XIV
LA BRIGATA GARIBALDI TRA DUE FUOCHI
Il 19 agosto 1937 gli antifascisti italiani in esilio a Parigi si riunirono nella sede dei sindacati francesi per commemorare i compagni caduti in Spagna. Erano presenti i rappresentanti dei vari partiti democratici e anche esponenti delle Brigate internazionali in licenza in Francia, fra questi il repubblicano Randolfo Pacciardi, il socialista Pietro Nenni, il comunista Giuseppe Di Vittorio e molti altri. La cerimonia si stava svolgendo in un’atmosfera commossa e unitaria, quando l’anarchico Umberto Tomasini, di Trieste, si fece avanti per chiedere che si rendesse omaggio anche alla memoria di Camillo Berneri, ucciso dai comunisti a Barcellona. A questo punto, l’incanto unitario si ruppe e Di Vittorio, applaudito dai suoi compagni, si oppose violentemente a simile eventualità. «Sarebbe vergognoso» annunciò con tono sdegnato «mandare un saluto a chi pugnalava alla schiena i nostri miliziani!» Naturalmente, finì a botte.
Il giorno dopo, la polemica proseguì sulla stampa antifascista. Il socialista «Nuovo Avanti» prese le difese della memoria di Camillo Berneri, vittima del settarismo stalinista, ma venne subito rimbeccato dal foglio comunista «Grido del Popolo», che giustificò l’uccisione dell’anarchico perché era stato «giustiziato dalla rivoluzione democratica alla quale nessun antifascista può negare il diritto di legittima difesa». Questa era dunque l’atmosfera che regnava negli ambienti antifascisti francesi, figurarsi in Spagna dove la rivoluzione continuava a mangiare i propri figli.
Repressa nel sangue la rivolta anarchica di Barcellona, grazie all’intervento di reparti di Asaltos fatti affluire da Valencia, il PCE, guidato nell’ombra da Togliatti, si era rapidamente impadronito dei gangli vitali dell’esercito e del governo. Il leader italiano abitava a Madrid nell’albergo Gaylord, quartier generale dei consiglieri sovietici, e conduceva un’esistenza da cospiratore. Raramente si presentava in pubblico, perché gli spagnoli dovevano ignorare che il loro governo era diretto da un comunista straniero. E infatti ancor oggi alcuni storici negano che Togliatti esercitasse in Spagna una così grande autorità. In realtà, era effettivamente il plenipotenziario del Comintern e la longa manus di Stalin. Era stato lui a indurre i dirigenti comunisti spagnoli ad appoggiare il governo di Largo Caballero ed era stato lui a provocarne la caduta quando, nella primavera del 1937, il «Lenin spagnolo» si era opposto alla matanza degli anarchici di Barcellona e alla soppressione del POUM. «Come lavoratore» aveva esclamato Caballero, «non approverò mai la soppressione di altri lavoratori, anche se non piacciono al partito che detiene le chiavi degli aiuti sovietici.» Con questa dichiarazione, il leader socialista aveva firmato la sua condanna.
La scelta del successore di Caballero venne decisa nel corso di una riunione segreta dei capi comunisti spagnoli Jesús Hernández e José Pepe Díaz e dei consiglieri sovietici Gaikins e Aleksandr Orlov, ai quali Togliatti aveva esposto la piattaforma politica da lui elaborata per il nuovo governo. A differenza di Largo Caballero, che si illudeva di creare in Spagna una repubblica bolscevica, Togliatti consigliava che il suo successore dovesse essere meno intransigente e disposto ad attuare un programma studiato appositamente per non allarmare i partiti borghesi. Lo stesso programma, noterà Giorgio Bocca autore di un’attenta biografia di Togliatti, che i comunisti proporranno agli italiani nei giorni della guerra partigiana. Ossia: rispetto dei diritti civili, della proprietà, dell’iniziativa privata, riforma agraria, politica di pace e così via. Qualsiasi tentativo rivoluzionario per uscire dal quadro della democrazia era giudicato prematuro e funesto da Togliatti, che aveva designato il socialista Juan Negrín per la carica di primo ministro.
Come ministro delle Finanze Negrín si era rivelato un amministratore abilissimo, tuttavia non godeva di grande notorietà neppure all’interno del suo partito. Laureato in medicina e dotato di notevoli qualità intellettuali, pur essendo stato eletto deputato non si era occupato attivamente di politica fino all’esplodere dell’insurrezione, quando gli era parso doveroso prendere posizione. Ma non era certamente un rivoluzionario, era invece un bon vivant dall’appetito pantagruelico, con una sfrenata passione per le belle donne.
Quando gli avevano offerto il mandato aveva risposto: «Potrei anche accettare, ma temo di non essere molto popolare...».
«Nessun timore» l’aveva rassicurato Hernández. «La popolarità si può creare.»
«Come sapete,» aveva soggiunto con sincerità «non sono neanche comunista...»
«Tanto meglio,» aveva osservato Togliatti «così le accuse dei fascisti saranno smentite.»
«Sia chiaro» aveva concluso Negrín «che se debbo essere primo ministro, intendo esserlo al cento per cento.»
Negrín seppe dare il meglio di sé alla causa della Repubblica e restituire al ruolo di primo ministro l’antico prestigio. Riuscì a muoversi con freddo realismo fra le dispute dei partiti e le necessità della guerra pretendendo da tutti, compresi i consiglieri russi, un rispetto che Caballero non si era mai sognato di ottenere. Giunse al punto di minacciare la rottura delle relazioni diplomatiche con l’Urss quando i sovietici calcarono la mano. Nessuno poteva entrare nel suo studio senza avere fissato un appuntamento e i visitatori dovevano rivolgersi a lui chiamandolo «signor primo ministro» e non con l’appellativo di «compagno» come si usava con Caballero. Nel suo governo entrarono i rappresentanti di tutti i partiti tranne gli anarchici.
Sia pure in misura minore, anche nella Spagna nazionalista era accaduto qualcosa di analogo. L’irrequieta Falange, che destava preoccupazioni per il suo estremismo sociale di marca fascista, era stata opportunamente ridimensionata. I suoi esponenti nella maggior parte erano morti nei primi giorni dell’insurrezione, il suo fondatore, José Antonio Primo de Rivera, era stato fucilato dai repubblicani e la guida del movimento era stata assunta da Manuel Hedilla, un meccanico di Santander. Nella primavera del 1937, Franco decise di eliminare questo eventuale focolaio di opposizione al regime autoritario che intendeva instaurare. Hedilla e gli altri capi della Falange furono arrestati e sbrigativamente condannati a morte «per attentato alla sicurezza dello Stato», ma poi furono graziati e venne loro concesso l’onore di andare a morire al fronte per la causa franchista. I gregari furono invece costretti a confluire in un nuovo partito che conservava il nome di Falange, ma che assorbiva anche il movimento carlista e aveva ripudiato le sue origini fasciste per dotarsi di un programma reazionario, clericale e conservatore.
Questi movimenti di assestamento, che si registrarono sia da una parte che dall’altra, erano evidentemente suggeriti dalla necessità di compattare sotto un unico comando anche le rispettive forze più o meno irregolari onde affrontare una guerra che si prospettava lunga e più difficile del previsto. Nel campo repubblicano, gli effetti di questi sommovimenti, oltre che nell’Esercito popolare, ormai disciplinatamente inquadrato sotto la guida comunista, si fecero soprattutto sentire nei ranghi irrequieti delle Brigate internazionali che vennero gradualmente epurate degli elementi di disturbo con purghe indiscriminate e radicali. Ma in questo libro ci occuperemo soltanto degli italiani che vi militavano.
Dopo la disastrosa battaglia di Brunete, la XII brigata, che aveva perduto molti uomini in combattimento, aveva osservato un lungo periodo di riorganizzazione e assunto il nome Garibaldi. Il comandante Randolfo Pacciardi si era recato a Parigi per curarsi la gamba ferita, ma anche per promuovere, insieme a Pietro Nenni, l’arruolamento di altri italiani onde colmare i vuoti che la brigata presentava. I due uomini rientrarono verso la fine di agosto 1937 e trovarono molte cose cambiate. Di sua iniziativa, Luigi Longo aveva affidato il comando della brigata a Carlo Penchienati, un valoroso combattente considerato filocomunista, e aveva colmato i vuoti arruolando numerosi complementi stranieri cosicché la Garibaldi di italiano aveva ormai poco più del nome. Secondo un rapporto di Togliatti, gli italiani non superavano il 9 per cento.
Posti di fronte al fatto compiuto, Pacciardi e Nenni protestarono vivacemente. Non avevano infatti tardato a capire che era in corso una manovra politica per liberarsi del repubblicano Pacciardi e per disperdere gli altri italiani non comunisti in formazioni diverse. Corsero perciò parole grosse, soprattutto con Longo, Barontini, Platone e gli altri commissari comunisti. Longo, per placare Pacciardi, gli offrì in cambio i gradi di generale e il comando di una divisione, ma questi rifiutò sdegnato: lui era venuto in Spagna per comandare una formazione italiana, non per fare carriera militare! Imitato da Nenni, chiese pertanto di essere congedato.
Venuti a conoscenza dell’incidente, molti altri volontari repubblicani, anarchici e socialisti chiesero il congedo, ma il problema fu risolto dal Comando generale in maniera piuttosto drastica. La Garibaldi venne mobilitata dall’oggi al domani e inviata sul fronte aragonese dove, per un grave errore compiuto dal comandante di un reparto (il comunista Nino Raimondi, alias Agostino Casati), due battaglioni finirono sotto il fuoco incrociato dei nazionalisti e furono decimati senza neppure avere il tempo di reagire. Il disastroso risultato provocò un profondo scoramento fra i miliziani che avevano visto morire inutilmente tanti compagni e chiesero giustizia. Penchienati si dimise per protesta e il generale Kléber, comandante delle Brigate internazionali, ordinò al commissario politico della Garibaldi, Ilio Barontini, di far fucilare lo sprovveduto comandante responsabile dell’inutile massacro. Invece (ah, gli intrighi della politica!) andò a finire che Kléber fu sostituito dal comunista tedesco Hans Kahle e il «colpevole» Raimondi-Casati fu addirittura nominato comandante della Garibaldi al posto di Penchienati.
In seguito, la Garibaldi fu più volte distrutta e più volte ricostituita. Centinaia di anonimi volontari italiani perdettero la vita, ma non sempre sotto il fuoco nemico. La maggior parte dei superstiti non comunisti chiese nuovamente di essere congedata, ma solo i pochi che riuscirono a farsi restituire i passaporti consegnati al momento dell’arruolamento poterono rientrare in Francia. Fu così anche per Nenni e Randolfo Pacciardi il quale, prima da Parigi e poi da Roma (dopo la Liberazione), continuerà la sua feroce polemica contro i comunisti. Carlo Penchienati fece di più. Rientrato in Italia dopo complesse peripezie, il 17 aprile 1956 presentò addirittura un esposto alla Procura della Repubblica di Roma che merita la pubblicazione integrale.
Al sig. Procuratore della Repubblica.
Per le disposizioni di legge in vigore i miliziani italiani che combatterono nelle Brigate internazionali in Spagna sono riconosciuti come combattenti regolari con tutti i diritti riconosciuti. Ciò premesso, diviene quindi evidente che essendo considerati combattenti regolari, tutti gli atti criminosi contro di loro commessi nel corso di quella campagna necessitano la ricerca dei responsabili perché rendano conto dei loro atti e alle vittime sia resa giustizia.
Alla fine della guerra civile spagnola, la Magistratura francese, a seguito di denunce di parenti, dibattiti parlamentari e campagne di stampa, ha dato corso a istruttorie onde mettere in luce le responsabilità per i delitti perpetrati contro i miliziani francesi arruolati nelle Brigate internazionali.
In Italia molte famiglie delle vittime, o ignorando la fine dei loro congiunti o perché intimorite da eventuali rappresaglie, nulla hanno fatto in questo senso, ma poiché, se non erro, quando i crimini di particolare gravità sono resi di dominio pubblico e non sono ancora caduti in prescrizione si procede d’autorità, nella qualità di ex comandante militare di unità in Spagna, ritengo mio dovere rendere noti i seguenti fatti.
1) Nell’ottobre 1937 io ero comandante della brigata Garibaldi dalla quale partii per recarmi in licenza di convalescenza a Parigi, lasciandone il comando interinale al maggiore Nino Raimondi, italiano proveniente dalla Russia. Durante la mia assenza, e precisamente il 9 ottobre 1937, verso le ore 23, fu arrestato nei pressi di Caspe, dove la brigata trovavasi a riposo, il tenente Guadagnino del PSI, imolese residente a Genova, giunto in Spagna nel mese di maggio, al quale era stato affidato il comando della 2a compagnia del III battaglione. Portato davanti al maggiore Raimondi, ai commissari politici Richard Ruegger e Luigi Eugenio Grassi e all’agente della «CEKA» Oghen, gli fu mossa l’accusa di essere un agente dell’OVRA e questo solo perché nei suoi discorsi non lesinava critiche al partito comunista e ai suoi metodi. Contrariamente alle leggi vigenti, Guadagnino fu invitato a fare «quattro passi» fuori dell’abitato dal commissario Grassi e dall’agente Oghen. A un certo punto, Grassi gli tirò una revolverata alla nuca, ma avendo l’arma fatto cilecca, lo scatto a vuoto allarmò Guadagnino che, voltandosi, esclamò: «Anche di questo siete capaci!». Subito dopo fu ucciso. Due suoi compagni di partito, che accortisi dell’arresto avevano seguito il gruppo a distanza, assistettero nascosti alla scena e, al mio ritorno, me ne descrissero i dettagli. Essi erano i tenenti Mario Alcaino e Gino Carceri del PSI. Questo assassinio destò enorme impressione nei socialisti che ne informarono Pietro Nenni. Alcuni di essi sono attualmente in Italia e possono testimoniare. Quando volli fare un’inchiesta e interrogai gli esecutori materiali, Grassi e Oghen mi dissero che l’ordine di esecuzione era partito dal commissariato delle Brigate internazionali che faceva capo a Luigi Longo, André Marty, Edoardo D’Onofrio ecc. Il maggiore Raimondi, il commissario Grassi e l’agente Oghen risiedono ora in Italia.
2) Durante il mese di maggio 1938, quando già avevo lasciato la Garibaldi per assumere il comando di altra unità e comandante della brigata era il maggiore Martino Martini, con a fianco il commissario Emilio Suardi, fra tante esecuzioni diurne e notturne di ufficiali e miliziani fu giustiziato senza alcuna forma di processo il miliziano Mario Rossi, di 54 anni, un anarchico che da quasi due anni combatteva nella Garibaldi ed era stato due volte ferito. Fu decretata la sua morte con la solita scusa di essere una spia dell’OVRA. L’esecuzione fu diretta dal commissario Biagio Bonzano.
3) Nel mese di luglio 1938, nella zona dell’Ebro, furono uccisi di notte, senza processo, cinque miliziani, due italiani e tre spagnoli. Gli italiani erano Mario Capponi e Mario Tamburini. L’esecuzione fu personalmente diretta dal comunista Ossola, diventato capo della «CEKA». Ossola risiede in Italia.
4) Nel mese di agosto 1938, a Media del Mar, per ordine del commissariato furono arrestati cinque miliziani fra i quali uno italiano, il tenente Gino Carreri. I detenuti furono messi in un pozzo disseccato non essendovi la prigione. Dopo quattro giorni furono fatti uscire e uccisi con un colpo alla nuca. Il tenente Carreri, insieme al tenente Mario Alcaino, era stato testimone dell’esecuzione del tenente Guadagnino avvenuta l’anno prima. A giustiziarlo fu l’agente Ossola.
5) A pochi giorni di distanza, nella stessa località, il tenente Mario Alcaino che, alla notizia dell’arresto dell’amico Carreri, aveva cercato di salvarlo inviando un rapporto allo Stato Maggiore spagnolo, fu denunciato come spia e in seguito eliminato con un colpo alla nuca. Anche di questa esecuzione di un altro iscritto al suo partito fu informato Pietro Nenni. I testimoni trovansi oggi in Italia.
Per questi crimini e altre decine di nefandezze presentai denuncia allo S.M. spagnolo e mi furono anche messe a disposizione forze di polizia con le quali liberai, usando necessariamente metodi energici, alcuni miliziani spagnoli detenuti. Purtroppo, data la situazione politica di allora, non mi è stato possibile ottenere che la giustizia procedesse contro i responsabili dell’uccisione dei miei connazionali.
Carlo Penchienati,
ex comandante la brigata Garibaldi in Spagna