La Festa di Francesca
«Quando andiamo, Mamma?» chiese Francesca. «Possiamo andare subito dopo colazione?»
«Beh, ma quanto tempo ti ci vorrà?»
«Parecchio» disse Francesca. «Servirà un sacco di neve, per ricoprire tutte le collinette.»
«Un’ora?»
«Più o meno.»
Rosie sorrise. «Allora non è il caso di uscire subito dopo colazione. Andremo al parco a mezzogiorno, così avremo un po’ di tempo in più, nel caso sia necessario.»
Stavano parlando della tormenta di neve. Temevo (benché io non sia un esperto di questioni metereologiche) che fosse un impegno eccessivo per una bimbetta come Francesca. Come mi sbagliavo! Saltai anch’io nel furgone quando, alle dodici in punto, Rosie e Francesca partirono per andare al parco a preparare il terreno. Essendo curioso di natura, volevo vedere come avrebbe fatto. Non ricordo esattamente che cosa avevo immaginato, ma era certamente qualcosa di più spettacolare. Rimasi nel furgone e osservai gli avvenimenti dal finestrino posteriore; da lì avevo una visuale eccellente e non correvo pericolo di finire sotto la neve. Francesca si li-
mitò ad andare in giro con le braccia alzate sopra la testa e un’espressione severa. Per un po’ non accadde nulla. Parecchie persone si girarono a guardare quella scena bizzarra: una bambina con una giacca a vento rossa, che camminava a grandi passi, tenendo le braccia sopra la testa e borbottando tra sé e sé.
Era una giornata piuttosto grigia e fredda. Non pioveva, ma una nebbiolina sottile aleggiava nell’aria. Dopo un po’, quando avevo ormai perso ogni speranza, grossi nuvoloni temporaleschi d’un blu violaceo cominciarono ad ammassarsi sopra le nostre teste; viaggiavano bassi e si andavano adden-sando sui pendii erbosi di quella zona del parco. All’improvviso iniziò a cadere la neve e, dopo poco, nevicava così in-tensamente che io, dal furgone, quasi non riuscivo a vedere Rosie e Francesca. Guardai l’orologio sul cruscotto e crono-metrai la tormenta: quarantatré minuti esatti. All’inizio, la neve si distribuì sul terreno come zucchero sparso sulle fragole, poi divenne sempre più spessa, finché non rimase che un deserto di pendii, dune e avvallamenti bianchi. Rosie e Francesca rientrarono nel furgone all’una e dieci.
«Un’ora esatta, Francesca» disse Rosie. «Brava! Adesso corriamo a casa a metterci gli abiti da sci.»
Io ero un po’ preoccupato all’idea di lasciare la neve ab-bandonata a se stessa. E se si fosse sciolta? E se la gente l’avesse ridotta in poltiglia, calpestandola? Lo dissi a Francesca.
«Non ti preoccupare, Ozzy» mi bisbigliò accarezzandomi le orecchie «c’è una forza speciale, una specie di magnetismo alla rovescia. La gente arriverà fino ai margini della zona innevata, ma non potrà entrarvi, a meno che io non lo permet-ta. E’ il mio tempo personale, e per quanto riguarda lo scio-gliersi, non succederà finché non lo dirò io, capisci?»
Le feci dolcemente le fusa e chiusi gli occhi, ma non prima di aver notato, proprio ai margini dell’area innevata, una lunga fila di curiosi che osservavano l’evento miracoloso, chiedendosi perché non riuscivano ad avvicinarsi fino a toc-care la neve. Sarebbero sicuramente corsi tutti a casa a scrivere lettere al giornale locale. Forse ci sarebbe scappato un bel titolone: Strana Bufera di Neve al Parco.
Devo confessare che non partecipai alla sezione Giochi Invernali della festa. Per quanto sia devoto a Francesca, la mia idea di divertimento non comprende l’arrancare su per pendii nevosi, per poi scivolare giù a tutta velocità su un pezzo di legno levigato. Quindi lascio alla vostra immaginazione gli strilli di gioia, i berretti col pon-pon, le sciarpe a righe e, soprattutto, lo stupore generale alla vista di un’area così vasta del parco, completamente ricoperta da una spessa col-tre di soffice e freddissima neve.
No, devo ammetterlo, scelsi la tranquillità e mi sedetti in sala da pranzo ad ascoltare Bianca e Marco che organizzava-no Lo Spettacolo. Si trattava di una recita, interpretata da Candy, Sandy, Mandy e Shandy. Un paio di soldatini di Marco avrebbero fatto l’eroe e il malvagio, mentre un dinosauro giocattolo sarebbe stato il drago. I bambini avevano trasformato il passavivande in un palcoscenico. La parte che dava sulla cucina fungeva da retroscena e un panno blu la separava dal fronte scena. Sulla mensola, che normalmente regge i piatti pronti da portare in tavola, le bambole, rese vive da Bianca, si stavano preparando per lo spettacolo.
«Presto saranno di ritorno» disse Bianca «poi, ci sarà il barbecue, e subito dopo lo spettacolo. Sandy, ricordi le tue battute?»
«Certo che me le ricordo» disse Sandy «solo non capisco perché devo essere io l’Orribile Regina. Perché non posso fare la Bella Principessa al posto di Candy?»
«Perché tu sei la più vecchia; la storia è così. E’ Marco che l’ha scritta. E poi, la Regina diventa buona, alla fine.»
«Ma è antipatica, all’inizio» ribatté Sandy, levando in aria l’impertinente nasino rosa. «E non vedo perché debba esserci un drago nella storia. O un combattimento. I maschi ci mettono sempre qualche combattimento.»
«Così è più eccitante» disse Marco. «Ecco perché. Le fa-vole sono piene di draghi, e poi al mio drago piace recitare, proprio come a te, quindi non si discute. Adesso provate un’altra volta prima che tornino indietro e ci interrompano.»
«Beh, comunque non me ne importa» disse Sandy, a cui piaceva avere l’ultima parola. «Io ho il vestito più scintillante. Nemmeno quello di Candy luccica quanto il mio!»
Il barbecue si stava svolgendo in giardino. Erano le quattro del pomeriggio e Francesca aveva dato un po’ di forza ex-tra all’ultimo sole di novembre, così che gli ospiti potessero mangiare salsicce e hamburger senza aver freddo. Filomena si aggirava tra i bambini servendo limonata, e Rosie stava preparando il dolce (di cioccolata, a forma di sei) per la cerimonia delle candeline. Eddie, invece, rigirava gli hamburger da un lato e dall’altro e controllava che le salsicce si cuoces-sero uniformemente.
«Niente di peggio» mi disse «che una salsiccia mezza cruda e mezza carbonizzata. Niente di peggio. Io» diede un paio di abili punzecchiatine con una lunga forchetta «sono un professionista della salsiccia. Tutto ciò che esce da questa griglia deve essere cotto a puntino!»
E Io era. Posso confermarlo, perché trascorsi molto tempo a ingozzarmi felicemente dei vari pezzettini che la gente lasciava cadere per terra. Dopo un po’ il sole tramontò, scese la sera e non ci fu più niente da mangiare. Fu a quel punto che risuonò la voce di Bianca. Aveva spalancato la portafine-stra della sala da pranzo ed era uscita sulla veranda.
«Signori e signore, bambini e bambine» disse. «E ora di entrare per assistere allo spettacolo.»
I bambini si accalcarono verso la porta.
«Uno alla volta. Sedetevi sul pavimento e state buoni»
continuò Bianca. «Assisterete a una breve recita.»
Quando tutti si furono sistemati, Marco chiuse la porta e tirò le tende.
«Questo spettacolo si intitola “La Principessa e il Drago”» disse Bianca. «E stato scritto da Marco e sarà reci-tato dalle mie bambole, Sandy, Candy e Mandy e dal loro cane Shandy; parteciperanno anche due soldatini di Marco e il suo dinosauro. Siete pronti?»
«Sì!» gridarono tutti gli amici di Francesca. Allora Marco toccò un interruttore, l’oscurità s’impadronì della stanza e tutti fecero silenzio. Un’unica luce brillava, proveniente dalla cucina, attraverso il passavivande, illuminando quella che doveva essere la camera da letto della Principessa Griselda, interpretata da Candy.
Era una storia commovente. La Principessa Griselda stava per essere costretta dalla sua avida madre, la Regina Esmeralda (che voleva diventare la persona più ricca sulla faccia della Terra), a sposare il Capitano Jim, uomo ricco e malvagio. Solo il suo fedele drago, Dermott, poteva aiutarla a scappare. Dermott sputò fuoco sul Capitano Jim, che corse via in preda al terrore, permettendo così a Griselda di scappare. La Principessa trovò rifugio in una capanna nella foresta, dove incontrò un taglialegna di nome Igor, che aveva un cane (Shandy!); si sposarono ed ebbero un bambino (Mandy!). Quando, però, il Capitano Jim trovò la capanna nella foresta, sfidò Igor, dicendo che il vincitore si sarebbe preso Griselda. Nel combattimento il Capitano Jim fu battuto da Igor e corse a raccontare a Esmeralda che cosa era successo a sua figlia. Esmeralda disse: «Oh beh, in fondo i soldi non sono poi così importanti: andiamo a trovarli.» Così lei e il Capitano Jim alla fine divennero buoni e tutti vissero felici e contenti.
Io, che avevo già assistito alle prove, me ne tornai in giardino per aiutare a ripulire… cioè, a cercare altri bocconci-ni di salsiccia tra l’erba. Stavo perlustrando la zona col naso incollato al terreno, quando trovai un blocchetto di etichette strappate da lattine di frutta sciroppata e tenute insieme da una graffetta. Mi sembrò un oggetto strano e decisi di portar-lo a Eddie. Lui avrebbe certamente saputo cosa farne. Lo trovai che stava riponendo il barbecue.
«Che cosa sono, Ozzy?» disse. «Pesche, pere, albicocche, mandarini, guava, litchi… Ah, vedo, qualcuno le ha col-lezionate; probabilmente, quando ne hai abbastanza, ti rega-lano un macinapepe o qualcosa del genere. Se fossi in te, le butterei via: sono per metà strappate e per metà lerce. Credo che nessuno le voglia più, ormai.» Eddie tornò a occuparsi del barbecue e io ripresi le etichette, con l’intenzione di get-tarle nel bidone della spazzatura. Eddie, però, mi inseguì correndo.
«Ozzy, Ozzy, fammi vedere un attimo quelle etichette!»
Le prese e le osservò di nuovo. «Ozzy» ansimò «questo potrebbe essere quello… che stavo aspettando! Non vedi? Queste etichette fanno una Macedonia! Oh, Ozzy, non sarebbe magnifico un Albero della Macedonia? Ma te l’immagini?
Diventerei famoso. Verrebbe gente da ogni parte del mondo, a chiedermi come ho fatto. Potrebbero anche invitarmi alla radio per l‘“Ora del Giardiniere”! I miei clienti mi chiedereb-bero l’autografo! Sì, sì, so che è pazzesco. So che sono solo etichette di carta con un disegno sopra, ma tenterò lo stesso.
Sì. Ormai ho provato di tutto.» Si girò e corse verso la serra, ormai immersa nell’oscurità. Lo seguii.
«Guarda, Ozzy» disse «le mettiamo sul fondo di un vaso da fiori, le copriamo col Composto Miracoloso e teniamo le dita incrociate.» Intorno a lui, sui tavoli e sugli scaffali della serra, c’erano parecchi vasi che contenevano i vari esperimenti sull’Albero della Macedonia, che non avevano dato risultati. Eddie aveva tentato con i semi, con le talee, perfino con la frutta… a dire il vero, le uniche cose con cui non aveva provato erano lattine ed etichette. Alcuni esperimenti erano riusciti a metà: aveva ottenuto un albero di aranci e limo-ni, che però, aveva ammesso tristemente, era parecchio diverso da una macedonia. C’erano stati anche una vigna senza uva e un banano con nient’altro che banane… insomma, niente che si avvicinasse a una macedonia.
«Mi raccomando, non dirlo a nessuno, vecchio Ozzy, o penseranno che siamo impazziti.»
Annuii, ovviamente, ma anch’io pensavo che fosse im-pazzito, e non avevo parole per esprimere la mia indignazio-ne per avermi coinvolto in quella follia. Mi acciambellai su uno scaffale e chiusi gli occhi, fingendo di non prestare la minima attenzione a quel che lui stava facendo.
Quando Eddie e io rientrammo in casa, gli ospiti se ne stavano andando. Udii una bambina che diceva:
«Non credo che fosse magia; probabilmente avevano solo dei pupazzi speciali. Forse erano elettrici.»
«Ma come facevano a sapere a memoria le parole che ha scritto Marco?» osservò un’altra bambina.
«Certi non le sapevano mica tanto bene. Il drago (o era un dinosauro?) le aveva completamente dimenticate, e ha dovuto chiederle a Bianca.»
«Appunto» disse la seconda bambina. «Questo prova che è magico. Le cose elettriche non ti chiedono aiuto, quando si rompono.»
«Io non credo alla magia» disse la prima bambina, con decisione. «Probabilmente c’era un telecomando a distanza.»
Seguirono le loro madri oltre il cancello e furono inghiot-tite dall’oscurità.
Siete di quelli che vogliono sapere quali regali la gente ha avuto per il suo compleanno? Io sì, dunque vi farò una lista dei regali di Francesca:
Un mucchio di scatole di pennarelli.
Un paio di grossi quaderni.
1 puzzle.
4 libri.
1 bambola Cindy in abito da sposa. (Francesca ne aveva desiderata una fin da quando i Collins avevano annunciato il loro matrimonio!)
1 astuccio per matite.
Dopo la festa, mentre gli altri ripulivano, Francesca se ne stava sul pavimento della cucina, circondata da tutte queste cose e le esaminava una dopo l’altra.
«Devi farlo proprio qui?» disse Rosie. «Prima o poi ci farai inciampare. Metti tutta la tua roba sul tavolo. Bianca, Marco, aiutatela.»
Mentre Bianca, Marco e Francesca spostavano i regali, entrò Filomena, tenendo entrambe le mani nascoste dietro la schiena.
«Indovina che cos’ho qui, Francesca!» esclamò.
Francesca meditò. «Non può essere il tuo regalo per me, perché ce l’ho addosso. Mi piace tantissimo, Filomena.»
«Ne sono felice. L’ho fatto apposta a righe nei colori del gelato, perché so che adori il gelato. È magico, naturalmente.
Ogni volta che lo indosserai ci sarà gelato a cena. Che dolce c’è per cena domani, Rosie?»
«Gelato con cioccolato fuso» disse Rosie.
«Ecco! Che cosa ti avevo detto?» Filomena ridacchiò.
«Ma non hai ancora indovinato che cos’ho in mano.»
«Ci sono!» Francesca si alzò dalla sedia con un balzo.
«E’ un regalo da parte di Zia Varvara! Vero? Credevo che se ne fosse dimenticata.»
«No, non se n’è dimenticata, hai indovinato: è proprio un regalo da parte di Zia Varvara. Ma c’è anche qualcos’altro; qualcosa di cui, evidentemente, ti sei scordata.»
«Oh, dai, fammi vedere il regalo di Zia Varvara» disse Francesca saltando su e giù «e poi indovinerò l’altra cosa…
due regali! Non vedo l’ora di aprirli!»
Zia Varvara aveva mandato un adorabile pipistrellino grigio chiaro. Aveva belle ali e un musetto dall’espressione dolce. Il biglietto diceva: Questo è un pipistrello della Transilvania, identico a quelli che, al crepuscolo, svolazzano nel castello di Dracula. Non è carino? Si chiama Boris. Buon compleanno, Francesca, tesoro. Ci vediamo presto. Baci da Zia Varvara.
«E’ bellissimo!» strillò Francesca. «Fallo vivere, Bianca.
Lasciamolo volare per un pochino!»
«Non qui, per favore, bambine» disse Rosie «e non adesso. Un pipisterello è l’ultima cosa di cui ho bisogno, mentre sto cercando di pulire la cucina.»
«Ma lui non è solo un pipistrello» si lamentò Francesca.
«Lui è il Bellissimo Boris.»
«Non mi interessa, anche se fosse il Magnifico Montmo-rency» disse Rosie. «Tienilo fuori dalla mia cucina, non chiedo altro. E’ molto carino e tenero, sono d’accordo, ma i pipistrelli fanno paura e io non voglio niente di pauroso nella mia cucina, ecco tutto.»
Francesca sospirò, prese Boris e lo accarezzò. «Non importa, Boris» disse dolcemente «potrai farti una bella svolaz-zatina in camera nostra, prima di andare a dormire.»
«Non hai ancora indovinato che cos’altro ho qui, vero?»
disse Filomena, tirando fuori da dietro la schiena un pacchet-to squadrato. Francesca scosse la testa. «Aprilo, allora» disse Filomena. «Mi sorprende, però, che tu non ti ricordi.»
«E’ un cuscino» disse Francesca. «E’ stupendo, Filomena.
Grazie. Guarda che colori: marroni, verdi, grigi, e tutti questi fiocchetti… sembrano farfalle. È veramente bellissimo. Lo metterò sul mio letto.»
«Ancora non hai capito che cos’è, giusto?» disse Filomena, con un tono tra lo stupito e il disgustato.
«E’ un cuscino» disse Francesca.
«E’ molto di più» disse Filomena. «E’ un Cuscino dei Sogni.»
«Un Cuscino dei Sogni? Cosa vuol dire?»
«E’ quello che farò con la mia classe a scuola, a partire da mercoledì. Si sceglie un luogo che si vuole sognare. Nel tuo caso, Francesca, è una foresta con i raggi di sole che fil-trano attraverso le foglie degli alberi e con farfalle, muschio e fiori di malva in abbondanza. Poi si prendono le lane dei colori giusti e si fa un cuscino. Se la notte lo si mette sul proprio letto, si sognerà quel luogo. E’ meglio farne molti, con soggetti diversi, perché può essere noioso sognare sempre lo stesso posto, sera dopo sera.»
«Ma funziona veramente?» chiese Francesca.
«Certo che funziona. È una magia di ottima qualità» disse Filomena.
«Grazie» disse Francesca, abbracciando Filomena. «È
stato un compleanno meraviglioso.»
La mattina dopo, Francesca aveva un’aria imbronciata.
«Non ho sognato foreste» protestò.
«Ma sì che le hai sognate, tesoro» disse Filomena. «Passami i cornflakes, per favore.»
«No, o per lo meno non mi ricordo assolutamente di aver sognato.»
«Appunto» disse Filomena con tranquillità. «Hai sognato una foresta, anche se ora non te lo ricordi più. Spesso non si riesce a ricordare i propri sogni, ma, te l’assicuro, tu hai sognato una foresta. E’ garantito, quando metti il tuo Cuscino dei Sogni sul letto.»
Francesca ghignò. «E’ un imbroglio, però, Filomena. Se nessuno si ricorda che cosa ha sognato…»
«Non significa, comunque, che tu non abbia sognato ciò che era previsto» disse Filomena con decisione. «Forse tu non lo sai, ma io sì, grazie alla mia età e alla mia esperienza.
Credimi, la scorsa notte hai sognato foreste, ed è stato un sogno meraviglioso.»
Francesca sospirò. «Se lo dici tu» e tacque meditabonda per il resto della colazione.
Una visita alla Galleria d’Arte
Ogni mercoledì Filomena faceva l’Insegnante. Si racco-glieva i capelli in un austero chignon e indossava quelli che, secondo lei, erano dei Vestiti da Insegnante: una pratica gonna di tweed, una semplice camicia beige e un cardigan trafo-rato color pisello.
«Hai un aspetto orribile» disse Rosie a colazione, quella mattina.
«No, è solo adatto allo scopo» ribatté Filomena. «I bambini mi prendono sul serio, quando mi presento così.»
«Ti stai divertendo enormemente, vero?» disse Ed- die.
«A scuola, intendo.»
«È un cambiamento» disse Filomena «e, come sai, un cambiamento fa bene almeno quanto una bella dormita. Forza, Bianca e Marco, è ora di andare.»
S’incamminarono tutti insieme in direzione di Otter Street, ognuno con in mano il suo cestino per il pranzo. Filomena non era molto contenta di usare un vecchio cestino di Francesca, che aveva su ogni lato l’immagine di un ratto grigio di nome Roland, ma era d’accordo sul fatto che non va-lesse la pena di comprarne uno nuovo, visto che le serviva un giorno solo alla settimana.
«Oggi cominciamo veramente» disse a Bianca e Marco.
«Cominciamo il nostro cuscino.»
«Ma allora che cosa avete fatto nelle ultime settimane?»
chiese Bianca.
«Più che altro, ho insegnato a metà della classe a lavorare a maglia. È stato piuttosto difficile, ma adesso se la cavano benino.»
«Anche i maschi?» disse Marco con tono sorpreso.
Filomena lo fulminò con un’occhiata d’ammonimento.
«Perché no?»
«Così» rispose Marco rapidamente. «Tanto per sapere.»
Filomena sbuffò. «Poi, naturalmente, abbiamo dovuto trovare e scegliere le lane, e oggi, finalmente, siamo pronti a cominciare. Credo che con un po’ di fortuna finiremo per Natale. Voi che cosa fate, oggi? Mi pare che ci sia in programma un’uscita.»
«Non per me» disse Marco tristemente. «La classe di Bianca andrà in visita alla Galleria d’Arte, razza di fortunati.»
«Sarà una bella noia» disse Bianca.
«No, che non lo sarà» disse Marco. «Vorrei poterci venire.»
«Cercherò di portarti qualcosa: una cartolina, magari.»
Oltrepassarono il cancello. Bianca e Marco osservarono Filomena che si dirigeva a grandi passi verso la stanza dei professori, facendo dondolare il suo cestino del pranzo. Mentre camminava, una folla di bambini le si radunò intorno, ac-correndo da ogni parte del cortile. Marco sospirò.
«Divertiti alla Galleria d’Arte» disse, e si voltò verso la sua classe.
«Vieni anche tu» disse Bianca. «Dai, svelto! Va in bagno e diventa invisibile. Appendi il tuo zainetto a un gancio e io andrò a dire al signor Weedon che arriverai per l’ora di pranzo, per via del dentista…» Sorrise. «Vai. Corri. Aspetta vicino al cancello finché non mi vedi salire sul pullman.» Se ne andò di corsa, e Marco sparì nel bagno.
Mercoledì era il giorno preferito di Eddie.
«Giorno di chiusura per il negozio Ozzy, i bambini a scuola, mia madre a scuola, mia moglie fuori per un caffè con le amiche, e persino mia sorella lontana, a gironzolare per l’Europa… siamo rimasti solo noi, Ozzy. Tu, io e la serra.
Non è meraviglioso?»
Mormorai qualche parola d’assenso e mi sistemai per una dormitina, mentre Eddie trafficava in giro per la serra, con-versando con le piante. A tratti mi pareva di sentire il lieve fruscio di risposta delle nuove foglio- line o il sommesso mormorare dei petali. Stavo quasi per addormentarmi, quando udii un brontolio distante e percepii una leggera vibrazio-ne sullo scaffale. Sulle prime pensai che fosse il treno a far tremare la serra, ma quando aprii gli occhi vidi che il vaso nel quale Eddie aveva piantato le etichette stava scuotendosi, come se all’interno vi fosse imprigionato qualcosa.
«Guarda, Ozzy» gridò Eddie «sta succedendo qualcosa, in quel vaso!» Entrambi osservammo in silenzio, mentre un piccolo germoglio d’argento spuntava dalla terra.
«Non posso crederci, Ozzy» disse Eddie. «Cresce così in fretta… e poi, guarda, non assomiglia per niente a una pianta… sembra più un insieme di fili di metallo. Che cos’è?»
«E’ pieno di bernoccoli» dissi io. «E’ come un albero d’argento con piccole escrescenze su tutti i rami.» Il vaso aveva smesso di tremare e di vibrare.
«Non penso che farà nient’altro per oggi, tu che ne dici?»
chiese Eddie.
Scossi la testa. Il mio pisolino mattutino era già stato di-sturbato a sufficienza e io, felice che il vaso e lo scaffale avessero smesso di tremare, me ne tornai a dormire. Quando chiusi gli occhi, Eddie stava accarezzandosi il mento con fare pensoso.
«Quei bernoccoli» disse «sono un mistero. Pensi che fio-riranno? E se sì, mi chiedo come saranno i fiori.»
«Questo» disse Filomena «sarà divertente. Avete tutti avviato le maglie? Avete pronta la lana? Simon? Nicola? Perché no, Zoe? Cosa vuol dire che non ci riesci? Dopo tutta la fatica che ho fatto.» Filomena sospirò. «Va bene, aspetta che gli altri abbiano iniziato e poi verrò ad aiutarti, tesoro. Tutti pronti? Allora potete cominciare.»
Ventotto paia di ferri iniziarono a ticchettare. Ventotto diverse combinazioni di lane colorate cominciarono a siste-marsi in righe irregolari, mentre ventotto differenti sogni ini-ziavano a prender forma.
«Dunque, Zoe» disse Filomena «io ti avvierò le maglie e lavorerò un paio di ferri. Poi pensi di farcela a proseguire da sola?»
Zoe annuì e osservò stupita i ferri dell’anziana signora che si muovevano velocissimi.
«Ecco, piccola» disse Filomena poco dopo. «Adesso prova tu.»
Zoe si dedicò alle vistose lane che aveva scelto per il suo cuscino: rosso, oro e bianco, perfetti per una fiera. Filomena iniziò a camminare per l’aula fermandosi qua e là a riprende-re punti caduti e a sbrogliare nodi e grovigli; la sua mente, però, era altrove. Stava pensando al suo lavoro, che giaceva ripiegato in un cesto al numero 58 di Azalea Avenue. Ultima-mente erano venuti fuori diversi sprazzi di quel particolare verde-azzurro che significa matrimonio, e, la sera precedente, quel verde-azzurro si era manifestato in quei punti intrecciati che significano devozione… dovevano essere Varvara e quel giovane dall’aspetto lupesco, Remo. Filomena non aveva detto niente a nessuno, ma aveva riconosciuto il nome. I Lupino erano una famosissima famiglia italiana di lupi mannari. “Non che io” aveva pensato Filomena “abbia niente contro i lupi mannari, ma non sono esattamente i migliori mariti al mondo… Però lui è vegetariano, quindi non dovrebbe esserci pericolo per nessuno. Probabilmente, il suo maggior difetto sono i peli…”
«Per favore, signorina, mi sono caduti tutti i punti»
disse Zoe, e Filomena corse ad aiutarla, accantonando, momentaneamente, il pensiero di Varvara.
Bianca e le sue amiche, Jenny, Joanne, Tania, Sarah e Anahita risero e scherzarono per tutto il tempo, durante il tragitto verso la Galleria d’Arte. Marco (invisibile) se ne stava in piedi dietro l’autista, fingendo di guidare con lui.
«Dunque, bambini» disse la maestra di Bianca, la signora Dawes, all’entrata della Galleria d’Arte «dovrete essere silen-ziosi e disciplinati. Oggi andremo a vedere i dipinti preraffaelliti, che ci saranno utili per la nostra ricerca sulla vita in epoca vittoriana. Su per le scale, a sinistra.»
I bambini la seguirono ordinatamente. Marco fu colpito dai pavimenti di marmo e dai grossi pilastri decorati con ghirlande di frutta e fiori, intagliate e dorate.
Bianca andò direttamente alla stanza dei preraffaelliti, e le sue amiche la seguirono.
«Dove sono gli altri?» chiese Bianca.
«Sono rimasti indietro» disse Tania. «Si fermano a osservare ogni cosa per delle ore.»
«Ma è questa la sala migliore» disse Jenny.
«Il mio preferito è quel quadro di tempesta, nella stanza accanto» disse Anahita.
«A me piace quello» disse Bianca indicando un dipinto che raffigurava quattro ragazze intorno a un cumulo di foglie autunnali.
«Che cosa stai aspettando?» disse una voce all’orecchio di Bianca.
«Marco! Mi ero dimenticata di te. Cosa vuoi dire?»
«Voglio dire che tutti gli altri sono distratti. Dai… diver-tiamoci un po’.»
«Credi che sia il caso?»
«Sì, dai. Ti sfido.»
Bianca camminò rapidamente intorno alla stanza. «Ecco»
disse «non c’è tempo per ogni cosa, ma per qualcuna sì.»
La stanza si riempì di musica: in almeno tre dei dipinti, liuti e dulcimeri venivano suonati soavemente. Sfortunata-mente i belati di un gregge di pecore, l’abbaiare di due cani e il grido di un pavone quasi soffocavano le note. Un piccolo gatto nero (che se ne stava accucciato in cima a una culla per neonato, trascinata dalla corrente impetuosa di un fiume) saltò fuori dal quadro a cui apparteneva e si mise a inseguire le foglie che stavano spargendosi ovunque.
«Guarda!» gridò Joanne «tutte le foglie sono uscite dal quadro!»
«E anche il gatto!» disse Jenny. «Come è successo? E’
pura magia. Guarda!»
Un ragazzino con una trottola correva su e giù sul lucido pavimento di legno, vicino a un dipinto che raffigurava la Regina, nel suo salottino, intenta a mangiare pane e miele.
Anche la Regina riprese vita, giusto il tempo di addentare un altro boccone con aria affamata. Le ragazze del quadro con le foglie d’autunno, uscite dalla cornice, danzavano al suono di una canzone cantata da due belle signore con boccoli rosso-oro che si attorcigliavano intorno al collo. Il serpente color turchese del dipinto di Adamo ed Eva era strisciato giù dall’albero di mele e si stava dirigendo verso una carrozza, dentro la quale c’era una bimba di nome Madeline Scott.
All’improvviso una voce tuonò: «Che cos’è questo pandemonio?» Era la signora Dawes. Bianca chiuse gli occhi striz-zandoli forte forte per un istante, poi li riaprì.
«Quale pandemonio, signorina?» chiese con aria inno-cente.
La signora Dawes sbatté le palpebre e contemplò il silenzio e l’ordine della Stanza Preraffaellita. Respirò a fondo e si disse che forse aveva lavorato troppo. “Avrei giurato” pensò
“di aver sentito abbaiare e belare e anche di aver udito canti e musica di liuto. E avrei giurato, pure… no, è impossibile, ma ho creduto, ho veramente creduto di vedere delle ragazze con lunghe gonne scure che danzavano e un gattino nero, e un serpente azzurro, e tutte quelle foglie… la stanza era piena di foglie rosse e dorate…”
«Raccogli quelle due foglie laggiù, Anahita, cara» disse la signora Dawes piuttosto scossa. «Dovete averle portate dentro con le scarpe. Perché state ridacchiando? Forza, bambini, muoviamoci.» Si girò e si diresse a grandi passi verso la sala seguente.
«Mi piacerebbe che voi deste un’occhiata a questo bellissimo dipinto di Turner. Si intitola ‘Pas de Calais’. E questa è una magnifica tempesta… riuscite a percepirla?»
La classe oltrepassò la signora Dawes, che era rimasta a fissare l’acqua scura nella cornice dorata. Bianca non riuscì a resistere.
«Non pensi di aver fatto abbastanza?» bisbigliò Marco.
«Solo un pochino» mormorò Bianca in risposta, mentre osservava la signora Dawes che faceva un balzo indietro, al-lontanandosi dal dìpinto.
«Signorina, c’è qualcosa che non va?»
«No, no, niente» disse la signora Dawes. Stava pensando: “Non vedo l’ora che arrivino le vacanze di Natale. Ho sentito uno spruzzo d’acqua salata sul viso, ne sono sicura”.
Chiuse gli occhi, sognando una tazza di tè, e decise che, per un bel po’, non avrebbe più portato fuori gruppi di bambini.
Tornati nell’atrio, la signora Dawes, sollevata perché la gita era quasi al termine, disse: «Se qualcuno desidera comprare una cartolina al negozio della Galleria, abbiamo ancora un po’ di tempo.»
Un’ondata di bambini si riversò sulle cartoline. Bianca stava avviandosi dietro agli altri, per cercare quella di “Foglie d’Autunno”, quando sentì qualcosa che le tirava la gonna. Capì subito di che cosa si trattava.
«Smettila, Marco» sibilò. «Voglio comprare una cartolina.»
«Più tardi» bisbigliò lui. «Devi tornare in quella stanza.
E’ successo qualcosa di terribile.»
«Che cosa?»
«Non hai rimesso tutto posto.»
«Ma di che diavolo stai parlando?»
Marco sospirò. «Il gattino nero.»
«Sulla culla, mi ricordo. Assomigliava un po’ a Ozzy, non così grasso, e più giovane, naturalmente.»
«Non è più sulla culla, è con le ragazze che ammucchia-no le foglie.»
«Beh, nessuno se ne accorgerà, non credi?» disse Bianca.
«Non dire sciocchezze, Bianca, certo che se ne accorge-ranno. Devi tornare indietro e rimettere il gattino al suo posto. Subito.»
«E come? Hai qualche idea?»
«Dì che hai dimenticato là il tuo borsellino, o qualcosa del genere.»
Bianca andò dalla signora Dawes: «Mi scusi, signorina, posso ritornare in quella stanza? Mi è caduto il borsellino e adesso non posso comprarmi una cartolina.»
«Oh cielo» disse la signora Dawes. «Certo, ma veramente, Bianca, che sciocchina. Non è da te. Corri, dobbiamo tornare al pullman tra un momento.»
Bianca si precipitò su per i gradini di pietra e attraverso le sale che portavano alla Stanza Preraffaellita, rallentando un po’ davanti al custode.
«Sono tornata a prendere il mio borsellino» gli spiegò.
«Mi è caduto là dentro.»
Il custode non ne fu sorpreso. «Gruppi scolastici» borbottò. «Sono tutti uguali.»
Bianca guardò attentamente il dipinto “Foglie d’Autunno”. Il gattino nero era acciambellato accanto al mucchio di foglie. Sembrava molto contento.
«Mi dispiace, Gatto» disse. «Devo rimetterti al tuo posto, anche se tu preferiresti restare dove sei.» Il gattino saltò fuori dalla cornice, dritto tra le braccia di Bianca. «Ecco fatto…»
Bianca aspettò finché si fu accucciato sulla culla e poi si allontanò correndo dalla stanza.
«Grazie mille» disse al custode, passandogli davanti.
«L’ho trovato.»
«Non c’era nessun gatto là dentro, vero?» disse lui. «Mi era sembrato di udire un miagolio.»
«Un gatto?» disse Bianca. «Oh no. Solo nel quadro.»
Il custode scosse la testa. Il miagolio non era l’unico strano suono che aveva sentito quella mattina. “Forse” pensò tra sé e sé “dovrei andarmene in pensione.”
«Com’è andata la vostra giornata, bambini?» chiese Rosie a cena. «Sei stata alla Galleria d’Arte, Bianca?»
«Mmmm» disse Bianca, con la bocca piena.
«E’ stato interessante?»
«Non male» disse Bianca. «Avrei preferito andare a vedere quell’uomo che hanno ritrovato, dopo che è rimasto se-polto nella palude per tanti anni.»
Filomena si accigliò. «Hai delle tendenze sanguinarie, Bianca. Perché stai ridacchiando, Marco?»
«Non so» disse Marco, continuando a ridere.
«Allora, per favore, smettila. Forse vi farà piacere sapere» continuò «che i Cuscini dei Sogni della Quarta B stanno progredendo in modo soddisfacente. E magari potrà interes-sarvi il fatto che il mio lavoro a maglia mostra chiari segni di matrimonio.»
«Varvara e quel Remo!» esclamò Rosie. Filomena annuì.
«Potrò fare di nuovo la damigella. Magnifico!» disse Francesca.
«Bene» disse Eddie «questo sì che è un colpo di scena.
Varvara che si sposa. Nessuno vuole sapere che cosa ho coltivato oggi?»
«Dai» disse Marco. «Diccelo.»
«Un albero d’argento.»
«Sul serio?» disse Francesca. «Vero argento?»
«No, no» disse Eddie «solo un qualche metallo argentato, lucido. Assomiglia all’alluminio.»
«Oh.» Francesca era delusa.
«Ma ha dei bernoccoli» disse Eddie «e credo, credo veramente, che potrebbero fiorire.»
«Che tipo di fiori saranno?» chiese Francesca.
«A15h» disse Eddie «questo è ancora un mistero. Aspet-tiamo e vedremo.»
«Odio aspettare e vedere» disse Francesca. «C’è del gelato questa sera?»
Rosie gemette. «Non ha importanza quello che preparo, tu vuoi sempre gelato, vero? E generalmente lo ottieni. Dai, prendilo.»
Francesca sorrise e andò ad aprire il surgelatore.
La Festa di Natale della Scuola di Otter Street La mia ora preferita sono le cinque di un venerdì pomeriggio, nel mese di dicembre. Fuori può essere buio e freddo, ma, dentro, le tende sono chiuse per difendersi dall’oscurità, le lampade sono accese, la ginnastica di Filomena è termina-ta e, fino all’ora di cena, la casa è immersa in un’atmosfera tranquilla. ‘E il momento perfetto per un pisolino sulla sedia della cucina, dove le pentole emanano un profumino allettan-te e la radio borbotta in sottofondo.
Quel particolare venerdì, però, la casa era in subbuglio -
è questa l’unica parola adatta a descrivere la situazione - a causa della Festa di Natale della Scuola di Otter Street, che avrebbe avuto luogo il giorno dopo. Non c’era nemmeno un angolino in cui un gatto, desideroso di quiete, potesse siste-marsi in pace. Lasciate che vi elenchi le varie attività che si svolgevano al 58 di Azalea Avenue:
a) In cucina.
Rosie stava cucinando dolci e biscotti in gran quantità.
Non appena un vassoio di pezzetti di impasto ritagliati a forma di stella (o di mezzaluna o di campanella) entrava nel forno, un altro, pieno di fragranti biscotti dorati, ne usciva.
Francesca aiutava a disporli in scatole a chiusura ermetica.
«Ci hai messo qualcosa di speciale?» chiese.
«Aspetta e vedrai» disse Rosie facendole l’occhiolino.
«Sarà proprio una bella festa. Spero che il tuo costume da strega sia pronto.»
Francesca annuì. «Posso prendere in prestito la mantella da sera di Zia Varvara? Quella di raso nero con le stelle ar-gentate?»
Rosie aprì la porta del forno e un meraviglioso profumo di cannella si sparse per la cucina. «Se stai attenta a non ro-vinarla» disse. «Zia Varvara non ci farà caso. È innamorata, adesso, quindi non ci farà caso.»
«Alle persone non importa se qualcuno prende in prestito le loro cose, quando sono innamorate?» domandò Francesca.
Rosie rispose: «Non ti accorgi quasi di nulla, quando sei in quello stato, e comunque non te ne importa.»
Francesca si rivolse a me.
«Tu devi venire con me, Ozzy, per la Sfilata delle Maschere. Le streghe hanno sempre un gatto nero. Verrai con me, vero?»
Non potei rifiutare. Certamente, sfilare insieme a un branco di bambini mascherati non si addice alla mia età e alla mia condizione, ma, come ho spiegato prima, mi è difficile dire di no a Francesca, in parte per la mia devozione verso di lei, e in parte perché non intendo bruciacchiarmi i baffi.
Inoltre, devo ammettere che una strega senza un gatto nero sarebbe stato un ben misero spettacolo.
b) Nella serra.
Eddie aveva allineato su uno scaffale quasi cento vasi da marmellata.
«Ho raccolto questi vasi fin dallo scorso Natale, Ozzy»
disse. «È stata un’ottima idea. Vedi quelle enormi bottiglie di vetro con le piante dentro? Costano un sacco di soldi e occu-pano tanto spazio. Questi sono più piccoli: minuscoli giardinetti in vasetti di vetro. Costeranno pochissimo, e andranno a ruba tra i bambini. Vedrai.»
Ero d’accordo con lui. Ogni vaso conteneva una graziosa aiuola di piante miniaturizzate: felci, muschi e foglie dall’aspetto tropicale. Alcune avevano perfino dei cespugli fioriti, non più alti di qualche centimetro. Eddie era molto assorto ed è comprensibile che, in quella confusione, nessuno di noi avesse notato come si erano sviluppati i rami argentati dell’albero nato dalle etichette dei barattoli di frutta sciroppata.
Cosa stava succedendo? Vi terrò all’oscuro ancora per un po’.
E’ uno dei privilegi dell’essere il Narratore.
c) Persuadere Filomena a vestirsi da chiromante.
«Nessuno» disse Marco «crederà a una parola di quello che dirai, se avrai addosso una tuta da ginnastica.»
«Hanno trasformato un’intera aula in un carrozzone da zingari» disse Bianca.
Filomena sospirò. «Ma io non consulterò le carte, né scruterò dentro una sfera di cristallo. Io lavorerò a maglia e starò a vedere ciò che apparirà. Più che altro dovrò osservare le persone che entreranno e captare gli indizi che si lasceran-no sfuggire. Gran parte della capacità di predire il futuro, naturalmente, sta nel conoscere la gente. Nell’intuire le loro necessità.»
«Ma perché non puoi intuire le loro necessità con addosso un vestito da zingara?» chiese Bianca.
«Perché, alla mia età, non ho alcuna voglia di farmi ridere dietro.»
«Mi permetterai di essere invisibile?» domandò Marco.
«Siederà al tuo fianco e farò muovere misteriosamente gli oggetti. Farà molto colpo. Forse» aggiunse «farà così colpo che nessuno noterà che la chiromante ha addosso una tuta da ginnastica viola.»
Filomena mise giù il suo lavoro. «Va bene» disse. «Vedo che è molto importante per voi. Facciamo un compromesso: metterò il mio vestito da pomeriggio in seta nera e la mia spilla di opale. D’accordo?»
«Oh sì» dissero Bianca e Marco. «Andrà benissimo. Grazie, Filomena.»
«E potrei anche» disse Filomena «drappeggiarmi uno scialle di merletto nero intorno alla testa. Già che si è fatto trenta, tanto vale fare trentuno.»
«Sarai l’attrazione principale» disse Marco. «Non vedo l’ora.»
La mattina seguente, a colazione, Filomena fece un annuncio.
«Ho cominciato un maglione a intarsi» disse «e voi tutti sapete che cosa significa.»
«Una giornata piena» disse Rosie.
«Andirivieni» disse Bianca.
«Avanti e indietro» disse Marco.
«Un po’ di questo e un po’ di quello» aggiunse Francesca.
«Ma un sacco di eccitazione e di divertimento» disse Bianca.
«Giusto» disse Filomena, versandosi dell’altro caffè. «Ma soprattutto, una generale armonia di colori e simmetria di disegno che indica…»
«… una giornata felice per tutti!» dissero Bianca, Marco e Francesca all’unisono.
«Esattamente!» Filomena sorrise raggiante ai suoi nipoti.
«Voi, bambini, è meglio che aiutiate a riordinare la cucina e a sistemare la roba nel furgone» disse Rosie, «altrimenti non saremo pronti in tempo e sarà una pessima giornata, intarsi o no.»
«Dov’è Eddie?» chiese Filomena all’improvviso, notando l’assenza di suo figlio.
«E’ nella serra» disse Marco. «Vuoi che vada a chiamarlo?»
«Sì, caro» disse Rosie, e Marco corse fuori dalla stanza.
«Credevo» disse Filomena «che Eddie avesse finito di preparare le piante e i vasi già da ieri sera…»
Francesca si era alzata da tavola e stava guardando fuori dalla finestra. «Eccolo che arriva» disse. «E porta l’albero d’argento. Sembra molto pesante e ha delle buffe cose dappertutto.»
Eddie entrò in cucina barcollando per la fatica e depose il vaso con l’albero d’argento per terra, vicino al surgelatore.
«Dunque» disse «ditemi che cosa ne pensate.»
Per un po’ tutti tacquero. Penso che ognuno di noi stesse cercando di capire che cosa fosse successo. Francesca fu la prima a riprendersi.
«Qualcuno» disse «ha legato delle lattine tutt’intorno al tuo albero.»
«Non le hanno legate» disse Eddie sommessamente.
«Queste lattine sono cresciute sull’albero.»
«Sciocchezze» disse Filomena. «Le lattine non crescono sugli alberi.»
«Date un’occhiata» disse Eddie, indietreggiando per per-mettere agli altri di avvicinarsi.
«E’ vero» esclamò Rosie. «Le lattine crescono sui rami.
È incredibile… come ci sei riuscito?»
«E che cosa c’è nelle lattine?» domandò Bianca. «Con-tengono qualcosa?»
«C’è solo un modo per scoprirlo» disse Eddie. «Portami un apriscatole, Francesca.»
Eddie colse una lattina da un ramo basso, l’appoggiò sul tavolo della cucina e la aprì con cautela. Tutti si avvicinaro-no per guardare.
«Sembra» disse Rosie «macedonia in scatola.»
«Adesso l’assaggio» disse Eddie, prendendo un cucchia-io. «Pesche, pere, albicocche, mandarini, gua- va, kiwi…»
Sbarrò gli occhi, impallidendo, e si mise velocemente a sede-re. «I frutti delle etichette che ho messo in questo vaso.» Si rialzò in piedi. «Ho coltivato il primo Albero della Macedonia al mondo!» dichiarò.
Era esultante e tutti cominciarono ad applaudire e a com-plimentarsi. Francesca, Marco e Bianca presero a danzare intorno alla tavola, canticchiando in continuazione: «Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta! Un Albero della Macedonia!»
Rosie disse: «Prendete la gazzosa nella credenza, e ricor-datemi di comprare dello champagne. Per ora farò del mio meglio per trasformare la gazzosa, anche se non è proprio lo stesso.»
Filomena esclamò: «Oh, Eddie, mio caro ragazzo, sapevo che ce l’avresti fatta. Lo sapevo, sul serio. Nel lavoro di ieri avevo visto del giallo che significa ricchezza, solo che non volevo che qualcuno si illudesse prima del tempo.»
«Andremo in televisione?» chiese Bianca.
Eddie arrossì. «Non so. Voglio dire, è solo un Albero della Macedonia in Scatola, non fresca. Però è un inizio, no?
Adesso venite tutti qui, bevete la vostra gazzosa e poi muoviamoci. Dobbiamo andare a una festa.»
«Ma prima» disse Rosie «voglio proporre un brindisi. A Eddie, il papà con il pollice più verde del mondo.»
«A Eddie!!!» gridarono tutti, e bevvero la loro gazzosa d’un fiato.
La Festa di Natale della Scuola di Otter Street è termi-nata e resterà a lungo nella memoria dei genitori e dei bambini che vi hanno partecipato. Grazie a Francesca c’è stato uno splendido sole. In realtà, il tempo era umido e grigio, ma lei aveva fatto in modo che le nuvole si allontanassero dalla zona di Otter Street e che un bel sole splendesse sulla scuola, sul cortile e sulle strade circostanti, dove erano parcheggiate le automobili.
Rosie, al Chiosco dei Dolci, vendeva le torte che le mamme si erano, per giorni, affannate a preparare. Vendette anche tutti i suoi biscotti. Molte persone li conservarono per man-giarseli a casa, ma alcuni bambini ne sbocconcellarono subito qualcuno e, mentre li osservavo, accadde qualcosa di straordinario: si misero a correre velocemente nel cortile, dove cominciarono a fluttuare, vagare, librarsi a circa mezzo metro di altezza dal suolo. Dopo un po’ c’era una gran quantità di gente che svolazzava, mentre gli altri guardavano a bocca aperta.
«È quasi come volare» mi disse Rosie. «Ma dura solo pochi minuti. «Diventano senza peso e sentono un’irrefrena-bile desiderio di sgambettare nell’aria fresca. Passa subito, ma lascia una gran sensazione di felicità; senza contare che si ha la pancia piena di deliziosi biscotti.»
Eddie, in un’ora, vendette tutti i giardinetti in vaso, ma la sua mente continuava a tornare all’Albero della Macedonia.
«Etichette, Ozzy» mormorava. «Il segreto è nelle etichette. Possiamo coltivare qualunque combinazione, in lattina…
pensaci.» I suoi occhi brillavano, mentre fantasticava su un futuro pieno di meraviglie.
A Marco, che si era reso invisibile fin dall’ora di pranzo, Filomena sembrava inaspettatamente affascinante con lo scialle e il vestito nero. Lavorava a maglia più velocemente di quanto avesse mai fatto e, quando entrava qualcuno, dopo avergli lanciato un rapido sguardo, pronunciava le sue predi-zioni: “una nascita… un viaggio… un bisticcio… uno stranie-ro… buone notizie… buona salute… un dono inaspettato… ricchezza… una lavatrice nuova… una lettera lunedì mattina…
una visita dall’estero.”
Tutti quelli che la sentivano parlare rimanevano molto impressionati, anche grazie all’invisibile contributo di Marco.
Non appena Filomena apriva bocca, Marco prendeva uno dei gomitoli di lana e lo muove
va per l’aria, creando cerchi e otto. Talvolta muoveva anche due gomitoli contemporaneamente, lanciandoli in aria come un giocoliere, riprendendoli poi e incrociandoli l’uno con l’altro. La zingara Filomena (così diceva il cartello affis-so fuori dalla porta dell’aula) fu un enorme successo, e, ben presto, nel corridoio, si formarono lunghe code di persone in attesa di conoscere il proprio futuro, incuriosite dagli oggetti inanimati che svolazzavano per la stanza.
Bianca aveva accettato di aiutare la signora Dawes al Chiosco dei Giocattoli.
«Sembra tutto un po’ malandato, vero?» disse lei. «Il fatto è che i giocattoli vengono dati via solo dopo essere stati usati a lungo, così ai puzzle mancano dei pezzi, le bambole sono mezzo vestite e sembra che i peluche siano stati rosic-chiati ininterrottamente per mesi!» Si passò una mano tra i capelli con aria preoccupata. «Tuo padre e tua madre hanno già venduto tutto quello che avevano, noi invece…»
«Andrà tutto bene» disse Bianca. «La gente verrà qui più tardi, dopo aver visitato il resto. Se vuole posso occuparme-ne io e lei può andare a bersi una bella tazza di tè.»
«Sul serio?» la signora Dawes sembrò immediatamente più felice. «Non ci metterò molto, ma desidererei proprio bere qualcosa. Sei sicura di potercela fare da sola?»
«Oh, sì» disse Bianca. «Certo. Quando tornerà, avrò venduto un sacco di cose.»
La signora Dawes si allontanò.
Bianca rivolse la sua attenzione alla misera raccolta di giocattoli che aveva davanti.
«OK, ragazzi» disse rivolgendosi a loro «vediamo di si-stemarvi.»
Quando l’insegnante tornò, il chiosco era, in effetti, mezzo vuoto.
«Non so come tu ci sia riuscita, Bianca» disse stupefatta la signora Dawes. «È un miracolo.»
Io so come ha fatto, l’ho vista. Ogni volta che un bambino si avvicinava al chiosco, Bianca animava qualcosa. Una bimba vide una malandata giraffa di peluche che danzava su un angolo del tavolo.
«La voglio, Mamma» strillò subito. «Per piacere.»
«Ma è da buttare» disse la madre.
«La voglio» ripetè la bambina. «Costa poco.»
Un ragazzo vide un’autopompa dei pompieri, in legno, che correva lungo il margine del banco e quattro tozzi uomini alle prese con secchi e manichette. La comprò con i suoi ultimi soldi. Un anziano orsacchiotto, senza un occhio can-ticchiava a bassa voce “Al Picnic degli orsetti”; un trenino tutto rotto, al quale mancavano metà delle carrozze, sferra-gliava su una rotaia di plastica; una collezione di pupazzetti da dito, a forma di topo, squittivano e correvano dappertutto; un soffice anatroccolo, uscito dall’illustrazione di uno dei puzzle, si aggirava goffamente tra i pochi giocattoli non ancora venduti.
«Oh» disse Bianca alla signora Dawes «non è stato difficile. Sul serio.»
E mi fece l’occhiolino.
Visto che la modestia è una delle mie qualità, ho lascia-to per ultimo il mio trionfo personale. Francesca e io abbiamo vinto il primo premio alla Sfilata delle Maschere, e mi piace credere che il mio contributo sia stato determinante. Il giudice rimase a lungo incerto tra un ingegnoso telefono e un realistico pirata, ma alla fine scelse noi. C’era almeno mezza dozzina di streghe, ma non una di loro aveva un gatto, e tanto meno un gatto come me. Io, come i lettori di questo rac-conto ben sanno, non sono uno che ama vantarsi, ma, in quest’occasione, credo di aver interpretato la mia parte in modo eccezionale, riuscendo ad apparire affettuoso e sinistro allo stesso tempo. E, potete esserne certi, non è cosa da poco.
Francesca ricevette in premio una scatola di cioccolatini, e per me saltò fuori una scatoletta di cibo per gatti. Ma i premi furono niente in confronto alla gloria, agli applausi e alla felicità di Francesca, che mi portò in braccio per tutto il resto del pomeriggio.
La Festa di Natale della Scuola di Otter Street era con-clusa. Le tende erano tirate contro l’oscurità e l’intera Famiglia era seduta in salotto, ad ascoltare la pioggia che batteva contro i vetri.
«Filomena» disse Francesca all’improvviso «per favore, mi insegni a lavorare a ferri?»
«Credo che tu sia ancora troppo piccola. Forse l’anno prossimo» rispose Filomena.
Francesca cominciò ad assumere un aspetto minaccioso.
«Insegnami adesso. Sono sicura che posso farlo. Voglio farlo.»
Filomena depose il suo lavoro e osservò attentamente sua nipote. «Forse» disse infine «sei tu quella che erediterà i miei poteri. Vieni qui che ti mostro come si comincia.»
Francesca guardò con attenzione, poi iniziò a lavorare, goffamente, lentamente, con grossi punti irregolari.
«Lo so fare!» esclamò dopo un po’. «So lavorare a maglia e so dire che cosa succederà, proprio come Filomena.»
«Veramente?» disse Eddie sorridendo. «Va bene, allora dicci che cosa accadrà.»
Francesca lanciò un’occhiata al lavoro. «Sto lavorando marrone e bianco. So cosa significa.»
«Scommetto che invece non lo sai» disse Bianca.
«Invece sì» disse Francesca.
«Dai, allora» disse Marco. «Diccelo.»
«Significa» disse Francesca sorridendo in modo enigma-tico «salsicce e purè, per cena!»
«È giusto, Rosie?» chiese Filomena. «E’ quello che avremo per cena?»
«A dire la verità» disse Rosie «è esattamente ciò che mangeremo.»
Filomena annuì e io capii subito che cosa voleva dire quel gesto. Voleva dire che il Dono, il suo Dono, era stato tramandato. Francesca, crescendo, sarebbe arrivata a conoscere il significato di disegni e colori. Ho sempre detto che era speciale, diversa dagli altri.
Mi guardai intorno. Eddie stava sistemando la terra intorno al suo albero d’argento, sognando combinazioni di frutta sempre più spettacolari; Rosie stava segnando gli articoli che intendeva comprare in un catalogo di vendita per corrispon-denza; Bianca e Marco stavano decidendo se ci fosse o no tempo per una partita a dama, prima di cena; Francesca stava accarezzando Leopardo, che si era addormentato davanti al fuoco; i ferri di Filomena ticchettavano con un ritmo ripo-sante. Chiusi gli occhi e lasciai che il profumo della cena inondasse le mie narici, felice di far parte della favolosa Famiglia Fantora.