Conclusione
di Frederik Pohl
L’argomento di questa antologia di racconti di fantascienza mi affascina, perché le città sono un mio “hobby”. Come Catullo, odi et amo. Le odio perché distruggono la natura e l’uomo, e le amo perché sono attive.
Ho logorato più paia di scarpe camminando per le strade di almeno un centinaio di città di quante preveda di doverne comprare in avvenire. Secondo me, l’unico modo di conoscere una città è camminare lungo le sue strade per una ventina di miglia almeno – ed è per questo che Los Angeles mi è ancora estranea; là non si cammina, e perciò mi è difficile credere che ci si viva. Mi piace vedere la vita nei bassifondi, nelle zone residenziali e in quelle commerciali, oltre che visitare le chiese e i musei. Ho imparato a conoscere Leningrado passeggiando con mio figlio per le vie secondarie, entrando nelle drogherie e negli spacci dove si vendono alcoolici, osservando i pendolari correre per prendere il filobus, soffermandomi sui ponti a guardare le ramificazioni della Neva. Per me, Parigi sono tanto i caffè frequentati dagli operai ai piedi di Montmartre e la profumata opulenza dell’Avenue de Iéna, quanto la veduta dell’Ile de la Cité risalendo la Senna. Tokyo è il quartiere commerciale lungo la Ginza, e le squadre di legnaioli che segano gli alberi asfissiati dall’SO2. Monaco è la piazzetta ricca di negozi sotto l’orologio animato, e il fervore delle nuove costruzioni. Mi chiedo che aspetto avranno queste città fra cent’anni. Ne ho visitate alcune, a intervalli, lungo l’arco di alcuni decenni, e le ho viste trasformarsi e restare uguali.
Non credo che moriranno. Le città godono di vita propria. E, come tutti gli esseri viventi, crescono secondo uno schema loro, non nostro.
Questo è stato il grave problema dei progettisti. Alle città non piace essere progettate. Mi sono interessato, per passatempo, ai tentativi degli esseri umani d’imporre la propria fantasia sulle città – ricostruire quelle vecchie, o inventarne di nuove, come Kosmomolsk e Reston – e questo interesse mi ha indotto a fare un sacco di escursioni, con i verdi autobus extraurbani di Londra per vedere Welwyth Garden City, percorrendo con un vecchio bimotore un migliaio di miglia da Rio per il gusto di passare due ore in quel sogno vistoso e incredibile ma già superato che è Brasilia. Queste nuove città progettate non sono che sogni, e costruirle significa distruggerle. Non ho visto la città progettata da Le Corbusier, Chandigarth, ma ci andrò un giorno, se mi resta abbastanza da vivere, ma so che cosa ha distrutto quel particolare sogno. Era stata progettata come capitale di una provincia, ma la provincia si spaccò in due quando India e Pakistan si divisero e così è diventata una città priva della sua funzione. Le capre brucano l’erba sulle piazze. Ho visto le vestigia delle città americane progettate intorno agli anni ’30: sono state tutte inghiottite, una per una, dalla proliferazione urbana.
Perciò, considerando questi esperimenti, ed altri ancora, penso che non sia possibile sognare una città e darle vita, più di quanto sia possibile sognare un ideale femminile e poi pretendere di ritrovarlo incarnato in mezzo alla folla. Eppure...
Eppure dev’esserci il modo di far sì che una città sia viva, gaia, oltre che produttiva. Eppure dev’esserci una formula magica capace di creare città che non distruggano necessariamente i loro abitanti... la fredda rabbia dei newyorkesi, la cupa disperazione dei moscoviti, il passionale disprezzo dei napoletani. Un modo deve esserci, ma non so dove lo si possa trovare.
Una città è l’accumulo di una diversità di capitale sociale. L’accumulo è un fattore importante. È questione di proporzioni, cioè di dimensioni. Nessuna città è una vera città se non può permettersi un teatro d’opera, un parco di divertimenti, dei quartieri residenziali suburbani, un’università, una manciata di chiese e templi, un balletto folcloristico, e corsi di Sanscrito e di Ceramica per adulti. Tutte queste cose io non le voglio per me. Nessuno, individualmente, le vuole; ma se non ci sono, se non c’è un locale in cui poter consumare un pasto alle quattro del mattino, o acquistare un libro esaurito da tempo, allora questa non è una città; è solo un agglomerato in cui vive molta gente.
Anche il fattore diversità è importante. Washington e Mosca non sono vere città. La loro funzione principale, di essere cioè sede di un governo, soverchia qualsiasi altra funzione. Non esiste diversità. Sono sedi di comando ad hoc su enorme scala, ma non offrono alla gente che le abita quella varietà di esperienze e quell’energia che rendono viva una città.
Gli autori dei racconti contenuti in questa antologia hanno messo in risalto alcuni dei particolari che rendono essenziali le città, e hanno cercato di proiettare nel futuro alcune delle illimitate possibilità cui può condurre lo sviluppo di una città. Contemporaneamente, hanno messo a fuoco il microscopio su taluni aspetti che rendono le città insopportabili, cercando di prevedere quali altri potrà produrne l’avvenire. Lo schema di fondo è sempre lo stesso: inquinamento e sessualità, interruzione nell’erogazione dell’energia, ingorghi di traffico, abbandono delle città ai nostri successori. (Ma c’è una città che sia mai stata realmente abbandonata? Solo Roma, una volta, per un paio di giorni, poi gli abitanti tornarono. La scomparsa di tante città del passato è dovuta al fatto che i loro abitanti furono costretti ad abbandonarle contro la loro volontà.) Non so se queste visioni avranno un riscontro nella realtà del futuro. In effetti, credo proprio di no. Non condivido il parere di chi sostiene che le città sono insopportabili. O, per spiegarmi meglio, dirò che il fatto di essere insopportabili è un dato secondario, in quanto continueremo comunque a sopportarle.
Perché non credo che la civiltà (dalla radice civitas, che vuol dire “città”) possa sopravvivere senza città. In qualunque forma.
Ho dei dubbi circa la forma. Conosco gli argomenti di coloro che non danno importanza alla forma. Mi piace l’idea di un mondo di città decentrate – «Non spostatevi, comunicate!» – in cui ciascuno sbriga a casa il proprio lavoro collegandosi agli altri con i mezzi di comunicazione elettronici. Questa, forse, è una cosa che si terrà presente nella futura ricostruzione delle città. Mi è capitato di averci pensato anch’io, anzi, sono stato uno dei profeti di quest’ipotesi. Quel che è certo, è che per moltissimi di noi il doversi spostare da casa al posto di lavoro e viceversa è assolutamènte superfluo. La mattina ci alziamo, ci sobbarchiamo un’ora, più o meno, di treno, e ci rechiamo nel cubicolo di un palazzo; qui ci dedichiamo alla nostra attività che consiste, nella maggior parte, nel leggere fogli di carta deposti sulla scrivania (perché non leggerli su un video da Biloxi a Saskatchewan?), nel parlare con dei colleghi (perché non prendere il telefono e collegarci in gruppo?), o partecipare a riunioni che è sempre difficile combinare (avete mai provato a cercar di radunare cinque indaffarati dirigenti alla stessa ora nella stessa stanza?) e che, spesso e volentieri, sono inconcludenti. Finché la “Città” rappresenta per la maggior parte di noi il posto di lavoro, e da cui ce ne andiamo in tutta fretta al termine della giornata lavorativa, è chiaro che la si può benissimo sostituire con dei cavi e relé a microonde.
Però la funzione di una città non si limita a questo. Se si può chiamare al telefono un socio d’affari, non è possibile incontrarlo al telefono per caso; l’incontro casuale in un ristorante o per strada richiede la presenza fisica; non è necessario andare in un auditorio per ascoltare un concerto, ma l’essere presenti fisicamente in un dato luogo insieme ad altre persone che hanno gli stessi gusti è fonte di piacere e di significato, almeno per coloro che vogliono essere presenti in un dato posto per un dato motivo. Non si può nemmeno immaginare una campagna elettorale attraverso la televisione in diecimila case separate. I discorsi sarebbero gli stessi, ma verrebbe a mancare l’eccitazione della folla. Ascoltare la Mass di Bernstein su dischi o alla televisione, è diverso che seguirla in una sala con quattro o cinquemila altre persone, bombardate, come te, dal suono quadrifonico amplificato e saturate dal colore e dal movimento sul palcoscenico.
Per tutti questi motivi sono convinto che la città è un esperimento fallito, al quale però non rinunceremo mai.
Le città che conosco meglio, New York e Londra, sotto molti aspetti essenziali sono dei veri e propri fallimenti. New York è sporca, rumorosa, eccessivamente cara e sostanzialmente pericolosa. Non che chiunque a New York venga derubato, violentato o assassinato. Ma il rischio è uguale per tutti, e ben poche sono le zone sicure della città. A New York ognuno vive a suo rischio e pericolo. Fisicamente Londra è più sicura, ma è altrettanto sporca, rumorosa e sta rapidamente diventando altrettanto cara. Tutte queste cose non sono vere solo oggi, ma lo sono state sempre, in tutto il corso della storia di ambedue le città: quattrocento anni per New York, duemila per Londra. Più o meno sono sempre state sporche, rumorose, carissime e pericolose, per niente adatte a viverci.
Eppure sopravvivono.
Questo è il paradosso che garantisce l’avvenire della città come istituzione.
Quando le istituzioni sopravvivono caparbiamente a dispetto dei dati incontrovertibili che le dichiarano instabili, inadatte e condannate, si capisce che valore abbiano le istituzioni. Sono talmente necessarie che non si può permettere che falliscano; per quanto numerosi possano essere i loro lati negativi, quelli positivi li sopravanzano.
E così è delle città. Esistono ed esisteranno sempre... finché esisterà la civiltà.
FINE