LA CONQUISTA DELLA MONTAGNA D'ORO
All'alba del 10 febbraio 1936 le truppe italiane iniziarono la marcia dì avvicinamento verso l'Amba Aradam, l'enorme massiccio montagnoso coperto da una fìtta vegetazione tropicale che bloccava la via a sud, ossia la strada per Addis Abeba. Mentre le sette divisioni dei tre corpi d'armata impegnati nell'operazione, superato il fiume Gabat, procedevano all'accerchiamento dell'intera montagna, Badoglio mise in azione l'artiglieria, secondo una tecnica nella quale era considerato maestro. Per due giorni furono sparati sull'amba 23.000 colpi e gli aerei vi scaricarono 4000 quintali di bombe e qualche bidone di gas. Ma la sera dell'11, quando gli alpini della divisione Pusteria si trovavano a pochi chilometri dalla vetta, gli abissini non si erano ancora fatti vivi, fedeli alla tattica imposta loro dal comandante Mulu-ghietà, che era anche ministro della Guerra e uno dei più autorevoli ras dell'impero etiopico. Personaggio leggendario, il vecchio guerriero, che non abbandonava mai il suo caratteristico scudo di pelle di rinoceronte, non cessava di mostrarsi ottimista. All'inizio delle operazioni aveva inviato al negus un messaggio radio (che i nostri marconisti intercettavano regolarmente) per annunciargli di avere «avvolto e circondato gli italiani» mentre, in effetti, era lui a essere avvolto e circondato. D'altro canto, però, la sua armata era ancora intatta, giacché egli aveva risparmiato i propri uomini rifiutando di correre in aiuto a ras Cassa durante la battaglia del Tembien. Gli abissini si fecero finalmente vivi la mattina del 12 abbattendosi come al solito a ondate successive contro gli italiani, che li respinsero facilmente con il fuoco delle mitragliatrici e degli attacchi aerei. Quello stesso giorno, Hailè Selassiè, che seguiva la battaglia a 400 chilometri di distanza dal suo quartier generale di Dessiè, inviò un messaggio telegrafico a ras Cassa con l'ordine di mandare le sue truppe migliori verso l'Amba Aradam in modo da piombare alle spalle dei nostri. Era un'idea eccellente, che certamente avrebbe messo Badoglio in difficoltà, ma quell'ordine non giunse mai. O meglio, ras Cassa dirà in seguito di non averlo mai ricevuto, anche se è più probabile che abbia voluto ricambiare il «favore» di ras Mulughietà. Quanto a ras Immirù, ancora schierato nello Scirè e sprovvisto di radio, continuò a restare fermo sulle sue posizioni ignorando quanto accadeva sul resto del fronte.
Frattanto la resistenza etiopica sull'Amba Aradam diventava sempre più debole. L'artiglieria e gli attacchi aerei provocarono lo sbandamento dell'armata di Mulughietà. Questi, dopo alcuni sporadici tentativi di fermare gli italiani, la mattina del 15 febbraio, ritenendo impossibile la difesa dell'Amba Aradam, impartì l'ordine della ritirata generale che, come vedremo, si rivelerà molto più sanguinosa della stessa battaglia. Prima del tramonto del sole la battaglia dell'Amba Aradam poteva quindi dirsi conclusa. Era stata una vittoria facile per Badoglio, ma la propaganda provvide oltremodo a ingigantirla. Gli alpini della Pusteria in avanzata verso la vetta non incontrarono ostacoli di sorta, ma solo qualche gruppo urlante di uomini che si affacciavano dalle caverne levando disperati i loro moncherini al cielo. La consegna fu di stare alla larga trattandosi di lebbrosi, ma non è da escludere che quella lebbra meritasse di essere chiamata iprite. Di cadaveri invece ne incontrarono pochi, anche se furono sufficienti per far scrivere al ministro Giuseppe Bottai, che in quella battaglia si meritò una facile medaglia d'argento: «Cadaveri di gente nera. Non commuovono. Questa morte di colore sembra una mascherata».
La mascherata, per la verità, la organizzarono successivamente i nostri comandi. Agli alpini che avevano raggiunto per primi la cima dell'amba, si ordinò, per ragioni politico-propagandistiche e malgrado le loro risentite proteste, di lasciare alle camicie nere della 23 Marzo l'onore di issarvi il tricolore. E inoltre, racconta Italo Pietra, allora comandante del battaglione alpino Exilles, ai suoi uomini fu impartito l'ordine di costruire sulla nuda vetta fortificazioni, trincee, muraglie a secco e nidi di mitragliatrici, come se dovessero affrontare un combattimento. Ma non si trattava della minaccia di un contrattacco nemico. Scrive ancora Pietra:
Dopo tre giorni di lavoro finalmente scoprimmo l'arcano: un bel mattino arrivò dal fondovalle una lunga fila di muletti col duca di Spoleto in testa e con un codazzo di pezzi grossi e di inviati speciali a caccia di cose viste, con gli attendenti muniti di thermos e dì impermeabili Vatro, che pregustando la gioia di dire io c'ero, o forse anche per prendersi una medaglia, si rivelarono instancabili nel farsi fotografare qua e là sulla terra rossa accanto alle mitragliatrici per le foto-documento.
Nel ripiegamento, Mulughietà andò incontro a un amaro destino. Decimata dalle incursioni della nostra aviazione cui era stato affidato lo sfruttamento del successo, la sua armata si spinse nei territori della Dancalia abitati dagli Azebu Galla, guerrieri crudeli e combattivi che, essendo nemici tradizionali degli antichi dominatori scioani e amhara, il nerbo dell'esercito abissino, si erano volontariamente schierati con gli italiani per consumare le loro vendette. I fuggiaschi sopravvissuti alle incursioni aeree furono inseguiti e massacrati da questi guerrieri che li attendevano al varco. In una di tali imboscate fu ucciso e mutilato (la castrazione rientrava nel loro stile di guerra) fra gli altri il giovane Tadessa, figlio di Mulughietà. Il vecchio ras tornò allora sui suoi passi per vendicare la sua morte, ma venne anche lui ucciso non sì sa se dalla raffica di un aereo italiano o dai colpi degli Azebu Galla. Usciva così di scena l'ultimo dei ras che, agli ordini di Menelik, avevano sconfitto gli italiani a Adua. Questa volta il suo famoso scudo non era servito a salvargli la vita. La sua armata aveva perduto oltre 20.000 uomini, contro i 657 perduti dagli italiani e, almeno come unità organica, non esisteva più.
Ora Badoglio doveva regolare i conti anche con i ras Cassa, Sejum e Immirù che nella prima battaglia del Tembien gli avevano procurato non poche preoccupazioni. Le forze di Cassa e di Sejum erano ancora accampate nel Tembien, quelle di Immirù molto più a destra, a sudovest di Axum. Questa volta Badoglio cambiò tattica passando dal logoramento all'annientamento rapido dell'avversario. Il 3° corpo d'armata del generale Ettore Bastico compì a marce forzate una manovra avvolgente «a fronte rovesciato», ossia alle spalle delle forze di Cassa e di Sejum, mentre il Corpo eritreo di Pirzio Biroli le attaccava di fronte.
La seconda battaglia del Tembien ebbe inizio il 27 febbraio in una regione aspra e selvaggia. Dopo avere perduto Abbi Addì, capoluogo della regione, ras Cassa, pur essendo privo di rifornimenti, accettò coraggiosamente la sua sorte e si ingolfò nei territori misteriosi e impervi del Tembien centrale e nel selvaggio bacino del Tacazzè. Gli italiani lo inseguirono: conoscevano i luoghi meglio di lui, grazie ai rilevamenti cartografici aggiornatissimi di cui il ras era privo, e potevano quindi incalzarlo, stringerlo e pensare persino di catturarlo. Per poco non andò così: ras Cassa aveva situato il proprio quartier generale sull'inaccessibile Amba Uork (montagna d'oro), nel cuore roccioso e lunare del Tembien e il suo rifugio pareva imprendibile. Ma nelle prime ore del 27 febbraio si svolse lo spettacolare episodio della «conquista della Montagna d'oro», che accenderà la fantasia degli stessi abissini. Centotrenta uomini, fra alpini, camicie nere e ascari, armati di moschetto, pugnale e bombe a mano, dopo un'arditissima scalata notturna della montagna, raggiunsero la cima alle sei del mattino cogliendo di sorpresa le sentinelle. Ras Cassa fece appena in tempo a fuggire: i primi cinque alpini che irruppero nella caverna dov'era il suo comando, trovarono ancora acceso il fornellino sul quale stavano preparandogli il carcadè. Ma furono loro a berlo.
L'inseguimento delle bande ormai disfatte di ras Cassa e di ras Sejum venne poi affidato all'aviazione. Così scrisse un giornalista che seguì la ritirata a bordo di un aereo:
Le necessità della fuga non consentivano al nemico di nascondersi a lungo. I gruppi marciavano in pieno disordine lungo l'unica pista e la strettezza dei guadi, i binari delle pareti dei burroni contribuivano a tenerli inevitabilmente uniti e addensati in colonna. Anche da mille metri era facile scorgerli. Poi si piombava. Il velivolo imboccava il corridoio delle anguste valli, ne seguiva lo zig zag. Seminava intanto, sobbalzando agli schianti, il suo carico mortale.
In pratica, la sera del 29 anche la seconda battaglia del Tembien era conclusa. E l'entità della vittoria italiana si riflette nel numero delle vittime: 34 ufficiali, 359 soldati nazionali e 138 ascari contro 8000 abissini. L'armata di ras Cassa era dunque in frantumi, mentre quella di ras Sejum in fuga verso il Semien e l'Avergallè continuava a essere decimata dall'aviazione. Anche per queste due armate, come era accaduto a quella di Mulughietà, le perdite maggiori furono registrate durante le ritirate, perché le unità abissine, una volta battute, si disgregavano: i soldati pensavano solo a tornare a casa e si sbandavano in gruppi tribali facilmente individuabili.
Mentre era in corso la seconda battaglia del Tembien, il 29 febbraio altre truppe raggiunsero senza incontrare ostacoli la vetta dell'Amba Alagi, luogo sacro per la memoria storica italiana che ricordava il sacrificio di Pietro Toselli consumatosi il 7 dicembre 1895. In quell'occasione fu celebrata una commovente cerimonia, officiata da don Giovanni Garaventa, cappellano e centurione della brigata Montagna, con l'alzabandiera di un tricolore offerto dal podestà di Vittorio Veneto.
A questo punto, liquidati ras Cassa e ras Sejum, rimaneva ancora l'ultima armata del Nord comandata da ras Immirù, forse l'unico fra i capi etiopici a possedere notevoli capacità militari e una visione moderna della guerra. In dicembre, nel corso della controffensiva etiopica, Immirù aveva riconquistato quasi tutto lo Scirè giungendo a pochi chilometri da Axum, dove si era fortificato con il grosso delle sue truppe. Poi aveva continuato a logorare gli italiani con rapidi attacchi e colpi di mano.
La battaglia dello Scirè, come sarà poi chiamata, ebbe inizio alla fine di febbraio e fu, ovviamente, coronata dal successo, anche se si verificarono seri contrattempi che Badoglio non aveva lamentato nelle due battaglie precedenti. Assestata su imprendibili posizioni di montagna, l'armata di Immirù, forte di 30.000 uomini, costituiva una seria minaccia per Axum e per la conca di Adua. Per stanarla, il maresciallo dovette impiegare due corpi d'armata, il 2° comandato dal generale Pietro Maravigna, che avanzava da Axum, e il 4° del generale Babbini proveniente dal Mareb, oltre a folti reparti di ascari e di spahis libici: circa 40.000 uomini che sì mossero a tenaglia fra Selaclacà e l'Enda Selassiè. Ma Immirù era pronto a riceverli; godeva infatti di un discreto servizio di informazione, grazie soprattutto all'at-tivissimo clero copto di Axum. Una colonna della Gavinana fu presa tra due fuochi e subì gravi perdite: lo scontro durò dodici ore, e gli etiopi tentarono invano di impadronirsi dei cannoni. Vennero respinti, e tuttavia il generale Maravigna si vide costretto a chiedere a Badoglio di poter rimandare di un giorno l'avanzata. La quale, invece, riprese dopo due giorni e proseguì con grandi difficoltà, tanto che le nostre perdite superarono la media abituale di quelle battaglie: oltre mille nazionali tra morti e feriti.
In seguito Immirù, su ordini del negus, peraltro condivisi dallo stesso ras, cercò di sfuggire alla morsa degli italiani ripiegando sul Tacazzè e muovendosi di notte per evitare gli attacchi aerei. Il 3 marzo, giorno in cui avrebbe dovuto chiudersi attorno alte forze etiopiche la tenaglia ideata da Badoglio, il grosso della sua armata sfuggì alla trappola. Ma la loro sorte era ormai segnata. Aggredite dalle bande di sciftà, i briganti che, spesso con l'incoraggiamento italiano, attaccavano gli abissini in ritirata, le truppe di Immirù vennero sorprese dall'aeronautica mentre cercavano di attraversare in massa i guadi del Tacazzè. Fu una strage. Si contarono più di 7000 morti. Il ras, sconfitto ma non domo, si rifugiò nelle montagne con un migliaio di uomini rimasti a lui fedeli.
Crollava così l'intero fronte settentrionale e davanti a Badoglio si aprivano le porte dell'Etiopia. Incalzato come al solito da Mussolini che lo tempestava di telegrammi ultimativi, come il seguente: «Fate presto. La situazione internazionale ci impone di chiudere la partita», il maresciallo diede a questo punto il via alla grande corsa verso sud. Con una marcia che rimarrà leggendaria, le colonne celeri italiane fecero avanzare in pochi giorni di 600 chilometri l'intero arco del fronte. Una colonna attraversò il deserto della Dancalia e occupò Sardò, il capoluogo dell'Aussa. Un'altra, guidata da Achille Starace, che diede prova di quel coraggio che non gli è mai stato negato, conquistò Gondar, ricca di castelli costruiti dai portoghesi e antica capitale degli imperatori abissini. Altre colonne si mossero a raggiera occupando Debarec, Socotà, Bogara, Abd el Rafi, quasi sempre senza incontrare ostacoli, ma dando prova di una incredibile resistenza contro le terribili difficoltà naturali che ostacolavano il percorso. I più veloci erano i reparti eritrei.
Questi ascari coraggiosi e fedeli si erano rivelati fin dall'inizio della campagna degli ottimi combattenti. Degli abissini avevano la velocità nelle marce e l'irruenza nell'azione offensiva, a cui si aggiungeva la tenacia e la saldezza nell'azione difensiva. Se l'ufficiale bianco non li abbandonava, mantenevano la compattezza anche nei momenti più difficili. Erano orgogliosi della loro uniforme e della loro disciplina. Agili e scattanti, lucidavano con amore le loro armi e si facevano belli in ogni occasione; nessuno appariva mai scamiciato né a capo scoperto e, nella loro giubba cachi sotto il fez di panno e l'alta fascia colorata stretta alla vita, erano sempre ordinati ed eleganti come per una rivista. II battaglione più famoso e combattivo era il battaglione Toselli che portava la fascia nera in segno di lutto per l'eroe caduto. Camminavano di solito «in cresta» alle alture fiancheggiando per sicurezza il grosso delle colonne e tenendo il fucile sulla spalla, la canna in avanti e attaccato al calcio il fagottino con il carcadè, il sale, lo zucchero e una manciata di farina per la borgutta, una specie di focaccia. Quando sostavano nei poveri villaggi incontrati lungo la marcia, le donne li accoglievano con grida festose e invitanti elleltà, consapevoli delle brame che quei soldati, marito o no presente, avrebbero sfogato entro poche ore su di loro.
Lungo le piste dell'immenso altopiano etiopico, i legionari incontravano le bande degli «alleati» Azebu Galla, pittoreschi e crudeli guerrieri armati dì lancia e di scimitarre (ma anche dell'inseparabile coltellaccio a lama curva che Paolo Monelli, amatore di parole nuove, aveva significativamente battezzato «castrino»). Essi mostravano orgogliosi i trofei di guerra strappati ai loro odiati nemici scioani: armi, scudi, ornamenti, selle di cuoio, sacchi di viveri preziosi, come orzo, sale, zucchero e carne secca. Ma anche orecchie e testicoli inanellati che esercitavano un forte richiamo sulle loro donne. Dagli Azebu Galla gli italiani furono informati che un'altra armata abissina stava marciando verso nord: un loro villaggio era stato incendiato dai soldati del negus che avevano marchiato a fuoco tutti gli abitanti con la lettera «M» per vendicare la morte di ras Mulughietà, a loro attribuita.
In effetti il negus stava marciando verso il fronte. Aveva raccolto attorno a sé ciò che restava del suo esercito, il cui nucleo principale era rappresentato dalla guardia imperiale, ottimi soldati ben addestrati dagli istruttori europei, con belle uniformi gialle e dotati di armi moderne. La sera, davanti alla sua tenda, i guerrieri cantavano attorno ai fuochi le loro canzoni di guerra, poi andavano ginocchioni a baciare i suoi piedi e le sue mani. Al seguito dell'imperatore viaggiavano numerosi giornalisti europei e americani con i quali egli si comportava come un educatissimo gentleman anche se forse, in cuor suo, avrebbe desiderato di mostrare il suo disprezzo contro tutti i frengi che lo stavano cinicamente abbandonando al suo destino. In una sola occasione, racconta Leonard Mosley, dimenticò di conformarsi alla falsa immagine del monarca costituzionale che offriva agli europei. In quei giorni un tribunale di guerra condannò alla fucilazione alcuni soldati e tre alti ufficiali colpevoli di codardia davanti al nemico, ma il negus, giunto sul posto, commutò le sentenze di morte. «Vuol farci vedere» pensarono i giornalisti «che è civile e umano.» Essi dovettero tuttavia ricredersi quando scoprirono che la sentenza era stata commutata in una condanna alla fustigazione: cinquanta colpi di curbasc alla schiena per i soldati e cinquanta colpi sul ventre per gli ufficiali. La terribile punizione venne eseguita davanti al sovrano e si può immaginare con quale risultato, se già gli stessi abissini consideravano mortali venticinque colpi di quello staffile di pelle di ippopotamo. Il negus assistette alla punizione esemplare senza fare una piega: restituì sorridendo il saluto dell'ufficiale fustigatore e si allontanò senza degnare di uno sguardo i sanguinolenti fustigati.
Gli alpini della divisione Pusteria furono i primi a superare il passo Dubar sull'altopiano etiopico e a scendere nella conca di Mai Ceu. Trovarono il villaggio semideserto e disseminato di cadaveri nereggianti di corvi. La valle, tuttavia, era bellissima: aveva l'aspetto di un paesaggio svizzero, per via del verde intenso e dei fiori sbocciati grazie alla stagione delle «piccole piogge» appena cominciata. Nei giorni seguenti arrivarono i reparti del generale Ruggero Santini e i battaglioni eritrei di Pirzio Biroli. Tutti andarono a prendere posizione sulla collina, fra il passo Mecan orientale e il passo Mecan occidentale, che dominava la rigogliosa pianura e si misero al lavoro. Bisognava disboscare tutto intorno alle postazioni per allargare il campo di tiro, scavare trincee, sistemare le batterie, innalzare muri a secco e allestire piccole ridotte per ripararsi dalle pallottole. Verso la fine di marzo, ai limiti dell'immenso piano si accesero molti fuochi: erano i bivacchi delle avanguardie abissine che furono ben presto presi di mira dalla nostra aeronautica. Ma i fuochi continuarono ugualmente ad aumentare di numero: principiavano al calare della notte, dopo che gli aerei si erano allontanati e si spegnevano all'alba prima che questi tornassero. Italo Pietra, destinato a diventare un grande giornalista, ma che allora era soltanto un giovane tenente degli alpini, ricorda che una sera, mentre osservavano le mille luci dei bivacchi abissini, il suo colonnello, Emilio Battisti, commentò pensieroso: «Siamo pressappoco nelle condizioni di Toselli quando dall'Amba Alagi scriveva alla madre: "Vedo tanti lumi. I lumi aumentano...". Speriamo che a noi vada meglio».
Anche il maresciallo Badoglio, che aveva seguito le sue truppe sulle alture attorno a Mai Ceu, era pensieroso e tormentato dai dubbi. Che cosa farà il negus? Poi confidò a uno dei suoi più stretti collaboratori: «Se quello, anziché accettare battaglia, mi fa un balzo indietro di cento chilometri, io sono fritto». Ma, a ogni buon conto, era soddisfatto. Aveva accontentato Mussolini lanciandosi in una lunga e rapida avanzata. Per giunta, aveva issato il tricolore sull'Amba Alagi proprio nei giorni in cui ricorreva il 40° anniversario della battaglia di Adua. Ora non gli restava che vibrare il colpo finale.
Sul fronte della Somalia, Rodolfo Graziani si era dovuto adattare, come già sappiamo, a un ruolo secondario. Oltre che della Peloritana, ora disponeva anche di una agguerrita divisione libica comandata dal generale Guglielmo Nasi, i cui componenti, tutti di osservanza islamica, erano stati cinicamente incoraggiati a sfruttare l'opportunità di sfogare il loro odio religioso contro gli «infedeli». Dopo la conquista di Neghelli e la disfatta dell'armata di ras Desta, altri 30.000 abissini erano comparsi sulla scena al comando del generale turco Wehib Pascià, nemico storico degli italiani. Questi, oltre ad avere ricevuto dal negus «carta bianca», ossia l'autorizzazione di dirigere le operazioni anche senza, o contro, il parere del ras, era un buon stratega e un ottimo psicologo. Contando sulla nota irruenza di Graziani e, soprattutto, sulla sua risaputa rivalità con Badoglio, Wehib sperava di attirare il comandante italiano il più possibile nell'interno (le operazioni si svolgevano su distanze enormi e in pieno deserto) offrendogli di tanto in tanto delle piccole «vittorie di Pirro» onde allontanarlo dalle basi di partenza per poi infliggergli un colpo mortale.
Graziani che, malgrado gli ordini ricevuti, sognava in cuor suo di arrivare a Addis Abeba prima del suo rivale, cadde, o forse finse di cadere, nella trappola: si allontanò infatti per oltre 1300 chilometri dalla base italiana di Belet Uen, ma nel contempo le truppe libiche di Nasi, la colonna mobile del generale Vernè e i dubat del generale Navarra inflissero agli abissini tali e tante perdite da impedire al generale turco di portare a compimento il suo progetto. Anzi, la stessa sopravvivenza della sua armata fu messa a repentaglio e salvata solo dal sopraggiungere della stagione delle piogge. Le tempeste e gli uadi in piena, i fiumi di fango, costrinsero infatti Graziani a rallentare l'avanzata verso l'obiettivo sognato: la capitale etiopica.
Anche il negus, nel suo quartiere generale di Dessiè, sembrava accarezzare un piano simile a quello di Wehib Pascià o, quanto meno, questo era ciò che Badoglio più fortemente temeva. Hailè Selassiè avrebbe infatti potuto tentare una Waterloo abissina attirando le forze vittoriose italiane verso sud, a Dessiè e oltre, costringendole poi ad affrontare la battaglia lontano dalle basi di partenza. Angosciato da questo incubo, Badoglio dispose servizi speciali di sorveglianza sulla «strada dell'imperatore» per controllare i movimenti delle nuove truppe regolari abissine che da Dessiè stavano affluendo verso Mai Ceu. Si stava rapidamente avvicinando l'ora decisiva.
Il 7 marzo 1936, mentre Badoglio si preparava ad affrontare l'ultima battaglia, nel panorama internazionale la crisi etiopica passò in secondo piano per un nuovo colpo di mano della Germania. Cogliendo tutti di sorpresa, Hitler ordinò alla Wehrmacht di superare il confine «proibito» della Renania, la regione tedesca confinante con la Francia, alla quale per motivi di sicurezza i vincitori della Grande guerra avevano imposto la «smilitarizzazione». Fu l'ennesima violazione delle dure condizioni imposte a quel paese dal trattato di Versailles, e per l'Europa un nuovo segnale d'allarme. Le proteste naturalmente non mancarono, soprattutto da parte della Francia che era la più interessata a mantenere lo staru quo ai propri confini, ma la Società delle Nazioni, ormai in stato confusionale, si limitò a emettere la solita condanna formale e senza conseguenze.
Vi furono tuttavia preoccupati scambi d'opinione tra i governi aderenti al patto di Stresa, e Mussolini ne approfittò per ammonire ancora una volta Francia e Inghilterra: se avessero continuato nella loro politica punitiva, l'Italia, «paese sanzionato», non si sarebbe più sentita legata agli accordi di Stresa che miravano a contenere la rinascita del militarismo germanico. In Francia, nel frattempo, il governo Laval era caduto e gli era succeduto il governo di Albert Sarraut (con Pierre Flandin al ministero degli Esteri) che però mantenne nei confronti dell'Italia una politica amichevole. Dura e intransigente restò invece l'Inghilterra a causa della politica contraddittoria (e persino criticata all'interno del Foreign Office) del sempre più influente Anthony Eden il quale, se da un lato reclamava il ritomo al «fronte di Stresa», dall'altro faceva di tutto per irritare Mussolini. Proprio in quei giorni, il capo del Foreign Office - che non mosse un dito contro l'atto di forza compiuto da Hitler in Renania - aveva infatti ribadito a Ginevra la sua volontà di estendere anche al petrolio le sanzioni contro l'Italia. Il «doppiopesismo» britannico non poteva non allarmare il Duce che, dopo l'annuncio a sorpresa del patto navale anglo-tedesco, temeva quanto la Francia l'eventualità di un'alleanza fra Londra e Berlino, peraltro già ipotizzata da Hitler nel suo Mein Kampf.
A questo punto è forse necessario ristabilire una verità storica, spesso nascosta, che sarà utile per chiarire le future decisioni mussoliniane. Secondo molti storici, a quell'epoca Mussolini era già d'accordo con Hitler e deciso ad allearsi con la Germania nazista per costituire l'Asse Roma-Berlino, ma si tratta di un'ipotesi totalmente infondata. In realtà. Mussolini era ancora un convinto sostenitore del patto di Stresa, considerava una jattura l'eventualità di essere «costretto» a gettarsi nelle braccia del Führer e ignorava i progetti espansionistici cui mirava il dittatore nazista. Anche lui, infatti, venne colto di sorpresa dal colpo di mano in Renania e se protestò blandamente fu solo perché, in quel momento, pensava innanzitutto a risolvere i suoi problemi immediati che non alle lontane prospettive dell'iniziativa tedesca. Il «diversivo» della Renania giocava infatti a suo vantaggio in quanto gli consentiva di stornare l'attenzione internazionale dalla sua guerra nella lontana Abissinia e di ricordare a tutti quale fra le due dittature - quella fascista e quella nazista - fosse la più pericolosa.
D'altra parte, benché avesse ordinato alla sua diplomazia di mostrarsi più duttile nei confronti della Germania per intimorire Francia e Inghilterra, le effettive relazioni italo-germaniche erano ancora improntate da reciproca e profonda sfiducia. Mussolini sapeva che Hitler mirava a mettere l'Italia in difficoltà per avere mano libera in Austria. In seguito, come risulta da documenti riemersi recentemente, fu anche informato che il Fuhrer, con il proposito di indebolire l'Italia, già nel gennaio del 1935 aveva inviato in missione segreta a Addis Abeba il console Hans Steffen con l'incarico di convincere il negus ad attaccare di sorpresa l'Eritrea e la Somalia prima che gli italiani si muovessero. Successivamente, lo abbiamo già ricordato, Hitler concesse all'imperatore di Etiopia anche un credito a fondo perduto di 3 milioni di marchi per l'acquisto di materiale bellico germanico, trasportato in Abissinia dalle navi inglesi dopo che le acciaierie Borsig di Berlino ebbero provveduto a cancellare i marchi di fabbrica «per evitare indiscrezioni». Risulta ancora che, in quel frangente, il Duce, intimorito, fece sapere all'ambasciatore tedesco von Hassel che se la Germania avesse interrotto l'invio di armi al negus, l'Italia avrebbe tollerato una nuova iniziativa in Austria. Ma poi cambiò idea dopo le clamorose vittorie di Badoglio nel Tembien e nell'Endertà così che i rapporti Roma-Berlino tornarono a essere molto tesi.
Mentre pendeva ancora sull'Italia la minaccia dell'inasprimento delle sanzioni, reclamato ostinatamente da Eden, Mussolini mise le carte in tavola con l'ambasciatore francese de Chambrun e con altri esponenti politici del governo di Parigi. A de Chambrun dichiarò: «Io sono sempre, e voi potete ben farlo sapere al signor Flandin, nella linea di Stresa. Posso assicurarvi che non vi è a tutt'oggi nella sfera politica assolutamente niente fra Hitler e me. Il mio modo di vedere sulla Germania rimane esattamente quello che era l'anno passato in aprile». Soggiunse poi passandosi significativamente la mano sulla caratteristica calvizie: «Non intendo diventare alleato di Hitler neppure se mi ci tirano per i capelli. Ma dovete convenire che qualsiasi aggravamento delle sanzioni rigetterà necessariamente l'Italia in un isolamento dal quale il suo governo avrà il dovere imperioso di farla uscire. Spetta dunque alla Francia e all'Inghilterra di non respingerci».
Ancora più franco, ricorda Renzo De Felice, il Duce lo fu con Louis-Jean Malvy, un ministro radicalsocialista francese che andò a fargli visita e che poi trascrisse la loro conversazione. Mussolini disse a Malvy:
La situazione attuale mi obbliga a cercare altrove le sicurezze che ho perduto dal lato della Francia e dal lato dell'Inghilterra, al fine di ristabilire a mio vantaggio l'equilibrio infranto. E a chi indirizzarmi se non a Hitler? Io vi devo anche dire che ho già avuto da lui delle ouvertures... Fin qui mi sono riservato. Perché io valuto perfettamente ciò che succederà se io mi intendo con Hitler. Innanzi tutto sarà l'Anschluss a breve scadenza. Poi, dopo l'Anschluss, sarà la Cecoslovacchia, la Polonia, le colonie tedesche eccetera... Per dir tutto, sarà la guerra, inevitabilmente. È per questo che io ho esitato ed esito ancora a impegnarmi su questa via. Vi ho fatto pregare di venirmi a trovare perché voi possiate informare il vostro governo della situazione che vi ho esposto. Io attenderò qualche tempo ancora. Ma se prossimamente l'atteggiamento del governo francese e di quello inglese a mio riguardo, a riguardo del regime fascista e dell'Italia non si modifica e non mi darà le assicurazioni di cui ho bisogno, allora accetterò le proposte di Hitler. L'Italia diventerà alleata della Germania.
Una drammatica profezia che purtroppo si avvererà.
La Francia, angosciata dall'eventualità di un riavvicinamento italo-tedesco, non restò sorda alle argomentazioni del dittatore italiano. E furono appunto le pressioni del governo francese esercitate a Ginevra contro la proposta britannica di aggravamento delle sanzioni a far rinviare ogni decisione con il proposito dì compiere un ulteriore sforzo di conciliazione fra le due parti in conflitto. Mussolini, d'altra parte, pur facendo la voce grossa, era ancora disposto ad accettare una soluzione negoziata per «salvare la faccia» della Società delle Nazioni e per rientrare onorevolmente nell'organizzazione ginevrina. Infatti, ai primi di aprile elaborò un nuovo piano, secondo il quale quattro quinti del territorio abissino sarebbero passati in forma diretta o di protettorato sotto il dominio italiano lasciando il nucleo centrale, schiettamente scioano, al governo di Addis Abeba. Questo progetto fu fatto conoscere segretamente a Parigi e a Londra, ma naufragò per la netta opposizione di Eden, il quale aveva ormai assunto una posizione egemone nel governo britannico. Di fronte a questa aperta manifestazione di testarda ostilità, al Duce non restava che «tirare diritto». E così fece. Lasciamo perciò ai lettori fantasiosi, che amano trastullarsi con i «se» e con i «ma», la libertà di immaginare come sarebbero andate le cose in Italia e nel mondo «se» il ministro Hoare non si fosse rotto il naso sciando e «se» quel «cretino vestito così bene» non fosse inciampato in quel maledetto tappeto della Sala del Mappamondo.
Sotto la sua tenda da campo allestita sulle alture del Mecan sovrastanti la grande pianura di Mai Ceu, Pietro Badoglio fumava pensieroso l'ennesima sigaretta Serraglio allontanando i fastidiosi insetti con il suo inseparabile scacciamosche di crine bianco. Di fronte a lui, al limite della valle, si stavano ammassando gli abissini: una decina di migliaia di soldati raccogliticci ai quali si sommavano i sei battaglioni della kebur-zabagnà, la guardia imperiale, che con i suoi 20.000 uomini bene armati e bene addestrati costituiva l'unica unità ancora intatta a disposizione del negus. Si trattava di un contingente inquadrato e attrezzato modernamente con mitragliatrici e cannoni a tiro rapido capaci di sviluppare una notevole potenza di fuoco. Per contrastarlo Badoglio disponeva del 1° corpo d'armata del generale Santini e del corpo d'armata indigeno di Pirzio Biroli, vale a dire circa 40.000 uomini avvantaggiati dall'appoggio dall'arma aerea e dalla solita schiacciante superiorità tecnica. Ma il maresciallo era ugualmente tormentato dai dubbi. Se il negus avesse adottato la tattica suggerita da Wehib Pascià in Somalia e costretto gli italiani a inseguirlo nell'interno, oltre Dessiè, la sua armata si sarebbe trovata in gravi difficoltà. Le linee di comunicazione erano già enormemente dilatate; allungandole di altri 400 o 500 chilometri in territori inospitali, la situazione sarebbe vieppiù peggiorata. Ma poteva anche accadere di peggio: se il negus avesse rinunciato allo scontro frontale per trasformare la sua armata in un esercito di bande guerrigliere, gli si sarebbe aperta subito la strada per Addis Abeba; il percorrerla, però, avrebbe comportato il rischio di cadere in una trappola mortale.
Nel campo abissino, gli inascoltati consiglieri europei ormai non nascondevano più il loro pessimismo, ma il negus non intendeva darsi per vinto. Fedele alla tradizione, aveva voluto assumere personalmente il comando dell'esercito e, benché fosse rimasto praticamente solo (dei suoi «grandi» ras, Mulughietà, Sejum, Cassa e Immirù, soltanto Cassa si era potuto riunire a lui), decise di affrontare il nemico sul campo dando prova di una forza d'animo e di una sicurezza che non mancarono di rinfrancare le sue truppe più fedeli, le quali ora anelavano a combattere contro l'odiato invasore. D'altro canto, il negus contava ancora ingenuamente sull'intervento della Società delle Nazioni e forse sperava che una piccola, anche se limitata, vittoria avrebbe potuto giocare a suo favore sui tavoli di Ginevra.
Dal suo quartier generale, Hailè Selassiè era in continuo contatto telegrafico con la moglie Menen, che da Addis Abeba seguiva con ansia gli sviluppi della situazione e che lui aggiornava spesso con dovizia di particolari che sarebbe forse stato meglio mantenere segreti. Evidentemente sottovalutava l'efficienza dei nostri servizi di intercettazione i quali «leggevano» tutto ciò che l'imperatore le mandava a dire. Il 27 marzo fu captato questo suo telegramma inviato all'imperatrice:
Ci troviamo schierati davanti al nemico osservandoci l'un l'altro col binocolo. Ci dicono che le truppe del nemico che si trovano riunite davanti a noi sino ad ora non superano approssimativamente i diecimila uomini. Le nostre truppe ammontano esattamente a trentunomila unità. Poiché la nostra fede è riposta nel nostro Creatore e nella speranza che Egli ci aiuti, avendo noi deciso di avanzare e di entrare nelle loro fortificazioni e dato che l'unico nostro aiuto è Dio, confida nel massimo segreto questa nostra decisione all'abuna, ai ministri, ai dignitari e rivolgete a Dio le vostre decise preghiere.
Il tono di questo messaggio non era quello di un condottiero che si preparava a vincere una battaglia, bensì quello di un uomo disperato che, con l'aiuto di Dio, si accingeva ad andare incontro al suo destino... La preziosissima informazione, confidata «in segreto» dal negus alla sua consorte, deve aver fatto tirare un sospiro di sollievo al maresciallo Badoglio. Stava infatti a significare che il negus non aveva alcuna intenzione di compiere quel tanto temuto salto indietro dì 200 o 300 chilometri, ma che si apprestava a fargli la «cortesia» di andargli incontro...
Cosa avrà spinto il negus a compiere questo suo beau geste non lo sapremo mai. La risposta si cela nella complessa personalità di questo sovrano feudale impastato di orgoglio e deciso a difendere il suo onore e a restare fedele al motto che ne contraddistingueva l'antichissimo lignaggio: «Il Leone della tribù di Giuda vince». Hailè Selassiè era certamente un uomo moderno, colto e intelligente, ma in lui le tradizioni ancestrali erano profondamente radicate. Anche i grandi negus del passato - Teodoro, Giovanni, Menelik - avevano comandato personalmente le grandi battaglie campali e avevano sempre vinto, grazie alla superiorità numerica, al coraggio dei combattenti e forse all'aiuto di Dio o dell'Arca misteriosa ormai irraggiungibile. Lui, comunque, non poteva essere da meno dei suoi predecessori: avrebbe perciò attaccato il nemico in massa e frontalmente, come volevano le consuetudini del passato e così come aveva fatto Menelik sul campo di Adua. Non intendeva restare ad attendere l'iniziativa dell'avversario: o sfondare o morire.
Badoglio lo attendeva a piè fermo. Malgrado le difficoltà ambientali, aveva schierato opportunamente sulle alture, fra i monti Bohorà e Corbetà e il passo del Mecan la divisione alpina Pusteria insieme alla la e 2a divisione eritrea. La mancanza di strade, l'ecatombe dei bagalì, i muletti sfiancati dalle fatiche, e mille altri imprevisti avevano rallentato il posizionamento delle truppe e il munizionamento delle batterie. Era infatti toccato agli artiglieri da montagna sostituirsi alle bestie da soma caricando sullo zaino, già pesante, un proiettile da 75/13 ciascuno: sei chili e mezzo in più da portare a spalla per quattordici ore di marcia.
Ma ora tutto era pronto e non bastava che attendere. Lontano poco più di cinque o sei chilometri, nell'immensa pianura di Mai Ceu, biancheggiavano le tende degli accampamenti abissini e la sera si udivano sempre più vicini i canti dei guerrieri che al rullo dei negarli «facevano fantasia» attorno a centinaia di falò. Dalla parte italiana invece era buio fitto. A turno, gli alpini dormivano in tenda o stavano all'erta presso le feritoie. Di giorno si affaccendavano per migliorare l'assetto delle ridotte e provvedevano a spargere sul terreno antistante le scatolette vuote il cui rumore, nel silenzio della notte, avrebbe segnalato l'approssimarsi del nemico. Gli ascari, invece, erano occupati a lucidare le baionette, i fucili, le mitragliatrici e a rassettare le proprie uniformi, come se si preparassero per una festa.
Alle prime luci dell'alba del 31 marzo 1936, nelle ridotte italiane avevano cominciato a distribuire il caffè, quando si udì il lungo e lamentoso urlo della iena ripetuto tre volte. Era il segnale convenuto con la giovane sciarmutta amica degli alpini il cui significato era noto a tutti: «stanno arrivando!». Ci fu appena il tempo per correre alle armi che subito una massa urlante sbucò fuori dai boschi circostanti e dalle macchie di euforbie del colle chiamato «ditale rovesciato» per la sua forma curiosa. Erano migliaia: i guerrieri in sciammo bianco avevano le scimitarre sguainate e le guardie dell'imperatore entravano per la prima volta in scena in gruppi compatti nella loro uniforme gialla, con le fasce gambiere, i piedi nudi e il fucile con baionetta innestata in pugno. Gridavano tutti come ossessi e quando furono vicini, il loro grido di guerra si fece più distinto: «Adua, Adua, Macallè!», i nomi che ricordavano le due prestigiose vittorie del passato.
Allorché gli assalitori giunsero a tiro, gli alpini ricevettero l'ordine di aprire il fuoco e subito i fucili 91, i mortai da 45, le mitragliatrici leggere Breda e le mitragliatrici pesanti Fiat 1914 cominciarono a cantare. Ampi squarci si aprirono nella massa avanzante, ma l'ondata proseguì verso le trincee giungendo a portata delle bombe a mano. Alcune ridotte vennero evacuate e poi riconquistate, ci furono scontri corpo a corpo, ma gli alpini tennero duro. Le prove più difficili toccarono al battaglione Pieve di Teco e al battaglione Intra, che lasciarono una decina dì morti sul terreno, ma dopo un'ora di combattimento gli abissini dovettero ritirarsi.
A questo punto l'attacco cambiò direzione e l'ondata degli assalitori si diresse verso il settore centrale tenuto dai reparti eritrei. Cominciarono così a entrare in azione le mitragliatrici Schwarzlose, in dotazione agli ascari, mentre le batterie da 75 lavoravano ormai a colpo sicuro. Contro queste posizioni fu prodotto lo sforzo maggiore. Le trincee erano basse e fatte un po' alla carlona, perché agli ascari non piaceva realizzare muretti a secco e neppure la guerra prudente dietro le feritoie. Non avevano neanche ripulito bene il campo di tiro, così che i folti cespugli di euforbie a una decina di metri dalle posizioni offrivano comodi nascondigli. La difesa diventava perciò difficile e sanguinosa come l'attacco, e per qualche tempo gli abissini pensarono che il successo fosse ormai a portata di mano: le truppe indigene indietreggiavano dopo mischie feroci e alcune trincee venivano abbandonate.
Ma alle otto, come comunicò lo stesso negus nel consueto telegramma alla moglie Menen, «un potente rombo si udì venire dal nord. Gli aerei! Aerei da caccia e da bombardamento! Essi non poterono lanciare i gas perché le nostre truppe erano intimamente mescolate con quelle italiane, ma gettarono bombe e spararono raffiche di mitragliatrici sui nostri uomini che non erano impegnati nel corpo a corpo». Impossibilitati ad aiutare le nostre forze impegnate nella battaglia, gli aviatori si erano infatti scatenati sulle retrovie, ostruendo la strada ai reparti che avrebbero dovuto sostituire le truppe di prima linea e, soprattutto, paralizzando l'invio dei rifornimenti. «Se a questo punto» riferì ancora il negus alla consorte «qualche nostra carovana di viveri fosse giunta dalle retrovie, i nostri soldati avrebbero potuto riprender le forze e ricominciare un combattimento che non era ancora disperato. Sfortunatamente le carovane arrivarono troppo tardi perché appena si fermavano venivano irrorate di iprite.» Hailè Selassiè non rinunciò tuttavia a sfruttare il successo iniziale e mandò all'assalto gli ultimi battaglioni della guardia imperiale non ancora provati dal fuoco.
«Questa volta» racconterà Pietro Badoglio «tutta la Guardia Imperiale, sostenuta da un fuoco vivace, muoveva verso le nostre posizioni, avanzando a sbalzi, sfruttando il terreno, dando prova di saldezza e di un notevole grado di addestramento, unito a un superbo sprezzo del pericolo.» Pur tenendo conto che, come sono soliti fare tutti i comandanti nei resoconti delle loro imprese, sia Badoglio che il negus esageravano a loro vantaggio, la situazione doveva essere alquanto confusa. Così riferisce infatti Italo Pietra che partecipò anche a quella battaglia:
Dalle feritoie dello ridotte il colpo d'occhio sulla battaglia è perfetto come su una partita di calcio dall'alto delle gradinate. Vediamo chepì, fregi, galloni e luccicare di armi portate a braccia: la Guardia Imperiale! Arrivano, salgono, si tengono aggruppati. Migliaia e migliaia. Batticuore, rabbia di essere lontani. Non puoi resistere a guardare lo spettacolo, idee nere ti passano per la testa. Gli aeroplani volano alti ... C'è confusione, non possono bombardare, non possono mitragliare.
L'attacco delle guardie imperiali fu intensissimo e durò tre ore. Conquistarono il passo Mecan, si impadronirono del «ditale rovesciato» e del cosiddetto «boschetto delle euforbie». I difensori in difficoltà non avevano sufficienti munizioni, che venivano affannosamente recuperate frugando nelle giberne dei caduti. Anche all'artiglieria scarseggiavano i proiettili e i rifornimenti tardavano ad arrivare. Mancando gli aerei e i cannoni, gli italiani erano praticamente costretti a combattere «ad armi pari» e la situazione sì faceva sempre più difficile. Così, alle 11.30, ai battaglioni eritrei fu impartito l'ordine di contrattaccare alla baionetta. Primo davanti a tutti per antico privilegio si mosse dalle ridotte il battaglione Toselli. «Armi, Toselli!, armi» gridava l'ufficiale italiano a dorso di cavallo. Poi molti altri battaglioni avanzarono tutti insieme con un solo impeto; avevano fasce alla vita di colori diversi, le armi in pugno, e alla loro testa cavalcavano i comandanti: il generale Dalmazzo, i colonnelli Corsi, Tracchia, Scotti e tutti gli altri ufficiali. Tra le raffiche e le esplosioni si udiva la chiamata dei reparti a uno a uno: «Arrai, Terzo eritreo», «Arrai, Decimo eritreo... Arrai! Arrai!».
Dalle loro postazioni, gli alpini seguivano lo scontro. Questa volta toccava alle mitragliatrici abissine che sparando nel mucchio da meno di 200 metri aprivano varchi paurosi fra gli attaccanti. I corpo a corpo si fecero furiosi: i colori vivaci delle fasce di lana degli ascari e il rosso dei loro tarbusc si confondevano con il bianco degli sdamma, il giallo delle uniformi, i lampi delle baionette e delle scimitarre. Decine di ufficiali furono visti cadere dalle cavalcature e centinaia di indigeni morirono con loro. Successivamente, anche gli alpini andarono al contrassalto in aiuto degli ascari, e gli abissini cominciarono a rinculare disordinatamente. I cespugli dì euforbie davanti alle ridotte eritree furono ripuliti a uno a uno dei nemici ancora vivi, poi alpini e ascari raggiunsero le alture del «ditale rovesciato» e della collina detta «del candelabro». Alle quattro del pomeriggio, riconquistato il passo Mecan, si era ancora nel pieno della battaglia e il negus con la forza della disperazione ordinò l'offensiva generale sull'intero arco del fronte, mentre, come noterà lui stesso, il cielo si ricopriva «di nuvole basse e nere apportatici di sciagura». Per due ore infuriarono i combattimenti ma, alle sei, il negus, avendo visto cadere il meglio della sua armata, fu costretto a ordinare il ripiegamento. La battaglia di Mai Ceu si concluse con gravi perdite da parte italiana e gravissime da parte abissina. Così infatti Hailè Selassiè comunicò alla moglie Menen:
Dalle 5 del mattino alle 7 di sera le nostre truppe hanno attaccato le forti posizioni nemiche combattendo senza tregua. Anche noi abbiamo partecipato all'azione e per grazia di Dio siamo rimasti incolumi. I nostri principali e fidati soldati scioani sono morti o feriti. Sebbene le nostre perdite siano gravi, anche il nemico è stato danneggiato. La Guardia ha combattuto magnificamente meritando ogni elogio. Anche le truppe amhara hanno fatto del loro meglio. Le nostre truppe, per quanto non siano in grado di svolgere un combattimento di tipo europeo, hanno sostenuto per l'intera giornata il confronto con quelle italiane.
Nella notte il tempo si mise a pioggia con lampi frequenti che illuminavano la pianura coperta di morti. Nelle ridotte italiane, ora che le armi tacevano, giungevano i lamenti dei feriti: abìet... abìet..., pietà... pietà..., confusi con il rombo funebre dei tamburi e le grida degli abissini intenti nella ricerca dei compagni caduti. L'indomani si registrarono ancora alcuni attacchi contro le posizioni italiane, che furono facilmente respinti, e il giorno seguente il negus, ormai senza speranza, ordinò la ritirata nell'intento di salvare il salvabile delle sue truppe.
Divisi in branchi disordinati, i circa 20.000 superstiti della battaglia si mossero verso il lago Ascianghi. Il negus contava di raggiungere Dessiè, dove sì trovava il figlio primogenito Asfa Uossen con le sue truppe. Ma Dessiè era lontanissima, mentre dietro di lui incalzava il Corpo eritreo mandato da Badoglio al suo inseguimento. Oltre che dall'aviazione, l'esercito abissino era tormentato dai soliti predatori Azebu Galla, galvanizzati dalla leggenda, subito diffusasi, del tesoro imperiale che il negus avrebbe trasportato con sé. Anche le popolazioni locali, che odiavano assai più degli italiani i loro antichi dominatori scioani, si sfogarono contro i fuggiaschi. Molti reparti furono costretti a pagare un pedaggio per essere autorizzati a transitare, altri vennero decimati dai bombardamenti e dai mitragliamenti in picchiata. La mattina del 4 aprile, dopo avere marciato per tutta la notte nella fiumana disordinata dei suoi soldati, il negus trovò un giaciglio di fortuna in una caverna presso Quoram, ma dovette ben presto rimettersi in cammino e abbandonare i suoi oggetti personali per l'incalzare degli inseguitori.
L'aviazione non diede pace ai fuggiaschi: i gruppi compatti in lento movimento offrivano bersagli facili e impietosi. «Fulminata, una generazione giaceva sui tratturi dell'altopiano» scriverà senza un'ombra di commozione Alessandro Pavolini che, al fianco di Galeazzo Ciano, inseguiva dal cielo l'orda in fuga con l'entusiasmo sconcertante di un cronista sportivo.
Sul greto dei torrenti i morti - uomini e bestie - stampavano i loro gesti immobili in mezzo al tumulto. Ma quanto c'era ancora da fare! Alle spezzoniere, alle mitragliatrici, alle carabine! Ogni apertura fu buona per sparare, anche il portellone socchiuso. Anche la torretta, la cui mitragliatrice serve contro gli attacchi dei caccia da su, ma quel giorno poteva benissimo utilizzarsi contro i nuclei delle pendici, che ci grandinavano addosso dall'alto in basso mentre andavamo per il fondovalle. La volontà di Ciano ci teneva immersi ben in fondo a quella cavità fitta di traiettorie. La pattuglia dei Disperati intendeva suggellare degnamente il combattimento.
Esaltazione sfacciata del capo, ma non una parola di pietà per quei disgraziati indifesi, non un accenno ai bidoni di gas che certamente furono lanciati insieme alle bombe.
Da parte sua, il negus racconterà alia moglie Menen:
Fu un carnaio come ce ne sono stati pochi durante questa guerra che peraltro fu senza misericordia. Uomini, donne, bestie da soma si abbattevano a terra colpiti dagli scoppi delle bombe o ustionati mortalmente. I feriti urlavano per il dolore. Quelli che avrebbero potuto sottrarsi a questo macello venivano presto o tardi raggiunti dalla sottile pioggia diffusa dagli aerei. Ciò che uno scoppio di bomba aveva cominciato, il veleno lo concludeva.
Per qualche giorno i resti dell'armata del negus e il Corpo eritreo di Pirzio Biroli procedettero paralleli a non molta distanza fra loro, in una sorta di gara di velocità in direzione di Dessiè. Lungo la strada, per ragioni che non si conoscono, Hailè Selassiè impose alla sua scorta una deviazione per compiere un pellegrinaggio nella città santa di Lalibelà, con i suoi antichi templi scavati nelle montagne. Vi rimase due giorni attorniato da laceri preti copti, che pregarono con lui, stupiti da quella visita inattesa. Quando riprese il viaggio, il corteo imperiale fu nuovamente intercettato dagli Azebu Galla, contro i quali fu costretto a battersi per sette ore. Superato anche quell'ostacolo, il negus venne informato che suo figlio Asfa Uossen aveva evacuato Dessiè senza combattere. Con i brandelli della sua armata non gli restava che invertire la rotta verso Addis Abeba, lasciando lungo la strada una scia di morti.
Dissolta ai suoi fianchi ogni possibile minaccia, dopo l'occupazione di Gondar, della regione del lago Tana e di quella di Sardò, Badoglio aveva infatti ordinato al Corpo eritreo di raggiungere al più presto Dessiè. Si era trattato di una marcia di 250 chilometri che i veloci ascari avevano superato a piedi mantenendo una media di 50 chilometri al giorno. Le colonne erano rifornite dall'aviazione. Il 14 aprile le avanguardie della cavalleria giunsero in vista della città, nel momento in cui il principe ereditario abissino l'abbandonava protetto da pochi fedeli. Il 15, il generale Pirzio Biroli innalzò il tricolore sul ghebì di ras Mikael. Nelle strade, striscioni in lingua amarica annunciavano la fine dell'impero etiopico con una frase tradizionale: «Il falco è volato».
Sul fronte della Somalia, frattanto, il generale Graziani era pungolato e amareggiato dalle vittorie del suo superiore e rivale. Si lamentava senza tregua con Badoglio e Mussolini perché non gli erano stati concessi tutti i rifornimenti richiesti, che, a suo dire, gli avrebbero consentito di liquidare più rapidamente le forze nemiche. L'obiettivo assegnatogli era la città di Harar, capitale dell'omonima regione, ma tra il generale e questa città si frapponevano oltre 500 chilometri di deserto. Nonché l'ultima armata abissina, con circa 30.000 uomini, 500 mitragliatrici e 500 cannoni di piccolo calibro, che il generale Wehib Pascià aveva fatto trincerare con criteri razionali.
Anche Graziani disponeva di circa 30.000 soldati, la metà dei quali nazionali, bene equipaggiati, autotrasportati e protetti dal cielo. Il 15 aprile, dopo la conquista di Dessiè, Mussolini gli inviò questo breve e significativo telegramma: «Attendo annuncio marcia su Harar», e Gra-ziani mise in movimento tre colonne affidate ai tre generali Nasi, Frusci e Agostini, con destinazione il centro di Dagahbùr, a circa 200 chilometri da Harar. Ma l'avanzata si svolse più lentamente del previsto a causa della tenace resistenza etiopica e l'obiettivo fu raggiunto soltanto il 25 aprile al prezzo di 2000 vittime fra morti e feriti. Benché spronato e lusingato da Mussolini («Conquistata Harar V.E. vi troverà il bastone di Maresciallo d'Italia»), Graziani non riprese subito l'offensiva e venne raggiunto da un altro telegramma ancor più ultimativo. «Visto che gli abissini continuano ad usare pallottole dum dum stop» gli telegrafò Mussolini «autorizzo V.E. stop se lo ritiene necessario stop all'impiego del gas a titolo di rappresaglia stop.» E dopo quest'ultimo stop, forse perché ne aveva visto gli effetti durante la Grande guerra. Mussolini aggiunse: «Esclusa l'iprite».
Non sappiamo se Graziani rispettò l'ordine e neppure sappiamo se usò davvero i gas. In proposito, com'è comprensibile, i documenti ufficiali tacciono. Il generale comunque indugerà a lungo, per la pioggia e il fango, prima di raggiungere Harar e il piccolo centro di Dire Daua, dove era fissato l'«appuntamento» con le avanguardie di Badoglio provenienti dal Nord. Tant'è che i soliti spiritosi, giocando sul nome della cittadina etiopica, commentavano scherzosamente che Graziani non aveva ancora imparato a parlare perché «neppure riesce a Dire Daua».
In effetti, fin dall'inizio delle operazioni, le enormi distanze e la precarietà delle piste avevano creato sul fronte somalo dei seri contrattempi, aggravatisi poi con l'arrivo delle piogge. Il problema logistico era stato risolto autorizzando l'acquisto di autocarri negli Stati Uniti, non essendo sufficiente la produzione italiana, sìa dal punto di vista quantitativo sia da quello qualitativo. In un primo tempo si erano importati 500 autocarri leggeri Ford, ma ben presto si constatò che il problema si poteva risolvere soltanto con l'impiego dei caterpillar (trattori cingolati che potevano trainare un paio di rimorchi, anch'essi cingolati). Un convoglio siffatto sostituiva da 15 a 20 autocarri con possibilità di movimento anche nel fango. Di questi mezzi, prodotti soltanto negli Stati Uniti, ne vennero impiegati complessivamente 185 (100 dei quali donati dagli italiani d'America) con 400 rimorchi. A guidarli furono in parte autisti italoamericani volontari, e grazie a essi Graziani riuscì infine condurre a buon termine l'offensiva su Harar. E Mussolini manterrà la promessa di consegnargli solennemente il bastone di maresciallo d'Italia.
La guerra stava ormai per finire e i gerarchi che vi avevano partecipato erano già tutti decorati almeno con una medaglia. Soltanto Galeazzo Ciano, ministro in carica per la Stampa e la Propaganda, nonché comandante della Disperata, ancora attendeva l'occasione «per ricoprirsi di gloria». Genero di Mussolini e figlio dell'«eroe del mare» Costanzo Ciano, protagonista con d'Annunzio della «beffa di Buccari», il trentatreenne Galeazzo si tormentava per non avere ancora compiuto un'azione eroica degna di tanto padre. Fu il suo mentore Alessandro Pavolini a suggerirgli l'idea di quella che sarà poi definita dai giornalisti servizievoli «la beffa di Addis Abeba». Si trattava della solita sfida aerea di modello dannunziano. Ciano si proponeva di scendere su Addis Abeba con il proprio apparecchio e di catturare con un rapido colpo di mano il comandante dell'aeroporto. L'operazione ebbe luogo il 30 aprile, pochi giorni prima che Badoglio entrasse nella capitale abissina. Ciano decollò da Dessiè a bordo del suo trimotore Caproni. Aveva lasciato a terra il deluso Pavolini (che sognava di essere il cantore dell'impresa) per far posto al tenente Ettore Muti. Questa sostituzione si spiega con il fatto che Muti, oltre a essere un ottimo pilota e un eroe collaudato, alcuni mesi prima aveva già compiuto con rischi maggiori un'impresa analoga a quella che ora il ministro si proponeva. In ogni modo, la «beffa» si risolse in un mezzo fallimento. La reazione efficace e non prevista dei mitraglieri abissini impedì all'aereo di prendere terra e a Ciano non restò che la consolazione di lanciare il gagliardetto della Disperata nella piazza centrale di Addis Abeba. Più tardi, al quartier generale di Badoglio, l'episodio sarà definito «una vana bravata», ma Pavolini riuscì ugualmente a eroicizzarlo. Così scrisse, come se fosse stato presente all'azione:
L'apparecchio arrivò basso sopra il campo. La difesa non dava segni di vita. Già i pneumatici rimbalzavano sulla terra, quando s'udì nel coro leggero dei tre motori a regime ridotto una tempesta di mitragliatrici. Annidati tutti intorno, i mitraglieri scioani disponevano da cento metri di un obiettivo lento e facile. Venticinque proiettili perforarono la fusoliera, le ali, la carlinga: e nella carlinga sino il sottile cuscino di cuoio dove Ciano posava la schiena. Non c'era che da ridare gas e balzare in aria. Così fu fatto.
Per questa impresa, il golden boy del regime riceverà in premio, personalmente da Mussolini, una seconda medaglia d'argento, il gran cordone dell'Ordine delle Colonie, la promozione a console della Milizia e la prestigiosa nomina a ministro degli Esteri. Forse un po' troppo per così poco eroismo. Le solite malelingue invidiose di tale fortuna si consolarono improvvisando un gustoso epigramma che cominciava pressappoco così: «Ciano Galeazzo / buona la rima in ...ano / meglio la rima in ...azzo».
Rientrato stanco e avvilito a Addis Abeba, Hailè Selassiè non aveva ancora deciso se continuare a resistere o abbandonare il paese. Inizialmente si mostrò propenso alla resistenza e infatti la mattina del 1° maggio fece rullare i tamburi e ordinò ai superstiti della guardia imperiale e ai cadetti della scuola militare di Olettà di accamparsi alle porte della città in attesa di ordini. Progettava di muovere verso occidente fino nel Goggiam e lì, con l'aiuto dei fedeli ras Sejum e Immirù, organizzare la guerriglia nelle gole del Nilo Azzurro. L'imperatrice avrebbe invece dovuto raggiungere con i figli Gibuti, dove una nave britannica era in attesa. Il progetto tuttavia andò in fumo perché Menen si rifiutò di abbandonare il consorte. Inoltre, l'autorevole ras Cassa riteneva indispensabile che partisse anche il negus in quanto, essendo dotato di facilità di parola e di prestigio, avrebbe servito meglio il paese andando a Ginevra per lanciare un appello al mondo cosiddetto civile. Incerto sul da farsi, l'imperatore affidò la decisione al consiglio dei ras riunito nel ghebì imperiale. Venti votarono per la sua partenza, tre per la soluzione del Goggiam.
Conosciuto l'esito del voto, Hailè Selassiè organizzò la partenza: la sua famiglia sarebbe partita con un treno speciale per Gibuti dalla stazione di Addis Abeba, e lui l'avrebbe raggiunta più tardi alla stazione di Akaki, a 20 chilometri dalla capitale. Prima di lasciare il ghebì, il negus ordinò che il gran negarit di Menelik fosse portato nel cortile e rullasse per due ore. Poi salutò i suoi ras e l'abuna Cirillo. Secondo alcuni, chiese a questi ultimi di non opporre resistenza agli invasori e di impedire disordini in città, mentre, secondo quanto ha scritto il colonnello russo Konovaloff, ordinò il saccheggio, raccomandando che fosse risparmiato soltanto il ghebì imperiale in quanto distruggerlo «avrebbe portato sfortuna». E siccome le cose andarono proprio così, è probabile che l'ex ufficiale zarista dicesse il vero.
Alle 4.20 del 2 maggio 1936, il negus neghesti salì ad Akaki sul treno speciale e iniziò il viaggio verso l'esilio. Viaggiavano con lui l'imperatrice Menen con il fedele cagnolino Papillon, i tre figli (il principe ereditario, il duca di Harar e Sanie Selassiè) e le due figlie Tsahai e Tenagne Uorch, quest'ultima moglie di ras Desta, che ancora combatteva sul fronte sud. Del seguito facevano parte alcuni importanti dignitari, fra i quali ras Cassa, ras Sejum (che si fermeranno a Gibuti) e il colonnello Wehib Pascià che aveva abbandonato al suo destino l'armata dell'Ogaden. Sul treno, incatenato, viaggiava anche il vecchio ras Hailù, un avversario che il negus aveva tenuto in prigione per tutti quegli anni e non voleva lasciare in Etiopia per tema che diventasse un fantoccio di Mussolini.
Viaggiando lentamente sull'altopiano fradicio di pioggia (Graziani aveva chiesto al Duce il permesso di farlo bombardare, ma gli era stato negato), il convoglio giunse a Dire Daua dove il negus, nonostante le notizie allarmistiche circa la vicinanza degli italiani, volle fermarsi per salutare il suo vecchio amico Edwin Chapman Andrews, console britannico a Harar. Per molte ore il sovrano e il console parlarono a quattrocchi e l'imperatore si sfogò. Fra l'altro, si disse pentito di avere lasciato Addis Abeba ed espresse il proposito di raggiungere ras Desta sul fronte sud, dove forse era ancora possibile far sventolare la bandiera del Leone di Giuda. «Dovetti faticare» scriverà Sir Edwin «per convincere l'imperatore a partire. Sapevo che era senza speranza e che, se fosse rimasto, avrebbe incontrato la morte o conosciuto l'umiliazione della prigionia.» Poi il treno riprese la sua corsa nel deserto e, meno di due ore dopo, a Dire Daua giunsero le avanguardie italiane che trovarono sul posto ras Hailù, fuggito rocambolescamente dal treno imperiale e pronto a prestare i suoi servigi ai vincitori.
A Gibuti la famiglia imperiale salì a bordo dell'incrociatore Enterprise che il governo britannico aveva messo a disposizione di Hailè Selassiè. La nave salpò subito e fece rotta verso Haifa, dove osservò una sosta di due settimane. Fin dal suo arrivo nel porto palestinese, il negus aveva potuto rendersi conto di quanto fosse cinica la diplomazia con i sovrani sconfitti: l'alto commissario britannico che governava il paese fu chiamato altrove per «precedenti improrogabili impegni» e neppure uno dei tanti consoli presenti in Palestina trovò il tempo per andare a ricevere l'ormai ex «re dei re». Nelle due settimane successive, il malinconico imperatore si recò in pellegrinaggio a Gerusalemme e ascoltò la messa sul lato della chiesa del Santo Sepolcro appartenente alla Chiesa copta. Poi soggiornò all'hotel Re David e si consultò più volte con i suoi consiglieri circa il da farsi per ricordare al mondo che egli era ancora tra i viventi. Non lo attenderanno che amare delusioni, almeno fino al 1941.
A Addis Abeba, intanto, la notizia della partenza del negus si era rapidamente diffusa, provocando il caos. Le truppe, prive di comandanti, reagirono come hanno sempre reagito gli abissini quando rimangono senza capi: con le violenze, i saccheggi, gli stupri e il panico. Etiopi ed europei furono ugualmente esposti alla furia selvaggia della soldataglia, ebbero le case saccheggiate, le donne violentate, la vita stroncata a colpi di fucile o di zagaglia. I negozi, quasi tutti gestiti da stranieri, vennero depredati e incendiati. Soltanto il ghebì imperiale fu risparmiato. La maggior parte dei seimila bianchi che vivevano nella capitale era rifugiata nelle legazioni diplomatiche presidiate da uomini armati e dagli stessi funzionari. Malgrado la promessa di non bombardare la città, che Mussolini fece peraltro rispettare, si temevano le incursioni aeree, e dunque grandi bandiere con la croce rossa furono collocate sui tetti. L'interregno durò tre giorni, e per tre giorni Addis Abeba visse nel terrore: gli incendi divampavano ovunque e le strade, cosparse di rottami, di carogne, di macerie e di cadaveri, erano percorse soltanto da bande di sciftà e di predatori ubriachi e carichi di bottino. L'arrivo dei conquistatori era da tutti auspicato come una liberazione.
Nel primo pomeriggio del 5 maggio Badoglio giunse in vista di Addis Abeba. Negli ultimi giorni, preceduto dalle avanguardie eritree, aveva percorso centinaia di chilometri alla massima velocità consentita. Lo seguiva un'autocolonna composta da 1725 automezzi con a bordo tutti gli effettivi della divisione Sabauda e un gruppo di battaglioni in cui erano rappresentate tutte le specialità delle nostre forze armate partecipanti al conflitto: camicie nere, alpini, genieri, carabinieri, marinai del San Marco, guardie di finanza. L'aeronautica si era fatta viva con un colpo di teatro: dopo avere sorvolato il corteo con la sua squadriglia, Galeazzo Ciano aveva lanciato sull'auto di Badoglio un messaggio personale di Mussolini contenuto in un sacchetto avvolto nel tricolore.
Percorrendo la «strada dell'imperatore», frettolosamente rassettata dai volenterosi reparti del genio, gli italiani avevano attraversato villaggi saccheggiati e campagne devastate dagli abissini in ritirata. E questo spiega perché i conquistatori furono accolti come salvatori dalle folle festanti allineate lungo la pista. I preti copti, protetti dal sole con i loro ombrelli colorati, levavano in alto le croci come per benedire, gli uomini offrivano uova e frutta, le donne salutavano con il loro curioso trillo gargarizzato. Durante le soste, gli indigeni ricoperti di stracci si affollavano attorno ai militari, toccavano con avidità le loro uniformi e offrivano doni in cambio di un qualsiasi indumento, ripetendo «coat, coat» come tante galline.
L'ultimo giorno dell'avanzata la colonna non fece soste. Badoglio aveva fretta, non solo per far contento Mussolini ma anche per rispondere ai pressanti appelli delle delegazioni europee di Addis Abeba che invocavano il suo arrivo per porre fine al caos. Alle quattro del pomeriggio, ormai alle porte della città, il maresciallo impartì ai colonnelli Broglia e Tracchia i primi ordini per l'occupazione dei punti nevralgici della capitale. Poi, su un quaderno di carta quadrettata, scrisse il testo del telegramma da inviare al Duce: «Oggi, 5 maggio, alle ore 16, alla testa delle truppe vittoriose, sono entrato in Addis Abeba».
Quasi contemporaneamente il corrispondente da Asmara dell'agenzia di stampa Stefani, battendo in velocità tutti gli inviati di guerra, provvide a diffondere nel mondo la grande notizia annunciando, con molta enfasi e poco rispetto delta verità, che il maresciallo Badoglio, in sella a un bianco destriere, era entrato a capo delle sue truppe vittoriose nella capitale abissina fra un trionfo di popolo e di bandiere. Di questa scena immaginaria ne farà una bellissima tavola il pittore Achille Beltrame per la «Domenica del Corriere».
In realtà, quel giorno cadeva ima pioggia torrenziale e Badoglio non entrò in città a cavallo, ma chiuso dentro la sua Lancia Ardita, preceduto da una pattuglia di motociclisti armati di fucile mitragliatore. Guidato dal colonnello Calderini, già addetto militare presso la corte del negus, il corteo raggiunse il quartiere diplomatico dove era la nostra legazione che era stata affidata durante la guerra alla custodia del ministro francese Bodard. Giunto a destinazione, Badoglio scese dall'auto e, accompagnato dal generale Vincenzo Magliocco e dal suddetto ministro, si incamminò a piedi verso l'edificio di granito grigio dell'ambasciata d'Italia, passando davanti alle altre legazioni. Gli americani e i tedeschi applaudirono, più freddi e riservati si mostrarono gli svedesi e i belgi, mentre gli inglesi schierarono la guardia d'onore della fanteria indiana.
Più tardi, riaperta la nostra sede diplomatica, una compagnia del 71° fanteria della divisione Sabauda rendeva gli onori alla bandiera inalberando il nostro tricolore, anche questo offerto dalle donne di Vittorio Veneto. La pioggia, racconta Giovanni Artieri presente alla storica scena, continuava a cadere a dirotto e il drappo, bagnato, faticava a dispiegarsi. Poi per la forza del vento schioccò e si tese. La cerimonia si svolse nel silenzio rotto soltanto dagli squilli di tromba. Niente cavalli bianchi, niente discorsi, niente applausi. Solo poche parole mormorate da Badoglio a Magliocco: «Ce l'abbiamo fatta».
Rodolfo Graziani contava di entrare ad Harar contemporaneamente all'ingresso di Badoglio nella capitale etiopica, ma non fece in tempo perché le piogge avevano rallentato la sua marcia. Appena il cielo si fu rasserenato riprese la sua avanzata completando con la conquista di Harar, Giggiga e Dire Daua l'occupazione della regione più fertile dell'Abis-sinia. Soltanto il 9 maggio, quattro giorni dopo la presa dì Addis Abeba, ebbe luogo a Dire Daua, al cospetto della solita folla e dei numerosi giornalisti, l'atteso incontro fra le truppe di Badoglio e quelle di Graziani. Le prime erano giunte in treno sfruttando la linea ferroviaria Addis Abeba Gibuti, le seconde a piedi e combattendo. Schierati davanti alla stazione ferroviaria, i reduci dei due fronti si scambiarono gli onori militari. Mentre le fanfare suonavano la Marcia reale e Giovinezza, il maggiore Pittau, comandante del 46° reggimento della Sabauda stringeva la mano del seniore Di Gennaro, comandante di una legione di camicie nere. Si concludeva così il conflitto etiopico, con un'ultima «vittima»: il neomaresciallo Graziani che non aveva potuto partecipare alla cerimonia perché, il giorno prima, entrato in una chiesa copta dì Giggiga, era caduto in un pozzo profondo sei metri riportando una serie dì dolorose contusioni. Così commenterà il ferito in una lettera di scuse per la sua assenza: «Strana coincidenza della sorte per me: successo e amarezza».
XI