XII
BOMBE SU GUERNICA
26 aprile 1937. Si parte in allarme per un’azione sul fronte Nord. Obiettivo: bombardamento di un ponte stradale sul fiume Oca, presso Guernica (Bilbao).
Composizione degli equipaggi dei tre SM-79:
App. n. 1: Cap. Castellani, Ten. Gallina, 1° av.sc. Rubertini, av.sc Cavallotti, av.sc. Piazza, av.sc. Pecoraro.
App. n. 2: Ten. Porro, S. Ten. Cisterni, mar.llo Nicola, av.sc. Lo Monaco, av.sc. Lo Re, av.sc. Accorsi, av.sc. Scottau.
App. n. 3: Ten. Pracano, Ten. Cimmi, mar.llo Todini, serg. Benigni, av.sc. Casoni, av.sc. Crono.
Condizioni atmosferiche: fortissimo vento da nord. Cielo coperto per tutto il percorso.
Munizionamento: 36 bombe da 50 kg.
Partiamo contro la montagna alle 15.30, in pattuglia a cuneo dirigendo subito a NE alla quota di 2200 metri. Uno squarcio ci permette di vedere l’Ebro a Est di Logroño. Alle 16.05 da 3600 metri intravediamo la strada che porta a Vitoria. Nubi compatte fino al mare che è sgombro. Sorvoliamo la costa da 4400 metri a est di San Sebastiano alle 16.18. Dopo 8’ viriamo di 90° verso W puntando verso la foce del Rio. La visibilità è ottima, il vento soffia forte da nord. Poco prima di effettuare lo sgancio, appare sotto di noi una pesante formazione di aerei sconosciuti con rotta contraria alla nostra: un triplo cuneo strettissimo disposto in colonna: ventisette apparecchi. Sganciamo le bombe alle 16.30 da 3600 metri. Il tiro è lungo e colpisce fra l’altro la stazione ferroviaria. Giunti sulla verticale di Guernica, una nube di fumo e di polvere ricopre l’intero abitato impedendoci l’osservazione. Rientriamo alla base. Atterriamo regolarmente alle 17.30.
Questo è il testo integrale del diario di bordo di una pattuglia di trimotori SM-79 dell’Aviazione legionaria che, per una singolarissima coincidenza incrociò, senza identificarla, la formazione tedesca della Legione Condor che pochi istanti prima aveva raso al suolo la cittadina di Guernica. Lo ha redatto il «tenente Gallina» (il cui vero nome era Tullio de Prato) che fungeva da «secondo» nella formazione italiana comandata dal capitano Gori Castellani. È quindi facile immaginare il motivo che indusse i comandi italiani a mantenere un geloso segreto su questo documento che solo recentemente siamo riusciti a ricuperare. Se questa testimonianza fosse emersa all’epoca dei fatti, nessuno avrebbe creduto alla singolare coincidenza e anche l’aeronautica italiana sarebbe stata accusata di avere partecipato al primo «bombardamento a tappeto» della storia. Un episodio, questo, che fece allora inorridire l’intero mondo civile, non ancora abituato alle incursioni aeree, e che fu anche denunciato dalla Società delle Nazioni come «il più selvaggio che la storia ricordi». Anche se, come vedremo, fu eccessivamente ingigantito e avvolto da un tale polverone propagandistico nel quale è ancora oggi difficile distinguere il vero dal falso.
In realtà, il bombardamento di Guernica non fu, o non fu soltanto, un gratuito bombardamento terroristico. Esso va invece inquadrato nel piano di operazioni messo a punto dal generale Mola e dallo stato maggiore del CTV per liquidare il Fronte nord, ossia i Paesi Baschi i quali, pur essendo isolati dal territorio repubblicano, tenevano impegnate gran parte delle truppe dell’esercito franchista. Liquidando la Repubblica basca sarebbe stato infatti possibile concentrarle tutte contro il fronte principale di Madrid.
Della particolare situazione delle regioni basche nel confuso contesto spagnolo si è già accennato. Erano le regioni più ricche del paese che si affacciavano sull’oceano Atlantico. Godevano di una forte industrializzazione, con altiforni, miniere, fabbriche e cantieri; disponevano di porti ben attrezzati e di prospere città, nonché di un potente sistema bancario diffuso in tutto il territorio spagnolo. Ottenuta l’autonomia regionale nel 1936, i baschi avevano approfittato della dissoluzione dello Stato repubblicano per trasformarla in una vera e propria indipendenza nazionale. Animati da un forsennato spirito nazionalista, essi erano rimasti soltanto virtualmente fedeli al governo di Madrid. In effetti avevano costituito uno Stato indipendente chiamato «Euzkadi», dopo avere votato il relativo statuto e formato un esercito Euzkadi con un proprio comando autonomo. Avevano anche smesso di pagare le tasse e le imposte (non a caso definite arbitrios) al governo centrale.
Politicamente, la Repubblica basca si distingueva da quella spagnola. Le proprietà private e della Chiesa erano state rispettate, tanto è vero che, come già dicevamo, molti religiosi si erano rifugiati a Bilbao per sfuggire alle persecuzioni che imperversavano nelle regioni controllate dai repubblicani. Il governo Euzkadi era formato da accesi clericali e da altrettanto accesi conservatori guidati da un ricco fabbricante di dolciumi, un cattolico di nome José Antonio de Aguirre. I movimenti di sinistra baschi – socialisti, comunisti, anarchici eccetera – sebbene tenuti ostentatamente fuori del governo, si erano giocoforza adeguati alla situazione.
Isolati dal resto della Spagna repubblicana e ben decisi a conservare la propria indipendenza, i baschi avevano profuso somme enormi per erigere un imponente sistema difensivo con l’impiego di quantità incalcolabili di ferro e di cemento. Quindicimila operai erano stati impegnati solo per costruire il Cinturón de Hierro. I mezzi, d’altronde, non mancavano, il paese era ricco e i rifornimenti erano assicurati dal mare. Strano a dirsi, erano proprio gli accordi per il «non intervento» assunti dalle grandi potenze europee a favorirne l’afflusso. Grazie alla benevolenza della marina britannica, cui era affidato il controllo delle prospicienti acque internazionali, le navi contrabbandiere violavano tranquillamente il blocco dando vita a un traffico commerciale molto redditizio.
Questa era dunque la situazione quando, dopo l’episodio di Guadalajara e il rinnovato fallimento del tentativo di prendere Madrid, Franco aveva saggiamente deciso di rinunciare alla conquista della capitale. Si era reso conto che, con le forze di cui disponevano i repubblicani (grazie all’aiuto sovietico godevano della superiorità aerea e di mezzi corazzati), era impossibile per il momento impadronirsi di Madrid. Meglio dunque pianificare la nuova operazione suggerita da Mola, cui spettava la competenza del Fronte nord, che avrebbe consentito di conquistare i ricchi Paesi Baschi eliminando nel contempo una pericolosa «isola» repubblicana.
Frattanto, lo smacco italiano di Guadalajara era stato ingigantito dalla stampa estera. I corrispondenti stranieri dalla Spagna facevano a gara nell’irridere il comportamento dei nostri soldati e rari erano quelli che fornivano ai lettori analisi corrette sugli avvenimenti. Uno dei pochi fu Ernest Hemingway il quale, forse perché aveva servito nel nostro esercito durante la Prima guerra mondiale, nutriva rispetto per i soldati italiani. Riferendosi a quanto era accaduto a Guadalajara scriveva: «Non sono dei codardi, solo che gli italiani che difendevano la linea del Piave e il monte Grappa contro l’invasione austriaca erano una cosa, mentre gli italiani che sono stati mandati a combattere in Spagna quando pensavano di essere destinati al servizio di guarnigione in Etiopia, sono un’altra».
Più o meno dello stesso parere era un giornalista italiano anonimo che così scriveva amareggiato in una lettera privata intercettata dalla censura: «Nessuno dei nostri sente spiritualmente questa guerra e nemmeno comprende l’importanza di essa. Il terreno che si perde, dicono, è spagnolo e l’Italia non ci rimette nulla. Hanno l’impressione di essere dei venduti, della carne da cannone e basta. Non odiano il nemico!».
Anche a Roma, nelle alte sfere del regime, lo scoramento era generale. L’avventura spagnola, affrontata con irresponsabile baldanza, rischiava di risolversi in un fiasco clamoroso. Ecco, per esempio, un brano di una conversazione telefonica intercettata in quei giorni fra il generale Attilio Terruzzi in procinto di partire per la Spagna e il console generale Mario Mazzoni che ne era appena tornato.
Terruzzi: «Notizie buone?».
Mazzoni: «Macché: tutto da rifare».
Terruzzi: «Già... lo prevedevo».
Mazzoni: «Una cosa da non dirsi: una disorganizzazione perfettamente organizzata».
Terruzzi: «E i comandanti?».
Mazzoni: «Loro se ne fregano perché sono al sicuro, per lo meno dieci chilometri dietro le linee e qualcuno ancora più lontano a... divertirsi».
Terruzzi: «La colpa è tutta del signor Achille [Starace] che ha avuto la geniale idea di obbligare gli iscritti al Partito a essere passati d’ufficio alla Milizia».
Mazzoni: «La gran massa è stata mandata laggiù per forza e quelli che sono andati volontariamente – salvo le eccezioni – sono degli avventurieri. Non ti dico cosa hanno combinato con le donne... I tedeschi invece sono irreprensibili. Divise impeccabili, armi modernissime: pare anche che ne stiano provando di nuove».
Terruzzi: «Ciò che mi dici è molto grave».
Mazzoni: «Ma è la verità. A Guadalajara si sono verificate molte defezioni perché i rossi hanno avuto l’astuzia di portare a distanza ravvicinata i miliziani che parlavano italiano i quali hanno finito per fraternizzare con i nostri e li hanno convinti tanto bene che sono passati dall’altra parte. In questo hanno avuto buon gioco perché si trattava di gente che non aveva nessuna voglia di farsi ammazzare per un ideale che non sentiva».
Persino Mussolini dovette ammettere davanti al Gran Consiglio del fascismo che una causa importante della sconfitta era stata l’assenza di motivazioni. «Una guerra di dottrina» ammise, «è sempre difficile quando nei soldati non c’è la consapevolezza di star difendendo le proprie case». Mentre i miliziani «rossi», che hanno una motivazione, «combattono con maestria e soprattutto con fanatismo e odio».
Mussolini era comunque consapevole che non poteva più tirarsi indietro senza correre il rischio di perdere la faccia. Guadalajara aveva legato indissolubilmente l’Italia al carro spagnolo e quindi non prestò neppure ascolto a chi gli suggeriva di richiamare le truppe: «Non possiamo cambiare politica perché non siamo delle puttane!» esclamò con uno scatto di collera, e giurò che nessuno dei comandanti italiani in Spagna sarebbe tornato vivo in patria se prima non avessero riportato una vittoria tale da cancellare il ricordo di Guadalajara. Ma in seguito Mussolini assunse un atteggiamento bellicoso verso la Francia e l’Inghilterra che continuavano a favorire, più o meno apertamente, i repubblicani spagnoli. Un suo articolo apparso anonimo sul «Popolo d’Italia» sosteneva addirittura che Guadalajara non era stata una sconfitta, bensì una vittoria italiana, e si chiudeva con questo ammonimento: «I morti di Guadalajara saranno vendicati». Anche in un discorso pronunciato pochi giorni dopo a Palermo aveva proclamato la propria volontà di evitare la sconfitta di Franco con parole minacciose: «Sia detto nella maniera più categorica, noi non tollereremo mai che nel Mediterraneo trionfi il bolscevismo o qualcosa di simile».
Sbollita la collera, Mussolini modificò i propri intendimenti circa la sorte dei comandanti italiani in Spagna. Lasciarli al loro posto sarebbe stato un grave errore poiché alcuni di essi avevano rivelato pesanti deficienze, ma sostituirli in blocco sarebbe stato come ammettere pubblicamente la sconfitta. Preferì scegliere di conseguenza una linea più morbida: richiamò in patria i generali Rossi, Nuvoloni e Coppi, ma confermò al comando della Littorio il valoroso «Barba elettrica», l’unico comandante che non aveva perduto la testa durante la battaglia. Mussolini avrebbe voluto silurare anche Roatta, ma poi si limitò a lasciarlo temporaneamente in Spagna con un comando in sottordine. Il comando del CTV fu invece affidato al generale Ettore Bastico, mentre il generale Mario Berti fu nominato vicecomandante. Come capo di stato maggiore venne scelto il colonnello Gastone Gambara che sostituì Emilio Faldella. La riorganizzazione delle truppe fu affidata al generale Attilio Terruzzi, il quale, appena giunto, ripulì drasticamente i reparti della «feccia» e ordinò l’immediato rimpatrio di oltre quattromila elementi che non rispondevano alle caratteristiche morali o fisiche necessarie. In poche settimane l’opera di riorganizzazione fu condotta a termine e il CTV, trasformato in un efficiente corpo d’assalto, era pronto per partecipare a un nuovo ciclo di operazioni.
A questo punto, però, si verificarono i soliti incidenti «diplomatici» fra italiani e spagnoli. Il generale Mola desiderava vivamente impiegare gli italiani nelle operazioni contro Bilbao, ma rifiutava di affidare loro un ruolo determinante. Bastico, da parte sua, non era affatto disposto a consentire che le sue forze fossero impiegate in attacchi secondari. E pretendeva che al CTV fosse affidato lo sfondamento del fronte. Su questa divergenza si giunse a un punto morto. E poiché la riorganizzazione del CTV non era ancora del tutto conclusa, Bastico dispose che il grosso delle truppe italiane rimanesse nei suoi acquartieramenti e che solo un contingente di fanteria partecipasse all’operazione combinata con gli spagnoli. Questo contingente, che prese il nome di Agrupación legionaria, era composto dalla brigata mista Frecce Nere, da sei battaglioni della divisione XXIII Marzo e da alcuni gruppi di banderas. A comandarlo era stato chiamato il generale Roatta.
L’offensiva sul Fronte nord in direzione di Bilbao ebbe inizio il 31 marzo 1937 con l’impiego di un gruppo di brigate navarresi e del raggruppamento legionario che godevano della protezione dell’aeronautica italiana e tedesca. I Requetés e gli italiani cominciarono le operazioni avanzando lentamente sotto la pioggia benché fieramente contrastati dalla resistenza basca, particolarmente favorita dalla conformazione montagnosa del terreno. L’avanzata proseguì con snervante lentezza fino al 26 aprile. Quel giorno, la brigata legionaria attaccò le difese del monte Colamendi che sbarrava la strada per Guernica, lontana pochi chilometri dalla prima linea.
Fu nel pomeriggio di quel lunedì 26 aprile che ebbe luogo il famoso bombardamento della cittadina basca sulle cui conseguenze si sono sbizzarrite le fantasie dei giornalisti dell’una e dell’altra parte. Secondo la vulgata antifascista, decine e decine di aerei tedeschi si sarebbero avventati su Guernica, molto affollata per il tradizionale mercato del lunedì e, per circa tre ore, l’avrebbero bombardata radendola al suolo e causando 1654 morti e 889 feriti su una popolazione di 7000 anime. Secondo la vulgata franchista si escludeva invece del tutto l’intervento aereo e si sosteneva che a incendiare la città non erano stati i tedeschi, bensì i dinamiteros rojos-separatistas (i dinamitardi rossi-separatisti) con l’intento machiavellico di scaricare la colpa sul nemico e beneficiarne in termini di immagine.
Subito dopo la conquista della città, avvenuta pochi giorni dopo a opera della Frecce Nere, varie commissioni, più o meno neutrali, furono invitate dal governo di Burgos a visitare la città distrutta dai presunti dinamiteros. La tesi franchista si basava soprattutto su una «prova» piuttosto sconcertante. I muri delle case distrutte presentavano le tracce dell’incendio, ma non gli squarci che avrebbero dovuto produrre le schegge delle bombe. E allora?
Fronte nord (aprile-ottobre 1937)
Su questo interrogativo si discusse molto e le contestazioni continuarono anche dopo la fine della guerra. Solo più tardi si scoprirà che a distruggere Guernica erano stati effettivamente gli aerei tedeschi i quali avevano usato per la prima volta non le solite bombe dirompenti, ma delle bombe incendiarie al fosforo di cui si farà largo uso durante la Seconda guerra mondiale. Ecco perché non vi erano tracce di schegge. A fugare ogni dubbio provvederà comunque in seguito lo stesso Hermann Göring, comandante della Luftwaffe il quale, al processo di Norimberga, dichiarò con cinico orgoglio: «Guernica fu per la Luftwaffe un terreno di prova. Non conoscevamo un terreno più adatto per sperimentare i nostri bombardieri. E devo ammettere che risultò un pieno successo».
Anche la vulgata antifascista sollevava tuttavia alcuni dubbi, soprattutto riguardo le vere dimensioni del disastro, ma essi furono facilmente spazzati via dalla propaganda e Guernica diventò da quel momento il simbolo della città martire. Un simbolo che sarà storicizzato dal famoso dipinto di Pablo Picasso dedicato appunto a quel tragico avvenimento. Ma anche a questo proposito, la propaganda ha nascosto la verità. Il Guernica 1937 del celebre pittore spagnolo, che è stato restituito, per volontà dell’autore, alla Spagna dopo il ritorno della democrazia, nasconde un segreto. Picasso lo aveva già terminato nel 1935 e intitolato originariamente La corrida, perché incaricato dalla città di Málaga di commemorare il celebre torero José Gomez Ortega morto durante una corrida nel 1920. Per partecipare all’Esposizione Internazionale delle Arti e delle Tecniche di Parigi nel 1937, il governo repubblicano gli commissionò un quadro dal forte contenuto politico e Picasso cambiò nome all’opera già compiuta onde onorare la città martire. La sua pittura d’altronde consente le più diverse interpretazioni.
L’episodio di Guernica deve comunque essere ridimensionato. Secondo Stefano Mensurati, che con pazienza certosina ha ricostruito in un libro l’intera vicenda sfrondandola di tutti gli orpelli della propaganda, ecco come andarono le cose. L’incursione fu pianificata dal comandante della Legione Condor, generale Hugo von Sperrle e dal generale Wolfram von Richthofen, cugino del famoso «Barone rosso» della Prima guerra mondiale. Aveva lo scopo di testare gli effetti del cosiddetto «bombardamento incendiario di saturazione» e vi furono impiegati per la prima volta 27 Heinkel HE 111 B-1, veloci bimotori carichi di bombe al fosforo da 100 e da 250 chili. Guernica non era una cittadina «inerme»: distava infatti pochi chilometri dal fronte, vi erano acquartierati tre battaglioni baschi ed era un importante snodo ferroviario che consentiva un rapido collegamento con Bilbao. Il mercato settimanale del lunedì era stato in realtà da tempo sospeso e, in previsioni di attacchi dal cielo, erano stati costruiti sette rifugi antiaerei che salvarono la vita a molte persone. A distruggere la cittadina fu il fuoco favorito dal vento, dalle costruzioni in legno e dalle cariche esplosive predisposte dai baschi in ritirata. I morti furono 126, i feriti 889. I giornali baschi dell’epoca non avallarono mai le cifre diffuse all’estero perché tutti conoscevano i risultati reali del bombardamento.
Il 30 aprile alle 12.30 le avanguardie della Frecce Nere, comandata dal maggiore Barba, occupavano Guernica ormai ridotta a un cumulo di macerie fumanti. Insieme ai soldati arrivarono anche i giornalisti italiani aggregati alle nostre truppe (oggi si direbbe embedded). Erano Renzo Segala e Achille Benedetti del «Corriere della sera», Sandro Sandri della «Stampa», Piero Saporiti della «Stefani», Marco Franzetti della «Tribuna», Lamberti Sorrentino, Bruno Morini, Raffaello Patuelli e Carlo Emanuele Basile dell’«Ufficio Italiano di Stampa» e l’americano William Carney del «New York Times». Saranno loro a diffondere la prima versione taroccata del bombardamento di Guernica.
Frattanto, sia pure con esasperante lentezza, i Requetés navarresi andavano sgretolando le resistenze dei baschi sulle montagne, mentre la Frecce Nere proseguiva velocemente lungo la costa fino a raggiungere la cittadina di Bermeo a pochi chilometri da Bilbao. La rapida avanzata dei legionari aveva però lasciato il fianco sinistro scoperto e i baschi ne approfittarono per sferrare un violento attacco con l’appoggio dei carri armati che spezzò in due lo schieramento italiano. Il battaglione di avanguardia, comandato dal maggiore Puzzoli, rimasto isolato, fu costretto a trincerarsi all’interno di Bermeo. Seguirono tre giorni di lotta sanguinosa: bersagliati dall’artiglieria, i legionari si difesero strenuamente respingendo numerosi attacchi avversari, mentre la stampa internazionale già parlava di una seconda Guadalajara. Soltanto il 3 maggio la situazione poteva essere ristabilita grazie all’intervento di alcuni reparti della XXIII Marzo. Gli assediati di Bermeo, ridotti a meno della metà per le perdite subite, furono citati all’ordine del giorno da un bollettino speciale. Puzzoli fu promosso tenente colonnello e il suo battaglione fu da quel giorno chiamato Bermeo.
A Bilbao intanto, le speranze si andavano affievolendo. La massiccia offensiva nazionalista diventava sempre più pressante, mentre dagli aeroporti di Logroño, di Vitoria e di Sória i bombardieri italiani e tedeschi si levavano in volo senza concedere un attimo di tregua al nemico. Inutilmente, il comando basco lanciava appelli a Valencia affinché l’aeronautica repubblicana intervenisse in soccorso. Miaja e i suoi consiglieri sovietici facevano, per così dire, orecchie da mercante. Ufficialmente si scusavano dicendo che la Biscaglia era troppo lontana per organizzare l’invio degli aerei richiesti, tanto più che in quel territorio montagnoso esistevano pochi aeroporti disponibili. In realtà, la ragione principale dell’inerzia repubblicana era soprattutto «politica»: il governo repubblicano di Valencia nutriva scarsa simpatia per quella strana «repubblica Euzkadi» dominata dai clericali e dai conservatori. D’altra parte, la guerra si sarebbe decisa al centro del paese ed era attorno a Madrid che il comando militare repubblicano doveva concentrare tutte le sue forze, senza disperderle su un fronte lontano e secondario.
Così i baschi rimasero abbandonati a se stessi. I soli aiuti che riuscirono a ricevere furono due battaglioni di miliziani inviati dalle Asturie i quali però, al loro sopraggiungere, indussero gli anarchici di Bilbao a chiedere ancora una volta di essere direttamente rappresentati nel governo basco. E poiché la loro richiesta fu respinta, i miliziani voltarono le spalle e si ritirarono dal combattimento. Questa inattesa defezione provocò un cedimento generale. Le linee di difesa esterne furono abbandonate e le residue forze basche si ritirarono all’interno del Cinturón de Hierro nel quale concentravano le loro ultime speranze. Ignoravano che un capitano, di nome Goicoechea, aveva disertato l’esercito basco e si era unito ai nazionalisti rivelando loro i punti deboli del Cinturón alla cui costruzione lui stesso aveva partecipato.
Quando le forze italo-spagnole si accingevano a scatenare l’ultimo assalto, un fatto imprevisto impose all’offensiva una lunga pausa d’attesa. Il 3 giugno, il generale Emilio Mola, comandante dell’esercito del Nord e principale promotore del pronunciamiento, era rimasto ucciso in un misterioso incidente aereo mentre era in viaggio verso Burgos. Su questa seconda sciagura aerea che, dopo quella che era costata la vita del generale Sanjurjo, toglieva di mezzo l’unico personaggio che ancora poteva fare ombra al generalissimo Franco, non potevano non sorgere le voci e i sospetti più disparati. Secondo l’annuncio ufficiale, l’aereo si era schiantato contro una collina, ma stando alle voci subito messe in circolazione l’esplosione era stata provocata da una bomba a orologeria nascosta nella carlinga.
Nascosta da chi? Negli ambienti nazionalisti si mormorava che a collocare l’ordigno fossero stati i tedeschi pieni di rancore verso Mola che aveva inveito con parole roventi contro gli aviatori della Legione Condor responsabili del bombardamento di Guernica. I tedeschi, e anche gli italiani, insinuavano invece che la morte di Emilio Mola fosse stata voluta da Franco esasperato dal comportamento del generale che aveva spesso assunto nei suoi confronti atteggiamenti di aperta insubordinazione. Questo sospetto era stato confermato anche dall’ambasciatore tedesco presso il governo nazionalista, Wilhelm von Faupel, il quale aveva riferito a Hitler che Franco era apparso «indubbiamente sollevato per la morte di Mola» e che l’aveva commentata con queste parole: «Mola era un testardo. Quando gli davo un ordine che non gli andava a genio, lui mi accusava di non avere più fiducia nelle sue qualità di comandante». Va detto tuttavia che i rapporti di von Faupel con Franco erano tutt’altro che cordiali. Il generalissimo non sopportava l’alterigia del diplomatico tedesco, tanto che giunse a chiedere a Berlino la sua sostituzione. Von Faupel dovette così lasciare la Spagna pieno di risentimenti verso il Caudillo e questo fatto potrebbe spiegare la sua versione colpevolista. Comunque sia, la spiegazione ufficiale della morte di Emilio Mola non convinse nessuno.
Scomparso Mola, il comando dell’esercito del Nord fu affidato al generale Sancho Dávila. L’offensiva fu ripresa il 12 giugno e i repubblicani tentarono un ultimo sforzo per respingere gli assalitori. Una brigata comandata dal bolognese Nino Nannetti andò all’assalto con estrema decisione sul monte Jata, ma fu respinta dalla Frecce Nere dopo un furioso combattimento e costretta a ripiegare dietro il Cinturón con i resti dei suoi quattro battaglioni. Ferito gravemente in questo disperato combattimento, l’eroico comandante italiano morì pochi giorni dopo in un ospedale di Santander dove era stato trasportato.
Nei giorni seguenti, i combattimenti aerei e terrestri ripresero con estrema durezza, mentre a Bilbao scoppiavano violenti tafferugli intestini fra gli anarchici che, in previsione dello sfondamento del Cinturón de Hierro, intendevano organizzare la resistenza casa per casa e i baschi che non volevano ridurre la loro città a un cumulo di macerie.
Fra il 15 e il 17 giugno si scatenò l’attacco finale. Dalle colline di Santo Domingo e di San Roque, i Requetés andarono a guadagnarsi il paradiso recitando in coro il Pater Noster e levando in alto i loro crocifissi, mentre i reparti della Frecce Nere e della XXIII Marzo, sull’ala destra, muovevano contemporaneamente all’attacco del Cinturón de Hierro proprio nel punto più debole che era stato rivelato dal disertore Goicoechea. La muraglia di ferro e di cemento fu rapidamente sfondata. Il Raggruppamento artiglieria legionaria al comando del tenente colonnello Enzo Falconi fu tra i primi a penetrare fra le casematte e la selva di filo spinato schiantate dalle precedenti esplosioni. I legionari si avventarono con i lanciafiamme contro le estreme difese basche dilagando poi oltre il Cinturón per prendere alle spalle gli ultimi difensori e completare l’accerchiamento della città.
Il crollo della resistenza basca avvenne di schianto. Le truppe ricevettero l’ordine di abbandonare Bilbao e di ritirarsi a Santander, che distava 110 chilometri a ovest, ma molti reparti preferirono arrendersi agli italiani, giudicati, con ragione, più affidabili dei nazionalisti. Il colonnello Sandro Piazzoni, comandante della Frecce Nere, dimostrò infatti la massima disponibilità. Separati i miliziani politicizzati dai soldati dell’esercito Euzkadi, dispose che questi ultimi rimanessero in possesso delle armi e affidò loro il compito di proteggere gli altiforni di Barascaldo minacciati di distruzione dai dinamiteros asturiani.
Le ore di Bilbao erano dunque contate. Alle 3 del mattino del 19 giugno 1937 gli ultimi reparti miliziani fecero saltare i ponti sul fiume Nervino, poi abbandonarono la città, mentre Franco, che aveva seguito le operazioni dal suo osservatorio collocato sulla collina dell’Archanda, emanò l’ordine dell’avanzata generale. I carri italiani si mossero con fragore di cingoli e rotolarono nella discesa verso la città.
Il primo carro che entrò a Bilbao fra le acclamazioni della folla era seguito dalle auto degli stessi giornalisti italiani embedded che abbiamo incontrato a Guernica. Erano tutti in uniforme e in camicia nera e la folla, riconoscendoli, gridava «Viva l’Italia!», «Viva Mussolini!». Uno di essi, Sandro Sandri della «Stampa», armato di un mitra che si vantava di avere tolto l’anno prima a un fitaurari abissino nell’Ogaden, si avviò, come testimonia Sandro Attanasio, «a grandi passi sulla Gran Via mentre gruppi di miliziani gettavano le armi ai suoi piedi e la gente applaudiva quel pazzo italiano che gridava a gola spiegata: “Sono un fascista di Mussolini!”, “Viva l’Italia”, “¡Arriba España!”».
Poche ore dopo, i soldati sfilavano per le vie dell’ex opulenta città. Com’era cambiata Bilbao! Palazzi in rovina, i forzieri delle banche aperti con gli esplosivi, le sontuose ville dei milionari separatisti saccheggiate. I ricchi comunque, avevano da tempo provveduto a riparare all’estero: restava l’affamato vocio del popolo che acclamava i vincitori e gridava «Pane! Pane!».
Il 21 giugno, il generale Franco, affiancato dal suo stato maggiore e da quello del CTV, assistette a un grande Te Deum celebrato nel santuario di Begoña, mentre Radio Valencia dedicava questo singolare commento consolatorio alla caduta di Bilbao: «La conquista della Biscaglia è stato un tremendo errore da parte dei facciosos. Il governo della Repubblica si è infatti liberato di un peso inutile e potrà così dedicarsi a problemi più importanti. La caduta di Bilbao permetterà di migliorare la difesa di Santander».