«Ancora assai deve durare questa storia?».

Peppe Piccionello mi guarda di traverso.

«Peppe, si può sapere quante ne dobbiamo fare?».

Piccionello posa mestolo e imbuto, si sistema in testa il cappello di paglia e viene verso di me strascicando le infradito.

Imbrattato di rosso sangue quanto il Cristo di Mel Gibson, mette le mani ai fianchi.

«Lo vuoi sapere?».

«Sì, Peppe, non ne posso più. Andiamo avanti da cinque ore».

«Ti faccio il conto. In un anno ci sono trecentosessantacinque giorni, giusto?».

«Giusto».

«Togliamo sessantacinque giorni perché una volta c’è la minestra di cavoli, una volta c’è aglio e olio, d’estate c’è il ciliegino fresco, ne restano circa trecento. E per altri trecento giorni che c’è?».

«Non so, dimmelo tu».

«C’è pasta col sugo. Un peroncino al giorno per trecento giorni fanno trecento bottiglie».

«Trecento bottiglie di passata di pomodoro? Ma ne abbiamo fatte molte di più».

«Saverio, sei il solito superficiale».

Quasi quasi spacco tutte le bottiglie con la macchinetta per chiudere i tappi a corona. E dopo rompo la testa di Piccionello. Tanto è già lurido di salsa di pomodoro, il sangue gli darà un mélange ton sur ton.

«Sì, Saverio. Sei superficiale. Non consideri lo sfrido. Quando si mettono a bollire, ogni cento bottiglie circa dieci si lesionano o si spaccano».

«Hai fatto un sondaggio?».

«Esperienza, Saverio».

«Sfrido o no, da stamattina ho tappato più di quattrocento bottiglie di pomodoro».

«E ancora non è finita. Trecento per consumo personale, duecentocinquanta per mia cugina, senza considerare che poi ci sono quelle col basilico e senza basilico, quelle passate e quelle a pezzettoni, e metti che bisogna pure considerare le feste».

«Le feste?».

«Certo. Natale, Capodanno, Ferragosto, Pasqua. Giornate che sono, magari ci sono ospiti, un’altra cinquantina di bottiglie per le feste ci vogliono. E un’altra settantina di bottiglie per te non le vuoi fare?».

«Seicento bottiglie di pomodoro? Ma chi sei, il signor Cirio?».

«Non capisci niente, Saverio» dice Piccionello e si sistema in testa il cappello di paglia. «Poi, a novembre, quando apri una di queste bottiglie, ti pare di assaggiare l’estate».

«Intanto passiamo l’estate a preparare bottiglie».

«Assai parli, Saverio. Travaglia che il tempo sta squagliando, tra poco è notte».

È notte? Guardo il cielo bianco di foschia, il sole di mezzogiorno batte su Màkari, rimbalza sulle tinozze piene di passata di pomodoro, arroventa le bottiglie di birra da 33 centilitri allineate nel terrazzino. Tappo bottiglie e maledico il momento in cui ho accettato di dare una mano d’aiuto a Piccionello: domani facciamo quattro bottiglie di pomodoro, qui da te che c’è più spazio, in tre ore abbiamo finito. Dalle sei del mattino, perché dovevamo cominciare col fresco, e ancora non si vede l’uscita da questo tunnel rosso fuoco.

C’è pure il fatto che tappare bottiglie non è mestiere di grande sforzo intellettuale, per cui resta molto tempo per pensare. E questo, si sa, avvilisce l’anima. Ho provato a cantare qualcosa di De Andrè, ma Piccionello mi ha fatto smettere perché perde la concentrazione. E allora divago tra parerga e paralipomeni, commiserando me stesso che fino a due mesi fa con mocassini Tod’s, camicia Brooks Brothers, grisaglia tasmania Loro Piana e cravatta Marinella, me ne potevo stare al fresco di un condizionatore Mitsubishi in una stanza affrescata al piano terra del Viminale, scrivania di acero, tre linee telefoniche, segretaria part time, praticamente a fare niente – un comunicato ogni tanto per quel cretino di sottosegretario per il quale prestavo servizio da balia asciutta – se non sparlare al telefono con colleghi giornalisti in crisi editorial-personale e organizzare per la serata aperitivi da Settembrini o al Porto Fluviale con milf separate.

Il tappo a corona è di semplice chiusura, a condizione che sia ben collocato sulla bocca della bottiglia, in posizione perfettamente orizzontale. La pressione sulla leva della macchina che lo serra deve essere costante e senza strappi, evitando che nel corso dell’azione il tappo si muova dalla posizione in cui è stato preliminarmente posto.

«Ne ho già trovate tre chiuse male» si lamenta Piccionello, mentre avvolge le bottiglie negli stracci per collocarle nel fusto per l’ebollizione.

«E allora fallo tu» gli rispondo. Ormai sono pronto a mandarlo nel paradiso della passata.

Insozzato di pomodoro dalla testa ai piedi, cappello di paglia sfondato sulla testa, in costume e con la maglietta del festival di Cannes del 2001, mi faccio pena da me stesso. Ripenso a quel sabato di giugno: lo stronzo del mio sottosegretario era andato a un convegno sulle droghe, al telefono mi aveva riassunto le solite inutili cose che amava ripetere, il diavolo o chi per lui ci mise la coda, tirai fuori un comunicato che gli faceva dire per una volta una frase intelligente sulla liberalizzazione della marijuana. Tanto era sabato, la gente al mare, le redazioni deserte, sarebbe passato inosservato. «Repubblica.it» lo schiaffò in prima pagina, annunciando scontro nel governo sulla droga libera. E fu subito polemica, come dicono in tv. Infatti, mi trovai licenziato in quarantotto ore. Addio Viminale, addio. Addio stipendio, addio. Lasciai Roma, per fortuna c’era il rifugio in Sicilia, la casa di Màkari dove papà non ha più messo piede dopo la morte di mamma.

Per fortuna, penso. Tappo bottiglie di Peroni da 33 centilitri piene di passata di pomodoro, col basilico e senza, a pezzettoni e no. Che fortuna.

«È tuo?» chiede Piccionello.

«Cosa?».

«Questo telefono che squilla da mezz’ora. È il tuo?».

«Sì, è il mio».

«E rispondi».

«Ero concentrato sul tappo a corona».

«Certo, ci vuole intelligenza a chiudere tappi».

«Se vuoi farlo bene, il cervello ci vuole».

«La prossima volta chiamo Einstein».

Mi ripulisco le mani. È papà.

«Ciao, papà, come stai?».

«È morto Franco».

«Chi è?».

«Saverio, come: chi è? Tuo cugino».

«Mio cugino?».

«Il figlio di Lilla, la cugina di tua madre. Avete passato un’estate assieme a Màkari. Non ricordi?».

«Quando?».

«Qualche tempo fa. Sarà stato il ’76 o il ’77».

«Papà, avevo cinque anni».

«Non importa. Era tuo cugino. Domani ci sono i funerali, vedi di esserci».

«Papà, ma come faccio? Qui ci sono i tappi a corona, la salsa a pezzettoni, col basilico, senza basilico. Non posso lasciare, si interrompe il processo industriale».

«Domani mattina alle 11. Anzi, prima passa da casa e ci andiamo assieme. Lilla ci tiene, mi ha chiesto di te. Ci sarà tutta la famiglia di tua madre, non essere superficiale».

«Com’è morto?».

«Chi?».

«Franco, mio cugino».

«Un incidente d’auto. Una tragedia. Aveva la tua età. Ci vediamo domani. Metti la giacca scura».

«Va bene, papà, ti faccio sapere».

Piccionello è rimasto con l’imbuto in una mano e il mestolo nell’altra.

«Cattive notizie?».

«È morto mio cugino».

«Finisci di chiudere le bottiglie e preparati. Devi andare al funerale».

«Ma non lo vedevo da trent’anni».

«Saverio, non importa. È tuo cugino. I parenti si rispettano più da morti che da vivi».

Sistemate settanta bottiglie di pomodoro di mia pertinenza in luogo fresco e buio. Ripulito terrazzino da macchie di pomodoro, semi, spoglie. Raccattati sessantasei tappi a corona difettosi o mal chiusi. Trasportate con l’aiuto di Piccionello cinquecentosessantadue bottiglie da 33 centilitri presso suo proprio domicilio o domicilio della di lui cugina. Eliminate nei cassonetti dell’indifferenziata quarantadue bottiglie con tracce evidenti di lesioni, fuoriuscita di liquido, fratture del vetro, più altre sedici scartate per ragioni imperscrutabili («Questa non va bene, buttare» sentenziava Piccionello). Doccia prolungata con bagnoschiuma al muschio bianco, all’aloe verde e all’arancia rossa per togliere ogni residuo di passata di pomodoro e persistenti odori annessi.

Fresco come l’uomo che riscopre il valore del lavoro manuale, rilassato per avere contribuito con quindici ore di fatica fisica alla perfezione dell’universo, orgoglioso di perpetuare la secolare tradizione conserviera del Mezzogiorno italiano, alle dieci di sera poso le membra stanche, ma assai poco soddisfatte, sul divano di casa. E mi addormento. Precipito in un abisso di passata di pomodoro, un labirinto escheriano di bottiglie: il pozzo, il pendolo e la macchinetta tappatrice scandiscono il mio incubo. Il Sacro Pomodoro avanza. Mi chiama.

«Saverio».

«Il Sacro Pomodoro, no».

«Saverio, svegliati».

«Il Sacro Pomodoro... che succede?».

«Saverio, che dici? Sono io».

Non è il Sacro Pomodoro. È Suleima.

«Sei sudato. Sognavi» sussurra accarezzandomi la fronte.

«Il Sacro Pomodoro, avevo dimenticato».

«Vado a fare una doccia, ora mi racconti».

Scalcia le scarpe, si tira giù la gonna, sfila la maglietta e così com’è si infila nel bagno regalandomi l’unica immagine di questa giornata degna di essere ricordata.

È mezzanotte passata. Ho fame.

«Hai mangiato? Faccio una frittata» grido.

«Cosa dici?».

«Faccio una frittata».

«Se è la prima cosa che ti viene in mente».

Deve esserci un doppio senso che non afferro. Qual è la prima cosa che mi viene in mente? Guardo la porta socchiusa, sento il rumore dell’acqua della doccia, penso a Suleima nuda là sotto. No, la frittata non è la prima cosa che mi viene in mente. Vado in bagno, mi spoglio, entro sotto la doccia. Muschio bianco, aloe verde e tutto il resto.

Fresco come chi ha dormito quattro ore e ha appena rimesso a posto l’armonia dell’universo, sbatto quattro uova con caciocavallo ragusano grattugiato e foglie di menta, mentre l’olio in padella riscalda piano.

«Com’è andata?» chiedo a Suleima che si sta asciugando i capelli con indosso la mia camicia bianca.

«Marilù era nervosa».

Marilù è la proprietaria del ristorante dove lavora Suleima, il ristorante dove l’ho conosciuta poche sere dopo che ero approdato a Màkari dal naufragio della mia vita professionale. Marilù fa il cuscus di pesce migliore al mondo, con il vantaggio che è a trecento metri da casa mia.

«Come mai?».

«Avevano prenotato un tavolo per sei, un’ora dopo hanno disdetto, un’ora dopo hanno riconfermato, ma erano diventati otto, mezz’ora dopo sono arrivati in undici. Undici palermitani di quel tipo lì, come li chiami tu?».

«Piritolli?».

«Esatto. Piritolli. Abbronzati, con i vestiti giusti, impomatati».

«Si dice allicchittati» suggerisco mentre verso tutto in padella.

«Hai capito, no? Le donne da un lato, bionde e rifatte, sparlavano delle loro amiche. Gli uomini dall’altro lato, a mostrarsi le foto sui telefonini, la barca, la villa, l’onorevole amico mio, l’avvocato amico mio, il professore amico mio».

«Amici e guàrdati».

«Puoi immaginare le ordinazioni: nel pesto alla trapanese i pistacchi non ci stanno, nel pesce spatola ci va la passolina, sono allergica all’aglio, sono allergico alla cipolla, intollerante alla mollica di pane, il sarago è d’allevamento, non è stagione di triglia di scoglio, il polpo è duro, il polpo è molle, il polpo è maschio o femmina? Marilù non ci ha visto più: quando è tornata in cucina doveva prendersela con qualcuno, e mi ha fatto nuova».

«Perché?».

Adesso devo girare la frittata, la cosa che mi riesce meglio.

«Dice che ero troppo scollata».

«Ed eri troppo scollata?».

Tac, la frittata è capovolta. Perfetta.

«Di un bottone. Non si vedeva niente».

«Bottana per un bottone».

«È una battuta? Devo ridere?».

«Facoltativo. La frittata è fatta. Mangia, senti che profumo. La menta fa la differenza».

Prendo dal frigo una mezza bottiglia aperta di Catarratto.

«Buona. Cos’è questa storia del pomodoro sacro?» chiede Suleima.

«Il Sacro Pomodoro, con le maiuscole».

«Va bene, accademico della Crusca, con le maiuscole».

«Avrò avuto cinque o sei anni. Era agosto, in un orto dalle parti di Custonaci spuntò un pomodoro grosso così. Per chissà quale motivo, sul pomodoro c’era una macchia scura che sembrava un Gesù con il braccio alzato, hai presente quello del duomo di Cefalù?».

«Il Cristo Pantocratore. Dimentichi che sono laureata in architettura. Ho studiato storia dell’arte, infatti faccio la cameriera».

«Appunto. Cominciò un pellegrinaggio verso la campagna di questi contadini. Mio padre e mia madre erano curiosi, andammo a vedere anche noi. C’era la fila, tutti in coda per ammirare il Sacro Pomodoro. Lo avevano messo dentro una scatola, adagiato sul cotone. Io non vedevo niente, mia mamma un po’ scettica continuava a dire: in effetti, sì, sembra proprio, guarda Saverio, questa è la barba... d’improvviso una donna si buttò in ginocchio e cominciò a pregare ad alta voce, invasata. Non ho dormito per tre notti, il Sacro Pomodoro mi inseguiva nei sogni e risentivo l’urlo della donna con le braccia al cielo».

«Bambino coraggioso».

«Che vuoi farci? Sono sempre stato sensibile».

«Forse in passato. Sempre non direi».

«Ecco, quell’estate c’era anche Franco. Ora ricordo».

«Franco chi?».

«Mio cugino. È morto. Domani ci sono i funerali».

«Sei veramente un bimbo sensibile, lo dici come fosse un estraneo».

«Non lo vedevo da trent’anni. Era un estraneo».

«Ma era tuo parente».

«E allora? Siamo la famiglia Lamanna, mica la famigghia Corleone che la cosa più importante è la famigghia. Era cugino di secondo grado».

«Ah, capisco. Cugino secondario».

«Suleima, per andare domani a Palermo mi presti la tua macchina?».

«E perché? Mica siamo parenti».

«Però potremmo diventarlo».

«Meglio di no, visto come tratti i tuoi parenti. Che fine ha fatto il Sacro Pomodoro?».

«Non lo so. Forse è marcito. Oppure Piccionello ci ha fatto la passata. Oggi mi ha costretto a preparare seicento bottiglie di conserva».

«Ecco perché puzzi di pomodoro».

Filtra luce dalle persiane. Le sei e mezzo dice il telefonino. È la mia ora. Scivolo dal letto, Suleima nel sonno mormora qualcosa che non capisco, come pomodoro o m’innamoro.

Ho tirato fuori il vestito blu, la camicia bianca, i mocassini. No, ho dimenticato i mocassini. Li cerco alla cieca, dove dovrebbero essere. Non ci sono, vado a frugare nell’armadio, devono stare dentro qualche scatola.

«Che fai?» borbotta Suleima.

«Cerco i mocassini».

«Sono in bagno, ce li hai messi tu ieri sera».

«Hai ragione».

«Ho sempre ragione».

Mi vesto mentre la moka va a fuoco basso.

Fuori dalla porta il gatto randagio di Màkari graffia sul legno.

Metto la cravatta? È agosto, troppo caldo. La piego però in una tasca della giacca, non si sa mai.

Il gatto insiste.

«Saverio» miagola il gatto da dietro la porta.

Apro, c’è Piccionello.

«Che ci fai qui?».

«Ieri sera ha chiamato tuo padre, mi ha chiesto di accompagnarti a Palermo».

«Non si fida, vero?».

«Non è che non si fida. Così Saverio non si fa la strada da solo, ha detto».

«Non si fida».

«Hai fatto il caffè?».

«È appena uscito».

Peppe Piccionello è inappuntabile. È la prima volta che non lo vedo in mutande e infradito. Abito grigio, camicia celeste, cravatta scura e scarpe nere.

«Chi ti ha dato questo vestito?».

«Era della buonanima di mio cognato. Lo uso solo per funerali e matrimoni».

Prendiamo il caffè in silenzio.

«Mah, la vita» dice Peppe.

«Già».

«Siamo appesi a niente».

«Già».

«Oggi ci siamo».

«E domani non ci siamo. Peppe, dobbiamo continuare così?».

«Ti aiuto a entrare nell’atmosfera da funerale».

«Grazie, Peppe. Te ne dico un’altra: il morto stesso insegna a piangere. Questa la sapevi?».

«Sei senza cuore».

«Di mattina presto sono sempre senza cuore, mi spunta solo dopo mezzogiorno. Andiamo».

Però è bello viaggiare per strade ancora vuote, con la luce chiara del giorno appena nato. Quasi dimentico che sono diretto a un funerale. Il mare è piatto, trasparente sotto Monte Cofano.

«Com’è morto?» chiede Piccionello.

«Un incidente d’auto».

«Quanti anni aveva?».

«Quanto me. Una quarantina».

«Sposato? Figli?».

«Non lo so».

«Che lavoro faceva?».

«Non lo so».

«Non sai niente. Ma che parenti siete?».

«Parenti moderni».

«No, parenti slavati».

La sosta al bar di Castellammare del Golfo, per una cassatella calda con ricotta e caffè ristretto, mi sottrae per breve tempo a Piccionello che oggi indossa la maschera di circostanza per lutti e condoglianze. Ma dura poco, giusto il tempo di imboccare l’autostrada per Palermo. E Piccionello ricomincia.

«Mio cognato, mischino, pure lui morì con incidente d’auto».

«Mi dispiace».

«Trentasette anni. Mia sorella ne aveva trentadue, restò con due bambini piccoli».

«Capisco. Mi dispiace tanto».

«Non si è risposata. Si è cresciuta due figli, ma sempre ci pensa a suo marito».

«Comprendo, mi dispiace moltissimo».

«Saverio, solo questo sai dire? Mi dispiace, mi dispiace. Non c’è piacere ad accompagnarti a un funerale».

«Peppe, un funerale non è la prima del Teatro Massimo. Cosa vuoi, una recensione?».

«Saverio, non capisci. La morte è cosa seria, bisogna trovare le parole giuste, non è che si può arrivare impreparati. Pure se è morto un estraneo».

«Rispetto il tuo rispetto per la morte, Peppe, ma preferisco vivere. Ora, se non ti dispiace, metto un po’ di musica».

E attacco Radio Dimensione Suono, ignorando la smorfia disgustata di Piccionello che preferirebbe un bel Requiem Aeternam.

«Saverio, come mai a quest’ora?» chiede il portiere del palazzo dove abita papà.

«Dobbiamo andare a un funerale».

«Eh, l’ho saputo: tuo cugino, mischino. Era giovane. Niente siamo».

«Non c’è cosa dire» commenta Piccionello.

«E che si vuole dire? Disgrazie sono» insiste il portiere.

«Pietre cadute dal cielo» fa Piccionello.

«Fuoco grande in quella casa» ribatte il portiere.

Per fortuna è arrivato l’ascensore.

Papà spunta sulla porta ancora in pigiama.

«Come mai a quest’ora?».

«Papà, dobbiamo andare a un funerale. Hai dimenticato?».

«Ma sono le otto e mezzo, Saveriuccio. Mancano tre ore».

Si accorge di Piccionello. E fa la scena.

«Pure tu sei venuto, Peppe? Ma non dovevi».

Si abbracciano.

«Professore, in momenti come questi».

Peppe chiama mio padre professore, non ho mai capito perché. Tutti e due fanno finta di sorprendersi. Attori per vocazione.

«Entrate. Maricchiedda ieri ha fatto il biancomangiare alle mandorle. Non l’ho ancora assaggiato. Venite, entrate. Bene ti trovo, Piccionello».

«Professore, ma che ce ne facciamo della salute con questi lustri di luna?».

«Ragione hai, Piccionello. Mah, non c’è cosa dire».

«E che possiamo dire, professore? Qua siamo».

«Disgrazie grandi».

«Si consuma una casa, professore. Anche a lei la trovo bene».

«Ci difendiamo, Piccionello. Ma la pena è forte assai».

«A me lo dice, professore?».

«Lo so, Piccionello, la buonanima di tuo cognato morì allo stesso modo, mischino. Quanti anni sono passati?».

«Sedici, ma sono cose che non passano mai».

«Vera verità, Peppe. Ci devono essere tre briosce fresche. Saverio, prendi il biancomangiare dal frigo».

«E chi ha il coraggio di mangiare, professore».

Attori sono. Professionisti. Sapienti di una sapienza antica che non ho mai avuto o che devo aver smarrito in qualche mio trasloco. Sanno dosare forma e sostanza, secolare retorica per accostarsi piano alla morte, al suo mistero, al suo segreto. Peppe e mio padre si passano l’un l’altro lo spavento della morte, lo incamerano e frantumano dentro una ragnatela di frasi consuete che restituiscono ai superstiti prova di esistenza in vita. È una messa: spezzate queste briosce e mangiatene tutti, questo è il biancomangiare offerto per voi.

«Vabbè, vado di là a buttarmi sul divano. Tanto è ancora presto» dico.

Mi guardano come se non avessi parlato, intenti a raccontare i dettagli dell’incidente di Franco, come fu, come si seppe, sua madre mischina, sua sorella era a Milano, gli amici del calcetto sconvolti, pure l’articolo sul «Giornale di Sicilia», leggi qui, finì in prima pagina, povero picciotto.

Entro nel soggiorno. Sul tavolo tondo le foto di famiglia: io, mia sorella, mia madre, papà e mamma nel giorno del matrimonio, mamma quando aveva vent’anni credo a Segesta, noi quattro a piazza San Pietro una vita fa, nonni, nonne, qualche bisnonno. Un cimitero, esclusi i contemporanei.

Sul divano, rivoltato all’ingiù con le pagine aperte, il mio ultimo libro. È spalancato alle pagine 142 e 143, papà ha sottolineato una frase: «Un odore forte di cucina, di triglie alla brace e di spada panato alla palermitana, mi soffoca».

«Ti piace?» grido verso la cucina.

«Saverio, che dici?».

«Il mio libro. Ti piace?».

«Ah, quello sul divano? Non è mio. L’ha dimenticato Mimì. È passato ieri sera, voleva farmi leggere una frase».

«Questa sottolineata?».

«Sì, Mimì dice che l’aveva già letta in un libro di Andrea Camilleri».

«Può essere, papà».

«È troppo bravo Camilleri».

«Bravissimo».

«Camilleri scrive tanto, magari non l’hai fatto apposta».

«Sì, papà. Non l’ho fatto apposta. Mi sarà scappata».

Richiudo il libro, lo poggio sul tavolo. Mi stendo sul divano.

«Saverio, ti sei offeso?» chiede papà dalla cucina.

«No, papà, posso mai offendermi se dici che ho copiato Camilleri?».

«Appunto».

Provo a chiudere gli occhi. Sul sottofondo del traffico di Palermo, strepitano nella gabbia i canarini. Frenetici. Fanno eco ai clacson.

«Papà» grido.

«Saverio, che c’è ancora?» risponde mio padre, il tono di voce infastidito.

«È normale che i tuoi canarini fanno così?».

«Saverio, canarini sono. Se non cantano di mattina, mischini, che devono fare: giocare a scacchi?».

«Papà, ascoltami: apri la gabbia».

«Saverio, ascoltami: dormi».

Ci provo. Non sono più abituato alla città, il silenzio di Màkari mi ha viziato. Sobbalzo al passaggio dell’autobus, al fracasso della motoape smarmittata: il respiro intossicato di Palermo non dà pace.

Metto le cuffiette, aziono l’app gratuita di spagnolo. Devo imparare lo spagnolo se voglio trasferirmi a Formentera per aprire un chiosco di granite: ognuno deve nutrire un sogno sul futuro, questo è il mio. Mi sono prefissato un anno di tempo per imparare la lingua, la mia insegnante è la voce sintetica che ho ribattezzato Teresita.

Mal día.

Che dici, Teresita?

Mal día.

«Mal día» ripeto.

Estoy triste.

«Pure tu?».

Estoy muy triste.

«Estoy muy triste».

La vida es sueño.

Questa parla come Piccionello.

«La vida es sueño».

Descaminado, enfermo, peregrino, en tenebrosa noche.

Oddio, precipito nella Spagna funebre e barocca.

Tolgo le cuffiette, spengo l’app. Cosa posso mai pretendere da un’applicazione gratuita? Forse dovrei passare all’upload a pagamento. O pagarmi delle vere lezioni di spagnolo.

Mi alzo dal divano. Sono già le nove e mezzo. Apro l’album di fotografie che papà tiene sul tavolo. Altri morti, virati seppia o in bianco e nero. Questo però sono io, a colori kodak. In costume, al mare. Ho il braccio sulle spalle di un bambino con i capelli rossi.

«È tuo cugino Franco» la voce di papà, alle mie spalle.

«Non mi dice niente. Non ricordo».

«Ma come: non ricordo?» fa papà.

«Professore, quando non gli conviene fa sempre così» dice Piccionello.

Papà allarga le braccia, spazientito.

«Beato te, Saverio. Io ricordo solo quello che vorrei dimenticare».

Un mio amico sceneggiatore sostiene che in un film che si rispetti ci vuole sempre un bel funerale. Ma in una mattina d’agosto a Palermo, nella parrocchia di San Luigi Gonzaga di via Ugdulena, chiesa né brutta né bella dei quartieri nuovi, le camicie incollate alla pelle dal sudore, gli occhiali da sole e le facce abbronzate di chi ha dovuto interrompere la villeggiatura a Cefalù o a Scopello, un funerale è solo un fastidio di mezza estate.

Siamo in pochi. Annoto mentalmente: ricordarsi di morire d’autunno o d’inverno, mai d’estate o sotto le feste. Sulla bara chiara c’è un mazzo di fiori e una maglietta verde e bianca, si intravede il marchio dello sponsor «Acque minerali», il resto non si legge. Il prete all’omelia dice che conosceva Franco da piccino, ma si capisce che è rimasto fermo al bambino con i capelli rossi, più o meno lo stesso ricordo che conservo io: ne sa meno di me. Si rifugia nella storia di Lazzaro, la resurrezione dalle tenebre, la morte inizio di una nuova vita, la vita eterna, preghiamo per il nostro fratello Franco. Amen.

Incensiere, incenso, chierichetto con Nike d’ordinanza sotto la cotta, i singhiozzi della mamma, della sorella, non vedo mogli né figli.

«Era sposato?» chiedo sottovoce a papà.

«Separato. Ma non aveva figli».

«Almeno non lascia orfani» commenta Piccionello.

La bara viene sollevata a spalla da otto palestratissimi con maglia verde e bianca sotto le giacche, scritta dello sponsor «Acque minerali dei monti Sicani».

«Chi sono?» chiedo a papà.

«I suoi compagni. Franco giocava a calcio».

«Che lavoro faceva?».

«Niente, giocava a calcio».

«Sì, ma come campava?».

«Aveva appartamenti e magazzini. Li affittava».

La bara mi sfila davanti. C’è una foto attaccata: Franco in campo durante un’azione. Riconosco i capelli rossi, solo quelli.

Fuori dalla chiesa, davanti alla macchina delle pompe funebri con lo sportello spalancato, scambio baci, stringo mani e mastico condoglianze con gente sconosciuta.

Papà mi spinge verso Lilla, la mamma di Franco.

«Saverio, anima mia. Franco parlava sempre di te» piange, stringendomi la faccia tra le mani. «Come fratelli eravate. Ti ricordi quell’estate al mare? Come fratelli».

«Certo, zia Lilla, come posso dimenticare?».

«Me’ frati Saverio, così diceva Franco, me’ frati Saverio».

La presbiopia della memoria dolente rende attuali parole di trent’anni fa.

Piccionello fa la sua parte, bacia Lilla sulle guance.

«Signora, si ricorda di me? Piccionello sono, di Màkari».

«Come no? Franco sempre parlava di te. Portavi i picciriddi a pescare. A Franco ci insegnasti a nuotare».

«Me lo ricordo preciso preciso, come fosse ieri. Signora, parole non ce ne sono per questa disgrazia grande».

«Morta sono, Piccionello. Morta con mio figlio».

È troppo per me. Mi allontano. Vorrei fumare una Camel senza filtro, riempirmi i polmoni e restare stordito dal contraccolpo. Mi avvicino al gruppetto delle Acque minerali dei monti Sicani.

«Qualcuno di voi ha una sigaretta?».

Mi accontento di una Marlboro Gold.

«Tu sei il cugino di Franco, quello di Roma?» mi chiede uno con i muscoli delle spalle che stirano la maglietta.

«Sì, Saverio Lamanna».

Stringo le mani di tutta la squadra.

«Franco diceva che a Roma sei un pezzo grosso» fa il tipo muscoloso.

«Franco era generoso».

«È vero. Ti voleva bene».

«Anche io» mento con un po’ di vergogna.

«Domani sera organizziamo una partita di calciotto in memoria di Franco».

«Bella iniziativa» dico.

«Vieni, così giochi con la maglietta di Franco».

«Io?».

«Sì, domani sera alle otto ai campetti dietro la Favorita. Li conosci?».

«È un po’ complicato. Sapete, questa è una stagione di grande lavoro per la nostra azienda. Un’attività di slow food, prodotti bio, a chilometro zero, conserve naturali, vero Peppe?» mi rivolgo a Piccionello appena sopraggiunto.

«Domani? Siamo in pausa» fa Piccionello, serio serio.

«Siamo in pausa?».

«Sì, pausa. Per non stressare il prodotto».

«Benissimo, ti aspettiamo alle otto. Puntuale. La partita comincia alle otto e mezzo» conclude Mister Muscolo.

«È un onore per noi» dice un’altra acqua minerale dei monti Sicani.

«Un grande onore» ripetono insieme tutte le acque minerali.

«Per Franco Rizzo hip hip» grida Mister Muscolo.

«Urrà!» rispondono le acque minerali.

«Per non stressare il prodotto. Disgraziato, da dove ti è venuta?» sibilo contro Piccionello, sommerso dalla triplice salva di urrà.

«L’ho sentita alla radio».

«Non insistere, Peppe. Nemmeno morto».

«Saverio, lo faccio per il tuo bene».

«Tanto non ci vado».

«Tu ci vai. E giochi».

Inchiodo i freni.

«Sei pazzo. Così ci ammazziamo» grida Piccionello. Finalmente mostra un po’ di rispetto.

Un camion ci supera, il clacson a distesa, la mano fuori dal finestrino a ribadire alcuni brevi concetti.

«Cornuto e becco».

Altri insulti su dignità e maternità fioccano da due auto che scavalcano la mia, ferma al centro della provinciale per Màkari.

«Peppe, parliamoci chiaro: non gioco a pallone da trent’anni, non vedevo mio cugino da trent’anni, da trent’anni non me ne frega niente del calcio. Come vedi non c’è un solo motivo per partecipare alla pagliacciata di domani sera».

«Saverio, senti a me. Anche se non lo vedevi da trent’anni quel ragazzo era tuo cugino e anche se tu sei cretino da trent’anni non puoi dare un dispiacere a tuo padre, a tua zia Lilla e ai ragazzi che ti hanno invitato. Il fatto che non giochi a pallone non è un problema, ci sono io e un giorno ti faccio diventare Maradona».

«Tu?».

«Io. Ho giocato nell’Empedoclina, nel Pro Favara, nel Valderice e sono arrivato pure in promozione».

«Quando?».

«Quarant’anni fa».

«Non c’era manco la moviola ai tempi tuoi».

«Ma ne so più di te. Domani allenamento, così non crolli al secondo minuto in campo».

«Non hai capito. Non ci vado a giocare».

«Allora racconto tutto a Suleima».

«Ma che racconti?».

«Lo so io».

Ora, io sono sicuro che negli ultimi due mesi, da quando ho incontrato Suleima, nella mia vita non ci sono segreti né misteri. Prendo tempo, mollo la frizione, riprendo a viaggiare verso Màkari. Penso veloce se ho confidato qualcosa a Piccionello, ma non mi pare.

«Non sai niente. Stai bluffando».

Piccionello mette la faccia da giocatore da poker.

«Allora non ti preoccupare. Aria serena non ha paura dei tuoni».

Peppe mi conosce da quando ero ragazzino. Sa troppe cose e la mia coscienza fa acqua da ogni parte.

«Va bene, scendo in campo. Ma solo dieci minuti».

«Bravo, a volte riesci perfino a sembrare ragionevole».

«Ma lo faccio solo per mio padre che ci tiene. Le tue minacce non mi spaventano: immacolato sono».

«Così ti dovevano chiamare: Immacolato. È proprio adatto a te. Che succede?».

Lassù a Màkari, davanti al bar, c’è il furgone dei vigili del fuoco con i lampeggianti accesi.

«Incendio?» dico.

«Non vedo fumo. Avvicinati».

Lascio la macchina con le ruote sul marciapiede. Mi riassale l’antica eccitazione di quando facevo ancora il cronista, alcuni secoli fa.

Tutta la borgata si è riversata nella piazzetta. Il camion dei vigili del fuoco, la Land Rover della forestale e la Panda dei carabinieri danno un pathos noir. Grosso guaio a Màkari, finalmente qualcosa di cui parlare per i prossimi tre mesi.

«Chi fu? Chi successi?» si fa strada Piccionello.

Non ho perso del tutto l’occhio e le orecchie da reporter. Da dieci parole afferrate al volo capisco che hanno messo la colla attak nelle serrature del bar. Estorsione, racket, mafia, Cosa Nostra: ragiono veloce come se dovessi dettare il pezzo in redazione. Dettagli, ipotesi, scenari.

«Maresciallo, a noi nessuno ci ha fatto minacce. Ma quale mafia» sta dicendo il proprietario del bar, le mani unite in preghiera. Il maresciallo scuote la testa, ragiona come me. Attak uguale attentato, uguale pizzo, uguale mafia.

I vigili del fuoco lavorano di piede di porco.

«Attenti, che la porta nuova nuova è. Mi costò milleduecento euro» avverte il proprietario.

I pompieri non se ne curano: vuoi mettere il piacere di passare una mattinata a sfondare porte invece che spegnere incendi nella riserva dello Zingaro? Infatti si impegnano manco debbano forzare Fort Knox.

«Maresciallo, mio cugino mai ne ha ricevuto minacce».

«Lei chi è?» chiede il maresciallo.

«Peppe Piccionello, il cugino del signor Cozzolino».

«Qualcuno ha chiesto la sua opinione?».

«No, maresciallo. Ma qui tutti ci conosciamo. Vero è?» fa Piccionello, rivolto alla folla.

«Vero è. Vero. Ma chi viene fino qui a minacciare?» annuiscono alcuni.

«Sgomberate, signori. Tornate a casa. Appuntato, liberiamo la scena del crimine» dice il maresciallo. Si sente che non è siciliano, emiliano forse.

Tiro via Piccionello da un braccio.

«Vuoi farti arrestare?» gli dico in un orecchio.

«Saverio, ma hai sentito? Questo parla di mafia. Ti pare normale?».

A me, in verità, pensare alla mafia in Sicilia, in provincia di Trapani, mi pare abbastanza normale. Non è che siamo a Gressoney; per quanto anche lì, scava scava.

«Peppe, tutto può essere».

«Saverio, lo conosci il bar di mio cugino: dieci caffè al giorno, due chinotti, la partita a briscola, l’ultimo turista è passato per sbaglio tre mesi fa».

In effetti, se io fossi Matteo Messina Denaro, l’ultimo latitante di Cosa Nostra, perderei tempo a Màkari quando ci sono bar e ristoranti a Trapani o a San Vito Lo Capo che fatturano migliaia di euro al giorno? Poi, vai a sapere. Magari Messina Denaro si vuole passare un capriccio. Le latitanze lunghe possono produrre strani effetti: Bernardo Provenzano non si era fissato con ricotta e cicoria, pure se poteva campare a caviale e champagne?

«Vabbè, ora gira al largo. Torna a casa che è meglio» dico a Peppe che si limita ad allontanarsi ingrugnito per non perdere il resto della scena.

I vigili del fuoco stanno scardinando con entusiasmo gli infissi della porta pur di non lasciare nulla di intatto.

Il maresciallo si accosta. Mi toccherà difendere l’habeas corpus di Piccionello.

«Lei è Lamanna? Me l’ha detto l’appuntato. Ho letto il suo libro» mi fa.

«Come mai?».

«L’ho comprato. In libreria».

«Certo. Sa, non sono abituato a incontrare il mio lettore. Sono un autore di nicchia, per intenditori» e gli strizzo l’occhio.

«Ma l’ho capito subito chi era l’assassino, alla ventesima pagina».

«Lei è un vero professionista, maresciallo».

«Maresciallo Guareschi».

«Come quello di Peppone e don Camillo?».

«Sì, ma non siamo parenti. Dica al suo amico di stare cauto. È abbastanza chiaro: racket delle estorsioni. Questi negano sempre».

«È sicuro?».

«Guardi là. L’hanno capito pure loro».

Loro sono in sella a uno Zoomer 50, color giallo tuorlo d’uovo.

«Mii, Addiopizzo arrivò» fa uno con addosso la maglia del Palermo.

«Allora vero cosa di mafia è» dice un altro che indossa la maglia della Juve.

Dal motorino scendono un ragazzo alto con i capelli rasta e una piccoletta che sì e no avrà quattordici anni. Vengono decisi verso il maresciallo.

«Buongiorno maresciallo» dice il ragazzo.

«Ciao Bartolo, come l’hai saputo?» chiede Guareschi.

«Mi ha avvisato un amico. Brutta storia, vero?» fa Bartolo.

Sulla maglietta ha una scritta obliqua, devo piegare la testa di lato per leggere: «Un intero popolo che paga il pizzo non è un popolo libero».

«Stiamo indagando, Bartolo. Ma è importante che siete qui: è un segnale».

Confesso che sono un po’ stanco di tutti questi segnali a destra e a manca. In Sicilia è sempre la solita storia: tanti segnali, poca segnaletica.

«Conosci Lamanna? È uno scrittore» mi presenta il maresciallo.

«Certo, l’ho visto in televisione, parlava di un libro» fa Bartolo stringendomi la mano.

«Purtroppo non basta scriverli, bisogna pure parlarne».

«Lei è Alida, è nuova del gruppo».

Un po’ piccoletta per essere la fidanzata del ragazzo, si tolgono almeno sette anni d’età. Ma sbaglio perché Bartolo le mette una mano sulla spalla, per segnarne il possesso. Lo dico io: troppi segnali.

L’appuntato richiama il maresciallo sulla crime scene. Le indagini fervono alacremente.

Resto con i fidanzatini antimafia.

«Quanti siete nel vostro gruppo?» chiedo.

«Una ventina. Ma ora, d’estate, si sa» risponde Bartolo.

«Capisco, d’estate si sa. L’antimafia va in vacanza».

«La mafia no, però» dice risentito.

«Bartolo, tu ci credi veramente che è storia di mafia?».

Mi guarda con la faccia di chi ha appena incontrato un marziano. Un marziano cretino. O mafioso.

«Lo sa cosa c’è dentro quel bar?».

«Caffè, chinotto, granite, partite a briscola».

«E videopoker» sussurra.

«Videopoker?».

«La mafia dei videopoker. Le dice qualcosa?» fa con la mano così, per ribadire che sono proprio cretino. O peggio, mafioso.

«Mafia dei videopoker, dunque» prendo tempo.

«Dietro alcune ditte che forniscono le macchinette ai bar c’è la mafia: riciclaggio, esportazione di capitali, società off-shore. E il governo non fa niente. Anzi, ci guadagna sopra. Ogni tanto il mafioso di turno vuole imporre i suoi videopoker in una zona. E si fa sentire. Prima l’attak, poi una bomba e poi...».

«Non me lo dire. Ci arrivo da solo».

«Perché non scrivete queste cose nei vostri libri, invece di perdere tempo con i romanzi?».

Ci sono due cose che non sopporto: quando mi danno del voi. E quando mi dicono cosa devo scrivere. Ma questi qui sono troppo giovani per incazzarmi, anche io ero stronzo alla loro età.

«Hai ragione, Bartolo. Scusami, ora devo correre a casa per scrivere un libro sui videopoker».

I vigili del fuoco hanno sfondato porta, infissi e muro. Meglio della breccia di Porta Pia.

Scendo a piedi verso il ristorante di Marilù. È l’ora più bella, il sole basso sul mare, i bagnanti ritornano lenti e arrostiti di calura dalla spiaggia, le mamme strappano i figli dalle onde prefigurando sicure malattie già evidenti nel chiaro sintomo dei polpastrelli marci d’acqua.

Telefono.

«Lamanna, sei stato a Palermo e non mi dici niente?».

«Chi sei?».

«Randone. Il vicequestore Randone. Il marito di Giovanna Curtopelle, ricordi?».

«Come no. Tua moglie sta bene?».

«Ma veramente sta sempre a Enna, va su e giù. Ricordi? Ti avevo chiesto se potevi metterci una buona parola per farla avvicinare alla prefettura di Palermo. Ma te ne sei fottuto».

«Non me ne sono fottuto, Randone. Hanno fottuto me. Non sono più al Viminale».

«Ti sarai fatto qualche amico in tanti anni. Che ti costa fare una telefonata? Mia moglie viaggia ogni giorno, con il ponte crollato dell’autostrada è un calvario. Fallo per il bene di una famiglia, per i bambini».

«Va bene, Randone. Come sai che stamattina ero a Palermo?».

«Siamo la squadra mobile, Lamanna. La polizia sanno tutto».

«A volte sanno troppo. Mi devo preoccupare?».

«Niente di grave, Lamanna. Lavoro di routine. Mi dispiace per tuo cugino».

«State facendo indagini?».

«Su chi? Su tuo cugino? È stata solo una disgrazia, Lamanna. Stiamo lavorando su altro, non posso dire di più. Tuo cugino non c’entra».

«Ho capito. Ci sentiamo presto, Randone. Adesso ho molto da fare».

«Però sei fotogenico, sei pure dimagrito. Ho un video dove sei venuto proprio bene, appena concludiamo le indagini te lo regalo».

«Grazie, Randone. Non vedo l’ora di vederlo».

Mi fermo sulla soglia della terrazza di Marilù. Incorniciati nel tramonto, quattro turisti con mojito regolamentare alla mano, appoggiati alla ringhiera, assistono al più grande spettacolo dopo il big bang. Suleima sta apparecchiando uno dei tavoli, non mi ha visto. Le vado dietro in silenzio per abbracciarla a sorpresa.

Mi pianta una gomitata nel costato.

«Ancora? Adesso basta» esclama.

Mi piego dal dolore, un poco simulando.

«Sei pazza?».

«Saverio, scusami. Non avevo capito che eri tu» fa Suleima.

«Chi è questo?».

«Chi?».

«Hai detto: adesso basta. Che significa?».

«Lascia perdere. Un cliente cretino».

«Vuoi che lo ammazzo?».

«So difendermi da sola».

«L’ho sentito» e premo la mano sul costato, ormai sono entrato nella parte.

«Mi dispiace tanto. Ti porto un mojito?».

«Se insisti. Meglio un negroni» dico con faccia pietosa.

Incorniciato nell’ultimo soffriggere del tramonto, alla ricerca vana del raggio verde, sorseggio il mio negroni. Suleima va per i tavoli a sistemar posate e bicchieri, regalandomi sorrisi. Chiamatemi pure beato angelico.

«Saverio, ti fermi a mangiare?».

«Ciao Marilù, cosa c’è stasera?».

«Busiate col pesto trapanese e ruota di pesce spatola».

«Posso dirti di no?».

«Mi giuri che non infastidisci Suleima?».

«Giuro. Hai sentito la storia dell’attak?».

«Quale?».

«Su, al bar di Màkari».

«Non è l’unica. Suleima, mi porti una birra?».

Marilù si siede, la quiete prima della tempesta: tra poco arriveranno i clienti.

«Che significa non è l’unica?» chiedo.

«Stamattina hanno messo l’attak anche in una sala giochi di San Vito, l’ho saputo in pescheria, ma a quanto pare non hanno denunciato il fatto».

«Mafia?».

«Saverio, qui la mafia c’è sempre stata. Ma d’estate, in piena stagione, mi pare un poco strano che si mettono a fare attentati. Troppo scruscio».

«È vero. Troppo scruscio, troppo casino. E allora?».

«Stiamo a vedere».

«A te è mai capitato?».

Marilù si mette a ridere.

«Tanti anni fa si presentò uno di Trapani. Fece un discorso a mezza parola, dico e non dico. Alzai il telefono, gli passai la cornetta: guardi, gli dissi, ne parli direttamente col mio fidanzato che lavora nella finanza, lui di conti e di tasse ne capisce più di me. L’ho visto correre via che pareva lepre davanti ai cani. Ogni tanto lo incontro, devi vedere come si scappella per salutarmi».

«Non sapeva chi aveva davanti».

«Sai, noi donne dobbiamo farci rispettare. Non è antimafia, ma questione di dignità».

«Ma allora chi ha messo l’attak nelle serrature?».

«Saverio, la mafia insegna. Basta un concorrente invidioso, un cretino qualunque, uno che ha perso dei soldi, un vicino di casa litigioso: leggono il giornale, vedono la tv, pensano che in fondo si può fare. Non ci sono costi, è una minaccia a basso rischio. Al limite, anche se ti pigliano, ti condannano per danneggiamenti».

«Bricolage mafiosesco».

«Stanno arrivando i primi cannibali. Devo andare, Saverio. Ti faccio portare un piatto di busiate».

«E un bicchiere di Inzolia».

Guardo Suleima nel suo tubino nero, lo stesso che indossava la sera in cui l’ho conosciuta su questa terrazza. I suoi fianchi, le sue gambe. Fermate il mondo, sto bene così.

Mi sveglio col pensiero della partita di calciotto. Sono certo di fare una gran mala figura in campo. Ma poi mi dico: chissenefrega, è solo una questione simbolica, un obbligo da sbrigare in fretta.

Suleima dorme con un pugno chiuso, nel sonno mormora qualcosa che non capisco, come pallone o buffone.

Fuori la giornata è ancora infoschita. Preparo il caffè, sfoglio il «Corriere.it»: si combatte in Siria, si combatte in Libia, si combatte in Iraq. Vado a cercare un po’ di pace sul sito della «Gazzetta dello Sport»: calciomercato in guerra, scontro sulla presidenza Fifa, duello in Formula 1, violenza negli stadi. Forse dovrei dedicarmi al golf.

Provo a leggere qualcosa per fare conversazione negli spogliatoi. Almeno i nomi dei calciatori. L’unica cosa che mi resta in mente è sempre la solita vecchia formazione di Spagna ’82 che ripasso a voce alta: Zoff, Collovati, Scirea, Gentile, Bergomi, Tardelli, Tardelli, Tardelli. Non ricordo più.

«Oriali, Cabrini, Conti, Rossi, Graziani sostituito da Altobelli al settimo minuto del primo tempo».

Eccolo. Piccionello.

«Peppe, come ti sei combinato?».

Uno spettacolo. Pantaloncini Adidas anni Settanta, calzettoni Puma, scarpette coeve di José Altafini, pallone di cuoio sotto braccio e maglietta con la scritta: «Miglior calciatore giapponese: Yoko Poko Mayoko».

Mi viene da ridere. Rido, infatti. Eppure so che Piccionello può essere permaloso.

«Quando hai finito di fare il minchione è sempre troppo tardi» dice impassibile.

«Prendi un caffè, Peppe» ma non riesco a smettere.

«Che succede?». Suleima si affaccia sulla porta della camera da letto, con la mia camicia. «Come ti sei conciato, Peppe?».

Non c’è niente da fare. Ride anche Suleima. E mi contagia. Non riusciamo a fermarci, ci prende il sivo, che i francesi più elegantemente chiamano fou rire.

«Mi stupisco di te, Suleima. Ma è così: a forza di camminare con lo zoppo» commenta Peppe mentre versa un cucchiaino di zucchero nel caffè.

«Dai, Suleima, ora basta» cerco di contenermi.

«Sì, ora basta».

«Dobbiamo allenarci» dico.

«Con chi giocate? Con Mazzola e Meazza?» fa Suleima, aprendo il frigo.

«No, sta arrivando Burgnich. È sulla littorina» rispondo.

«Forza, andate avanti così. Mi piace ’sto babbìo» fa Piccionello.

«Peppe, hai ragione. La cosa è seria. Facciamo i seri».

«Giocate a colori o in bianco e nero?» chiede Suleima, la bottiglia di latte in una mano.

«La tv non è stata ancora inventata, giochiamo alla radio» faccio.

«Scherza Saverio. Tanto questa la paghi con gli interessi».

Aveva ragione Piccionello. Mi ha fatto vedere i sorci verdi, maledetto. Tre ore di allenamento all’antica: flessioni, addominali, tiri in porta, giri di campo – fortuna che il campetto dietro la chiesa è solo sei metri per quattro.

L’acido lattico mi paralizza cosce e polpacci. Ho già avuto due crampi, non riesco neanche a premere il pedale della frizione. Viaggio sulla strada per Palermo a novanta orari fissi, evitando di cambiare marcia, pur di non azionare i muscoli delle gambe.

«Non credo che mi abbia fatto bene la preparazione atletica» dico.

«Non sforzarti a dire grazie» fa Piccionello.

Sfoggia una tuta blu Sergio Tacchini di un modello già fuori moda quando frequentavo il quinto ginnasio.

Entriamo a Palermo puliti e veloci. La città è svuotata dall’estate, i sussulti della movida non sono ancora entrati in circolo. Arriviamo ai campetti in anticipo di almeno un’ora.

Il custode spizzica semenza sotto un ombrellone dell’Algida.

«Buonasera, siamo qui per la partita» faccio.

«Presto è».

«Lo so. Non è arrivato ancora nessuno?».

«Troppo presto è».

«Lo so. Magari possiamo aspettare qui».

«Presto assai è».

Simpaticone. Propongo a Piccionello di andare a prendere una Coca al bar di fronte. Arrivato davanti al banco, mi assale la voglia di un’arancina al burro.

«Ti appesantisci» fa Piccionello.

«Peppe, non siamo alla semifinale degli Europei».

«Fai come vuoi. Poi non dire che non te l’avevo detto».

Ormai temo le premonizioni di Peppe Cassandra. Desisto dall’arancina e opto per un latte di mandorla.

Dalle vetrine del bar intravedo l’ingresso dei campetti. Si ferma una BMW, scende uno con le sneakers arancioni, entra dentro. Bevo latte di mandorla e osservo. L’uomo con le scarpe arancioni torna in strada, si ferma vicino alla BMW, conta dei soldi, getta a terra qualcosa, credo il pacchetto di sigarette vuoto. Mi piace la cafona eleganza del gesto, annulla di colpo tutta la prosopopea sulla raccolta differenziata.

Si ferma un SUV, viene fuori uno delle Acque minerali dei monti Sicani.

«Arriva qualcuno, Peppe. Andiamo».

L’asfalto sfrigola ancora di calura umida. Sarà dura giocare a trentotto gradi, le sere di Palermo non garantiscono alcuna escursione termica.

Telefono.

«Papà, sono qui al campetto».

«Bravo. Sto arrivando. Mi accompagna Mimì».

«Ci vediamo tra poco».

«Giochi?».

«Sì».

«Sei sicuro?».

«Papà, certo che sono sicuro».

«Basta la presenza, però».

«Hai paura di fare brutta figura?».

«Sai, Mimì ne capisce di calcio. È abbonato al Palermo, tribuna centrale».

«Sarai orgoglioso di me».

«Certo. Magari fai solo un giro di campo, non esagerare».

«Grazie della fiducia».

«Non lo dico per te. Ma per me. Sai com’è Mimì: si fissa sulle cose».

«Ciao papà, a tra poco».

Con alto senso civico, raccolgo da terra la cartaccia abbandonata dall’uomo con le scarpe arancioni. Non è un pacchetto di sigarette, ma pizzini di carta. Cerco un cestino dei rifiuti. Non ce n’è uno a vista d’occhio, naturalmente. Ficco in tasca, butterò dopo.

Il mangiatore di semenza non è all’ingresso. Andiamo verso gli spogliatoi. Da lì dentro arrivano voci. Faccio segno a Piccionello di fermarsi. Voglio sentire.

«Mi futtistivu».

«Ma chi dici? Cu ti futtì?».

«Vi pare che sono testa di minchia?».

«Pietro, stai sbagliando a parlare».

«Qui finisce a schifìo».

Una manata sulla spalla mi scuote l’acido lattico fino ai quadricipiti.

«Sono contento che sei qui» dice Mister Muscolo.

«Non potevo mancare. Lui è Peppe Piccionello, il mio trainer personale».

«Piacere, Santo Gagliardo. Saverio, sei pronto?».

«Prontissimo».

«Ti ho portato scarpette, calzoncini e la maglietta di Franco, la numero 7».

«Un grande onore» dico.

«È un’amichevole. Ma dobbiamo giocare bene. Devi fare almeno un gol».

«Un gol?».

«Per Franco».

«Certo, per Franco. Ma devo farlo proprio io?».

«Franco era il nostro cannoniere».

Già immagino la pagella che mi darà Mimì a fine partita: Lamanna 1, evanescenza in campo.

Mi è concessa una citazione? Tanto per dimostrare che anch’io ho letto qualche buon libro. Avete presente Stendhal? La Certosa di Parma? Allora avete presente Fabrizio del Dongo che se ne va in giro per la campagna di Waterloo, tra ussari e dragoni, vivandiere e cannonate, senza capire granché. Bene, sull’erba sintetica del campetto dalle parti della Favorita mi sento come Fabrizio che continuava a chiedersi: ma questa è una battaglia? Sto veramente assistendo a una battaglia?

Con la maglietta numero 7, il nome di mio cugino Franco Rizzo stampigliato sulle spalle, lo sponsor Acque minerali dei monti Sicani sul petto e dentro un paio di scarpini troppo stretti, mi dimeno per il campo chiedendomi: ma questa è una partita? Sto proprio giocando a calcio? Ma soprattutto: dov’è il pallone?

Il problema del pallone è centrale nel gioco del calcio, l’avevo dimenticato: sta sempre da un’altra parte rispetto a dove mi trovo io, fila via troppo alto o troppo veloce o troppo lento. Provo a scendere lungo la fascia, ma qualcuno me lo toglie dai piedi e vado avanti altri dieci metri prima di rendermene conto. Tento qualche passaggio ai compagni, ma finisce sempre agli avversari dello Sferracavallo Sporting-Carnezzeria Carollo. Dopo otto minuti di gioco, con l’acido lattico ai polpacci, nessuno mi passa più palla. Mi aggiro a vuoto come Fabrizio del Dongo.

«A me. Sono libero. Passa. Sono qui. Passa».

Niente. Inascoltato.

Ci fosse poco pubblico, almeno. Macché. Oltre trecento persone, mio cugino era un tipo popolare, a quanto capisco. In tribuna, papà tiene le mani sugli occhi – commozione o vergogna? – mentre Mimì impietoso gli sussurra all’orecchio la radiocronaca con commento tecnico. Ogni tanto esplode il coro: «Franco! Franco! Franco c’è!». A questo punto il gioco si ferma, tutti applaudono e io mostro la maglietta numero 7 agli spettatori.

Al diciassettesimo minuto del primo tempo, le Acque minerali dei monti Sicani invadono la metà campo avversaria. Traversone di Sferrazza Papa dalla fascia sinistra. Intercetta al volo Samperi di testa. Il portiere reagisce a pugni chiusi. Cappero stoppa di petto. Passa a Gagliardo che cincischia fuori dall’area. Riprende possesso. Gagliardo di sinistro contro lo specchio della porta. Tiro imprendibile. Traversa. Boato del pubblico. Il pallone rimbalza con forza, mi colpisce dritto sul naso. Cado al suolo tramortito. È gol!

A me tutto questo lo hanno raccontato dopo. Innanzitutto perché non avevo capito niente. E poi perché ero privo di sensi, quasi in prognosi riservata. Con un’epistassi gloriosa e un occhio semichiuso, intuivo solo che le acque minerali mi stavano portando in spalla sotto le tribune. Ho fatto in tempo a vedere mio padre esagitato, abbracciato a Mimì che gesticolava quasi avesse sempre saputo che sono un goleador. A questo punto, ho preferito svenire del tutto.

«Saverio».

«Zidane».

«Saverio, come stai?».

«Zinédine Zidane».

«Saverio, sono Peppe. Cosa dici?».

«È stato Zidane».

«A fare cosa?».

«A colpirmi. L’hanno espulso?».

«Zidane è in pensione. Hai fatto gol».

Sono disteso su una panca degli spogliatoi, borsa di ghiaccio sulla fronte e due fiocchi di cotone emostatico nelle narici.

«Siamo in vantaggio» dice Piccionello.

«Chi?».

«La nostra squadra. La tua rete ha sfondato la diga avversaria»

«Perché parli come Fabio Caressa?».

«Bravo Saverio».

Questa è la voce di papà, la riconosco.

«Grazie, papà».

«Siamo orgogliosi di te».

Questo è Mimì.

«Lo dico sempre a tuo padre: Saverio doveva giocare a calcio. Da ragazzino avevi talento».

«Grazie, Mimì».

«Saverio, dobbiamo rientrare in campo. La partita sta finendo. Te la senti?».

Me la sento? Una volta tanto che c’è da mietere vanto non posso tirarmi indietro. Vanità impone. Aggrappato a Piccionello e Mimì, insanguinato quanto un eroe del Risorgimento, accentuo gli acciacchi per dare lustro non solo a me, ma soprattutto alla memoria di mio cugino Franco.

Faccio ingresso in campo sul triplice fischio di chiusura. Mi accoglie l’ovazione del pubblico e di tutte le acque minerali. Manca solo la colonna sonora di Momenti di gloria, ma sotto la luce dei riflettori, nella serata afosa di Palermo, in un tripudio di folla osannante, mi sento Rocky Balboa, lacero e pesto sul ring, vincitore morale contro Apollo Creed.

Al terzo tempo, sempre in memoria di Franco, pizza a metro e boccali di birra in via San Lorenzo: pareti cariche di foto di attori e attrici, nemmeno si fosse dalle parti di Hollywood.

Piccionello si vanta della mia preparazione atletica con l’allenatore dello Sferracavallo Sporting-Carnezzeria Carollo. Mimì racconta di Vito Chimenti e Ignazio Arcoleo, rosanero della stagione ’78-79, alle giovani acque minerali in ascolto con occhio sperso, alla stregua dei nipoti davanti al nonno che rimembra le gesta del 61° fanteria nella battaglia del Piave. L’unico che non parla è papà, non fa altro che sorridermi, credo più stupito che ammirato.

«Meno male che non sapevi giocare» mi fa Gagliardo.

«La fortuna del principiante» mi schermisco.

«Tra due settimane c’è la finale. Vieni?».

«Preferisco ritirami dalle scene nel momento dell’apoteosi».

Si mette a ridere, alza il boccale di birra per un brindisi.

«Che finale c’è?» chiedo, provando ad aprire l’occhio pesto.

«Summer Club Trophy. Il torneo estivo dei circoli. Siamo forti noi».

«L’ho visto. Avete pure lo sponsor».

«Ce l’aveva procurato Franco. Lui ci sapeva fare con queste cose».

«Mah, oggi ci siamo» sto imparando.

«Domani non ci siamo. Hai ragione. Un brindisi per Franco».

Alziamo i boccali.

«Certo, è un bell’impegno» dico.

«Sì. Ci alleniamo quattro giorni a settimana. Però qualcosa si recupera».

«Cosa si recupera?».

«Le spese per le trasferte, i soldi della benzina, il costo del campo. Alla fine qualcosa resta in tasca».

«Qualcosa quanto? Non per farmi i fatti vostri».

«Tu sei di famiglia. Un migliaio di euro al mese».

«Per tutti?».

«Un migliaio di euro a testa. Ma ora mi ritiro, dopo la finale. La morte di Franco è stata una cosa troppo brutta».

«Gagliardo, scusa, ma chi paga?».

Mi guarda stranito.

«Chi paga?» ripete.

«Sì. Chi paga?».

«Gli sponsor. Ecco chi paga. Franco ci sapeva fare con queste cose. Per Franco, hip hip» grida agli altri.

«Urrà».

«Hip hip».

«Urrà».

Mi unisco all’ultimo urrà. E mi viene un po’ di tristezza per non avere mai saputo che mio cugino ci sapeva fare.

Piccionello russa. Ogni tanto gli do una gomitata per fargli cambiare ritmo. Guido piano, senza fretta, sulla musica dei Coldplay.

Messaggio. Suleima.

«Laureata under 30, passionale ma assennata, impiegata stagionale settore food, single da parecchie ore, cerca uomo max 45, scopo amicizia eventuale matrimonio. No perditempo».

«Sono perditempo, ma di classe. Un passato da calciatore. Interessa?».

«Mi dispiace. Calciatore troppo intellettuale per me. Non velina, mai isola dei famosi, solo cameriera».

«Mi accontento. Ormai sono fine carriera».

«Donna alpha vuole uomo alpha».

«Dovevi passare due mesi fa. Troppo tardi».

«Sì, molto tardi. Quando arrivi?».

«Siamo quasi a Custonaci. Aspettami».

«Se non mi trovi, sono con uomo alpha. Fattene una ragione».

Piccionello apre un occhio.

«Dove siamo?» chiede.

«A buon punto. Dormi».

«Non dormivo. Pensavo».

«Cogito ergo russo».

«Cosa dici?».

«Lascia perdere. Cosa pensavi?».

«A tuo padre. Ti porta in palmo di mano».

«Mio padre? Forse mi ha scambiato per un altro».

«Saverio, sei proprio cretino. Parla sempre di te: mio figlio di qua, mio figlio di là. Il libro di Saverio, il romanzo di Saverio, come scrive bene Saverio».

«Ti ha detto questo?».

«Sì».

«Sei sicuro? Forse parlava di Saverio Strati».

«E chi è?».

«Uno bravo veramente. È morto».

«No, parlava di te. Dice che sei sempre stato un grande attaccante».

«Appunto, parlava di qualcun altro. Hai visto quella moto?».

«Quale?».

Rallento, accosto. Indico lo Zoomer giallo tuorlo d’uvo: non passa certo inosservato, un altro dello stesso colore lo vedevo spesso parcheggiato a Roma in via Asiago, vicino a Radio Rai.

«E allora?» fa Piccionello.

«È il motorino di quel ragazzo, Addiopizzo».

«Bartolo. E allora?».

«Che ci fa qui a quest’ora? Lui è di San Vito, giusto?».

«Magari è venuto a trovare un amico, una ragazza. Ma insomma a te che te ne fotte, Saverio?».

«Magari è rimasto in panne. Dai, avviciniamoci».

«Saverio, sono quasi le due di notte. Andiamo a casa».

«Solo un minuto. Così ci mettiamo la coscienza a posto».

«A te la coscienza spunta solo alle ore più strane» fa Piccionello.

Ma si è già rassegnato. Inserisco le quattro frecce lampeggianti, scendiamo dall’auto. Torniamo indietro di poche decine di metri: c’è profumo di gelsomino e vento fresco di mare.

«Che silenzio» dico.

«Certo, la gente a quest’ora è a casa che dorme».

Giriamo attorno al motorino giallo. Non c’è nessuno.

«Contento? Tutto a posto. Possiamo andare?» fa Piccionello.

«Cos’è?» chiedo, indicando la saracinesca chiusa.

«Il bar Pipitone».

«Qui vicino non ci sono case. Dove sarà Bartolo?».

«Perché non citofoni a qualcuno e chiedi?».

Avverto un rumore. Deve essere un gatto randagio. O un topo.

Piccionello sbadiglia.

«Saverio, possiamo andare?».

«Andiamo».

Torniamo verso l’auto. Guardo il motorino giallo. Sembra fuori posto. Ma è solo una sensazione.

Dolore ai quadricipiti. Mal di testa feroce. Alle sette del mattino, dopo una brutta nottata, decido di smettere di rigirarmi nel letto. Mi alzo. Lo specchio del bagno riflette la faccia di un prigioniero iracheno di Abu Ghraib. È la mia. Il naso gonfio e viola, l’occhio destro livido completamente chiuso. Ora capisco perché Suleima questa notte mi guardava sospettosa mentre magnificavo il mio gol spettacolare.

Metto su il caffè. Il sole fuori è già caldo. Vado a curiosare su internet. «Repubblica.it» spiega che l’Isis è già dietro l’angolo, la disoccupazione giovanile è in aumento (a chi lo dici: non solo quella giovanile), un barcone con duecento persone è naufragato al largo di Lampedusa, dodici morti. Guardo il mare dalla finestra, sembra così innocuo e placido. Sulla mia pagina Facebook hanno postato alcune foto della partita di ieri sera, ce n’è una nella quale vengo portato in trionfo per il campo, disteso sulle spalle dei compagni di squadra come il Gesù martoriato nelle processioni del Venerdì Santo.

«Che ora è?» chiede Suleima, apparsa sulla porta in maglietta e slip.

«Presto. Torna a dormire».

«Hai fatto il caffè?».

«Sta salendo».

«Saverio, perché non mi dici la verità?».

«È la verità. Ho fatto gol»

«Ti sei messo nei guai?».

«Sono sempre nei guai. Da una vita».

«Non scherzare, Saverio. Passami lo zucchero».

«Suleima, non capisco».

«Torni a casa conciato per le feste. Hai la faccia ridotta uno schifo. Ti hanno picchiato? A me lo puoi dire».

«Te l’ho detto. Gioco pesante».

«Saverio, io non voglio farmi gli affari tuoi. Però».

«Però cosa?».

«Hai bisogno di soldi? Ho qualcosa da parte, posso farti un prestito».

«Suleima, ma cosa stai dicendo. Non ho bisogno di soldi».

Falso. Il mio conto in banca ormai è agli sgoccioli. Avevo novemila euro quando sono stato licenziato, ormai ne restano sì e no tremila. Devo trovare un modo per guadagnare, la letteratura non credo sia quello giusto.

«Saverio, guardami negli occhi».

«Nell’occhio, vorrai dire. Uno non si apre».

«Cosa significa?».

In mano ha dei pezzi di carta strappati. Li ricompone sul tavolo.

«Cos’è?» chiedo.

«Dimmelo tu. A te cosa sembra?».

«Non lo so. Mai viste».

«Saverio, sono scivolate dalla tasca dei tuoi pantaloni. Sono ricevute».

«Ricevute?».

«Ricevute di scommesse. Leggi. Ci sono i nomi e accanto le quotazioni».

Leggo. Acque minerali dei monti Sicani vs Atletico Fondo Anfossi: 1 a 1,50; X a 4,50; 2 a 7,50.

«Non ci capisco niente» scuoto la testa.

«Sono le quotazioni, vedi? Se il risultato è 1 la posta viene pagata una volta e mezzo. In caso di pareggio, la vincita è di quattro volte e mezzo la puntata. Se la vittoria è del Fondo Anfossi l’allibratore paga sette volte e mezzo il valore della puntata».

«Come sai queste cose?».

«Lo scorso inverno ho lavorato in una sala scommesse».

«Mi sorprendi».

«No, mi sorprendi tu, Saverio. Non sono scommesse regolari, come quelle che si fanno su internet o nelle sale. Sono scommesse clandestine. Vedi che le ricevute sono stampate al computer, uno scarabocchio come firma? Non c’è nessun riferimento. Chi gioca non ne ha bisogno, sa a chi deve rivolgersi. Ti hanno picchiato per questo? Hai chiesto soldi in prestito a brutta gente?».

«Suleima, te lo giuro. Non so come sono finite nei miei pantaloni».

«Non ti credo».

«Forse le ho trovate. Ecco, ora ricordo. Qualcuno le aveva buttate a terra e io le ho raccolte».

«Per la tua collezione?».

«No, per tenere la città pulita».

Si spalanca la porta. Piccionello.

«Buongiorno, Peppe. Ti svelo una verità: se bussi non ti cadono le mani».

«Saverio, grandi notizie. Hanno messo di nuovo l’attak».

«Hai scambiato questa casa per una caserma dei carabinieri? Chiama il maresciallo Guareschi».

«Saverio, hanno messo l’attak nelle serrature del bar Pipitone. Il bar Pipitone, hai capito?».

«Non so nemmeno dov’è».

«Lo sai benissimo. Ieri sera ci siamo fermati proprio lì davanti, dove c’era il motorino giallo».

«Siamo sospettati?».

«No. Ma se non siamo stati noi, allora chi può essere stato?».

«Bartolo. Alla faccia dell’antiracket».

«Lamanna, sempre sulla notizia, vero?» dice il maresciallo Guareschi.

«Magari ci scrivo un libro».

«Guardi che se non ci mette pure me la faccio arrestare» dice il maresciallo.

«Ma che fa scherza? Lei è il protagonista».

«Che ha fatto al naso?».

«Ho combattuto contro i Templari. Com’è la situazione?».

«Stessa tecnica usata a Màkari. Anche qui il proprietario sostiene di non aver mai ricevuto minacce o richieste».

«Non vedo i vigili del fuoco».

«C’è un ingresso secondario, dietro il locale, che per fortuna non è stato danneggiato».

Penso al sollievo del signor Pipitone, alla delusione dei vigili del fuoco oggi costretti a domare i soliti roghi sul Monte Cofano.

«Forse era nascosto dietro al locale» sussurra Piccionello.

«Chi era nascosto dietro il locale?» chiede il maresciallo.

«Chi?» ripeto come un fesso.

«L’avete detto voi».

«Peppe, l’hai detto tu?» chiedo.

«Maresciallo, ieri siamo passati qui davanti verso le due di notte. Ci siamo fermati per fare pipì».

«Per fare pipì?».

«Sì, lei sa bene che c’è un grande piacere a fare pipì all’aperto di notte».

«È vero».

«Non c’era nessuno. O meglio, ci è sembrato di sentire un rumore. Abbiamo pensato a un gatto. Forse era l’attentatore nascosto dietro al locale».

Sudo freddo. Peppe sta camminando sul filo.

«E poi?» fa il maresciallo.

«E poi ce ne siamo andati. Tutto qui» dice Piccionello serio serio.

«Questo pomeriggio passate in caserma per un verbalino di testimonianza».

«Certo, maresciallo, sempre felici di dare un contributo alla giustizia».

«Bene. Ora vi lascio, devo concludere gli accertamenti».

Tiro il fiato.

«Ma un tempo i siciliani non erano omertosi?» faccio a Piccionello.

«Non è vero, sempre assai hanno parlato».

«Questa volta potevi fare l’uomo di panza».

«Vedi che sei cretino. Fai conto che Bartolo o qualcun altro era veramente lì dietro e ci ha visti. Se racconta al maresciallo che eravamo qui alle due di notte, quello ci fa arrestare. Così invece ci siamo messi al sicuro».

«Sono ammirato, Peppe. Parli come un cassazionista».

«E tu come il minchione che sei. Eccolo, è arrivato».

«Chi?».

«Racket di notte, antiracket di giorno».

Viene accanto con il suo Zoomer color tuorlo d’uovo. È di nuovo con Alida, la sua ragazza con gli occhi belli e il polpaccio mediterraneo.

«Ciao Bartolo. L’assassino torna sempre sul luogo del delitto, giusto?» dico.

«Anche voi, a quanto vedo».

Fa finta di non capire. O capisce troppo bene.

«Che le è successo in faccia?» mi chiede.

«Ho combattuto contro la mafia» rispondo.

«Ironia fuori luogo. Ci vuole il morto per sapere che è mafia?».

«Bartolo, ho qualche anno più di te. Di mafia, purtroppo, me ne intendo perché sono di Palermo. Tu non eri ancora nato, e io avevo già visto ammazzare troppa gente. Quindi, non venire a farmi la lezione. Questa non è mafia».

«Hai sentito, Alida? Il signor Lamanna ha le idee chiare».

«Bartolo, ti racconto una storia. Avevo un compagno di scuola, era come te: fissato con la mafia. Conosceva a memoria i libri di Attilio Bolzoni e di Saverio Lodato. Sapeva i nomi dei magistrati della procura di Palermo meglio della formazione della Juve. Ogni volta mi riassumeva l’ultima puntata della trattativa tra Stato e mafia. L’hanno arrestato due anni fa perché faceva affari con un mafioso di Campobello di Licata».

«E allora?».

«Allora, significa che è troppo facile andare in giro con la maglietta di Addiopizzo di giorno, ma devi stare attento a dove vai di notte».

«Non capisco».

«Pensaci, Bartolo mio. Pensaci bene».

«Ma vaffanculo, stronzo».

L’ha presa male, è passato al tu. Si slancia contro di me, ma la sua ragazza lo blocca in tempo.

«Dai Bartolo, lascialo perdere. Andiamo via» dice Alida.

«Sì, vai via che è meglio. E cerca di non fare altre cazzate» grido.

Risalgono sul loro motorino giallo, sgasano e vanno via lasciandosi dietro un insulto che non afferro.

Guardo Piccionello.

«Come sono andato?» gli chiedo.

«È il tuo stile».

«Però gli ho fatto perdere il controllo. È stato lui».

«Secondo me non c’entra niente».

«E il motorino giallo?».

«Magari è di qualcun altro».

«Impossibile. Da qui a Roma, un altro motorino così non può esistere».

Scendo a piedi al mare nell’ora in cui il sole si smorza. La maglietta di Libera, la borsa di tela del Pisabook Festival dove ho ficcato la copia sgualcita di Romanzo civile di Giuliana Saladino che avevo già letto e che ogni volta mi riacchiappa. Suleima si è convinta che non c’entro niente con le scommesse, ma ho dovuto fare ricorso alla parola d’onore di Piccionello per confermare la mia buona fede.

Telefono.

«Chi lo vuole?» rispondo.

«Lamanna, sono Randone. Sei tornato a Palermo e non ti sei fatto sentire?».

«Randone. Mi fai pedinare?».

«Lavoro di routine, Lamanna. Stiamo monitorando».

«Parli come un questurino».

«Sono un questurino».

«Mi hanno detto che hai fatto un partitone».

«Ho segnato pure un gol».

«Veramente è stata carambola, tu hai fatto da palo».

«Dettagli. Randone, stai lavorando a un’indagine sulle scommesse clandestine?».

Silenzio.

«Randone, mi hai sentito?».

«Lamanna, tu che ne sai?».

«Niente, curiosità».

«Per telefono non posso parlare. Vieni domani mattina alla mobile. Dopo le dieci».

«Impossibile, domani devo preparare le bottiglie di pomodoro».

«Smettila, Lamanna. Non ci credo nemmeno se lo vedo che fai bottiglie di pomodoro».

«Se vuoi te ne porto qualcuna».

«No, preferisco la passata del supermercato. Costa meno ed è più buona».

«Spoetizzante».

«Domani mattina, Lamanna. Dopo le dieci. Ciao».

Il motorino giallo mi taglia la strada.

«Cornuto. Vuoi ammazzarmi?» grido.

Si ferma, torna indietro. È Bartolo.

«Stavo venendo proprio da te» dice.

«Vuoi fare a legnate?».

«No. Possiamo parlare?».

«Sì, sto andando a mare. Mi accompagni?».

«Sali su. Andiamo in moto».

Nuoto piano. Penso. E ripenso. Bartolo sulla spiaggia in pantaloncini e a torso nudo, si è tolto le All Star.

Torno a riva. Una famiglia sta preparando il barbecue per la sera: sono appena le sei del pomeriggio, ma c’è un popolo intero da sfamare.

Bartolo tira sassi nell’acqua. Ha la faccia triste, mi fa pena.

«Dai, ragazzo. Su con la vita» dico, consapevole di dire una minchiata.

«Ma io adesso come mi ripresento in associazione?».

«Tu non c’entri. Non hai fatto niente».

«È vero. Infatti sono solo un imbecille».

«Non sei imbecille».

«Io mi fidavo».

«Bartolo, è solo una ragazzina».

«Mi ha preso in giro. Si è servita di me per avere uno schermo. Chi poteva sospettare di me, di noi? Nessuno. Avevo il nemico in casa».

Mi sembra disperato. Alla sua età anche io sono stato così, qualche volta.

Siedo sulla sabbia accanto a lui. Guardo il mare, a quest’ora sembra mite.

«Ti ha spiegato perché l’ha fatto?».

«Per suo padre, te l’ho detto. Si stava giocando tutto ai videopoker. E lei ha pensato di risolvere la questione così. Si era convinta che doveva far chiudere tutti i bar della zona dove suo padre andava a giocare».

«Vedi, non era contro di te. L’ha fatto per suo padre».

«Lo sai cosa mi fa più rabbia? Il fatto che la storia dell’attak l’ha saputa da me. Le avevo raccontato che era una tecnica del racket delle estorsioni, per dare il primo avvertimento».

«Bartolo, è una ragazzina confusa. A modo suo ha voluto aiutare suo padre».

«Poteva dirmelo. Stiamo assieme da un anno, non sono tre giorni. Non mi aveva detto niente».

«Non capisci? Si vergognava».

«Ma non si vergognava di farsi prestare il mio motorino e andare in giro di notte a fare danni. Ieri era lì nascosta quando siete passati tu e il tuo amico. È così stupida che aveva lasciato il motorino alla vista. Un modello come questo che ce l’ho solo io in tutta la provincia di Trapani».

«In effetti, non passa inosservato».

«Io ero a casa, tranquillo. E quella mi sputtanava. Ora come mi ripresento in associazione?».

«Bartolo, questa storia magari ti insegna qualcosa».

«Sì, sulle donne. Mai fidarsi».

«Non sulle donne. Ma sulle persone. Spesso cerchiamo il gioco grande, ma invece il gioco a volte è piccolo. Chi ci sta vicino può essere fragile e debole, per questo dobbiamo proteggerlo».

«Che succede adesso?».

«Niente. Più tardi con Piccionello andremo in caserma e non diremo niente del tuo motorino. Tu smaltisci la rabbia, poi vai a trovare Alida».

«È finita».

«Parla con lei. E poi decidi se è finita. Ma prima incontrala».

«Scusami, Saverio, per la scenata di stamattina».

Gli metto una mano sulla spalla, è calda di sole.

«Scusami tu, Bartolo. Ho sospettato di te. Invece questa terra ha bisogno di anime come la tua».

Oddio, ma come parlo?

Hanno cominciato a rosolare le salsicce. Mi è venuta fame.

Zucchina lunga, pomodoro, patate, cipolla. Lessare a lungo, servire fredda. Meglio ancora il giorno dopo. È l’odore della zuppa estiva che detestavo da ragazzino. L’età è vendicativa.

Mentre aspetto i tempi di cottura, accendo Teresita. Lezione numero quarantadue.

¿A qué te dedicas?

Che lavoro fai?

«¿A qué te dedicas?».

Desocupado, ahora.

Estoy buscando trabajo.

«Estoy buscando trabajo».

¿Lo que gana?

Niente, Teresita, non gano un soldo.

¿Lo que gana?

Allora sei tonta.

«¿Lo que gana? Nada de nada».

¿Entonces, como usted vive?

Male, Teresita. Mi arrangio.

¿Entonces, como usted vive?Repita, por favor.

Mi infastidisce questa sua petulanza, sta sempre lì a girare il dito nella piaga. Spengo Teresita.

La minestra che alcuni chiamano pitaggio, altri canazzo, a seconda di paesi e contrade, sobbolle pian piano, com’è giusto. Sarà il profumo delle estati della mia infanzia, ma mi torna in mente Franco. I ricordi affiorano lenti, smuovono la superficie. Era lui il ragazzino con i capelli rossi che mi insegnò a fischiare con due dita in bocca.

Vuoi vedere che mi commuovo sul pitaggio?

Prendo il telefono.

«Papà?».

«Saverio, cosa c’è?».

«Niente, volevo sentirti».

«Tutto a posto, Saverio?».

«Sì, tutto a posto. Che fai?».

«Sono a casa di Mimì, stava parlando di te».

«Me lo saluti».

«Dice che dovresti scrivere un libro sul calcio».

«Ci vuole uno pratico».

«Cosa? Ah, Mimì dice che c’è uno bravo, Maurizio de Giovanni, di calcio ne capisce assai. Fatti consigliare da lui».

«Va bene, ora lo chiamo».

«Bene. Devi dirmi altro, Saverio? Perché tra poco andiamo a cena, la moglie di Mimì ha preparato polpette di sarde».

«Com’è morto Franco?».

«Te l’ho detto. Un incidente».

«Ma com’è stato?».

«Aveva appena terminato un allenamento. Stava tornando a casa, abitava a Mondello. Nel parco della Favorita è uscito di strada, è finito contro un albero. Non aveva la cintura di sicurezza, morto sul colpo. Tutto qui, purtroppo».

«Come mai è uscito di strada?».

«Chi lo sa. Forse andava veloce. C’è altro, Saverio?».

«Hai detto che Franco campava con gli affitti. Guadagnava bene?».

«Negli ultimi tempi non tanto, con la crisi che c’è. Ma sapeva arrangiarsi. Aveva sempre macchine grosse, vestiva elegante. E poi ragazze, ristoranti, viaggi. Non si faceva mancare nulla, insomma. Ci sapeva fare».

«Ci sapeva fare».

«Ma ripeti le mie parole? Vabbè, Saverio, stanno arrivando in tavola le polpette. Ci sentiamo».

Arriva in punta di piedi e mi sveglia.

«Ora che ti inventi?».

«Cosa?» dico intontito.

«Questi schemi. Partite, risultati. Sei malato. Devi andare in una clinica per guarire dal gioco d’azzardo».

«Suleima, che ore sono?».

«Le due meno un quarto. Che c’entra?».

«Mi ero addormentato».

«L’ho visto che dormivi. Spiegami cosa significa tutto questo».

Sul letto c’è il computer ancora acceso sulla pagina «Summer Club Trophy», sulle lenzuola gli appunti dove ho riportato i risultati di tutte le partite del torneo.

«Aspetta, Suleima. Ora ti spiego tutto, dammi il tempo di tornare nel mondo dei vivi».

«Prendi tempo. Ti conosco, ormai. Quando fai così ti prepari a mentire».

«No, ascolta. Mio cugino Franco giocava in un torneo di calciotto».

«L’avevi già raccontato».

«Facevano due tornei. Uno invernale e l’altro estivo. La loro squadra è sempre stata la più forte».

«E con questo?».

«Guarda qui. Ho ricostruito i risultati delle partite dall’inizio dell’estate. Vittorie su vittorie, qualche pareggio, due sconfitte. Due settimane fa giocano contro la penultima in classifica. La partita sta finendo in svantaggio per le Acque minerali, ma a due minuti dalla fine guadagnano un rigore. Mio cugino Franco è il capocannoniere del torneo. Tocca a lui tirare. Sbaglia».

«E chi se ne frega».

«Hai capito? Sbaglia. Nel sito c’è la cronachetta della partita. Leggi: Franco Rizzo smentisce la sua fama di bomber con un tiro imbarazzante. Imbarazzante, hai letto?».

«Saverio, sei malato di calcio. Non ti riconosco più».

«Ha sbagliato apposta. Per perdere».

«Mi sto perdendo io. Parli a ruota libera».

«Franco ci sapeva fare, dicono tutti. Secondo me si era messo d’accordo con qualche compagno di squadra per perdere la partita. Avevano puntato soldi sulla loro sconfitta. L’avranno fatto attraverso un amico, un prestanome. Erano i favoriti, la quotazione sarà stata altissima. Ma qualcuno ha scoperto il trucco, si è incazzato e l’ha fatto fuori».

«L’hanno ammazzato?».

«Ti sembra strano? Siamo in Sicilia».

«E ora che fai?».

«Non lo so, domani vado a Palermo a parlare col mio amico sbirro».

«Vengo con te».

«Non se ne parla».

«Non ti lascio andare da solo. Ti hanno già picchiato una volta».

«È stato il pallone».

«Appunto, è un gioco pericoloso».

I corridoi delle squadre mobili sono uguali in tutta Italia. I soliti poliziotti col marsupio e la camicia jeans fuori dai pantaloni, i soliti testimoni in attesa nei corridoi, le macchinette del caffè mezze sfasciate, gli ascensori sferraglianti. Chi passa guarda le gambe di Suleima.

«Potevi mettere una gonna più lunga» le bisbiglio.

«È la più lunga che ho».

«Tu mi farai morire, lo so».

Si apre la porta, Randone ci fa segno di entrare. Pure lui guarda le gambe di Suleima.

«Che ti sei fatto all’occhio?» mi chiede Randone.

«Il pericolo è il mio mestiere».

«Ah, è vero. Il tuo exploit calcistico».

«Il vicequestore Randone. La mia fidanzata, Suleima» faccio le presentazioni.

«Encantado» dice Randone a Suleima.

«Ti senti Antonio Banderas?» gli dico.

«Sa, signorina, i miei avi venivano dalla Spagna. Mio nonno materno era un Martinez».

«E i miei venivano dalla Normandia, mia bisnonna era Costanza d’Altavilla. Randone, dai, non perdiamo tempo».

«Il nostro amico Saverio è geloso. Ne ha ben donde, d’altronde».

«Sì Randone, ne ho ben donde. È d’uopo però che tosto tu pervenga al nocciol della quistione».

«Sedetevi. Caffè, orzata, latte di mandorla per la signorina?».

«Randone, sei un barista? No, sei uno sbirro. Allora fai lo sbirro. Come sta tua moglie, Giovanna Curtopelle? E i bambini? Saranno in vacanza, e tu tutto solo in città, vecchio marpione».

L’ho rimesso in riga.

«Saverio, ora parliamo off the records, come dicono a Scotland Yard. Da qualche mese abbiamo in piedi un’indagine su alcuni mafiosi, le solite storie. Segui questo e segui quello siamo arrivati ai campetti di calcetto dove hai giocato tu. Il custode è parente di un boss, ogni tanto lì ai campetti si riuniscono un po’ di questi galantuomini. Abbiamo informazioni che il custode sarebbe in contatto con un latitante».

«Matteo Messina Denaro?».

«Saverio, non facciamo nomi. Così ci siamo messi alle sue costole. Facciamo le nostre attività, le cose che puoi immaginare, non è il caso di entrare nei dettagli. E sei spuntato tu».

«E le scommesse clandestine?».

«Ci siamo accorti che il custode gestisce un po’ di scommesse clandestine, ma questo è secondario rispetto alla nostra indagine. Naturalmente, lo fa con il nulla osta di Cosa Nostra perché uno come lui non si muove senza autorizzazione».

«È stato lui ad ammazzare mio cugino?».

Randone spalanca gli occhi.

«Tuo cugino ha avuto un incidente, Saverio».

Gli rifaccio la storia dei tornei, delle partite, delle vittorie, delle sconfitte, del rigore sbagliato.

Randone annuisce.

Annuisce ancora.

«Potrebbe starci. Intanto faccio controllare la macchina di tuo cugino, prima che la rottamino. Signorina, sa che il suo fidanzato a volte sembra quasi intelligente? Aspettate che chiamo l’ispettore Bugea».

Spiega al telefono a Bugea cosa deve fare. Poi chiama un altro, lo convoca nel suo ufficio.

«Aragonese, mi porti le pagelle di Gianni Brera?» dice Randone.

«Gianni Brera? Il grande Gianni Brera? Ma non era morto?» chiedo appena restiamo soli.

«È un modo di dire. Uno dei poliziotti che segue l’indagine è appassionato di calcio. Per questo lo mandiamo a vedere tutte le partite del torneo. Ci va con i figli, con qualche amico, per non dare nell’occhio. Poi, riporta tutto a verbale. Ma siccome è bravo e ne mastica, oltre alle informazioni, scrive pure la cronaca della partita e dà le pagelle ai giocatori. Sono fatte veramente bene. Le chiamo le pagelle di Gianni Brera. Sa, signorina, l’ho inventato io».

Suleima sorride, ma con la coda dell’occhio mi guarda: è pazzo? Gli faccio cenno di lasciar stare, Randone è fatto così.

Torna Aragonese, porta la cartellina col frontespizio Questura di Palermo. In pennarello verde c’è scritto: «Le pagelle di Gianni Brera».

«Vede, signorina? È la mia grafia. Dunque, Saverio, quando si è giocata la partita del rigore sbagliato? Due settimane fa. Vediamo. Ecco: Acque minerali dei monti Sicani contro Mezzomonreale Football. Risultato 3 a 4. Rizzo al 7’, Rizzo al 15’, Gagliardo al 30’ per le Acque minerali. Doppietta di tuo cugino: bravo. Per il Mezzomonreale Football gol di Foti al 4’, Santillo al 18’, Mangano al 32’, Conigliaro al 42’. Vediamo la cronaca del mio Gianni Brera. Cosa scrive? Ecco. Da questa riga in poi, leggi. A voce alta».

Leggo la cronaca sbirresca.

«Clamoroso errore del bomber Rizzo, capocannoniere del torneo con ventidue reti, sette delle quali su rigore, nel tiro decisivo per l’esito di una partita in cui le Acque minerali hanno sempre mostrato disorganizzazione nel gioco e impegno appannato. Prima del tiro dal dischetto, lunga discussione a bordo campo tra Gagliardo e Rizzo, tanto che l’arbitro deve sollecitare più volte la ripresa del gioco. Anche dalla nostra postazione è evidente la concitazione dei due giocatori su chi deve tirare: sul rigore in chiusura di partita pesa la responsabilità dell’intero incontro. Rizzo si avvicina al pallone. Due passi di rincorsa. Non c’è scampo per il portiere. Ma, incredibilmente, il pallone finisce ampiamente fuori dalla rete, rotola malinconico a fondo campo. Dopo due minuti, l’arbitro, signor Castelli, manda tutti negli spogliatoi».

«Scritta bene, vero?» dice Randone, e continua a sorridere a Suleima.

«Scritta bene» annuisce Suleima.

«Mi piace soprattutto il pallone malinconico a fondo campo. Randone, me ne fai una copia?» chiedo.

«Certo. Tanto non è su carta intestata».

«Ma spiega la morte di mio cugino».

In piazza Bonanno il punteruolo rosso ha smangiato le palme.

Mai avrei pensato che potessero morire così. Una misera fine. La linea della palma continua a salire al nord, compreso il punteruolo rosso.

Suleima si attacca al mio braccio.

«Non me l’aspettavo. Sono rimasta ammutolita» mi soffia nell’orecchio.

«Cosa?».

«Quando mi hai presentato a Randone. Hai detto la mia fidanzata».

«Cosa dovevo dire: la mia accompagnatrice temporanea?».

«Cretino».

«Mondello o Monreale?».

«Cattedrale, è più vicina».

Pago i biglietti per girare attorno ai sarcofagi di Federico II, di Enrico VI, e degli altri re normanni, mi fermo davanti al sepolcro di Costanza d’Altavilla. Non è vero che era mia bisnonna, però mi ha sempre fatto simpatia.

«Sei pensieroso» fa Suleima.

«Penso a Franco. Non l’ho mai visto adulto, ricordo solo il ragazzino con i capelli rossi. Dentro la bara me lo immagino sempre bambino».

«Usciamo fuori, è meglio».

Davanti al palazzo arcivescovile due ’gnuri, accanto alle loro carrozzelle e ai cavalli coi cappelli di paglia, litigano a colpi di figlio di pulla e to’ matri buttana.

Suleima è scossa. La violenza linguistica di Palermo è sempre esorbitante.

«Colore locale» minimizzo.

Torniamo all’auto.

«Andiamo a Mondello a prendere un gelato?».

«Gelo di mellone» fa Suleima.

Risalgo nel traffico fiacco, costeggio agli angoli delle strade camion che vendono cantalupo di Licata due euro e 99 a cassetta, pesche di Bivona tre euro e 99 a cassetta, meloni d’acqua di Marsala 49 centesimi al chilo, fichidindia di Santa Margherita Belice quattro euro e 99 a cassetta. Palermo capitale offre ortofrutta da tutto il regno a prezzi modici.

All’ingresso della Favorita tiro dritto, vado avanti e fermo l’auto.

«Che succede?» fa Suleima.

«Devo vedere una persona» indico l’ingresso dei campetti di calcetto.

«Chi?».

«Stai tranquilla».

«Saverio, hai sentito Randone. Questa è gente pericolosa. Andiamo via».

«Un minuto. Entro, lo guardo in faccia e me ne vado».

«Che senso ha?».

«Voglio guardare in faccia quel pezzo di merda. Così quando lo arrestano me lo ricordo bene».

«Saverio, vuoi farti ammazzare anche tu?».

«Non dico una parola, Suleima, te lo giuro. Non sono così stupido. Basta appena un’occhiata».

«Vengo anch’io».

«No, tu no. Aspettami qui».

«Allora chiamo la polizia».

«Va bene, vieni anche tu. E poi andiamo a Mondello».

Entriamo dentro. Il bugigattolo del custode è chiuso. Sarà in giro per i campetti.

«Non c’è nessuno, andiamo via» fa Suleima.

«Dai, arriviamo agli spogliatoi».

Sento rumori. Sarà lì. Mi chiedo se dire qualcosa. No, mi basterà guardarlo negli occhi e fissarmi in mente la faccia di un assassino che mangia semenza.

Mi affaccio alla porta. C’è qualcuno. Riconosco di spalle l’uomo con la maglietta Acque minerali dei monti Sicani davanti a un armadietto aperto.

«Gagliardo» chiamo.

«Lamanna, che ci fai qui?».

«Ero di passaggio».

Gagliardo guarda Suleima, si sofferma sulle gambe.

«Complimenti. Ti è venuto fuori un bell’occhio nero» dice.

«Già, cosa fai?».

«Tolgo la mia roba. Dopo la finale appendo le scarpette al chiodo. Senza Franco non è più la stessa cosa».

«Già, non è più la stessa cosa».

«Franco almeno se ne è andato in bellezza. Con una bella doppietta di gol. Resterà per sempre il nostro goleador».

«Peccato per quel rigore».

«Quale rigore?».

Non riesco a trattenermi.

«Gagliardo, perché avete litigato?».

«Non capisco. Di cosa parli?».

«L’ultima partita, quella contro il Mezzomonreale. Hai litigato con Franco prima del rigore».

«Non ricordo».

«Ricordi benissimo. Se n’è accorto perfino il pubblico. L’arbitro vi ha dovuto richiamare in campo. Hai voluto farlo tirare a Franco, vero? Così la colpa della sconfitta è ricaduta tutta su di lui».

Si sgonfia dentro la maglietta. È uno strano fenomeno, sembra restringersi di botto. Si lascia andare sulla panchina, si passa una mano nei capelli.

«Tanto eravamo già qualificati per la finale. Non era una partita importante. Capita a tutti di sbagliare, anche Roberto Baggio ha sbagliato ai Mondiali del ’94. Non è stata una cosa grave».

«Lascia stare Baggio: ha perso solo i Mondiali, Franco per quel rigore ci ha perso la vita».

Suleima mi tira da un braccio.

«Ti prego, andiamo via».

«No, Suleima. Fammi parlare. Franco era il capocannoniere. Perché non l’hai tirato tu il rigore? Tanto dovevi solo sbagliare, non ci voleva molto, non serviva un campione per sbagliare».

Gagliardo si affloscia ancora di più.

«Voleva tirarlo lui».

«Non ci credo. Secondo me Franco voleva farlo tirare a te, tutti sapevano che non sbagliava mai. E tu hai rifiutato. Perché?».

Ormai è piegato su se stesso.

«Paura».

«Paura. Bella scusa. Quanto avete guadagnato sulla vostra sconfitta?».

«Ventimila euro. Era stata un’idea di Franco».

«Franco ci sapeva fare. È così, no? L’hai sputtanato davanti a tutti. Franco non aveva mai sbagliato un rigore. E l’hai mandato al macello».

«Franco era mio amico. Ci penso ogni momento».

«Dovevi pensarci prima».

«I soldi di Franco li porterò a sua madre. Puoi stare sicuro».

«Sua madre te li ficca nel culo. Puoi stare sicuro. Andiamo via, Suleima, se no vomito».

Mentre usciamo dagli spogliatoi, sento ancora la voce di Gagliardo.

«Franco era mio amico. Tu non sapevi niente di lui, era mio amico».

Ora torno dentro e gli gonfio la faccia.

«Lascialo stare, Saverio. Non ne vale la pena» mi trattiene Suleima.

«Era solo un ragazzino. Un bambino con i capelli rossi».

E mi viene quasi da piangere.

Ma Nino non aver paura a sbagliare un calcio di rigore

non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore

un giocatore lo vedi dal coraggio

dall’altruismo e dalla fantasia.

«Se vuoi spengo».

«No, Suleima. È bella».

E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai

di giocatori tristi che non hanno vinto mai

ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro

e adesso ridono dentro a un bar.

La radio su Rtl, guido piano nel pomeriggio che muore assai dolcemente. Fin troppo. Seguo la strada, seguo i pensieri.

Suleima rispetta il silenzio. Anche per questo mi piace, sa sempre cosa fare, quando farlo.

Canticchio dietro Francesco De Gregori.

Nino capì fin dal primo momento

l’allenatore sembrava contento

e allora mise il cuore dentro alle scarpe

e corse più veloce del vento.

Risalgo per Custonaci. Dopo il curvone me lo ritrovo davanti. È il motorino giallo, fila verso Màkari. Accelero, sorpasso. Un colpo di clacson. Bartolo mi vede, si sbraccia a salutare. Dietro c’è la piccoletta con gli occhi belli, i capelli da sotto il casco le volano via nel vento.

«Chi sono?».

«Due che conosco».

Tanto vale cantare. Cantare e stonare in questo tramonto un po’ così.

Ma Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore

non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore

un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia.

Il ragazzo si farà, anche se ha le spalle strette,

questo altro anno giocherà con la maglia numero sette.