Tre generi, tre numeri

E noi siamo sponda

ma sempre al di qua di quell’isola

dove io si dice per dire

– per essere – noi.

Pierluigi Cappello, da Azzurro elementare

In italiano possiamo dare volto, colore e natura alle cose del mondo in soli due generi: maschile e femminile. Il greco antico possedeva un genere in più: il neutro.

In italiano possiamo contarci e misurare la vita in soli due numeri: singolare e plurale. Il greco antico possedeva un numero in più: il duale.

Ho cercato a lungo una pagina in greco antico che potesse avvicinare il lettore a questi generi e numeri perduti. Ho sfogliato raccolte, versioni, spulciato testi: mi affannavo, ma nulla mi sembrava adatto a svelare per far capire, per far sentire. Da un lato, è pressoché impossibile trovare una sola riga in greco antico senza che compaia il genere neutro: troppa luce, quindi accecante per chi prova a capire. Dall’altro, l’uso del numero duale è tanto speciale che è pressoché impossibile trovare più di una riga in cui ricorra con costanza: troppa poca luce, quindi accecante (nell’altro senso) per chi prova a capire.

Infine, ho scelto uno dei passi più noti di Platone: quello che, comunemente, viene citato per parlare di anima gemella o delle due metà della stessa mela (chissà poi quanti l’avranno letto per davvero, e non sui biglietti dei cioccolatini). Insomma, ho scelto un passo che parla di amore. O di solitudine. Perché, prima o poi, nella vita l’amore lo sentiamo tutti, così come tutti sentiamo la sua fine, l’abbandono.

Sono consapevole che, benché nel testo ricorrano sia parole di genere neutro sia il numero due, questo non sia l’esempio più ortodosso per illustrare le particolarità della lingua greca e il senso del testo stia altrove: nell’amore, appunto. Sarete altrettanto consapevoli, però, che questo che avete tra le mani non è un manuale di grammatica greca, ma un racconto non convenzionale di grammatica greca.

Tradurre deriva dal latino traduco, ossia trasferire, condurre al di là. Ecco il senso della mia scelta di proporre questo brano del Simposio: condurre il lettore, che abbia studiato il greco o meno non importa, verso generi e numeri che non abbiamo più. Portarlo al di là, lasciarlo immaginare, lasciarlo sentire per poi capire.

Πρῶτον μὲν γὰρ τρία ἦν τὰ γένη τὰ τῶν ἀνθρώπων, οὐχ ὥσπερ νῦν δύο, ἄρρεν καὶ θῆλυ, ἀλλὰ καὶ τρίτον προσῆν κοινὸν ὂν ἀμφοτέρων τούτων, οὗ νῦν ὄνομα λοιπόν, αὐτὸ δὲ ἠφάνισται.

In origine, i generi degli esseri umani erano tre, non due come oggi: il maschio e la femmina; ma c’era anche un terzo che li accomunava entrambi: ora questo genere è scomparso, non ne resta che il nome.

Ἔπειτα ὅλον ἦν ἑκάστου τοῦ ἀνθρώπου τὸ εἶδος στρογγύλον, νῶτον καὶ πλευρὰς κύκλῳ ἔχον, χεῖρας δὲ τέτταρας εἶχε, καὶ σκέλη τὰ ἴσα ταῖς χερσίν, καὶ πρόσωπα δύ ̓ ἐπ ̓αὐχένι κυκλοτερεῖ, ὅμοια πάντῃ.

Inoltre la forma di ciascun essere umano era sferica, con la schiena e i fianchi circolari – come una palla, una mela. Aveva quattro mani e altrettante gambe, due volti del tutto identici sul collo rotondo.

Ἦν δὲ διὰ ταῦτα τρία τὰ γένη καὶ τοιαῦτα, ὅτι τὸ μὲν ἄρρεν ἦν τοῦ ἡλίου τὴν ἀρχὴν ἔκγονον, τὸ δὲ θῆλυ τῆς γῆς, τὸ δὲ ἀμφοτέρων μετέχον τῆς σελήνης, ὅτι καὶ ἡ σελήνη ἀμφοτέρων μετέχει.

Perciò i generi erano quindi tre e di questa natura: il maschio traeva la sua origine dal sole, la femmina dalla terra, mentre quello che racchiudeva sia la natura maschile sia quella femminile traeva origine dalla luna, che a sua volta è parte della natura sia del sole sia della terra.

Ἦν οὖν τὴν ἰσχὺν δεινὰ καὶ τὴν ῥώμην, καὶ τὰ φρονήματα μεγάλα εἶχον, ἐπεχείρησαν δὲ τοῖς θεοῖς, καὶ ὃ λέγει Ὅμηρος περὶ Ἐφιάλτου τε καὶ Ὤτου, περὶ ἐκείνων λέγεται, τὸ εἰς τὸν οὐρανὸν ἀνάβασιν ἐπιχειρεῖν ποιεῖν, ὡς ἐπιθησομένων τοῖς θεοῖς. ὁ οὖν Ζεὺς καὶ οἱ ἄλλοι θεοὶ ἐβουλεύοντο ὅτι χρὴ αὐτοὺς ποιῆσαι, καὶ ἠπόρουν.

La loro forza e il loro vigore erano terribili, il loro animo molto superbo, tanto che cercarono di assalire gli dei: ciò che narra Omero a proposito di Oto e Efialte, ossia che tentarono di scalare il cielo e attaccare gli dei, si dice anche di loro – degli uomini palla. Zeus e le altre divinità si radunarono quindi per decidere cosa fare, ma si trovarono in grande incertezza.

Μόγις δὴ ὁ Ζεὺς ἐννοήσας λέγει ὅτι ‘δοκῶ μοι’, ἔφη, ‘ἔχειν μηχανήν, ὡς ἂν εἶέν τε ἅνθρωποι καὶ παύσαιντο τῆς ἀκολασίας ἀσθενέστεροι γενόμενοι. Νῦν μὲν γὰρ αὐτούς, ἔφη, διατεμῶ δίχα ἕκαστον, καὶ ἅμα μὲν ἀσθενέστεροι ἔσονται, ἅμα δὲ χρησιμώτεροι ἡμῖν διὰ τὸ πλείους τὸν ἀριθμὸν γεγονέναι· καὶ βαδιοῦνται ὀρθοὶ ἐπὶ δυοῖν σκελοῖν’.

Dopo aver a lungo riflettuto, infine Zeus disse: “Penso di aver trovato un modo per permettere agli uomini di vivere senza più essere insolenti: renderli più deboli. Dunque ora taglierò ciascuno di essi in due parti uguali, così si placheranno e saranno più utili per noi, poiché diventeranno più numerosi. E cammineranno in posizione eretta, su due gambe”.

Ταῦτα εἰπὼν ἔτεμνε τοὺς ἀνθρώπους δίχα, ὥσπερ οἱ τὰ ὄα τέμνοντες καὶ μέλλοντες ταριχεύειν, ἢ ὥσπερ οἱ τὰ ᾠὰ ταῖς θριξίν.

Detto ciò, tagliò gli esseri umani in due, come quelli che tagliano le sorbe (le grandi bacche rosse per preparare le confetture o i liquori) o come quelli che tagliano un uovo sodo con un filo sottile.

Ὁ ἔρως ἔμφυτος ἀλλήλων τοῖς ἀνθρώποις καὶ τῆς ἀρχαίας φύσεως συναγωγεὺς καὶ ἐπιχειρῶν ποιῆσαι ἓν ἐκ δυοῖν καὶ ἰάσασθαι τὴν φύσιν τὴν ἀνθρωπίνην.

Da tempo immemore, quindi, è connaturato negli esseri umani l’amore reciproco. L’amore che ci riporta indietro per colmare il desiderio di tornare all’antica natura unita. Il desiderio di farsi, da due, uno solo.

[Tratto da Platone, Simposio, 189d - 191d]

Con o senz’anima. Il neutro

L’uomo, la donna. Il cielo la terra il mare. La bocca, il pensiero. L’albero, il frutto.

Il greco antico aveva un modo intenso di dar volto al mondo. Un modo di valutare la natura miglia e miglia sotto la superficie delle cose. Oltre al genere femminile e maschile, gli stessi in cui scegliamo di dire la vita in italiano, il greco possedeva un genere in più: il neutro.

L’opposizione non era fondata sui colori delle parole: rosa e azzurro, come fanno i bimbi, oppure qualcos’altro senza colore, magari bianco o nero. Nemmeno sul loro sesso: sennò quale sarebbe quello dei pensieri? La distinzione del greco antico era tra genere animato, maschile o femminile, e genere inanimato. Le cose della vita erano classificate grammaticalmente tra quelle con o senz’anima. Al genere neutro erano i concetti astratti, τὸ ὄνομα, ‘il nome’, τὸ μέτρον, ‘la misura’, τὸ δῶροv, ‘il dono’, τὸ θέατρον, ‘il teatro’. Al neutro erano certi oggetti, τὸ ὅπλον, ‘l’arma’, τὸ δόρυ, ‘la lancia’, e certe entità, τὸ ὄρος, ‘la montagna’, τὸ ὕδωρ, ‘l’acqua’, τὸ κῦμα, ‘l’onda’. Il corpo umano era neutro, τὸ σῶμα, come alcune sue parti: τὸ ἦτορ, ‘il cuore’, τὸ πρόσωπον, ‘il volto’, τὸ δάκρυον, ‘la lacrima’. Neutra era ‘la primavera’, τὸ ἔαρ, neutri erano ‘i sogni’, τὰ ὀνείρατα.

L’opposizione di due generi, l’animato (maschile o femminile) e l’inanimato (neutro) è propria dell’indoeuropeo e si conserva in greco senza sfocature. Anzi, la flessione indoeuropea nemmeno distingueva in maschili e femminili buona parte dei sostantivi animati: erano un genere unico, la stessa prospettiva sul mondo dotato di anima. È il greco ad aver innovato e fissato la loro differenza con l’uso dell’articolo maschile e femminile, proprio come facciamo in italiano.

Il neutro si opponeva nettamente agli altri due generi: un’opposizione che prosegue, al netto di qualche confusione e oscillazione, per tutta la storia del greco antico fino alla κοινή, per arrivare integra e carica di senso al greco di oggi.

Per una volta, quindi, una delle particolarità del greco antico non è stata cancellata dalla lavagna del tempo. La distinzione tra animato e inanimato, propria del modo di pensare indoeuropeo, ha mantenuto nei millenni un ruolo grammaticale e funzionale; resistendo alle guerre, alle invasioni, alla storia grande, il neutro è stato consegnato a noi, alla storia piccola. O meglio, è stato consegnato ai Greci (moderni), perché in italiano non lo possediamo più, benché il neutro fosse vitale e fondamentale anche in latino.

A differenza di alcune lingue germaniche, il neutro scompare da tutte le lingue romanze che dal latino derivano, come la nostra. Fu nel corso dell’evoluzione linguistica seguita all’arrivo di nuovi popoli che ogni nostra parola dovette insindacabilmente scegliere se essere maschile o femminile. Sotto il peso delle macerie dell’impero romano, ogni nostra parola smise quindi di chiedersi se fosse con o senz’anima. E maschio e femmina divennero il solo modo di distinguersi linguisticamente.

Maschile è ‘la vitaὁ βίος, maschile è ‘la morte’, ὁ θάνατος.

Neutro è il senso di ‘essere vivo’, τὸ ζῷον.

In sintesi, il sistema dei tre generi del greco si fondava sulla distinzione antica tra parole di senso animato o inanimato, con o senz’anima. L’opposizione tra maschile e femminile era molto meno netta, distante dal significato originario, talvolta confusa o sbiadita. Al neutro è la stessa parola greca che significa ‘genere’, τὸ γένος.

La distinzione tra neutro e maschile/femminile è tuttavia meno banale e più profonda di quanto si possa immaginare. Spesso è difficile rintracciare il senso del genere di una parola greca e afferrarlo; talvolta è impossibile.

Isidoro di Siviglia

Parlando di crollo dell’impero romano e di macerie linguistiche, è impossibile non pensare al personaggio più erudito, dotto, strambo e geniale che indagò la lingua nell’Alto Medioevo: Isidoro di Siviglia.

Anzi, è proprio in virtù della sua originalità senza pari che san Isidoro di Siviglia (560?-636), dottore della Chiesa, merita una menzione qui. Menzione che sarà sempre troppo breve rispetto all’immensità di libri e di nozioni che Isidoro ha sottratto ai tempi convulsi del Medioevo per consegnarla a noi.

Forse potrò rendere giustizia al suo smisurato coraggio e all’altrettanto smisurata sua fantasia solo con un caldissimo invito a leggere le Etimologie o origini, un compendio di tutto lo scibile umano noto all’epoca, dalla medicina alla lingua, dagli animali alla geografia, dalle arti al diritto. Di fatto, le Etimologie di Isidoro furono la prima “enciclopedia” della storia e una delle più forti resistenze della cultura greco-romana al suo crollo definitivo. La sua opera fu letta, tramandata e insegnata per tutto il Medioevo, proprio mentre cambiavano le lingue, i popoli, le religioni, le leggi, gli Stati; mentre il latino diventava sempre più sfocato e del greco si perdeva memoria in Europa occidentale.

Nel libro IX, nel primo capitolo dedicato alle lingue dei popoli, è con straordinaria lungimiranza che Isidoro scrive: “Se si chiede in quale lingua parleranno in futuro gli esseri umani, non è possibile trovare risposta. Infatti l’apostolo dice: ‘Anche le lingue verranno meno’. Per questo abbiamo trattato prima le lingue, e solo in un secondo momento parleremo di popoli: perché i popoli sono nati dalle lingue e non le lingue dai popoli”.

A pieno titolo Dante Alighieri definisce ardente lo spirito di Isidoro di Siviglia al v. 131 del decimo canto del Paradiso: lo spagnolo non si risparmiò in alcun modo nel suo sforzo titanico di descrivere la realtà solo attraverso l’origine delle parole che la raccontano.

Uno sforzo che non fu inutile, se si pensa che per tutto l’Alto Medioevo, mentre le biblioteche bruciavano e i testi antichi andavano perduti, gran parte dell’antichità fu appresa dalle sue Etimologie da popoli, per secoli uniti dalla stessa lingua e ora divisi, che si trovavano smarriti al bivio della frattura tra passato e presente.

Difficile negare che molte delle sue etimologie sono bizzarre, fantasiose, alcune proprio inventate di sana pianta (e per questo gustosissime da leggere oggi). Gustose da leggere, ma da non giudicare negativamente: ora disponiamo di ogni scienza e conoscenza, ma quando Isidoro di Siviglia raccolse tutto ciò che poteva, un impero non solo politico, ma soprattutto culturale, stava crollando per sempre sotto i suoi piedi. E quindi, gloria alla sua forza e anche alla sua fantasia.

Quanto ai generi delle parole, Isidoro afferma nel settimo capitolo del libro I, dedicato alla grammatica, che sono il maschile e il femminile.

Menziona, per il dovere di completezza che contraddistingue tutta la sua opera, anche generi “speciali”, prodotti dalla razionalità umana: il neutro (da ne-uter, ‘né l’uno né l’altro’), il comune, che partecipa di due generi, come canis che sta per ‘il cane’ e ‘la cagna’, e un certo, stranissimo genere epiceno, che esprime entrambi i sessi. Per quest’ultimo, Isidoro si spende in una spiegazione forse fin troppo accurata: fa infatti l’esempio del pesce, che è solo maschile perché “il sesso di tale animale è difficilmente definibile poiché non si distingue né per il portamento né per l’aspetto, ma soltanto toccando l’animale stesso con mani esperte”. (Per l’arte della palpazione del pesce si rimanda ai pescatori di Livorno).

Infine, un’ultima nota: nel 2002 papa Giovanni Paolo II ha designato san Isidoro di Siviglia patrono di Internet e di chi vi opera: le sue Etimologie, che raccolgono tutto lo scibile umano, sarebbero antesignane del web e l’indice ordinato dei loro argomenti sarebbe il primo database della storia.

Femminili sono i nomi degli alberi, perché generano vita, come la terra. Neutri sono invece i frutti dell’albero, visti linguisticamente come oggetti. Si ha così ἡ ἄπιος, ‘il pero’, al femminile, mentre τὸ ἄπιον, ‘la pera’, al neutro. Τὸ σῦκον è ‘il fico’, neutro, ma femminile è l’albero che lo mette al mondo, ἡ συκέα. Femminili sono sia ‘l’olivo’ sia ‘l’oliva’, ἡ ἐλαία, ma neutro è ‘l’olio di oliva’, τὸ ἔλαιον.

Neutri sono i diminutivi di parole maschili o femminili, nel senso affettuoso o dispregiativo di ‘piccino’. Ὁ μόσχος è ‘il vitello’, τὸ μοσχίον è ‘il vitellino’. Ὁ μεῖραξ è ‘il ragazzo’, τὸ μειράκιον è ‘il ragazzetto’.

Femminile è l’atto di fare, ‘l’azione’, ἡ πρᾶξις, neutro è il risultato dell’azione, ‘il fatto’, τὸ πρᾶγμα. Femminile è ‘la terra’, ἡ γῆ, femminile è ‘il mare’, ἡ θάλασσα: entrambi sono portatori di vita, di generazione, di fecondità e dunque di anima.

Talvolta, nomi che al singolare sono maschili o femminili, quindi animati, diventano neutri al plurale, perché si fanno collettivi nell’esprimere idee astratte. Ἡ κέλευθος è ‘la strada’, al femminile, τὰ κέλευθα è ‘la rotta per mare’ o ‘il viaggio’, al neutro. Ὁ λύχνος è ‘la fiaccola’, maschile, ma ‘la luce’ è neutro, τὰ λύχνα.

Oscuro risulta il perché alcune parti del corpo umano siano maschili, altre femminili e altre ancora neutre. Maschili sono ‘l’occhio’, ὁ ὀφθαλμός, ‘il dente’, ὁ ὀδούς, ‘il piede’, ὁ πούς. Femminili sono ‘il naso’, ἡ ῥίς, ‘la mano’, ἡ χείρ. Neutri sono ‘la bocca’, τὸ στόμα, ‘l’orecchio’, τὸ οὖς, ‘il ginocchio’, τὸ γόνυ.

In greco antico, molte parole arcaiche, riferite alla terra, all’agricoltura e al bestiame rimandano all’unico genere animato originario senza distinzione di sesso.

Ὁ/Ἡ βοῦς è ‘il bue’ come ‘la mucca’, ὁ/ἡ ἵππος è ‘il cavallo’ come ‘la cavalla’. Sono poi l’articolo e l’aggettivo a specificarne il sesso o parole specifiche come ταῦρος, ‘il toro’.

In alcuni casi, esiste senza spiegazione logica sia il maschile sia il femminile di una stessa parola: ὁ γόνος e ἡ γονή significano entrambi ‘la discendenza’.

Insieme al numero, in greco è il genere a rendere manifesti i rapporti delle parole all’interno della frase. La sua importanza grammaticale è considerevole in una lingua fondata sui casi e gioca un ruolo fondamentale nella sintassi, legando le parole concordanti tra loro.

Il genere e il numero sono di grande aiuto per districarsi in un testo greco, una bussola di senso, come tutti gli studenti sanno.

Come si studia la differenza tra maschile, femminile e neutro a scuola? Come si apprende il genere delle parole?

In questo caso, non c’è memoria che aiuti (a meno che non si voglia essere così pazzi da memorizzare tutte le parole del vocabolario), né metodo di insegnamento perfetto, neppure il più linguisticamente sensibile e attento.

Il fatto che una parola sia maschile o femminile (o neutra) è, in tutte le lingue del mondo, qualcosa di difficilmente riconoscibile e motivabile. La ragione di fondo è che ogni lingua, viva o morta che sia, sceglie in modo quasi del tutto arbitrario il genere delle sue parole. Sono poi i parlanti ad apprenderlo, a sentirlo nel profondo mentre concordano le parole tra loro per esprimersi, spesso senza consapevolezza alcuna.

Nessun italiano bada più di tanto alla scelta di un aggettivo maschile o femminile se vuole descrivere una donna un cielo un libro un sogno: il genere delle cose viene da sé. Da dentro, da lontano: dalla coscienza linguistica. Nessun particolare sforzo è richiesto nella scelta dei generi delle parole da usare parlando al telefono con un amico, scrivendo una mail al proprio capo, ascoltando una canzone o guardando un film. Nessuno si interroga mai – eccetto i ficcanasi molesti – sul perché una parola sia maschile o femminile: perché mai dovremmo? Io stessa, scrivendo, non presto alcuna cura particolare nel legare le parole tra loro in rapporti grammaticali. Ancora prima di iniziare a parlare ho imparato che ‘il cane’ è maschile e ‘la nave’ è femminile. L’italiano è la mia lingua naturale e il genere delle parole è tale per natura: è la mia lingua, è dentro di me.

Tutto ciò però non vale per le lingue che non sono le nostre, cioè le lingue straniere. E il greco è una lingua straniera, non nostra, che sceglie in totale libertà il modo in cui vedere il mondo ed esprimere il genere di ogni parola. Non essendo la nostra lingua naturale, il genere delle parole non è dentro di noi; e per di più, essendo una lingua morta, non ci sono parlanti superstiti, ma solo testi, eredi muti.

Impossibile, perciò, trovare un modo automatico o meccanico per comprendere il genere delle parole in greco antico. Ciascuna di esse è maschile, femminile o neutra perché tale risultava alle orecchie e soprattutto alla mente di chi le pronunciava.

I generi sono quindi proprietà esclusiva della lingua, di ogni lingua; e non c’è nulla che si possa fare a riguardo. Sono un modo del tutto originale di dire il mondo. Ad esempio, ‘il mare’ è maschile in italiano e femminile in francese ‘la mer’. Nessun parlante si chiede il perché o lo considera strano: in entrambi i casi, lo è di natura.

Viceversa, ciascun parlante si arrovella e studia e fatica quando si trova ad apprendere una lingua che non è la sua. In questo caso, l’apprendimento dei generi del greco antico è poco diverso da quello dei generi di ciascun’altra lingua. Poco dipende dalla sensibilità; anzi, talvolta ricorrere a paragoni meccanici con la propria lingua madre è fonte di errori e di figuracce colossali. Quasi tutto dipende dall’imprevedibilità.

Ci vogliono dunque pazienza, costanza, indulgenza, attitudine. Ci vuole tempo, tutto il tempo che serve. Più si incontra, studiando il greco, una parola, maschile femminile o neutra, più sono alte le probabilità di ricordarne il genere.

Soprattutto, serve fiducia, in se stessi e nella lingua, che è quello che è e, proprio per questo, è unica.

Un esempio su tutti per spiegare l’arbitrarietà dei generi? Il mio nome, Andrea.

Etimologicamente deriva dal greco ὁ ἀνήρ, ‘il maschio’. E questo, di fatto, significa, senza scuse, interpretazioni o possibilità di appello.

Caso vuole che io sia una donna.

Caso vuole che io sia figlia di un babbo che non conosce tristezza né paura, ma è grato ogni giorno al sole che sorge per la bellezza di vivere, compresa l’illogica, ma gloriosa idea di chiamarmi Andrea (“Andrea e basta”, come tuonò, secondo leggenda, all’addetto sconcertato dell’anagrafe che suggeriva un secondo nome più tradizionale).

Sono però una donna che è stata bambina in Italia e vi assicuro che la mia infanzia, con questo nome da maschio, non è stata uno scherzo; o meglio, è stata uno scherzo continuo per tutti i bambini che mi prendevano in giro. Il mio nome, in Italia, era ed è sentito da maschio, c’è poco da fare. Ciò che mi diceva la mia mamma quando tornavo a casa mortificata era del tutto inutile a consolarmi: ad esempio, che Andrea finisce per a quindi è un po’ femminile (io volevo un nome tutto femminile come le altre bimbe, non solo un po’: per un certo tempo, tra i sei e i sette anni, presi a mentire e a dire in giro che mi chiamavo Silvia, con sommo dolore di mio padre).

Soprattutto, inutile dire cento, mille volte che Andrea è un nome da femmina in mezza Europa e in tutte le due Americhe, del Sud e del Nord. Niente ha importanza, neppure il fatto che si veda benissimo che sono una donna. In Italia, Andrea è un nome da maschio e così è sentito da tutti gli italiani, punto. Oltre ogni frontiera del nostro Paese no, ma qui, qui sì. È questo sentimento linguistico dell’italiano a spiegare l’immancabile domanda che mi viene rivolta ogni giorno: “sei straniera?” (i capelli biondi, gli occhi chiari, la pelle bianca non mi hanno mai aiutata: ancora oggi c’è chi mi parla al bar dritto dritto in inglese o in tedesco).

Ed ecco che l’Agenzia delle Entrate mi assegnò subito un codice fiscale sbagliato, da uomo, e a diciott’anni ricevetti la cartolina per il militare.

Ecco che ogni volta che mi presento seguono, a seconda dei casi, silenzio imbarazzato, vari intercalari come “eh?” o “ah”, precisazioni come “ma Andrea Andrea?”, e nel peggiore dei casi, battute di basso livello. Una volta qualcuno arrivò a chiedermi come mi chiamassi davvero, credendo fermamente che Andrea fosse ‘un nome d’arte’ (perché mai avrei dovuto avere un nome d’arte non si sa).

Ecco che ogni volta che uso la carta di credito a me intestata, i cassieri mi guardano come una ladra o, nei casi migliori, mi chiedono se ‘mio marito’ sa che sto facendo shopping con i soldi suoi. Il controllore del biglietto nominativo del treno emette un colpo di tosse imbarazzato costringendomi a dire “sì, sono proprio io” e l’hostess dell’aereo mi chiede i documenti tre volte, per sicurezza.

Ecco che nessun operatore di call center crede davvero che Andrea sia io, così come postini, impiegati di banca, sorveglianti allo stadio o ai concerti; e invece sono io, sì, anche se il mio nome in Italia è un nome da uomo.

Ho stimato una media di tre fraintendenti al giorno dovuti al mio nome da maschio. Potete quindi immaginare la mia serenità appena metto piede all’estero (proprio ora che scrivo a Sarajevo e, per tutti, tra nome e colori, sono slava).

Eppure, una volta diventata donna sono diventata fiera del nome Andrea, sebbene sia originale, per una grecista, avere un nome etimologicamente errato.

Andrea è il mio nome, il mio modo di essere e la mia bandiera, ringrazio il mio babbo per la sua forza e la sua libertà, il suo regalo più bello oltre all’allegria. Poco importa se è da uomo: ricordate quando dicevo che i generi delle cose del mondo sono naturali, dentro di noi? Sono così abituata a portare addosso il mio nome che delle volte mi pare davvero impossibile che un maschio, in Italia, si chiami Andrea!

Io, noi due, noi. Il duale

Gli occhi le orecchie le mani i piedi.

I fratelli gli amici gli alleati.

Gli amanti.

Il greco antico, grammaticalmente parlando, contava fino a tre: uno, due, due o più.

Oltre agli stessi numeri con cui si contano le cose e quindi si misura la vita in italiano, il singolare -io- e il plurale -noi-, la lingua greca antica possedeva un terzo numero: il duale -noi due-. Due occhi, τὼ ὄμματε, due mani, τὼ χεῖρε, due fratelli, τὼ ἀδελφῶ, due cavalli, τὼ ἵππω. Soprattutto, due persone, τὼ ἀνθρώπω.

Il numero duale non esprimeva una mera somma matematica, uno più uno uguale due. Per il banale far di conto della vita esisteva il numero plurale, proprio come ora. Il duale esprimeva invece un’entità duplice, uno più uno uguale uno formato da due cose o persone legate tra loro da un’intima connessione. Il duale è il numero del patto, dell’accordo, dell’intesa. È il numero della coppia, per natura, o del farsi coppia, per scelta.

Il duale è allo stesso tempo il numero dell’alleanza e dell’esclusione. Due non è solo la coppia. Due è anche il contrario di uno: è il contrario della solitudine. Come se ci fosse un grande recinto: chi vi è dentro, al numero duale, sa di esserlo. Chi vi è fuori ne resta irrimediabilmente escluso. Dentro o fuori.

Come l’aspetto, anche il duale arriva al greco antico dai granai di senso linguistico dell’indoeuropeo. Si tratta quindi di un numero antico, puro. Un modo di dare numericamente senso al mondo. Il latino, da cui derivano le nostre lingue romanze, subito cedette e del duale non conserva traccia alcuna, nemmeno nei primissimi testi; il duale si trova invece in sanscrito, e oggi in lituano e slavo. Anche le lingue semitiche presentano il duale, fino al moderno arabo.

In greco antico il duale non era stranezza. Non era un capriccio matematico della lingua e di chi la parlava. Questo numero era deliberatamente adottato, sia per ciascun caso della flessione nominale sia in ciascuna persona della flessione verbale, tutte le volte che si parlava di due persone o di due cose unite: potevano essere un paio per natura, come gli occhi e le mani, oppure insieme anche solo per un momento, come gli amanti. Un numero che, tuttavia, fin dai tempi di Omero, tende ad oscillare, confondersi, sparire e riapparire a seconda dell’uso – libero, liberissimo – che ne fanno gli autori. Per i Greci il duale esiste laddove è utile al senso, laddove il parlante lo sente. E, tuttavia, gli arcaismi dell’indoeuropeo, resti di una lingua che non esiste ormai più, scompaiono subito dalla lingua corrente.

Il duale era un modo di contare il mondo, di misurare la natura delle cose e le relazioni tra esse. Era un numero molto concreto. Molto umano. Sensibile, logico o illogico a seconda dei singoli casi: così è la vita. Il duale era il meno banale dei numeri, difficile da classificare, impossibile da normalizzare.

Quando la civiltà greca si fece più complessa, i numeri della lingua diventarono, da concreti, astratti. Numeri rigorosamente logici. Misurabili senza oscillazioni, senza legami con ciò che ora è insieme ma forse poi non sarà più. Numeri linguisticamente matematici. La lingua cambia quando a cambiare sono coloro che la parlano.

Nella maggior parte delle colonie, dove il progresso era stato più rapido e, come spesso accade, linguisticamente frettoloso, il duale si perde fin dalla loro fondazione. Saffo, sull’isola di Lesbo, ignora il duale, così come lo ignorano tutti coloro che parlano il dialetto ionico. Il duale, per contro, si mantiene nella Grecia continentale, contadina, legata alla terra e quindi più dura, più lenta a dimenticare.

Questo modo di contare della lingua greca si trova prevalentemente nel dialetto attico del V-IV secolo a.C. Platone usa il duale senza paura, in modo preciso e con regolarità. Viceversa, i poeti tragici e comici lo impiegano in modo strano, incoerente (del resto, la differenza tra tragedia e commedia è più di angolo di visuale sul mondo umano che di contenuto). Tucidide lo evita: le oscillazioni del duale non si adattano alla linea retta del tempo della storia. Gli oratori lo utilizzano, sebbene con molte riserve: un numero troppo poco conforme alla lucidità richiesta dalla prosa politica.

Con l’avvento della κοινή, il duale era a poco a poco sparito ovunque, se non in qualche parlata delle campagne. Infine, sbiadito, divenne linguistica dimenticanza.

La ripresa del duale da parte degli autori di età imperiale detti “atticisti” che si riproposero secoli dopo di riportare in vita il puro dialetto attico – resti di una lingua che, ancora una volta, non era più la loro – non fu che un gioco senza alcuna importanza per la storia del greco. Ovunque nella Grecità si era ormai opposta l’unità alla pluralità. Uno contro molti. Uno più uno uguale due, senza eccezioni. Come oggi.

Fu una ragazzina livornese di quinta ginnasio cui davo lezioni di greco a fornirmi una delle definizioni più originali del numero duale greco che abbia mai sentito: “Il duale è quella cosa che nelle versioni non si trova mai, perciò la dimentichi appena studiata. Poi accade che una volta, una sola e dannatissima volta, lo trovi nel compito in classe e allora il duale ti punisce così tanto che non lo scordi più”.

Sì, bisogna ammetterlo: il duale, nelle versioni scolastiche, non si incontra quasi mai.

Quasi, appunto.

La misura di questo quasi dipende dal fatto che il greco che studiamo a scuola è lo ionico-attico, il dialetto di Platone e di Pericle. Ed è proprio nella lingua di Atene, del Partenone e dell’Acropoli, che il duale si conserva con maggiore coerenza e frequenza.

Inoltre, a codesto quasi contribuisce la natura tutta linguistica e non matematica del duale: non basta trovare menzionate in un testo due cose o persone perché esse siano espresse automaticamente al duale. Anche nel caso si trattasse di un testo di anatomia in cui non si parli d’altro che di orecchie, occhi, mani e piedi, l’uso del duale non è mai scontato: l’impiego di questo numero dipende dalla libera sensibilità linguistica dell’autore.

Ecco la mia personalissima definizione di duale: uno più uno uguale uno formato da due, non semplicemente ‘due’: il greco δύο, ‘due’, è unicamente al duale.

L’uso di questo numero, e le tante oscillazioni e incertezze che lo hanno accompagnato nel corso della sua storia linguistica condannandolo a irreparabile scomparsa, era legato alle relazioni che l’autore scorgeva tra due entità. Ecco quindi che al duale possono comparire parti del corpo; navi alleate che solcano il mare verso lo stesso nemico; cavalli che tirano lo stesso carro da guerra; fratelli gemelli, sposi, soldati alleati, divinità. Oppure, no.

Il manuale di grammatica greca

La definizione di duale riportata nella pagina successiva proviene dalla pagina 42 di Γράμματα, la grammatica sulla quale, al ginnasio, ho mosso i miei primi, incerti passi nello studio della lingua greca. Edita da Edizioni Cremonese nel 1976, il manuale di grammatica greca è ancora in uso oggi in molti licei classici.

Difficile definire i miei primi passi su quel manuale una passeggiata. Fu invece un percorso tutto in salita, come dimostra il volume-reliquia che mi ha seguita a Livorno e fin qui a Sarajevo, trasloco dopo trasloco, laurea dopo diploma, vita dopo vita: la copertina stracciata come dopo una libecciata a forza di infilarlo in zaini prima e in borse poi, le pagine superstiti zeppe di annotazioni di ogni genere, colori di evidenziatori tutti diversi, sottolineature e cerchiature disperate, oltre ai nomi di ex fidanzatini annotati a margine di qualche declinazione e, soprattutto, all’urlo di dolore “io odio il greco!” accanto alle eccezioni del perfetto (solo un momento di debolezza, ça va sans dire, se poi mi sono laureata con soddisfazione e follia in lettere classiche).

Difficile definire Γράμματα un bel libro. Come tutti i manuali, fa il suo mestiere: insegna a maneggiare. A stare a galla e a non affondare. La veste grafica non è delle più invitanti – una serie infinita di tabelle e regole in bianco e nero – e nessuno spazio è concesso al senso della lingua. Certo è un prontuario chiaro, senza sbavature, persino comodo nell’estremo rigore che impone nello studio della lingua greca, cui ancora oggi ricorro nel caso qualcosa mi sfugga. In altre parole, so che tutto quello che c’è da sapere della grammatica, si trova lì dentro. Infine, la carta di Γράμματα, ruvida e semplice, è bellissima e ora carica del profumo di pensieri pensati cento e mille volte.

Per la stesura di questo libro ho consultato inoltre le dieci grammatiche più in uso negli attuali licei classici. I titoli sono diversi – quasi tutti, di grazia, ormai in alfabeto latino e non greco –, spesso accompagnati

Il suo utilizzo dipendeva dalla connessione e dal rapporto che il parlante rintracciava o non rintracciava tra due entità: un numero concreto, si diceva, un numero umano e non matematico. Un numero per dare senso alle relazioni tra cose e persone, se quel senso c’era. Un numero non misurabile, mai imposto per legge grammatica dalla lingua greca antica, ma sempre liberamente scelto da chi in quella lingua parlava e scriveva.

Cosa si apprende del duale, e di questo modo di dare un senso numerico al mondo, al liceo classico? Una riga. In tutti i manuali scolastici che ho consultato e su cui si affannano – proprio adesso, mentre scrivo, mentre leggete – i millennials del liceo classico per apprendere una lingua di duemila anni fa, al duale è riservato il privilegio di una riga; o mezza. Una riga collocata in un punto sperso della pagina un attimo prima delle decine e decine di tabelle per apprendere a memoria declinazioni e coniugazioni.

La riga in questione suona quasi sempre così: “In greco si distinguono tre numeri. Singolare, duale e plurale. Il duale serve a designare cose o persone, che in natura si trovano accoppiate o che lo scrittore considera come tali”. Fine.

Sarà per questo che l’esistenza di un numero tanto prezioso di senso scompare subito dalla memoria degli studenti e quasi mai arriva a sfiorare la loro sensibilità linguistica (noi, parlanti italiano, di questo senso di unità duplice siamo linguisticamente privi).

Tradotto, grazie all’unica versione in cui vi imbatterete nel duale e pagherete pegno della dimenticanza e arrivederci (come mi diceva la mia giovanissima allieva, chiedendo scusa a me e alla grammatica greca tutta fino ai bizantini, quasi fosse tutta colpa sua). Ma il gioco dell’oblio dovuto alla poca cura prestata alla sensibilità linguistica nell’apprendimento è fin troppo facile: un gioco da dilettanti, oserei dire, ma senza divertimento.

Paradossalmente, al liceo si studiano con costanza le forme di duale di tutti i sostantivi e tutti i verbi, sempre e rigorosamente declinati e coniugati ai numeri singolare, duale e plurale. Le desinenze dei sostantivi al duale sono due, una per il caso nominativo, accusativo e vocativo, l’altra per il genitivo e il dativo: ad esempio, nella prima declinazione si ha τὰ μοῖρα, ‘i due destini’, ταῖν μοίραιν, ‘dei due destini/ai due destini’. Anche le desinenze dei verbi sono due, seconda e terza persona duale: ad esempio, al modo indicativo στέλλετονvoi due spedite’, στέλλετονloro due spediscono’. Ne deriva che il duale è tanto facile da ricordare che ancora più facile è dimenticarlo. Solitamente, ciò avviene appena girata la pagina. Archiviato. Io stessa, al ginnasio, andavo un po’ a memoria, un po’ ad orecchio, un po’ tentavo la sorte sperando di non incontrarlo mai. Il fatto è che, quando s’incontra un testo greco che ne racchiude davvero il senso, il duale lo si è dimenticato già da un pezzo.

Scrivendo questo capitolo, mi sono fermata più volte a chiedermi perché mai a scuola si apprenda al numero duale ogni verbo e ogni parola se il suo uso è così raro, così ambiguo, così intimo, così poco classificabile.

Mi sono presa del tempo per riflettere sul senso del duale e per raccontarlo qui (i manuali universitari accrescono il privilegio concesso a questa categoria grammaticale del greco antico con ben due righe due di spiegazione anziché una). Il duale sembrava sempre sfuggirmi, oscillando nella mia mente tanto quanto oscilla nei poemi di Omero. Di fatto, scrivendo mi sono resa conto che il duale non l’avevo davvero capito mai. L’avevo sempre liquidato come una forma rara, eccentrica, illogica, che sfuggiva ad ogni normalizzazione e quindi ad ogni risposta. L’avevo sempre percepito come un modo grammaticalmente originale del greco antico di contare fino a tre: singolare, duale e plurale. Avevo sempre pensato che, nel caso l’avessi incontrato in un testo, le regole apprese mi sarebbero bastate per decifrarlo e dargli un senso.

Soprattutto, avevo sempre creduto che i numeri grammaticali in greco fossero uno, due, tre o più. Mi sbagliavo. Mi sbagliavo di molto.

Il duale ha senso solo perché il greco antico sentiva il bisogno di esprimere linguisticamente qualcosa di più di un numero matematico, qualcosa che noi abbiamo perduto, impegnati a far linguisticamente di conto con il pallottoliere della vita in mano: il senso delle relazioni tra le cose e tra le persone.

Finalmente compreso il senso libero e assoluto di questo numero, non è stato difficile spiegarmi perché, a scuola, si studia il numero duale di ogni parola di greco.

Lo si studia in caso di. Lo si studia per precauzione, per previdenza, nel caso fortuito – o malaugurato – che un autore scelga di esprimere al duale una relazione tra due occhi due buoi due amici due isole due mari due amici due sorelle due venti: una relazione tra qualsiasi cosa. In sintesi, a scuola si studia il duale in caso di incontrarlo per caso.

Il risultato è che il senso del duale, una delle più arcaiche, originali e genuine eredità dell’indoeuropeo, sfugge oggi quasi a tutti, sopravvissuto in una riga da manuale, una riga che a noi non dice più nulla. In linguistica, come nella comunicazione contemporanea fatta di slide, sms e tweet, è il principio di economia a vincere sempre: nel caso di più forme con lo stesso senso prevale la più semplice, la più veloce, la più immediata. E pazienza per la banalizzazione linguistica: di questo passo, temo che nel giro di dieci anni perderemo l’uso della parola e ci esprimeremo solo per emoticon.

Così dovette andare anche per il duale del greco antico: il suo senso di duplicità sparì, confuso con il generico plurale. Ritenuto inutile, fu prima abbandonato, poi dimenticato.

Coloro che hanno avuto il raro privilegio di amare davvero sapranno sempre distinguere la differenza di intensità e di rispetto che intercorre tra pensare “noi due” e “noi”; ma più non lo sanno dire. Per dirlo, infatti, ci vorrebbe il duale del greco antico.