«ARMIAMOCI E PARTIAMO»
Alla campagna d'Abissinia prese parte volontariamente la «crema» del fascismo militante. Smentendo il luogo comune dell'«armiamoci e partite», con il quale si ironizzava sul falso entusiasmo manifestato dai gerarchi del regime in occasione di qualche impresa bellica, questa volta molti partirono per davvero. Alcuni con la camicia nera e i gradi guadagnati facilmente nella Milizia, altri con le «stellette» dell'esercito regolare, rassegnandosi addirittura a riprendere, Com'era prescritto dal regolamento, i gradi ricoperti durante il servizio militare. Alessandro Pavolini, Roberto Farinacci ed Ettore Muti che, grazie alle benemerenze politiche, ricoprivano il grado di console, equivalente più o meno a quello di colonnello, pur di entrare nella Regia aeronautica si accontentarono di quello di tenente. Un'eccezione fu fatta per Galeazzo Ciano che neppure aveva adempiuto al servizio militare di leva: al genero di Mussolini venne infatti assegnato il grado di capitano e il comando di una squadriglia aerea da lui ribattezzata La Disperata. Erano volontari anche i figli del Duce, Vittorio e Bruno, e il nipote Vito, figlio di suo fratello Arnaldo. Delle «gesta eroiche» dei due figli di Mussolini, nonché del genero Galeazzo, inutile dire che i giornali, esagerando come di consueto, parlarono sovente e con insopportabile piaggeria. Ma fra i numerosi «riconoscimenti» da essi raccolti in patria ve n'è uno che spicca per la sua sconcertante singolarità. Si tratta di un brano in latino scritto dal professore Francesco Stanco per un volumetto di versioni a uso scolastico: «Digni qui laudentur sunt Bruno et Victorius Ducis filii, qui cum ad-ministro G. Ciano audacter hostium propugnacula demoliti sunt, dum plurnbeis glandibus ferreisque globis ex-cipiuntur» (Sono degni di lode i figli del Duce Bruno e Vittorio che con il ministro G. Ciano audacemente distrussero le fortificazioni nemiche mentre venivano bersagliati con pallottole di fucile e proiettili di cannone).
Ciano si era portato al seguito, come suo aedo personale, anche il futuro ministro della Cultura popolare Alessandro Pavolini che provvedeva a illustrare sul «Corriere della Sera» le «storiche» imprese del suo capo con brani di questo genere:
Ciano non amava le ricognizioni: ogni decollo senza bombe lo metteva di cattivo umore. Ogni volta che invece gli era dato di lasciare i comandi a Casero e di stendersi sul fondo dell'aereo a regolare la grandine degli spezzoni tirandomi per una gamba, o a sbizzarrirsi di mitragliatrice o di carabina, in lui brillavano polso, occhio e brio.
Fra gli altri gerarchi che parteciparono all'impresa africana, figuravano il segretario del partito Achille Starace, che organizzerà una sua personale «marcia su Gondar» dedicando addirittura un libro a questa impresa; il governatore di Roma e futuro ministro dell'Educazione nazionale Giuseppe Bottai, che era di diritto colonnello e fu aggregato alla divisione Sila; il generale Attilio Teruzzi, che comandava la divisione camicie nere 1° Febbraio; Carlo Scorza, il luogotenente generale della Milizia Augusto Agostini, e i consoli Renzo Montagna, Filippo Diamanti, Vittorio Vemè, Piero Parini, nonché Asvero Gravelli, Gino Palletta, Auro D'Alba, Aldo Resega, Gherardo Casini, Nino Dolfin, Carlo Emanuele Basile, Biagio Pace, Enzo Gal-biati, Niccolo Giani. Si erano arruolati volontari anche il medico, insignito di medaglia d'oro, Raffaele Paoluccì, affondatore della Viribus Unitis durante la prima guerra mondiale, che assunse l'incarico di direttore di una unità chirurgica, e il poeta futurista Filippo Tommaso Marinerti che traccerà questo singolare profilo di Pietro Badoglio:
Forte, un po' curvocome un antico arco di guerra o meglio come una delle sue balestre d'autocarro il maresciallo Badoglio agguanta nella lente del suo cannocchiale tutta la sua battaglia.
Partecipò all'impresa anche una folta rappresentanza della Casa reale: il duca Amedeo d'Aosta, nonché i duchi di Bergamo, di Pistoia, di Spoleto e di Ancona, oltre alla principessa ereditaria Maria José in veste di crocerossina. Inutile dire che tutti si guadagnarono almeno una medaglia e la «riconoscenza della Patria» come stava scritto nell'attestato che accompagnava il nastrino della campagna.
Numerosissimi furono anche gli episodi curiosi e un po' folli che la stampa fascista non mancò di pubblicizzare. Come quello del settantenne Giovanni Piancastelli di Forlì che si offrì volontario con i suoi due figli. "Se la sua domanda sarà accettata,» scrissero i giornali «il camerata potrà fare da nonno al balilla avellinese Evaristo Stanziale di 10 anni che è stato arruolato come mascotte dalla 144a legione in partenza per l'Asmara.» O quello di una ventina di volontari, scartati per la dentatura guasta, che furono curati gratuitamente da volenterosi odontoiatri e rimessi in condizione di masticare e di imbarcarsi.
Nel frattempo erano giunte circa 12.000 domande di arruolamento da parte di italiani residenti all'estero. Dopo le opportune selezioni, furono organizzate due legioni, la 221a di 2052 uomini e la 222a di 2080. Gli ufficiali erano 220 e l'età dei volontari variava dai 15 ai 58 anni. I giovanissimi non erano mai stati in Italia. Le due legioni, dopo un periodo di addestramento a Mogadiscio, furono aggregate alla divisione camicie nere Tevere, della quale facevano parte la legione «ex combattenti», la legione «ex Arditi», la legione «studenti universitari» e la legione «mutilati di guerra». Quest'ultima era comandata dal console Gorini, anche lui mutilato, e l'abbondanza dì mani e di gambe di legno, di occhi di vetro e di protesi varie che veniva esibita da questa singolare compagine non mancherà di suscitare l'allarmata attenzione degli abissini che per gli arti artificiali manifestavano una irrefrenabile curiosità ritenendoli oggetti diabolici.
Ma la domanda di arruolamento volontario che fece più clamore fu quella di Guglielmo Marconi che chiese al Duce di essere mandato in Abissinia, «là dove la sua opera potesse apparire più utile». Mussolini, riservandosi di accoglierne la domanda, fece pervenire all'illustre scienziato «il suo vivo compiacimento per il gesto così nobile e significativo». Ma da Marconi gli italiani si aspettavano ben altro. Volevano «il raggio della morte» l'arma segreta che in quei giorni faceva sognare gli spiriti più bellicosi.
I fascisti avevano un debole per le medaglie, tanto che molti fecero addirittura carte false per essere decorati. Significativo fu quanto accadde a Roberto Farinacci. Il «ras di Cremona», come veniva chiamato, aveva perduto la mano destra mentre, così spiegava la motivazione, «istruiva volontariamente i legionari nell'uso delle bombe a mano». Per questo suo «gesto eroico» Farinacci si era rivolto direttamente al Duce per chiedergli la massima decorazione: l'Ordine militare di Savoia. Mussolini, che non nutriva grande simpatia per questo ingombrante gerarca, volle però vederci più chiaro nella faccenda, ed ecco il rapporto che ricevette da un onesto maresciallo dei carabinieri incaricato dell'inchiesta:
S.E. Farinacci non si è sfracellato la mano durante una esercitazione volontaria, ma si è ferito mentre si dilettava a pescare di frodo con le bombe a mano in un laghetto. Per questa ragione, S.E. Ettore Muti ha soprannominato S.E. Farinacci il «Martin pescatore».
Farinacci non ottenne il desiderato Ordine di Savoia, ma Mussolini, magnanimo, gli assegnò ugualmente una medaglia d'argento.
La corsa alle decorazioni al valore dei nostri gerarchi non mancò di sollevare sarcasmi e battute ironiche fra coloro che la guerra la facevano sul serio. Gli alpini della Pusteria, per esempio, improvvisarono persino questa parodia che, in seguito, il giornalista Paolo Monelli trascrisse in buon italiano:
Si scopron le tombe, si levano i morti, i nostri gerarchi son tutti risorti. Finché noi pugnammo fiorivan negli orti, ma or che la pugna diventa pugnetta i nostri gerarchi accorrono in fretta. Se spira il più lieve sussurro di vento chiedono e ottengono medaglia d'argento. Persino Starace, di tutti il più stronzo, rimedia anche lui medaglia di bronzo. Vien fuori medaglia, vien fuori ch'è l'ora, vien fuori medaglia, medaglia al valor.
Questa divertente presa in giro dovette piacere molto a Mussolini, perché annotò con la matita rossa in calce alla velina in cui era stato trascritto il testo: «Perfetta! M.».
Ma non tutti i volontari erano andati in Abissinia per conquistarsi una medaglia, moltissimi, quasi la totalità, si arruolarono per fede patriottica, come il capitano Manlio Savarè che volle prendere il posto del figlio Gioacchino, sottotenente delle truppe indigene, morto in combattimento. In seguito, nel 1940, anche il capitano morirà in combattimento meritandosi una medaglia d'oro. O come Fernando Feliciani, che racconterà:
Io sono partito il 9 aprile del 1935. Dovevamo lasciare la banchina del porto di Catania alle 17, ma alle 19 le truppe stavano ancora sfilando per la via Etnea, travolte dall'entusiasmo della folla. Quando mi arruolarono feci salti e capriole nella piazza della mia Assisi. Chi ci può credere, oggi? Chi può capire? Eravamo drogati di patria.
Oltre la fede, che certamente non mancava, c'erano naturalmente altri motivi: il desiderio di acquisire una benemerenza da far valere dopo il rientro in patria, la disoccupazione e, non ultimo, il richiamo sessuale suscitato dalle belle morette dai seni turgidi che affollavano le pagine dei giornali illustrati. Ma la molla principale che spingeva soprattutto i giovani intellettuali era il gusto dell'avventura, come confessò Indro Montanelli a Guido Vergani.
Nell'aprile del '35 ero già là, in Eritrea. Avevo 24 anni. Comandavo, unico bianco, cento neri delle truppe indigene. Era stupendo. Mi sentivo Kipling. Non si poteva chiedere ai giovani cresciuti nel fascismo di capire che l'impresa era antistorica, che arrivavamo sul mercato coloniale quando questo già cominciava a perdere i pezzi. Sì, c'era un clima di fervore. Il molo di Napoli, la navigazione, il mistero del Mar Rosso, la sensazione di andare verso qualcosa di nuovo, di poterci esprimere in uno spazio libero dai capi fabbricato, dalla burocratizzazione che il regime aveva provocato, di poter dar vita a un fascismo nuovo. C'era nei giovani una smania di pionierismo. Poi maturò laggiù la nostra crisi. Ci accorgemmo che era tutta una buffonata.
Anche nell'esercito abissino si trovavano volontari europei, ma si trattava soprattutto di mercenari, alcuni dei quali erano effettivamente esperti militari, sebbene non mancassero i ciarlatani e gli avventurieri. Essi fungevano da consiglieri, da istruttori o da comandanti dì reparti combattenti, come il colonnello greco Karavasils, che comandò una colonna di ras Desta sul fronte della Somalia. Fra gli altri, c'erano il russo Mischa Babitcheff, al comando della modestissima aeronautica abissina, e l'abile generale turco Wehib Pascià che aveva già combattuto contro gli italiani in Libia. C'erano poi un gruppo di ufficiali belgi, il cui esponente più alto in grado era il colonnello Léopold Ruel, e un gruppo di ufficiali svedesi comandati dal capitano Tamm, ai quali era stata affidata l'istruzione dei cadetti della scuola di guerra di Olettà (ne uscirono ottimi ufficiali che costituiranno il nucleo centrale della futura resistenza etiopica). Tra i mercenari figuravano ancora il maggiore svizzero Wittlin, il capitano texano Cuban Della Valle e il russo Konovaloff che fungeva da consigliere militare di ras Sejum. A costoro si uniranno più tardi un gruppo di comunisti inviati dal Comintern in Etiopia a organizzare la guerriglia nei territori occupati, fra i quali, oltre al francese Robert Monnier e al tedesco Anton Ukmar, figuravano due italiani: il livornese Ilio Barontini e lo spezzino Bruno Rolla. Tutti furono protagonisti di avventurose vicende.
Numerosissimi, dalla nostra parte, furono inoltre i volontari civili. Oltre gli operatori sanitari, i medici, gli infermieri e le crocerossine, della cui assistenza medica si giovarono anche le popolazioni indigene, c'erano gli operai, gli scaricatori portuali che superavano di numero gli stessi combattenti. A costoro era affidata la preparazione logistica della campagna. Man mano che si avanzava, i dipendenti delle varie imprese appaltatrici, come la Costa, la Gondrand, la Saiba, la Cafulli, aprivano grandi cantieri di lavoro per costruire aeroporti, ospedali, campi trincerati, ponti e soprattutto strade, lungo le quali si avventuravano con i loro carichi i camionisti, i veri protagonisti di questa guerra. Ne morirono a centinaia, precipitati nei burroni o caduti negli agguati.
D'altro canto, in questa campagna, preparata con dovizia di mezzi degna di una guerra europea, si dovettero affrontare anche gli aspetti tradizionali delle guerre coloniali, con le difficoltà connesse al rifornimento dei distaccamenti e delle colonne in marcia che implicava il superamento di immense distanze in territorio selvaggio e privo di strade. Tutto doveva essere predisposto o previsto o conquistato: la bevanda, il giaciglio, la strada, il riparo dal sole a picco o dal gelo notturno. Migliaia di camion impiegati per rifornire le truppe si trovarono coinvolti in vere e proprie azioni di guerra e avanzate offensive su terreni quasi impraticabili. Ogni autocarro era un fortino ambulante e i conducenti guidavano con il moschetto sul sedile. La scarsità dei quadrupedi, salvo i caratteristici muletti eritrei, e l'assoluta mancanza di piste transitabili, obbligò talvolta i soldati a far «da mulo al mulo», ossia a trasportare a spalla, per chilometri e chilometri, oltre alle munizioni e ai pezzi dell'artiglieria, anche i sacchi di biada per le bestie da soma delle batterie.
All'inizio del conflitto erano già presenti in Eritrea oltre 150.000 operai civili addetti alla costruzione delle strade. Allorché cominciò l'avanzata, i soldati scoprirono che la cosiddetta negus megheddè, la «strada dell'imperatore», come indicavano pomposamente le carte, era in realtà una mulattiera sulla quale faticavano anche i muli. Nell'Abis-sinia d'anteguerra, quando il negus si recava da quelle parti, i ras locali emanavano bandi rigidissimi avvertendo la popolazione che se solo una spina avesse offeso la tunica dell'imperatore a cavallo del suo muletto sarebbero seguite punizioni e impiccagioni; allora gli indigeni ripulivano la strada che però, ripartito il negus, tornava a essere una traccia incerta fra le macchie o una vaga pista sulla sabbia. Due mesi dopo la nostra conquista di Macallè, i 172 chilometri di negus megheddè che lo separavano dal confine erano già diventati una strada a regola d'arte, con il fondo asfaltato, la massicciata e i paracarri.
Volontari civili erano anche gli 85 italiani che perirono nell'unico episodio di guerriglia che si verificò il 13 febbraio 1936 a Mai Lahlà, nelle retrovie del fronte del Tem-bien, dove era stato aperto un cantiere della Gondrand. Un migliaio di armati al comando del fitaurari Tesfai, un sottocapo di ras Imrnirù, colsero nel sonno gli occupanti del cantiere. Non c'erano sentinelle: svegliati dai colpi e dalle terribili urla che gli abissini erano soliti lanciare durante i loro attacchi, gli operai cercarono di difendersi con le poche armi a disposizione. Ma la sproporzione era troppo grande e, tranne qualcuno che riuscì a salvarsi fuggendo, gli altri furono sterminati e orrendamente seviziati. Perirono con gli operai anche il direttore del cantiere, Cesare Rocca, milanese, la sua giovane moglie Lidia Maffiolì, l'ingegnere Roberto Colloredo Mels, nonché una ventina di lavoratori eritrei. Lo scoppio accidentale del deposito delle polveri da mina fece numerose altre vittime fra assaliti e assalitori. Quando la mattina dopo i primi reparti di spahis musulmani {i cavalieri libici che al nostro fianco parteciparono con entusiasmo a quella che era per loro una jihad, una guerra santa contro i cristiani copti) giunsero sul luogo del massacro, non restava altro da fare che seppellire i morti.
Le polemiche si accesero subito vivissirne, anche perché l'episodio suscitò molta apprensione nelle centinaia di altri cantieri, rutti privi, fino a quel momento, di sorveglianza costante contro queste improvvise incursioni. Furono infatti distribuite armi agli operai e si provvide a organizzare gli indispensabili servizi di difesa, mentre a Mai Lahlà ebbero inìzio le operazioni di rappresaglia. Molte forche entrarono in funzione nel cantiere assaltato e la banda di Tesfai venne successivamente raggiunta dagli spahis. Non si fecero prigionieri.
L'eccidio della Gondrand destò orrore in Italia e in Europa, ma fu ben presto superato dall'ansiosa attenzione che attirò la battaglia strategica, detta «dell'Endertà», dal nome della vasta regione che ne fu teatro. L'annuncio di tale battaglia era stato dato un paio di giorni prima da Badoglio, il quale, contrariamente alle sue abitudini, aveva convocato i giornalisti sotto una grande tenda dove era stata predisposta una minuziosa carta topografica del paese. Così racconta Giovanni Artieri:
Il Maresciallo era impolverato anche nella faccia. L'uniforme tropicale gualcita, l'immancabile scacciamosche di crine bianco nella sinistra, il casco nella destra, entrò subito nel concreto. «Domani» disse «verrà iniziata l'avanzata. Impiegheremo 70.000 uomini.» Poi, dopo aver citato cifre di reggimenti, di battaglioni e nomi di comandanti, concluse: «Abbiamo di fronte 150.000 uomini. La battaglia sarà grossa». E questo fu il solo aggettivo di tutto il discorso.
A differenza di De Bono, Badoglio instaurò con i giornalisti italiani e stranieri un rapporto cordiale. Il vecchio soldato aveva capito da tempo l'importanza della stampa e furbescamente amava tenersela amica. È vero che in Italia c'era la censura e nessun direttore di giornale avrebbe osato pubblicare una corrispondenza non «politicamente corretta», tuttavia anche nei servizi «addomesticati» l'inviato poteva inserire un aggettivo o un'osservazione in grado di mettere in luce o di oscurare le gesta di questo o di quel personaggio. La campagna d'Etiopia fu la prima guerra seguita, si può dire, passo passo dai giornalisti. Per questa ragione il ministero della Stampa e della Propaganda (sempre diretto da Ciano) aveva provveduto a organizzare presso i comandi degli uffici stampa con il compito di agevolare (ma anche di controllare) il lavoro degli inviati. I quali, peraltro, non esistendo ancora le telecamere, né i comodi telefoni cellulari, erano costretti a rivolgersi a questi uffici per poter comunicare in redazione i loro servizi o usare i ponti radio indispensabili per trasmettere dalle zone più disagiate. Come racconta Rosario Mascia, i giornali italiani scelsero con oculatezza i loro corrispondenti di guerra, quasi tutti molto giovani e destinati a diventare grandi firme: da Max David a Giangaspare Napolitano, da Enrico Emanuelli a Sandro Sandri e tanti altri, come Luigi Barzini jr, Guelfo Civinìni, Vittorio Beonio Brocchieri, Aldo Valori, Alessandro Pavolini, Cesco Tomaselli, Virgilio Lilli, Paolo Monelli, Guido Palletta, Èrcole Patti, Giovanni Artieri, Alfio Russo, Ciro Poggiali, Bruno Roghi. Questi giornalisti venivano, come si usa dire oggi, embedded nei reparti militari, indossavano l'uniforme con i necessari contrassegni e spesso erano armati. Numerosissimi erano anche i giornalisti stranieri che i nostri uffici stampa privilegiavano per quanto possibile allo scopo di esercitare su di loro una certa influenza. La pittoresca guerra africana vide inoltre gli esordi delle prime corrispondenti di guerra, come l'americana Eleanor Packard dell'United Press, l'inglese Murici Currey e la francese Marie-Edith de Bonneuil del «Paris Soir». La Packard ebbe il privilegio, unica donna, di partecipare a una missione aerea di rifornimento alle truppe in marcia. «Da bordo di un Caproni da bombardamento» racconterà estasiata la giovane giornalista «dopo una fortissima picchiata ho gettato ai soldati spaghetti, tè, zucchero, cognac e sigarette, tutti preparati in pacchi accuratamente confezionati e imballati nella paglia e nel fieno che servirà ai muli.» Negli Stati Uniti il suo scoop suscitò molta curiosità e venne ripreso anche dai giornali italiani. L'inglese Muriel Currey, invece, era una femminista convinta: aveva ìf piglio di un soldataccio, indossava abitualmente abiti maschili così che spesso veniva scambiata per un uomo. Anche la francese Marìe-Edith de Bonneuil portava shorts, stivali e pistola alla cintura, ma al contrario della collega britannica aveva grazia ed eccezionale femminilità. Sul suo conto, Paolo Caccia Dominioni ha raccontato un aneddoto stuzzicante. Un giorno la giornalista volle raggiungere da sola un fortino avanzato dove risiedevano una trentina di dubat e un solo italiano, un tenente romano di venticinque anni. I due simpatizzarono immediatamente. «La francese» scrive Caccia Dominioni «non aveva tardato a capire che soltanto poche sciarmuttine negre in quegli ultimi dieci mesi avevano frequentato il forte. Non vi furono esitazioni. Sembra che la giornalista, incontrando poi a Mogadiscio o a Chisimaio una sua compatriota, le abbia confidato: "Ah, ma chérie! Un romain de vingt-cinq ans, après dix mois de solitude: si vous saviez ce que ca donne!"».
IX