L’indoeuropeo
Del greco si conosce il suo trapassato remoto: è una lingua indoeuropea. È vero, si dice sempre così, ‘indoeuropeo’, per spiegare – quasi per giustificare o scusare – la natura tutta particolare del greco.
Ma cosa significa, esattamente, lingua indoeuropea? L’indoeuropeo è una lingua di cui non è rimasta traccia né mai è stata scritta: non resta alcuna testimonianza, quindi, né memoria del popolo che l’ha usata. Ma le concordanze tra la maggior parte delle lingue dell’Europa (potremmo dire tutte le lingue europee, ad eccezione dell’iberico e del basco, dell’etrusco, del finnico, dell’ungherese e del turco) e delle lingue dell’Asia (l’armeno, l’iranico, le parlate dell’India e il sanscrito) sono troppo evidenti per essere solo frutto del puro caso. Le comunanze tra quasi tutte le lingue, antiche e moderne, che attraversano l’Europa e l’Asia dimostrano quindi che si tratta di evoluzioni di una lingua originaria più antica: appunto l’indoeuropeo.
Persa la memoria, non resta che la ricostruzione: le nozioni che oggi abbiamo dell’indoeuropeo sono frutto di precisi studi di linguistica storica per ricomporre i frammenti e approfondire la conoscenza di una delle primissime lingue parlate al mondo. Se una lingua è la trasformazione di una lingua più antica, significa quindi che sono esistiti esseri umani che, in un certo periodo, hanno utilizzato la stessa pronuncia, lo stesso vocabolario, la stessa grammatica per definire il mondo: per farsi capire ed essere capiti.
Tuttavia, in nessun tempo e in nessun luogo esisteranno mai due individui che parlano e scrivono esattamente nello stesso modo. Né è possibile che una lingua si trasmetta immutata e invariata da una generazione all’altra. Parliamo forse oggi lo stesso identico italiano della nostra nonna? Scriviamo forse tutti lo stesso identico biglietto – anzi, sms – di auguri? Provate a pensare a quanto è cambiato il nostro mondo – e quindi le parole per esprimerlo – in soli cinquant’anni, dalla tecnologia alla scienza, dalla medicina alla politica. Provate a considerare quante parole sono servite in solo mezzo secolo per indicare oggetti e concetti nuovi, inediti, etimologicamente mai detti e mai pensati. E quante parole invece sono scomparse per non indicare più oggetti e concetti ormai dimenticati, perduti, obsoleti, etimologicamente logori e sbiaditi.
Infine, anche i mezzi di comunicazione contribuiscono a cambiare una lingua, dalla radio alla televisione, dalla lettera alla mail, fino all’era dell’ideologia del social network in tutto il suo “multiforme marchingegno”.
Nel caso dell’indoeuropeo, la stessa lingua parlata dallo stesso popolo si è modificata nel corso dei secoli, come accade ad ogni lingua.
Ma se gli esseri umani non mantengono tra loro gli stessi legami sociali e culturali che li univano quando condividevano anche un linguaggio comune, allora non si avrà più un solo popolo, ma popoli diversi, con innovazioni linguistiche diverse e, in definitiva, lingue diverse. Si tratterà quindi di lingue che, pur derivanti dalla stessa lingua madre (indoeuropea), sono nella coscienza dei parlanti distinte, proprio perché si sono distinti i popoli che quelle lingue utilizzano per esprimere società altrettanto distinte (e distintive). Quando gli esseri umani non hanno più la consapevolezza di parlare la stessa lingua perché hanno coscienza di appartenere ad un popolo diverso, le differenze linguistiche diventano sempre più grandi, enormi, e le lingue si fanno lontane, remote.
Proprio come accadde alle lingue romanze: il latino si trasformò rapidamente in francese, italiano, spagnolo, rumeno, portoghese, catalano e provenzale mentre si costituivano nuovi popoli e nuove civiltà a seguito del crollo dell’impero romano.
Oltre alle lingue romanze o neolatine, dall’indoeuropeo derivano quindi il gruppo germanico con l’inglese, il tedesco, l’olandese, il norvegese, il danese e l’islandese; il gruppo celtico, con il gallese, il bretone e l’irlandese; il gruppo indoiranico, con il sanscrito, il vedico, il persiano, l’urdu, gli idiomi parlati da minoranze linguistiche dall’Oman all’Afghanistan fino al Pakistan, l’avestico delle scritture zoroastriche; il gruppo baltico-slavo con lo sloveno, il serbo, il bosniaco, il bulgaro, il russo, il polacco, il bielorusso, l’ucraino.
“Tutte le immagini scompariranno”: così inizia il meraviglioso libro di Annie Ernaux, Gli anni, dedicato alla memoria individuale di un popolo.
Oggi fatichiamo a considerare fratelli, almeno “linguistici”, i popoli che abitano il nostro continente da Est a Ovest. Allo stesso modo i Greci del V secolo a.C. vedevano nei Persiani solo dei barbari né potevano comprendere o tantomeno riconoscere la loro stretta comunanza con la lingua e la cultura persiane o ittite.
Eppure oggi in italiano diciamo padre, come in greco si dice πατήρ, in francese père, in sanscrito pitar, in gotico fader, e così father in inglese e Vater in tedesco. Tutte parole derivate da una forma comune: l’indoeuropeo *pəter. Le parole dell’affetto, della famiglia, sono le più lente a sbiadire, come i ricordi. Similmente riconosciamo con certezza una radice indoeuropea *məter nell’italiano madre, nel sanscrito matar, nel greco μήτηρ, nell’inglese mother, nel francese mère, nello slavo mati.
Le radici delle parole, tuttavia, dicono poco degli esseri umani che le hanno scelte per esprimere la loro personalissima concezione del mondo; e noi nemmeno conosciamo questo mondo, ne saremo per sempre esclusi. Tutto ciò che si sa è che è esistito un popolo che, tra il V e il II millennio a.C., ha avuto una lingua comune, dunque una società comune, che poi si è differenziata nel tempo in lingue diverse e società diverse. L’archeologia ha portato alla luce, in Europa e in Asia, tracce di civiltà dell’Età del bronzo che dovettero appartenere ad una cosiddetta “civiltà indoeuropea”. Tuttavia armi, arnesi, resti di costruzioni sono solo fonti di ipotesi di storia e briciole di senso che non ci consegnano alcun’immagine di quella geniale popolazione, né tantomeno della lingua che parlava ogni giorno mentre progrediva verso il futuro pagando il prezzo della dimenticanza. L’archeologia è una scienza preziosa, ma muta.
Se la lingua indoeuropea si è diffusa su un territorio tanto vasto, è perché il popolo indoeuropeo portava con sé una civiltà e una cultura unitaria, condivisa, distintiva e dominante (così, ad esempio, l’inglese è rimasto la lingua degli Stati Uniti anche dopo la loro indipendenza, al pari dello spagnolo e del portoghese nell’America del Sud e del francese in certe parti dell’Africa).
Per definire la geografia d’origine di questo popolo, le sue parole, e quindi il modo di esprimere il mondo, sono in alcuni casi di grande aiuto. Ad esempio, i nomi di piante sono facilmente localizzabili: è la botanica, semplicemente è la natura. Si ipotizza, ad esempio, che la lingua indoeuropea possedesse la parola per dire betulla, che si ritrova con la stessa radice in sanscrito, in iraniano, in slavo, in russo, in lituano, in svedese e in tedesco. La betulla è un tipico albero delle montagne, adatto ad un clima freddo e umido. Non ci sono quindi betulle in Grecia: ecco perché non si trova più questa parola in greco, volutamente abbandonata da un popolo insediatosi in un territorio dove essa era del tutto inutile. Simili considerazioni linguistiche, unite agli studi archeologici ed etnografici, permettono perciò di collocare le popolazioni indoeuropee nelle regioni a Nord del Mar Caspio e del Mar Nero. Da qui, a partire dal IV millennio a.C., iniziarono un lungo processo di migrazione e di insediamento nel continente euroasiatico.
Fu quindi durante questa millenaria marcia nella direzione est-ovest e nord-sud che si svilupparono nuove e diverse società, frutto del contatto con popolazioni diverse e dell’insediamento in territori diversi; e con le nuove e diverse società, si vennero a creare nuove e diverse lingue. Tra queste lingue ebbe origine il greco, parlato da popolazioni indoeuropee penetrate nella penisola greca e nelle isole intorno al 2000 a.C.