un sorriso. "Non posso dirle da dove arrivano i soldi. Per saperlo dovrei cercare nelle società di comodo che li nascondono. Potrei trovare la banca a cui si sono rivolte e da lì cercare una chiave di accesso. Ma ci vorrebbe del tempo e dovrei farlo da me. Ma intanto, vediamo che cosa dice Sotiropoulos."

L'appunto successivo porta la data del 24 maggio ed è completamente diverso.

Sono tre giorni che mi pedinano. All'inizio non gli ho dato importanza. Mi sono detto che era il sintomo di un complesso di persecuzione. Eppure non è così. Mi seguono. A volte c'è un furgoncino rosso che parte subito dopo di me. Altre volte una Suzuki mi si incolla dietro. Chi può aver parlato? Non può essere stato Kyriazidis. Rimangono Sergej e il broker inglese. Sarà stato Sergej? È verosimile che il giornalista delle Izvestija sia diventato un uomo della mafia e che mi abbia gettato un'esca per vedere se avrei abboccato? Niente è impossibile. Potrebbe aver parlato l'inglese. Certo, che quest'ultimo abbia a che fare con la mafia è molto improbabile. Se però ha detto qualcosa a proposito della nostra conversazione, allora chissà quali orecchie possono avere ascoltato. La cosa sicura, comunque, è che mi tengono d'occhio.

"Lascia stare gli appunti e andiamo alla cartella con le fotografie," dico a Uli. "Magari ce n'è qualcuna di quelli che lo stavano pedinando."

Uli apre la cartella. Le prime foto mostrano due navi. Una si chiama West Explorer e l'altra West Cruiser. Entrambe hanno sulla fiancata, dipinto a lettere cubitali, il nome "West Shipping Co.".

"Devono essere le navi affondate," commenta Uli.

"Sembrerebbe proprio di sì. Passiamo oltre."

Segue una foto dei Chardakos, padre e figlio. Probabilmente è stata scattata in una circostanza mondana, perché entrambi hanno in mano dei bicchieri e sorridono all'obiettivo.

Quindi c'è una foto di Zacharakis e subito dopo un'altra di un tale dell'età di Cleante Chardakos in posa con una bella bruna al fianco. Dato che la foto segue quelle dei due Chardakos e di Zacharakis, è logico pensare che si tratti dell'altro armatore che ha accettato di trasferirsi in Grecia per partecipare alla ricostruzione del paese.

La fotografia con il camioncino rosso è più avanti. Si tratta di un Datsun di quelli che circolano su tutte le strade di Atene. Non ha alcun segno di riconoscimento né sulla portiera né sul telone: non c'è modo di appigliarsi a un indizio.

L'altro veicolo è un Suzuki grigio, parcheggiato in via Tritis Septemvriou, all'angolo con via Ioulianoù.

Ed ecco una terza fotografia, ancora con il furgoncino, ma ci sono anche due uomini che conversano tra di loro. Il primo è un tipo muscoloso, con la testa rapata. Porta i jeans e una T-shirt con le maniche corte. L'altro è un signore distinto, in giacca e cravatta.

Sotto la fotografia Sotiropoulos ha aggiunto una didascalia. "Il palestrato è quello che mi segue. L'altro chi è?"

Non riesco a capacitarmi che non mi abbia telefonato per dirmi che lo pedinavano e fornirmi i dati del furgoncino e della Suzuki. E non gli è neanche venuto in mente di fotografare i due mezzi in modo che si vedessero le targhe. Con le targhe avrei potuto individuarli in cinque minuti.

Chiedo a Uli di tornare agli appunti, casomai si trovi qualcos'altro che ci aiuti a proseguire.

Gli appunti successivi trattano del pedinamento e di una serie di ipotesi di Sotiropoulos che cerca di indovinare chi lo stia seguendo e finisce per pensare alla mafia, in modo generico.

28/5

Hanno perquisito casa mia. Il sospetto mi è venuto aprendo la porta d'ingresso. Io chiudo sempre a doppia mandata, ma stavolta ho aperto dopo un solo giro di chiave. Lì per lì ho pensato che magari ero stato io: può capitare. Ma quando sono entrato ho trovato aperta la porta della camera da letto e allora mi è scattato il campanello d'allarme. Quella sicuramente l'avevo chiusa. Il terzo indizio sono state le buste nei miei cassetti. Non che fossero sottosopra, ma erano sistemate in modo diverso da come le metto io di solito. Che cosa cercavano? Probabilmente, gli elementi che ho raccolto. Non è escluso che abbiano provato a entrare nel mio computer. Magari era proprio il computer che cercavano. Non potevano sapere che lo porto sempre con me.

A rigore, dovrei parlarne con Charitos. Ma se lo faccio, le indagini passerebbero alla polizia e io mi ritroverei ai margini. E questo voglio evitarlo. Non per la gloria, ma perché non sopporto tutta questa messa in scena della ricostruzione della patria e scemenze del genere: voglio dimostrare che non ci casco.

Alla fine, per dimostrare che non ci cascava non è venuto a parlarmi e non abbiamo potuto proteggerlo. E dato che aveva il computer sempre con sé, l'hanno dovuto uccidere per prenderglielo. Insomma, ha pagato i suoi errori con la vita.

"Ora guardiamo anche i video," dico a Uli.

Uli fa partire il primo filmato. Si vede la strada davanti al condominio dove abitava Sotiropoulos. Vedo l'edicola con un cliente. Poco oltre c'è Mahmud che guarda la strada. La macchina di Sotiropoulos non è parcheggiata nel punto dove si trovava la sera dell'omicidio, ma poco oltre.

Solo ora mi rendo conto che Sotiropoulos non sospettava affatto dell'asiatico, ma solo del furgoncino rosso e della Suzuki.

Mentre ci rifletto, la videocamera si gira all'improvviso e inquadra il furgoncino rosso che sta arrivando dal fondo della strada. È evidente che il video proviene dal cellulare di Sotiropoulos. Aspetta che il furgoncino arrivi, e lo segue finché non parcheggia proprio davanti all'edicola. La portiera si apre e ne esce il tipo muscoloso che conversava con quello elegante. L'uomo si guarda intorno, intercetta Mahmud che si trova lì vicino, ma lo oltrepassa come se non lo conoscesse e poi rientra nel furgoncino.

All'improvviso mi viene un'idea. "Puoi tornare un attimo indietro?" chiedo a Uli.

Senza rispondermi torna indietro fino al punto in cui compare il furgoncino.

"Ecco, ora riparti." Il furgoncino comincia ad avvicinarsi. "Ferma." Il video si blocca. "Puoi ingrandire?" Uli comincia a ingrandire. "Ecco, fermati qui." Il video si blocca di nuovo, e io riesco a leggere il numero di targa dell'automezzo. Prendo un bloc-notes e me lo segno.

"Ora abbiamo la targa del furgoncino," sottolinea Uli, soddisfatto.

"Sì. Posso chiederti un favore? Puoi farmi una stampata degli appunti e una copia delle foto e del video?"

"Ovvio. Le avrà tra un quarto d'ora."

Intanto, telefono a un mio vecchio conoscente della polizia stradale. "Ghiannis? Sono Charitos."

"Ma cosa è successo? Roba da pazzi!" mi saluta, chiaramente indignato.

"Lascia stare, va'. Ne parliamo un'altra volta. Ora devo chiederti un aiuto."

"Dimmi. Quello che vuoi."

"Puoi trovare a chi appartiene un furgoncino con la targa IKI 5522?"

"Aspetta un attimo. Non riattaccare." Resto qualche minuto con il telefono in mano, finché non risento la voce del mio amico. "La proprietà è della Delta Hotelleries."

"Grazie tante, Ghiannis."

"Figurati, non è niente. Sentiamoci presto."

"Certo," lo rassicuro e riattacco.

"Il nome Delta Hotelleries ti dice qualcosa?" chiedo a Uli.

"È l'azienda di cui è consulente legale Caterina," mi risponde subito.

"Sono i proprietari del furgoncino," gli comunico e vedo che si irrigidisce. "Non dire ancora niente a Caterina. Lascia che faccia qualche ricerca, poi vedremo come comportarci."

Per fortuna Uli è un tedesco sveglio, non mi fa altre domande. Mette in una busta la stampata dei file di Sotiropoulos e un dvd con i video e le foto, e mi consegna il tutto.

"Grazie, Uli. Ora devo chiederti un altro favore."

"Mi dica."

"Vorrei che tenessi tu la chiavetta, ma non qui. Devi conservarla in un posto sicuro."

"Non si preoccupi," mi risponde sorridendo. "La darò a un mio amico tedesco che lavora all'ambasciata. È impossibile che la trovino."

"Grazie, Uli. Sei eccezionale," gli dico, e ne sono davvero convinto.

Sono pronto ad andarmene quando mi viene un'idea che mi induce a tornare a sedermi per poterla mandar giù. Sotiropoulos non l'ha ucciso l'asiatico Mahmud. L'ha ucciso il tizio muscoloso che guidava il furgoncino. Non è stata una rapina ma un'esecuzione vera e propria che ha avuto, come premio aggiuntivo, il computer. E l'assassino lo seguiva per scegliere il momento migliore per giustiziarlo.

L'eventualità più probabile è che Mahmud abbia parlato con Sotiropoulos. Lui ha abbassato il finestrino, e a quel punto è sopraggiunto il body builder e l'ha ammazzato. Dopodiché sono scappati via insieme e l'assassino ha dato a Mahmud l'arma da portare a casa sua. Il testimone oculare ha visto Mahmud, ma al buio non ha capito che è stato l'altro a sparare.

è anche possibile che l'asiatico non c'entri nulla: Sotiropoulos ha abbassato il finestrino per chiedere al tizio perché lo seguiva e lui gli ha sparato.

In entrambi i casi, l'asiatico era solo una comparsa che è servita ad attirare l'attenzione su di sé e ad autoaccusarsi dell'omicidio con il movente della rapina. Ha svolto il ruolo della controfigura perché il vero omicida non doveva cadere nelle mani della polizia.

Nei due casi precedenti, gli assassini sono stati quelli che poi hanno confessato. Nel caso di Sotiropoulos, invece, sono quasi certo che a uccidere non sia stata la persona che poi se ne è addossata la responsabilità. Potrebbe essere anche che Mahmud non si trovasse neppure sul luogo del delitto in quel momento, ma abbia incontrato l'assassino altrove, abbia preso in consegna la Beretta e l'abbia portata a casa sua.

Questa linea di pensiero mi sembra sensata, sebbene restino aperti due interrogativi. Il primo: come faccio a dimostrare, senza prove, che l'assassino è il conducente del furgoncino? Il secondo: come posso convincere Mahmud a ritrattare la sua confessione per un omicidio che non ha commesso?

Non ho risposte per nessuno dei due interrogativi, e per questo decido di andarmene prima che Caterina ritorni e sia costretto a inventare storie e giustificazioni per la mia presenza.

 

 

38

Entro nella Seat e faccio rotta sulla Katechaki. Mi auguro che il vicecomandante sia lì, così da poterla finire una volta per tutte. Gli occhi dei suoi tre collaboratori mi inchiodano appena mi vedono entrare spedito nell'anticamera.

"Voglio incontrare il signor vicecomandante," dichiaro.

"In questo momento è in riunione con il comandante. Se vuole può attendere," mi dice uno dei tre, sempre guardandomi stupefatto. Evidentemente non si aspettavano che avrei osato presentarmi dal vicecomandante dopo la sospensione.

Mi siedo con la busta sulle ginocchia e aspetto tranquillo, come si trattasse di una normale visita di servizio. Il vicecomandante si presenta dopo circa mezz'ora. Mi vede seduto in attesa e si aggiunge anche lui alla compagnia degli stupefatti.

"Cosa è venuto a fare qui?" mi chiede, brusco.

"Sono venuto perché devo parlarle," rispondo calmo. Gli altri hanno abbandonato quello che fingevano di fare e ora seguono lo spettacolo.

"Ora non posso. Ho cose urgenti di cui occuparmi," mi comunica. "Fissi un appuntamento e venga quando sarò disponibile."

"Non insisto perché lei mi veda," gli spiego senza cambiare tono e restando calmo. "Semplicemente, ho pensato che fosse un obbligo da parte mia parlare prima con lei. Se non desidera incontrarmi, allora mi esonera anche da questo obbligo."

Resta a fissarmi, indeciso. "Venga, ma non posso dedicarle più di dieci minuti."

"Non credo che me ne serviranno di più."

Non riesce a spiegarsi il mio tono tranquillo ed è proprio questo che gli provoca una certa inquietudine. Entra nel suo studio e io lo seguo, mentre sento gli sguardi degli altri incollati alle spalle.

Si siede, ma non mi invita ad accomodarmi. "La ascolto."

Poggio la busta sulla sua scrivania.

"Di che si tratta?" mi chiede.

"Questa busta contiene gli elementi per cui intendevo proseguire con le indagini e che spiegano come l'omicidio di Sotiropoulos non sia avvenuto a seguito di una rapina."

Mi guarda in silenzio. Non osa aprire la busta in mia presenza, ma senza aprirla non può replicare nulla.

"Lei mi ha molto sottovalutato, ed è questo che mi ha offeso più di ogni altra cosa," gli dico e mi dirigo verso la porta.

Mi fermo un momento prima di uscire. Il vicecomandante non si è mosso. "Ho dimenticato di dirle che ho con me gli originali del materiale che le ho consegnato, li conservo in un luogo assolutamente sicuro."

Apro la porta ed esco nell'anticamera che attraverso senza salutare i suoi cortigiani.

Mi siedo in auto e tiro un profondo respiro. La consapevolezza che mi tengono in pugno ma che allo stesso tempo li tengo in pugno anch'io, mi dà per la prima volta una certa soddisfazione. Ho lasciato apposta Ghikas fuori dal gioco, sia perché mi ha infastidito il suo atteggiamento, sia perché la questione riguarda solo me e il vicecomandante.

L'unico mal di testa che mi rimane è Caterina e il suo rapporto di consulenza con la Delta Hotelleries. Ma per questo ho bisogno di un parere che non possono darmi né Mania né Uli: soltanto Zisis.

Parto in direzione del centro di accoglienza. Non mi accorgo neanche se c'è traffico per strada, avendo la mente del tutto occupata da altre cose.

Trovo Zisis al suo posto, di fianco alla porta. "Ci sono sviluppi?" mi chiede appena entro.

"Ci sono, ma possiamo parlarne altrove?"

Chiama un'anziana signora a sostituirlo. "Andiamo," mi fa.

Usciamo dal centro e Zisis si dirige verso la Fokionos Negri. Sceglie un caffè tranquillo e ci sediamo. Risolve in fretta anche la questione delle ordinazioni: lui prende un tè, io un caffè, ed ecco che entra in modalità attesa.

"Dunque?"

Come al solito gli faccio un rapporto dettagliato. Dalla chiavetta usb all'apertura dei file di Sotiropoulos, fino all'incontro con il vicecomandante. Tengo per ultimo il coinvolgimento di Caterina.

"Non mi preoccupo per me, perché ho il mio asso nella manica," gli spiego. "Ma non so come comportarmi con Caterina. Se devo dirglielo o no."

Zisis non si affretta a rispondermi. Attende che il cameriere ci serva e poi beve un sorso di tè.

"Sai cosa dicevamo, scherzando, dei sovietici?" mi chiede.

"E cosa vuoi che ne sappia," gli rispondo temendo che attacchi con le sue storie comuniste.

"Dicevamo che in Unione Sovietica ogni cosa fino ai cinquecentomila dollari era un segreto di stato. Oltre, se ne poteva parlare."

Si ferma perché si aspetta che commenti, ma io taccio perché voglio proprio vedere dove vuole andare a parare.

"Le informazioni che hai raccolto non valgono cinquecentomila dollari, quindi sono un segreto di stato e non vanno rivelate," mi spiega. "Ecco perché non dirai nulla a Caterina e le lascerai fare il suo lavoro. Non preoccuparti: l'azienda con cui collabora è pulita e perfettamente legale. Quindi non commette alcun illecito. Dovrà chiarire la sua posizione solo qualora lei stessa individui un comportamento criminoso, ma in tal caso saranno affari suoi, non tuoi." Fa una pausa e prosegue: "Se domani tu scoprissi che nell'omicidio di Sotiropoulos è coinvolta anche l'azienda, allora certo le cose cambierebbero e dovresti informarla. Ma comunque non potresti impedirle di prendere le difese dei suoi clienti. È il suo lavoro."

Tace, e con lo sguardo intercetta una ragazza sulla strada. "Vedi quella ragazza in strada?" mi chiede.

"La vedo."

"Che cosa indossa?"

"Una camicetta e un paio di jeans."

"No, non un paio di jeans: un paio di jeans strappati e pieni di buchi. Un tempo pantaloni del genere li portavano i poveracci nei quartieri in cui ho trascorso gran parte della mia vita. Ora li portano le ragazze con i cellulari. La povertà è diventata una moda, Kostas. Io e altri come me abbiamo sacrificato la vita per abolirla, ma c'è chi ne ha fatto una moda, e così se ne è liberato. Perché occuparci della povertà se va di moda? Tu e tua figlia, non sareste alla moda, ma semplicemente poveri. E i poveri non assomigliano più a nessuno: questo tienilo a mente."

Tace e torna a guardare la ragazza, che continua a parlare al cellulare. "Ti faccio notare anche un'altra cosa."

"Dimmi."

"Sotto gli strappi e i buchi le si vedono le gambe. La povertà non è solo alla moda, ma è anche sexy." Scoppia a ridere, ma si riprende subito. "Tu mi conosci, sai che ho passato la vita nella lotta, in prigione, al confino, sono scampato per un soffio al plotone di esecuzione e ora faccio commenti sul lato sexy della povertà."

Beve un sorso di tè per buttar giù l'amarezza, mentre io non so proprio che cosa dirgli. "I tuoi scaricavano tutte le colpe addosso a noi, i banditi comunisti," continua. "I nostri davano a voi, ai fascisti collaborazionisti, la responsabilità di tutti i mali. Alla fine abbiamo perso entrambi, Kostas. Sono arrivati degli altri, più svegli, che hanno trasformato la povertà in una moda sexy, e ora sta a noi gestire la sconfitta. È questo che devi capire."

Lascia i soldi sul tavolo e si alza. "Ecco cosa avevo da dirti, e non mi è stato per niente facile, perché non avevo proprio nessuna intenzione di parlare di queste cose. Sai però quanto voglio bene a Caterina."

Usciamo dal caffè e torniamo al centro di accoglienza. Zisis si ferma davanti all'ingresso. Mi stringe una mano e mi poggia l'altra sulla spalla. Poi si gira ed entra senza aggiungere una parola.

Nel frattempo si è fatto buio. Metto in moto la Seat e svolto un po' oltre, per uscire sul viale Kipselis. Zisis mi ha schiarito la mente e ora mi sento più sereno. So che non dirò nulla a Caterina. Certo, può darsi che lei lo venga a sapere comunque, ma non da me.

"Dove sei stato tutto il giorno," mi chiede Adriana quando entro in casa.

"Ho fatto un po' di pulizie," le rispondo ridendo. "Essere di ramazza non è mica una tua prerogativa esclusiva. Certe volte tocca anche a me."

Mi guarda e mi accorgo che è spaventata. "Kostas, abbiamo superato infinite difficoltà. Non è che ammattiremo adesso per quel che ci è successo, eh?" mi dice dolcemente. "Su, calmati: la vita va avanti e troveremo una soluzione."

"Non hai capito. La ramazza riguarda quelli che volevano scavarmi la fossa," le spiego. "Qualcosa mi dice che resteranno col badile in mano."

Lei tira un sospiro di sollievo e mi elargisce una delle sue amatissime massime. "Gli dei amano i ladri, ma amano anche gli onesti." E sorridendo aggiunge: "Anche se non troppo spesso."

"Dai, su, metti in tavola."

All'improvviso ho anche fame.

 

 

39

Sono le nove e beviamo il caffè quando mi squilla il cellulare.

"Il signor Charitos?"

"Sono io."

"Vorrei parlarle, signor Charitos."

"Lei chi è?"

Segue una pausa. "Purtroppo non posso dirle il mio nome, ma le assicuro che quel che le dirò sarà di suo interesse." Avverte il mio silenzio e continua. "Dato che potrebbe pensar male, le propongo di vederci da Zonars, sulla Panepistimiou. Lei è un commissario e saprà benissimo che di mattina sulla Panepistimiou, e per di più da Zonars, non può proprio succederle nulla. Del resto glielo ripeto: ho da dirle cose per lei sicuramente degne di interesse. Quando possiamo vederci?"

"Tra un'ora."

"Benissimo. L'aspetto da Zonars, dunque."

Non so chi sia e non vuole neanche dirmelo. Però sono quasi certo che abbia a che fare con i file di Sotiropoulos che ho consegnato ieri al vicecomandante. Cerco di non rivelare che il mio pensiero viaggia su altri continenti per non spaventare Adriana, ma ogni volta dimentico che non le sfugge niente.

"Chi ti ha chiamato?" mi chiede.

"Non lo so. Non mi ha detto il suo nome."

"E vai a incontrare uno che non ti ha detto neanche come si chiama?" mi fa, tra il dubbio e la preoccupazione.

Mi alzo e la tranquillizzo con un sorriso. "Non ti agitare, non è il caso. Ora sono loro in posizione difensiva, non io. Hanno fretta di risolvere la faccenda."

Il primo pensiero è stato di prendere l'autobus, perché avrò problemi a trovar parcheggio in centro, ma poi ricordo che c'è un parking sulla Kriezotou, e decido di andare con la Seat.

Zonars è quasi pieno. Mi guardo intorno e individuo, seduto a un tavolo, il signore distinto che parlava con il tipo palestrato davanti al furgoncino. Anche lui mi ha visto e mi fa cenno con la mano.

"Buongiorno, signor Charitos," mi saluta garbatamente e mi chiede che cosa prendo. Dato che mi aspetto una conversazione abbastanza lunga, chiedo un caffè all'americana che dovrebbe durare abbastanza.

"Mi scuserà se non posso rivelarle il mio nome, ma quando sentirà quel che ho da dirle, capirà che c'è una ragione," mi dice il signore distinto.

"La ascolto."

Aspetta che vengano serviti i caffè prima di iniziare. "Entro subito in argomento, per non annoiarla. La Grecia è una cavia da laboratorio, signor Charitos. Durante gli anni della crisi l'esperimento consisteva nel capire fino a che punto un paese e un popolo potessero resistere con risorse sempre più ridotte: stipendi ridotti, pensioni ridotte e tagli anche sui bisogni più essenziali. Abbiamo seguito l'esperimento per cinque anni, molto da vicino, anno dopo anno, mese dopo mese, e siamo giunti alla conclusione che valeva la pena anche per noi di utilizzare la Grecia come cavia. Solo che il nostro esperimento è diverso."

"Ma voi chi siete?" chiedo.

Sorride, e quando mi risponde è del tutto a suo agio.

"Siamo i rappresentanti del denaro sporco, signor commissario. Vogliamo capire se riusciamo a sviluppare la nostra imprenditorialità collaterale, sotterranea, oscura, se preferisce, finanziando un paese e portandolo allo sviluppo senza utilizzare neppure un centesimo di denaro pulito. I primi segnali sono incoraggianti: del resto, l'ha visto anche lei. Tutti inneggiano al fatto che la Grecia ha superato la crisi ed è entrata in una fase di sviluppo. Tutti si congratulano tra loro perché il programma di austerità ha funzionato. Nessuno si chiede da dove arriva il denaro che sta assicurando lo sviluppo della Grecia, perché è un argomento che non interessa a nessuno. Basta che esista e che possa portare al successo."

Si ferma e mi guarda con un sorriso di soddisfazione. Sa che mi ha lasciato a bocca aperta con la sua sincerità. Io, però, continuo a fare la parte del muto, perché aspetto di sentire quel che segue. Anche lui lo capisce e perciò continua.

"Lei è un commissario e sa benissimo che esiste il denaro pulito e quello sporco. Il primo è legale, il secondo è illegale. Hanno però un punto in comune."

"Qual è?" gli chiedo.

"L'opacità, signor commissario. Sia il denaro pulito che quello sporco sono egualmente opachi e a nessuno interessa sapere da dove provengono. Se domani dovessi comprare un pacchetto di azioni e spingessi al rialzo la borsa di Atene, a nessuno verrebbe in mente di chiedersi da dove viene il denaro con cui ho finanziato l'operazione. Tutti sarebbero semplicemente felici per il rialzo di borsa. E se dopodomani decidessi di rivendere le mie azioni e far scendere la borsa, anche in quel caso a nessuno verrebbe in mente di chiedersi che cosa ne faccio dei soldi che ho ricavato dalla vendita, né se siano puliti o sporchi. C'è, in realtà, anche un altro punto, a parte l'opacità, che accomuna il denaro pulito a quello sporco."

"Adesso lei me lo dirà e io resterò esterrefatto."

"No, non credo. Del resto lo sa già. Sono i paradisi del denaro opaco: le isole Cayman, le isole Vergini, tutte quelle nazioni che insieme alle società offshore fanno scomparire sia il denaro pulito sia quello sporco. Certo, di tanto in tanto scoppia uno scandalo in alcuni di questi paradisi o in qualche società offshore. Ma a interessare sono solo i grandi nomi coinvolti. Il denaro anonimo, che è la parte maggiore, non interessa a nessuno, e lo si lascia circolare in pace."

Fa una pausa, beve un sorso di caffè e continua, perché sa che ha calamitato la mia attenzione.

"Si sente sempre parlare di riciclaggio del denaro sporco. Nessuno però dice che il riciclaggio è al tempo stesso un investimento, signor commissario. Il modo più sicuro per trasformare il cosiddetto denaro illegale in denaro lecito è investirlo. A quel punto, non ci sarà più nessuno a parlare di riciclaggio, ma tutti parleranno di investimenti. È questa l'essenza dell'esperimento che stiamo conducendo in Grecia: legalizzare il denaro sporco attraverso gli investimenti. Per spiegarlo con un vecchio proverbio greco: 'Nella lotta siamo uniti, nella massa separati', che in questo caso potremmo riformulare così: 'Nell'opacità siamo uniti, nella legge separati'. Il riciclaggio tramite gli investimenti ci unisce anche di fronte alla legge."

Ho fatto male a ordinare un caffè in una tazza grande, perché non ne ho bevuto neppure un sorso. Il signore distinto mi ha lasciato senza parole e si vede che la cosa lo diverte. Per questo sorride compiaciuto prima di proseguire.

"Il mondo crede che ci servano dittature e paesi canaglia per svolgere indisturbati le nostre attività, ma non è così. Anzi, è un grosso errore. Tutti tengono gli occhi puntati su questi paesi e ne controllano e ne commentano ogni singola azione. Per noi è un problema, perché diventiamo facili bersagli e non possiamo più restare nell'ombra, là dove è, effettivamente, il nostro posto. Al contrario, in un paese normale, con un governo democraticamente eletto, con un parlamento e delle istituzioni, nessuno presta attenzione a noi, perché, come le dicevo, a nessuno interessa l'origine del denaro. Basta che esista e che garantisca lo sviluppo."

Si ferma per verificare che tipo di reazione mi ha suscitato quello che ha detto. Sembra che l'effetto sia positivo, perché torna di nuovo a sorridere.

"Le ho parlato con assoluta sincerità e senza reticenze, signor commissario. Spero che ora avrà capito perché non posso rivelarle il mio nome."

Non ho dubbi che mi abbia detto tutto. Ma la domanda è: perché? Aveva qualcos'altro in testa e aspetta il momento giusto? E l'altra domanda è: come mi spiegherà gli omicidi? Decido di cominciare da quest'ultimo interrogativo, con la speranza che, al primo, il mio interlocutore dia una risposta strada facendo.

"Riconosco che mi ha parlato con sincerità," gli dico. "Ora vorrà rispondere ad alcune domande?"

"Le risponderò perché so già quali sono."

"Perché Chardakos doveva morire?"

"Per due ragioni. La prima è economica. Non è possibile che noi investiamo i nostri soldi in un paese allo sfascio e che le potenze economiche del paese non sostengano lo sforzo investendo all'estero. La seconda è una questione di prestigio. Durante il periodo della crisi, tutti, fuori e dentro la Grecia, si sono chiesti perché gli armatori sono rimasti estranei alle disavventure dal paese e non l'hanno aiutato. Il loro ritorno era necessario per convincere tutti che la ricostruzione era ben avviata. E infatti così è stato. Non c'è bisogno che le dica che l'Europa ha reagito molto positivamente, perché già lo sa. Chardakos era una testa dura. Gli abbiamo spiegato ripetutamente perché doveva trasferire la sua impresa in Grecia, ma lui non ne voleva sapere, diversamente dal figlio che invece già da tempo progettava il ritorno. Non sono serviti neanche i due avvertimenti che gli abbiamo recapitato attraverso i naufragi delle sue navi. Alla fine siamo stati costretti a liberarci del padre, per liberare le mani del figlio."

"Zacharakis, invece, era collaborativo," gli dico e resto in attesa della sua reazione.

"Zacharakis voleva trasferire la sua azienda in Grecia, ma aveva problemi economici. L'abbiamo aiutato a risolverli ed è tornato." Tace per un istante e mi guarda. "Non mi chieda di Sotiropoulos, perché già lo sa," mi dice. "Anche se era più abile di quanto credessimo. Ed è per questo che lei si trova qui ora, e io le fornisco le spiegazioni del caso."

"E Lalopoulos'"

Sorride: "Molta gente pensa che vogliamo il disordine e l'illegalità. È vero il contrario: vogliamo l'ordine sia dal punto di vista dello stato sia dal nostro. L'illegalità e il disordine attirano l'attenzione sulla nazione, e questo non ci conviene perché noi non vogliamo uscire dai nostri limiti. Lalopoulos era un pesce piccolo che giocava a fare il pesce grosso. A nessuno stanno simpatici i ragazzini che vogliono fare i grandi. Aveva messo su una sua piccola organizzazione, ma non gli bastava. Chiedeva bustarelle a tutti e anche a noi. A quel punto, la cosa doveva finire. Non è possibile che il piccolo tagliaborse minacci il grande brigante Davelis."4 Ride, ma torna subito serio.

"Come le ho detto, vogliamo che regni l'ordine, signor commissario. Per questo abbiamo bisogno di lei. Sappiamo che è un poliziotto molto capace, e per questo vogliamo che resti nel corpo di polizia. Le assicuro che nessuno le porrà ostacoli o le tenderà agguati. L'unica cosa che le chiediamo è che qualora in futuro noi le consegniamo il responsabile di un crimine, lei si limiti ad arrestarlo senza andare oltre. È questo che ha cercato di spiegarle il vicecomandante, ma lo ha fatto in modo, per così dire, inadeguato. Posso anche assicurarle che, via via che il paese tornerà alla normalità, anche questi casi diventeranno sempre più sporadici. E non la lasceremo mai senza copertura nel caso di un delitto irrisolto."

Ora ha detto tutto e tace. Beve un sorso del suo caffè e mi guarda. Bevo anch'io un sorso del mio, ma se aspetta una risposta da me, non l'avrà, almeno per il momento.

"La sua sospensione verrà ritirata e lei potrà tornare al suo lavoro," mi dice.

Capisco dove vuole andare a parare. Mi fa capire che sono loro ad aprirmi la strada del ritorno. Ora, se voglio a tutti i costi dimettermi perché ho la testa dura o sono un vade retro satana!, sono fatti miei.

"E un'ultima cosa," mi dice il distinto signore. "Sua figlia è un'avvocata molto intelligente e capace."

Sto per scattare in piedi e dirgli di non mettere di mezzo mia figlia, ma mi previene.

"Siamo certi che lei ha già scoperto a quale azienda apparteneva il furgoncino del caso Chardakos. Per questo voglio rassicurarla: sua figlia lavora in un'azienda assolutamente legale, signor commissario. Il furgoncino non aveva niente a che fare con la soluzione del problema Sotiropoulos. L'azienda è legale e resta legale. E l'attività di consulenza di sua figlia è anch'essa svolta in un quadro di legalità. È una persona molto capace: non le faccia torto."

E questo è il secondo messaggio: se ci rende la vita difficile, dovremo licenziare sua figlia.

Il signore distinto si alza.

"Desideriamo che lei torni al suo lavoro, signor commissario, ma non mi aspetto che decida ora. Vorrei soltanto che ci pensasse."

Mi saluta con un cenno del capo e si dirige verso l'uscita.

4 Il riferimento è a un celebre brigante, una specie di Passator Cortese, vissuto nell'Ottocento. (N.d.T.)

 

 

40

L'unica domanda che non gli ho fatto è quella relativa alla questione dell'asiatico Mahmud. Mi ha reso le cose facili senza volerlo, perché non è entrato in particolari riguardo all'omicidio di Sotiropoulos. Mahmud però è un caso particolare, devo chiarirlo per conto mio.

Salgo sulla Seat e dal parking, passando per via Akadimias, esco in piazza Sindagma. Vado in direzione Koridallos per una visita a Mahmud. Non voglio impelagarmi nel traffico del Pireo e quindi scelgo di immettermi nella direttrice verso Corinto, arrivare a Schisto e da lì imboccare la Grigoriou Lambraki.

Continuo a pensare alla mia conversazione con il signore distinto. Devo ammettere che non mi ha nascosto nulla: mi ha detto proprio tutto. Forse dipende dalla fiducia che mi ha ripetutamente dichiarato. Ma forse è anche dovuto al fatto che non ha nulla da temere, perché sa che non posso toccarlo. Mi ha pure consolato la sua rassicurazione che Caterina lavora in un'azienda del tutto legale, e in questo modo mi ha confermato quanto mi aveva già detto Zisis. Tutto il resto ha a che fare con me, e quindi lo metto da parte.

Finisco nel traffico di viale Schistoù, che peggiora sulla Grigoriou Lambraki, ma sono talmente assorbito dai miei pensieri che non riesco neanche a innervosirmi. Ho altre questioni su cui riflettere, molto più serie.

Arrivo al carcere e mostro al piantone la mia tessera della polizia. Chiedo di vedere il direttore, che conosco da anni.

Si alza per accogliermi.

"È vero quel che ho sentito al telegiornale?" mi chiede.

"Era vero quando l'ha sentito, ma ora non più," gli rispondo, e in fondo non dico bugie. "Semplicemente non è ancora arrivato l'annullamento ufficiale della sospensione, per questo il favore che le chiedo è fuori dalla norma. Vorrei vedere Mahmud, l'assassino del giornalista Sotiropoulos. So che formalmente non avrei l'autorizzazione, ma le assicuro che la questione è stata risolta: manca solo la comunicazione ufficiale."

"Le credo. Del resto, tra di noi non ha alcuna importanza," mi risponde.

"E ancora un favore le chiedo: mi faccia rimanere da solo con lui, perché voglio che parli liberamente."

"Nessun problema."

Chiama una guardia carceraria che mi guida in parlatorio. Dopo cinque minuti si apre la porta ed entra Mahmud. Indossa gli stessi abiti che aveva il giorno in cui l'abbiamo arrestato.

Mi vede e trasalisce, ma non dice nulla. Si siede davanti a me.

"Come stai?" gli chiedo.

"Come si sta in galera," mi risponde, con molto buon senso.

"Sono venuto qui per farti solo una domanda. Appena mi darai la risposta me ne andrò. Chi ha ucciso il giornalista Menis Sotiropoulos?"

"Ho già detto. Io ho ucciso," mi risponde.

"No, non l'hai ucciso tu. L'ha ucciso qualcuno che lo seguiva a bordo di un furgoncino rosso. È questo che voglio sapere. Chi era?"

"Io ho ucciso," insiste. "Ucciso e preso trecento euro."

"L'omicidio di Sotiropoulos non è stato una rapina. È stata un'esecuzione. Lo so per certo. Quello che non so è chi l'ha ucciso."

"Io."

Mi rendo conto che di questo passo non arriveremo da nessuna parte, perciò cambio strategia.

"Mahmud, perché ti sei accusato di un omicidio che non hai commesso?" gli chiedo.

"Perché io ho ucciso."

"Ascoltami. Non so chi abbia ucciso Sotiropoulos, ma anche se lo sapessi non potrei fare nulla dal momento che tu ti sei autoaccusato. Vorrei però sapere perché hai confessato un crimine che non hai commesso."

Stavolta mi guarda in silenzio.

"Ti fidi di me?" gli chiedo.

"Mi fido. Mia moglie ha detto che ragazza che era con te è stata molto buona e ha aiutato a venire qui a incontrarmi."

"Bene. Ora siamo solo noi due qua dentro, quello che diremo non lo sentirà nessuno. Terrò tutto per me e nessuno saprà nulla. Semplicemente vorrei sapere che cosa ti ha indotto ad accusarti dell'omicidio."

Continua a guardarmi senza parlare. Poi mi chiede: "Lei ha moglie, figli, signor commissario?"

"Sì, ho una moglie e una figlia grande, che fa l'avvocata."

"Io moglie e due figli vanno scuola. Un giorno sono venuti..." Si ferma all'improvviso e mi dice, spaventato: "Non chiedere chi è venuto!"

"No, non te lo chiedo. Non mi interessa." Non c'è bisogno che gli spieghi che lo so già.

"Sono venuti... persone e mi hanno detto che se dico che ho ammazzato quell'uomo, mia moglie avrà soldi finché sto in prigione e miei figli andranno a scuola e poi, se vogliono andare university possono oppure trovano lavoro e poi diventano greci."

Tace e mi guarda. Taccio anch'io e aspetto che prosegua.

"Sono uomo e devo pensare a mia famiglia, signor commissario. È my duty. Non importa qualche anno di carcere quando mia famiglia vive bene, figli vanno scuola, university, hanno lavoro, sono greci. Io sto in prigione, ma sto bene perché so che mia famiglia sta bene. Prima un giorno mangiavamo, due no."

È così semplice, dico tra me. Hanno comprato la sua confessione in cambio del sostentamento economico della famiglia.

"E come fai a essere sicuro che manterranno la parola?" gli chiedo.

"Queste persone se dicono ti ammazzo ti ammazzano, se dicono ti pago ti pagano," mi risponde con una logica disarmante.

"E il bracciale d'oro che abbiamo trovato a casa tua era l'anticipo?" gli chiedo.

"I soldi erano anticipo. Il braccialetto ho comprato io."

Non ho altro da chiedergli, mi alzo. "Va bene, Mahmud. Hai la mia parola: quanto mi hai detto resterà tra di noi e non lo saprà nessun altro." Prima di andarmene gli tendo la mano. "Bravo, sei un buon padre."

Mi stringe la mano con un largo sorriso sul volto.

Faccio una sosta nell'ufficio del direttore per ringraziarlo ed esco in strada.

Salgo in auto, ma non metto in moto. Ai tempi di mio padre, sottufficiale della gendarmeria, cercavano i comunisti per accusarli di qualche delitto e liquidarli. Oggi carichiamo tutto sugli immigrati e buonanotte.

Come ai tempi di mio padre, anche oggi non facciamo altro che scaricare le colpe su qualcuno e liquidare la questione.

Bene: mia figlia continuerà ad avere il suo posto di consulente legale e uno stipendio fisso. Adriana saprà che la sospensione è stata revocata e tirerà un sospiro di sollievo. Mahmud sarà contento perché la moglie e i figli avranno il futuro assicurato, e pazienza se marcirà in prigione. I miei assistenti continueranno a lavorare con uno stipendio migliore. E il paese si compiacerà del suo sviluppo.

E quindi: Lux facta est?

Petros Markaris - Il prezzo dei soldi
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