Contravvenzione
o la città di superficie

di William F. Nolan

 

 

Titolo originale: Violation 

 

 

 

Sono le due del mattino e lui aspetta. Nel fresco silenzio di una strada secondaria, al riparo degli alberi, il motociclista aspetta paziente. Comodamente seduto sul largo sellino della moto, le mani appoggiate al manubrio, gli occhialoni rialzati, e gli occhi che riflettono il chiarore della luna che filtra attraverso le foglie.

Casco. Uniforme. Aspetta in silenzio.

Nel buio palpitante il metallo della moto si raffredda.

I rumori sommessi della città ancora addormentata arrivano fino a lui. Ma non gl’interessano, li bandisce subito dalla sua mente. Gli interessa solo il largo fiume di cemento liscio che gli si snoda davanti, in mezzo agli alberi e il grande occhio rosso, ammiccante, sempre in agguato, sospeso su di esso.

Aspetta.

È tutto proteso a cogliere il minimo rumore sul fiume di cemento. Il rumore di un motore che la distanza fa sembrare il ronzio di una zanzara. Aumenta e si avvicina.

Le mani del motociclista si contraggono come gli artigli di un uccello. Si solleva un poco, con riluttanza, sul sellino, il piede appoggiato al pedale d’avviamento. Contratto come una molla. 

Due raggi sottili avanzano verso di lui, verso la strada dove lui è nascosto ad aspettare. Sempre più vicini. 

Il ronzio diventa rombo; le luci sono ormai vicinissime e inondano di un bianco calce la strada di cemento.

Gli occhialoni del motociclista sono abbassati, è pronto a mettersi in moto, ad avanzare sul fiume di cemento. Ancora un secondo, forse due... 

E invece niente. Il veicolo rallenta, si ferma. Un veicolo passeggeri, con a bordo due uomini che ridono e scherzano. Il motociclista li ascolta colla bocca serrata, gli occhi duri. Il veicolo si rimette in moto e la notte ingoia il rumore.

Non c’è stata trasgressione.

Adesso... Torna a rilassarsi, la tensione si attenua. Scompare. Ricomincia l’attesa paziente sotto la luna.

Aspetta.

L’occhio rosso ammicca sulla strada vuota.

 

— Quanto ci manca ancora, Dave? — chiede la ragazza. 

— Una decina di miglia circa. Una volta a Westwood, manca poco a casa mia. Rilassati. Sei nervosa. 

— Avremmo dovuto restare sulla superstrada. Servirci della griglia. Non mi piacciono le strade di superficie. La griglia ci avrebbe portato a destinazione. 

L’uomo sorride e le cinge le spalle con un braccio.

— Non c’è niente d’aver paura se si sta attenti — dice. — Da ragazzo viaggiavo sempre sulle strade di superficie. Molti lo fanno. 

La ragazza deglutisce e si tocca nervosamente i capelli. — Ma adesso non più. Tutti si servono della griglia. Non sapevo neppure che le macchine avessero ancora i comandi manuali. 

— Infatti. Li ho fatti installare da un meccanico che conosco. È legale, sai, guidare la propria auto, solo che molti hanno perso l’abitudine. 

La ragazza guarda dal finestrino nella strada silenziosa e scrolla la testa. — Non è... naturale. Guarda: non c’è nessuno. Non si vede una macchina per miglia e miglia. Ho la sensazione di trasgredire la legge.

L’uomo comincia a seccarsi: — Quante stupidaggini. Ho degli amici che lo fanno sempre. Rilassati e goditela. E non dire idiozie.

— Voglio scendere — dice la ragazza. — Prenderò la strada mobile fino alla griglia. 

— Col cavolo che lo farai — sbotta l’uomo furibondo. — Stasera sei con me e andiamo a casa mia. 

Lei oppone resistenza, lo colpisce in faccia. L’uomo lotta per ridurla alla ragione... e non vede la luce rossa. Il veicolo vi passa sotto veloce.

— Accidenti — esclama l’uomo — sono passato sotto la luce rossa! Non mi sono fermato per colpa tua. Ho violato una delle leggi della superficie — dice avvilito. 

— E con questo? — dice la ragazza. — Cosa potrebbe succedere? 

— Non ci pensare. Niente. Non pensare a quello che potrebbe succedere. 

La ragazza sbircia nel buio. — Voglio scendere.

— Taci — dice l’uomo. 

E continua a guidare.

 

Qualcosa, nel rumore, dice al motociclista che questo veicolo non si fermerà, che continuerà a correre sul fiume di cemento ignorando la luce rossa ammiccante.

Sorride nel buio, colle labbra contratte, in silenzio. In attesa sulla sua moto, col rumore che va crescendo sul fiume, sente che potrà dare libero sfogo al potere che è in lui.

Il veicolo ha quasi raggiunto la luce, procede veloce, non accenna a fermarsi.

Il motociclista fissa intento. A bordo ci sono un uomo e una ragazza. Stanno lottando. Si picchiano. 

Il veicolo passa sotto la luce.

Trasgressione.

 

Via!

Ridà vita alla moto; il motore scoppietta, romba, esplode facendo scattare la macchina nera e il motociclista parte divorando la strada in rumore di tuono. Le ruote slittano alla curva e poi via sul lungo fiume verniciato di luna della strada. 

Il motociclista sente il vento sulla faccia, sente il pulsare della potente macchina che sta cavalcando, sente il cemento liscio scivolare sotto le ruote.

Davanti. Ecco il bagliore tenue dei fanalini posteriori.

E adesso la voce della moto grida, chiama i fuggitivi con un lamento di sirena che rompe la pace della città addormentata. Una voce che s’innalza e ricade in spirali di suono. E gli occhi della moto, a destra e a sinistra, ammiccano scarlatti, rossi come sangue, vigilano.

Il veicolo si fermerà. L’uomo lo vedrà, lo sentirà. Gli occhi e la voce raggiungeranno il trasgressore. 

E lui si fermerà.

 

— Santiddio — dice freddamente l’uomo. — C’era un motociclista vicino a quella luce. 

— La colpa è tua — dice la ragazza. — Adesso devi sbrigartela da te. 

— Non ero mai stato fermato su una strada di superficie — dice l’uomo con una nota di disperazione nella voce. — Mai una volta, in tanti anni. 

La ragazza lo fissa infuriata. — Dave, mi fai venire la nausea. Ma guarda, tremi come un cagnolino. Bel tipo d’uomo che sei.

Lui non reagisce a queste parole. Con voce soffocata, monotona, dice: — Posso cavarmela. Gli spiegherò. Mi darà ascolto. Ho i miei diritti di cittadino...

— Si avvicina sempre di più. È meglio che ti fermi. 

— Gli parlo io. Tu sta’ zitta. Me la sbrigo io. 

 

Il motociclista vede che la macchina rallenta, frena, si accosta al marciapiede. Si ferma.

Lui spegne la voce della sirena e porta la moto dietro la macchina. Spegne il motore. Resta seduto ancora un momento sul sellino di cuoio mentre si sfila i guanti. Lentamente. 

Vede la portiera della macchina socchiudersi. Un uomo scende e va verso di lui. Il motociclista solleva una gamba coperta dallo stivale, scavalca il sellino e la posa a terra dalla parte opposta. S’incammina incontro al trasgressore, infilando con cura i guanti nel cinturone di cuoio.

Adesso sono di fronte, l’uomo è più basso, stempiato, con un po’ di pancetta, la faccia arrossata. Il sorriso cortese del motociclista gli ridà un po’ di calma.

— Avete fretta, signore? 

— Io?... No, non ho per niente fretta. Solo che... Non ho visto la luce fin quando non... Ormai ero già passato. Quegli alberi sono così alti. Vi giuro che non l’ho vista. Non mi sognerei mai di violare consapevolmente una legge di superficie, agente. Ve lo giuro. 

Nervoso. Turbato e nervoso, quest’uomo. Il motociclista ne avverte il senso di colpa come una forza fisica. Allunga una mano. 

— Posso vedere la patente, per favore? 

L’uomo si fruga in tasca. Ce l’ho qui... Eccola, è in ordine, rinnovata e tutto.

— Fatemela vedere, per favore. 

L’uomo continua a parlare: — Guido da molti anni, agente, e questa è la prima volta che mi capita di trasgredire la legge. Sono un cittadino onesto e responsabile. Rispetto le leggi. Non sono matto.

Il motociclista non fa commenti. Esamina la patente, la picchietta con aria pensosa sul polso. I suoi occhialoni sono opachi e l’uomo non può vedere quegli occhi che lo stanno scrutando.

— La donna che è con voi... è vostra moglie? 

— No. No, signore. È un’... un’amica. Solo un’amica. 

— E allora perché stavate lottando? Ho visto che vi picchiavate mentre la macchina è passata sotto la luce. Non mi pare una cosa amichevole, vero? 

L’uomo cerca di sorridere. — Una piccola bega personale. Non eravamo d’accordo su una cosa. Roba da niente, ve l’assicuro. Adesso è tutto sistemato.

Il motociclista si avvicina alla macchina, si china a guardare la donna. Anche lei è pallida e nervosa.

— Qualcosa che non va? — domanda il motociclista. 

Lei esita un attimo, poi fa segno di no, senza aprir bocca. Il motociclista torna dall’uomo che si è appoggiato alla moto.

— Non toccatela — gli dice con freddezza, e l’uomo ritira la mano, borbottando una scusa. 

— Potete riprendervela — dice il motociclista restituendogli la patente. — Siete colpevole di aver trasgredito alle leggi di superficie. 

L’uomo sussulta, la sua mano si mette a tremare. — Ma... non l’ho fatto apposta. Conosco la legge. Sta a voi chiudere un occhio quando la trasgressione non è deliberata. In casi come questo, non è prevista la massima pena, anzi... 

Il motociclista interrompe il flusso di parole disperate. — Avete perso i Diritti di Cittadino quando avete lasciato che un’emozione primitiva – l’ira per la precisione – influisse sul controllo di un veicolo di superficie. Quindi è chiaro qual è il mio dovere. 

L’uomo sbarra gli occhi atterrito, vedendo il motociclista estrarre un’arma dal cinturone. — Ma non potete... 

— Lo Statuto sulla Sovrappopolazione del 1990 mi autorizza ad agire in questo modo avendo voi violato una delle leggi di superficie. Il caso è chiuso. 

E preme il grilletto.

Una, due, tre volte. Tre lunghi raggi azzurri incandescenti scaturiscono dall’arma impugnata dal motociclista.

L’uomo scompare.

La donna scompare.

La macchina scompare.