quinta fase
Accettazione

Ne discutemmo come se non fosse esistito nient’altro e forse davvero non esisteva niente di così importante. Fu colpa delle ragazze: loro cominciarono questa storia.

Lunno venne da me e disse che Maria Rosaria voleva andare al mare.

«Bene, che c’entro io?» gli risposi.

«Vuole andarci anche con la cugina».

All’inizio ebbi una sensazione di rifiuto e fui tentato di pronunciare un no netto e preciso, senz’appello, perché sapevo nuotare poco e niente. Ma poi mi lasciai convincere e loro parlavano e parlavano e incominciai a immaginarmi Serena in costume e in costume voleva dire quasi nuda, con le zizze e il culo coperti solo da un sottile strato di tessuto, e allora attaccai pure io e ci vedevamo tutti, spesso, soprattutto fuori dalla chiesa. La scuola era finita e stavano per bocciarmi ma non ci pensavo: parlavamo del mare e sembrava sempre meno distante ed era bello così. E poi Serena era felice. Rideva e le si faceva un piccolo buco al centro del mento che mai avevo notato prima.

Nel frattempo, comprai un costume azzurro e, chiuso in camera, feci molti addominali. Di sera, dopo cena, quando l’aria diventava appena più fresca e una corrente prendeva a circolare per casa, leggevo articoli sui mostri marini e che spiegavano ch’era impossibile sapere tutto del mare perché così profondo e vasto da essere in gran parte inesplorato.

C’erano foto di calamari giganti, pesci preistorici, dinosauri anfibi e una balena, ma più di tutto mi affascinavano gli squali.

Nel blu scuro ne disegnavano uno grande sette metri e sopra di lui c’era una barca lunga cinque. Lo squalo era enorme, la bocca aperta, i denti triangolari non li vedevo ma sapevo che c’erano e che formavano almeno tre file. Sette metri, mi ripetevo, lungo quanto una porta di calcio, assurdo, e dopo studiavo questa foto in cui c’era un uomo girato di lato e il morso che aveva ricevuto. Il braccio era sollevato che quasi gli copriva il viso e sulla pelle c’era impresso un cerchio rosso, che gli partiva da sopra la spalla e faceva il giro e scendeva tra le costole.

Ne parlai a Serena, perché non mi vergognavo più.

«E gli squali? Non ci pensi?» le dissi.

«Siamo a Napoli, scemo!» mi rispose e pensai che forse aveva ragione.

«Torregaveta» fece Lunno, a un certo punto, e nessuno disse di no.

Era lo stazionamento della Cumana e il mare lo si poteva raggiungere a piedi. Saremmo partiti da Piave e il treno c’avrebbe portato fino a lì.

Arrivò il giorno e Serena venne da noi con il pullman ed io l’aspettai alla fermata.

Scese, ci baciammo, e le misi un braccio sopra le spalle; il cielo era azzurro e lei aveva uno zaino e pure io ne avevo uno, quello della scuola, ma che conteneva solo un asciugamano. Le sue gambe erano strette da una gonna nera e la canottiera era verde pistacchio. Da sotto, spuntavano le bretelle bianche del costume.

Ci fermammo fuori dal mercatino e arrivarono Lunno e Maria Rosaria. Lei e Serena si salutarono, si baciarono sulle guance e i nostri corpi puntarono verso la stazione e in treno ci sedemmo vicini; solo Lunno rimase in piedi, non lontano ma in disparte, e sulla sua maglietta blu c’era un piccolo foro prodotto dalla bruciatura di una sigaretta. Il treno andava e fermata dopo fermata le persone che entravano sembravano tutte dirette verso il mare. Faceva molto caldo e i finestrini erano aperti e quando passavamo per una galleria l’aria produceva un boato e si alzava il vento, forte e freddo, umido, e tra i tanti odori che lo componevano si percepiva soprattutto quello del sudore. Serena e Maria Rosaria parlavano e Serena mi teneva per mano. Io non le ascoltavo, guardavo fuori dal finestrino o la mia immagine sporca riflessa sul vetro. Serena mi tirò.

«Ti piace la frittata di maccheroni? Perché anche Maria Rosaria l’ha fatta e teniamo solo quella».

«Sì» le risposi e mi girai verso Lunno, ma lui continuò a guardare altrove, indifferente a tutto.

Scendemmo.

«Seguiamo la gente» mi disse, a bassa voce.

Davanti a noi c’erano due signore e i relativi figli. I bambini saltavano anziché camminare e da una sacca spuntavano delle palette di plastica. Il sole batteva sull’asfalto. Le suole delle scarpe, a ogni passo, sembravano incollarsi per terra. Le case erano basse e sciupate, con la vernice che si scrostava dai muri a strati, come sfoglie, e le erbacce, gialle, spuntavano da sotto i marciapiedi.

Parcheggiata per strada, vidi una barca. Era azzurra e blu e rossa e attraverso la vernice si vedevano le venature del legno. La guardai e pensai che quello che ci stava sopra non avrebbe avuto nessuna speranza di salvarsi se uno squalo avesse deciso d’attaccarla e poi sudavo, molto, sulla schiena, dove lo zaino mi toccava. «Vuoi darmi il tuo?» le chiesi e Serena mi rispose di no, di non preoccuparmi.

Dopo un chilometro, forse meno, Lunno alzò un braccio e lo indicò. Ci girammo tutti e così facendo scorgemmo la spiaggia e il mare.

Gli asciugamani vennero stesi e mi tolsi le scarpe e dentro c’infilai i calzini. La sabbia era marrone scura, quasi terra, ed era calda e sopra, mosse dal vento, ci ballavano delle carte bianche. Sulla riva c’erano grossi rami e pietre e l’acqua non m’apparve del giusto colore e mi sembrò come se qualcuno c’avesse buttato dentro qualcosa o come se stesse marcendo.

Mi tolsi la maglia. Mi sedetti sull’asciugamano. Le vidi spogliarsi.

Prima Maria Rosaria, lo smalto rosso sulle unghie dei piedi, il suo fisico lungo e nervoso, e nulla mi tornò a galla, perché nello stesso momento si spogliò anche Serena. Il suo corpo era snello e tenero, un cucciolo di delfino con la pelle chiara e liscia. Un paio di centimetri sopra l’ombelico aveva un neo piccolo e nero e dalla posizione in cui stavo le zizze divennero enormi. I due pezzi del costume erano bianchi e le zizze venivano schiacciate l’una contro l’altra e le gambe mi sembrarono lunghissime anche se sapevo che non lo erano.

Piegò i vestiti e li mise nello zaino.

Calciò della sabbia e me la spinse sui piedi.

«Vieni?».

«Tra poco» le risposi.

Rimanemmo in silenzio perché le ragazze, smuovendo nuvole di granelli, andarono sulla riva e lì si fermarono. Chiusi le braccia intorno alle gambe. Lunno rimase steso sulla schiena, con il busto sollevato e i gomiti sul telo. Immersero i piedi, parlavano. Serena si abbassò e con una mano toccò l’acqua; i suoi capelli erano contenuti dall’elastico mentre quelli di Maria Rosaria venivano spazzati via dal vento. Tornò su e aprì e chiuse le dita e la schizzò. Maria Rosaria la spinse ed io guardai Lunno, senza voltare la testa, solo con la coda dell’occhio, e anche lui stava assistendo alla stessa scena.

I loro corpi, belli, perfetti, mi sembrarono ritagliati da un giornale e incollati sul mare.

Erano belle ed entrambi i costumi erano bianchi. Le onde arrivavano e l’acqua si arrampicava sulle loro gambe e saliva un po’ più in alto.

Mi sentii fortunato e mi chiesi se anche Lunno si sentisse nello stesso modo, perché pensai che avere una ragazza è poca cosa se non ti piace ed è proprio tanto, invece, quando ti piace.

Maria Rosaria mise le mani nell’acqua e se le passò su tutto il corpo. Si riabbassò, salì e la spalmò anche sul corpo di Serena.

Risero.

Non c’è cosa più divina che scoparsi la cugina, pensai e ne risi, internamente, da solo.

Avanzarono e quando il mare gli arrivò sotto il culo non si tuffarono ma semplicemente si chinarono.

Presi le sigarette e ne accesi una. «Lu’» dissi e mi voltai. «Però sono belle, no?».

Il suo petto, liscio, si fermò e poi riprese a muoversi. Allungò la mano verso di me, in cerca della mia sigaretta. L’ebbe ed io mi girai di nuovo.

«Sono molto belle» disse, sospirando, con una voce così bassa che quasi scompariva; e intorno a noi i bambini urlavano e calciavano palloni, il sole picchiava e i vecchi leggevano il giornale.

Nulla, eccetto il colore dell’acqua, era diverso da come l’avevamo immaginato.

Eravamo assieme in quella scena e tutti gli altri esseri umani erano attori che noi decidevamo come muovere, semplici comparse all’interno della nostra storia.

Sentii la pace scorrermi nelle mani e poi il flusso finì.

«Comunque, potresti farla venire a tua casa, ora» disse.

Lo guardai. Non capii. Glielo dissi.

Mi ridiede la sigaretta.

«Tuo padre non c’è mai. Falla venire da te» mi rispose. «Magari a pranzo».

Rimasi in silenzio.

Feci l’ultimo tiro e sotterrai il mozzicone nella sabbia. Mi chiesi cosa avessi che non andava e perché, tra le tante cose su cui avevo riflettuto, non avevo pensato a quella più importante.

«Andiamo?».

«Sì» mi rispose.

C’alzammo. Dall’acqua ci videro e Maria Rosaria salutò Lunno e Serena applaudì ed io tornai indietro, per prendere la rincorsa, e volai veloce, verso di lei, senza rallentare.

Quando riemersi la trovai che rideva e cercava di colpirmi ma in realtà schiaffeggiava solo la superficie dell’acqua. Mi asciugai gli occhi e la baciai e lei baciò me. Lunno era sulla riva, con le mani sui fianchi. Fece due passi e si tuffò ed io e Serena ci schizzavamo e mi tuffavo su di lei. Lunno, calmo, si sedette nell’acqua e Maria Rosaria si posò sulle sue ginocchia. Io presi Serena, in braccio, e la sollevai e la lanciai lontano e lei sprofondò.

«Ma sei scemo?» disse, uscita fuori, tra un colpo di tosse e l’altro. Io la schizzai ancora. «Basta, ti ho detto basta. Ho bevuto».

Gliela tirai con una sola mano.

«Fermati, deficiente!» gridò ed io smisi. Lunno e Maria Rosaria ci guardavano e provai ad abbracciarla. «No, non capisci mai» mi disse.

Feci finta di niente e le diedi una tonnellata di baci, tutti rumorosi, su tutto il viso e lei non tossì più e mi accarezzò la faccia e le spalle e rise come se fosse una bambina. Poi salimmo e le ragazze convennero ch’era ora di pranzare. Aprirono gli zaini. Maria Rosaria diede a Lunno metà della sua frittata e Serena ne diede metà a me e, mentre mangiavamo, mi sentii orgoglioso, perché Maria Rosaria disse che la sua l’aveva preparata la madre mentre Serena l’aveva fatta da sola.

Lunno s’alzò e andò a comprare l’acqua. Ritornò e finimmo.

Io e Serena ci stendemmo e l’abbracciavo e lei abbracciava me. Pensai che a prendere il sole in quel modo ci sarebbero rimasti addosso i segni del passaggio, sul corpo, del corpo dell’altro: strisce di pelle bianche che portavano con sé il nome di un’altra persona. Mi piacque, non mi mossi. Decisi che volevo colorare il suo corpo. Non dissi niente. La baciai per un po’.

«Domani ci veniamo da soli» mi disse all’orecchio ed io aprii gli occhi.

Mi fece l’occhiolino e non mi chiesi cosa intendesse, cosa ci fosse al di sotto delle sue parole. Dormii e il resto della giornata passò così, dormendo, giocando un po’ a carte e un po’ a sette si schiaccia ed io schiacciavo sempre su Serena e Lunno su Maria Rosaria.

A casa mi lavai, pulendomi dalla sabbia e dal sale. Girai con indosso solo le mutande e, dopo non molto, mio padre tornò da lavoro. «Mettiti qualcosa» disse e in mano, oltre al pane, aveva una lettera bianca ancora sigillata.

Mi vestii, la lettera rimase sul tavolo della cucina e sopra c’era stampato il nome della mia scuola ma era indirizzata a mio padre e lui era in bagno. Mi sedetti e la guardai. Aspettai e non l’aprii. Perché sapevo cosa c’era scritto dentro, e cioè che m’avevano bocciato.

Tirò lo scarico, spense la luce, uscì.

«Allora? Non la leggi?» mi chiese, quando fu in cucina, seduto al suo posto, di fronte a me.

L’aprì, senza esitare. Lesse con calma e nulla apparve sul suo viso. Nessuna sensazione, nessun affanno. Me la passò e la lessi anch’io e c’era scritto quello che doveva esserci scritto. La rimisi nella busta e la posai sul tavolo e ripresi a guardarla, insistentemente, per sembrare dispiaciuto e anche per non alzare la testa e vedere i suoi occhi.

«Cosa ne pensi?».

Non mi mossi. «Che mi dispiace».

Tossì per schiarirsi la voce. «Davvero?».

«Sì».

Nella mia testa cominciai a fare dieci nove otto sette, fino allo zero, e allo zero, anziché i botti di capodanno, ci sarebbero state le sue urla e gli schiaffi e i calci e forse anche la cintura che schioccava sulla mia schiena. Invece le urla non arrivavano ed io ricominciavo con il conto alla rovescia; la luce che entrava dal balcone mi segnalava che il sole stava tramontando. Tutto era calmo.

S’alzò e dal mobile prese le padelle e aprì il frigo.

«A volte s’impara sbagliando» disse e cominciò a tagliare dei pomodori e mi dava le spalle. «Speriamo che hai imparato la lezione».

Mangiammo e lavai i piatti. In soggiorno guardammo un film e con mio sommo stupore mio padre non mi ruppe nemmeno un osso. Durante la pubblicità scomparve e tornò con una sigaretta. L’accese, il film ricominciò e guardava lo schermo colorarsi ogni secondo di colori diversi.

«Sei andato al mare?» mi chiese, in un modo che mi fece pensare che se ne fosse accorto da tempo ma che solo in quell’istante riusciva a trovare il coraggio necessario per sapere la verità.

«Sì» risposi.

«Da solo?».

«Con una ragazza».

Aspirò.

«Ci vado anche domani. Con lei».

«Va bene».

In treno, il giorno dopo, chiesi a Serena cosa ne pensasse della reazione di mio padre.

«Che ti vuole bene» disse.

«Che significa?».

«Significa ch’è stato buono: t’ha fatto venire al mare».

Arrivammo al capolinea e poi fu semplice perché la strada la sapevamo già. Gli asciugamani finirono quasi nello stesso punto del giorno prima e lei si spogliò, con fare automatico, e non fu come la prima volta, con quello stupore, con quella gioia, ma fu molto bello lo stesso; e il suo costume era giallo, con il reggiseno chiuso da un fiocco, dietro la schiena.

Parlammo del più e del meno e del fatto della scuola. Lei andava bene e non capiva quando le dicevo che non m’importava nulla.

«Sei molto intelligente. Dovresti e potresti andare molto bene anche tu».

M’innervosii, perché non ne volevo parlare e perché la bocciatura apparteneva già al passato ed era lì che doveva restare. Perché mi sembrava più semplice accettare di non saper fare una cosa piuttosto che impegnarmi per cambiarla. E poi, nonostante tutto, mi sentivo felice. Felice per il sole, per il mare e perché c’era lei con me, e solo questo contava: esser felici e stare assieme.

Cercai d’andare avanti e di non darglielo a vedere.

Insistette.

«Non sono intelligente. Sono solo curioso» le risposi.

Mi baciò.

«È curioso, lui» disse.

Mi baciò e mi baciò ancora e mi accarezzò il viso ed entrò in acqua. Entrai pure io e la schizzai.

La spinsi con la testa sotto e s’arrabbiò, di nuovo, e così, per fare pace, l’abbracciai e farlo in acqua mi piaceva molto di più che da asciutti, perché la sua pelle era liscia e le mie mani scorrevano senza intoppi, veloci. Con leggerezza le toccai il culo; nessuno poteva vedere. Lo strinsi.

Lei rispose con la sua mano.

La fece partire dal basso e mi toccò il cazzo e la fermò sul mio fianco ed io mi sentii come un piccolo cavalluccio marino che vaga nell’acqua, spinto di qua e di là dalla corrente, dalle onde, inerme, puro.

Risalii, perché ci dovevo pensare. Pranzammo con dei panini.

«Per venire qui ho detto che andavo con Maria Rosaria e un suo cugino di cui i miei genitori si fidano» mi disse.

Non le risposi, divenni silenzioso. Giocammo a carte e la lasciai vincere. Mi stesi e sembrò che dormivo ma in realtà pensavo.

Alla sua mano, a quello che mi aveva detto Lunno e al fatto che forse quel momento era davvero arrivato. Lo volevo, l’avevo aspettato per molto tempo, ma pensavo anche che forse non mi sentivo pronto e mi chiedevo cosa si faceva e cosa si diceva dopo che cose del genere erano accadute e pensai che, più di tutto, avevo paura.

Si stese anche lei e appoggiai il mio braccio sul suo fianco e saliva e scendeva, a tempo col respiro e la guardavo. Era così viva, così incontrollabile, piena d’energia, così mi appariva. Una bomba riempita di chiodi e pezzi di vetro che scoppia e chissà dove arriva tutto quello che c’è all’interno. Eppure forse dormiva ed era tenera, dolce, un oggetto piccolo e prezioso.

Passò del tempo, non so quanto. Poi si voltò e parlò che aveva ancora gli occhi chiusi. «Andiamo in acqua?».

C’alzammo e facemmo i passi che ci separavano dalla riva e, mentre camminavamo sapevo cosa intendeva, cosa voleva, cosa stava per accadere. Lo sentivo come un qualcosa di reale, dentro di me o sulla mia pelle, e smisi di rimandare.

Cominciai a correre e a tirarla e la trascinai e tutta l’acqua del mondo venne sollevata. E nuotammo fino a dove usciva fuori solo il nostro petto e i visi.

Senza dire una parola, mi slacciò il costume ed io la baciai, perché m’imbarazzava guardarla. Lo abbassò e fu come perdere tremila chili. Il mio cazzo nuotava per emergere, per respirare, verso il cielo, da solo, e la sua mano lo strinse e lo accompagnò ed io lo sentii duro, come prima, come sempre, ma ora avvolto nel candore o nella morbidezza. Fece su e giù e la baciavo ed era salata e se non la baciavo l’abbracciavo stretta e lei mi baciava il collo e le gambe mi tremavano, spinte dal piacere o dall’emozione e avrei voluto dirglielo, mi emozioni, mi emozioni da morire, stronza, mi fai venire voglia di piangere, mi fai venire voglia di morire o di vivere, ma la sua mano saliva e scendeva e non avevo tempo e non avevo pace e non avevo parole e non avevo pazienza.

Mise la sua lingua nel mio orecchio e fu così che quasi mi uccise.

Mi mancò il respiro, la testa si spense.

Chiusi gli occhi e venni e in quel momento, più di morire, mi sembrò che quella era la prima volta che non stava accadendo, che non stavo morendo davvero.

Fece un passo indietro. Mi sorrideva. A galla affiorò il mio sperma. Era bianco e molle, simile a una piccola medusa o a un fantasma. Lo buttai via, con il resto dell’acqua, per farlo scomparire, per dissolverlo. Lei rise e non disse nulla. Tirai su il costume. Feci un passo verso di lei e la baciai, nel modo più dolce che potevo.

Tornammo agli asciugamani e sentivo freddo e non sapevo cosa dire. A un certo punto, senza parlare, incominciò a rivestirsi.

M’infilai le scarpe e cercai di non guardarla e mi accorsi che nemmeno lei guardava me. Fu così che pensai che nel primo ciao che ci si dice è compreso anche l’addio e che l’inizio è solo l’inizio della fine e che ogni incontro non è altro che un lungo abbandono, centellinato goccia a goccia, lento.

Mi dispiacque.

Sentii di nuovo la solitudine.

Per questo mi alzai e le diedi la mano, perché mi serviva sapere che il suo corpo era ancora con me. Solo dopo qualche passo notai che l’avevo presa per quella stessa mano.

Alla stazione l’abbracciai e poi arrivò il treno.

Seduto, col vento che mi batteva sulla nuca, mi dissi che quindi era questo quello che accadeva dopo, ma non capii esattamente a cosa mi riferissi, perché più che un pensiero era solo una sensazione.

L’accompagnai a casa e me ne tornai anch’io. Mi lavai, sciacquai la sabbia dal fondo della doccia e fumai una sigaretta sul balcone della cucina.

Suonò il telefono, risposi. «Pronto».

«Questa è stata l’ultima volta: i miei genitori hanno capito che ci sono andata con te».

«Sereni’…» dissi, ma la linea s’interruppe e sentii solo questo suono buio e incessante.

Agganciai.

La vita ci prendeva con strana frenesia.

La macchina nera girò l’angolo senza guardare mentre la rossa andava troppo veloce. Entrambe inchiodarono e non ci fu nessuno scontro e tutto rimase immutato. Quello nella rossa suonò il clacson, le braccia fuori dal finestrino e si urlarono le loro ragioni e delle offese.

Quello nella nera scese e l’altra mise in moto. Gli passò davanti. Il tipo in strada fece finta di sputargli, salì in macchina e andò via.

«Secondo me quella è pazza» disse Maria Rosaria.

«Sono problemi suoi» le rispose Serena. «A me non importa».

Seduti su un muretto, fuori dallo stadio, mangiavamo un gelato e il mio mi colava sulla mano mentre le ragazze lo stringevano usando la carta della confezione, toccandola solo con la punta delle dita. Chissà Lunno, mi chiesi, perché non riuscivo a vederlo.

Col fresco che mi scendeva nella bocca, le ascoltavo parlare di questa divenuta una loro ex amica in seguito a una discussione o qualcosa del genere, non capivo del tutto. Perché quando parlavano di litigi io non capivo mai bene quale fosse il senso, il punto e cos’era realmente accaduto. E mi sembrava, quindi, che le femmine litigassero in modo strano, a piccoli gesti, senza clamori, e che bastasse poco per odiarsi tra loro.

Per questo mi sarebbe piaciuto intervenire e fare il mio esempio. Dire che, nonostante tutto, Lunno me l’ero tenuto e che attraverso lui ero arrivato a Serena e che gli sarei stato sempre grato. Mi sarebbe piaciuto dire che va bene picchiarsi, prendersi a parole, ma non si dovrebbe mai uscire dalle stanze o smettere di parlare.

Soprattutto, volevo dire che ogni persona è l’ulteriore possibilità di qualcun altro.

Non lo feci.

Perché non volevo fare nessun riferimento a quello ch’era successo con Maria Rosaria davanti a Serena e poi lei muoveva le gambe e indossava dei sandali di cuoio e lo smalto sulle unghie era blu, ed era blu anche su quelle dei piedi. Mai gliel’avevo visto lì. Disegnava come delle linee di colore, come delle stelle cadenti, e mi limitai a guardare quelle.

Buttai la stecca del gelato e accesi una sigaretta. Tutto s’aggiusta, pensai ed era un bel pensiero.

«Ma tu mo’ hai fumato!» mi disse Serena, ad alta voce, e le risposi che dopo il gelato si deve farlo per forza. Mi diede uno schiaffo sulla spalla. «Idiota!» disse e poi ci baciammo e fu particolarmente bello: sulle sue labbra c’era ancora il sapore delle fragole e della panna.

Passò un’ora, forse due, e ce ne andammo perché le ragazze avevano la ritirata.

Rimasti soli, Lunno disse di fumarci quello che ci restava, che fino a settembre era molto tempo. Tagliammo cinque stecche e nello scantinato si stava freschi. Prese il coltello dalla tasca, tagliò e me ne diede due e tre le tenne per sé.

Uscimmo e fuori dalla chiesa cominciò a preparare la canna; c’era ancora un po’ di luce e l’aria girava. Il pollice teneva ferma la cartina sul palmo ma si muoveva lo stesso e mi sembrò che le sue mani grandi non potessero nulla contro quella leggerezza. Pensai a un leone che si batteva contro una farfalla, e il leone era indubbiamente più forte ma la farfalla volava qui e lì ed era impossibile prenderla, anche e soprattutto per il leone. Maria Rosaria e Serena sarebbero andate in vacanza assieme, con le loro famiglie. Al mare, in Calabria, per un mese.

«Non ti dà fastidio che fanno delle cose senza di noi?».

Lunno leccò la cartina e si batté il filtro sul pollice.

«A volte» rispose.

Lo accesi io. Mi bruciò la gola e trattenni il fumo nei polmoni. Lo buttai fuori e produssi una nube densa, a mezz’altezza in un cielo pulito. Fumai, lo passai e pensai che quello era il primo petardo che ci fumavamo da soli, senza nessuno attorno. E pensai pure che tutto, tutto quello che riuscivo a vedere, apparteneva alla normalità e, di conseguenza, alla mia stessa vita. L’essere stato bocciato, mio padre che appassiva in una casa troppo grande per noi due soli e mia madre che forse non mi amava. Serena, Lunno, l’estate, il fumo, i costumi da bagno bianchi.

Sentii e mi sembrò come se potessi toccare tutto con mano e lui stringeva la canna tra pollice e indice. «Maria Rosaria ha detto che dovrei andare pure io in Calabria» mi disse.

«Con i suoi genitori?».

Fumò. «No, in un campeggio, con i suoi genitori non è cosa».

A me Serena non l’aveva chiesto. Perché?

«Be’, i soldi ce li hai» gli risposi.

Finimmo e Lunno subito cominciò a chiuderne un altro. Arrivò Tonino, arrivò Marco e aveva una busta con dentro tre birre grandi. Ci chiese del fumo, dove lo avessimo preso, e né io né Lunno gli rispondemmo e aprì una birra ed era una novità, perché mai le avevamo prese ma nessuno disse nulla. Io nascosi le mani nelle tasche e bevemmo e fumammo, passandoci le cose di mano in mano. Venne aperta la seconda e la terza ed io una sola volta avevo bevuto birra, una sera, mezzo bicchiere, a tavola con mio padre, ma fuori dalla chiesa, la cosa che mi piacque e che mi stupì fu che a ogni nuovo sorso la sentivo sempre di più nel petto ed era come se me lo gonfiasse, da dentro, e c’era questa pressione che per certi versi assomigliava a quando, da fuori, ti stringono in un abbraccio.

«È fresca» dissi e guardai le scarpe bianche di Tonino e le sue caviglie sottili e i peli corti e neri che aveva sugli stinchi.

«Tonino. Hai proprio delle brutte gambe».

Rise. «Mica devo fare il ballerino» mi rispose.

Scendemmo fino a via Giustiniano.

L’acquaiolo era chiuso. Entrai in una pizzeria. Il ventilatore bianco girava sulla cassa, ma l’aria e il caldo erano comunque insopportabili.

Chiesi quattro birre, pagai e presi la busta e restammo in quella strada: riparati dietro le piante e separati, così, dalle persone e dalle macchine, che comunque potevano vederci ma non c’importava, perché da un certo punto in poi incominciai a non capire più un cazzo e tutto divenne tranquillo. Le birre finivano e ritornavano. Lunno accennò un passo di danza e non credetti ai miei occhi. Marco fece finta di dare un cazzotto a Tonino e Tonino di toccargli il pesce. Lunno mi mise un braccio sopra le spalle ed io lo abbracciai proprio e non pensai fosse una cosa strana.

Ridevo. «È ubriaco, guardatelo» dicevano di me e si davano gomitate leggere, sulle costole, per farsi segno.

Io ridevo ancora e traballavo. «E tu? Tu no?».

Vidi la saracinesca della pizzeria abbassarsi a metà e attraversai, di corsa. Pulivano per terra, mi guardarono male. «Una pizzetta, vi è rimasta, per favore?» gli chiesi e cercai i soldi.

Tornai dagli altri, la mangiai; le macchie d’olio si espandevano sulla carta rendendola trasparente e il pomodoro saltava fuori, oltre i cornicioni.

Volevano un morso ma non diedi niente a nessuno.

«Sei uno sporco» disse Marco.

«Ucciditi!» gli risposi io.

Poi, senza alcuna ragione, qualcuno propose di tornare a casa e non riuscivo a seguire una strada dritta. Saltai, diverse volte, e vidi anche gli altri fare lo stesso. I lampioni intervallavano i nostri passi. Non sapevo l’ora ma mi sembrò tardi, molto tardi, e immaginai che mio padre m’avrebbe visto ubriaco e che si sarebbe arrabbiato come mai prima.

Riempii i polmoni d’aria.

Ok, mi dissi e continuai spiegandomi che non potevo e non volevo evitare di fare le cose che mi andava di fare solo per la paura di ferirlo o di farlo arrabbiare. E capii anche che dovevo andare a Bologna, a cercare mia madre. E che volevo andare in Calabria, da Serena, perché lei mi faceva stare bene e non m’importava che non me l’avesse chiesto, perché io lo volevo e l’avrei fatto.

Ruttai e saltai sulla schiena di Tonino. Scesi. Li salutai e le scale le salii reggendomi al corrimano.

Sapevo quello che sarebbe accaduto, ma non avevo paura, perché andava tutto bene.

Tutto andava bene e tutto passava, come per il tipo che Lunno aveva accoltellato.

Puff, scomparso, per sempre, perché mi spiegò Lunno che non era nessuno e aveva paura a parlare, perché poi noi tornavamo e finiva male, male davvero.

Non mi piaceva questa cosa, quello che avevamo fatto e quello che la gente, forse, pensava di noi. Però mi piaceva che con calma tutto s’aggiustava e diventava bello.

Mi spogliai. In bagno mi sciacquai il viso e il mondo girava. Sentii delle cose saltarmi nella pancia e non riuscii a fermarle né a trattenerle. M’inginocchiai sulla tazza e vomitai, tutto, diverse volte, e sentivo delle fitte nello stomaco e oggetti acuminati che mi uscivano dalla gola.

Smisi. Mi sollevai.

Uscii e, da sotto la porta della camera di mio padre, vidi la sua luce spegnersi.

Steso nel letto pensai che m’avesse sentito e che sapesse. Mi girai a pancia sotto e non riuscii a preoccuparmene nemmeno in quella posizione. E credetti che quello fosse il metodo che usavamo per dirci che ci volevamo bene e per farci una carezza. Spegnendoci le luci.

Il caldo non si posava sulla mia pelle, ma partiva dall’interno del corpo. Mi sentivo una fiamma, un incendio, la collina dei Camaldoli che andava a fuoco e gli elicotteri mi volavano sopra e facevano cadere enormi secchiate. Lenta, durante la caduta, l’acqua s’apriva in mille gocce, diventando sottile, quasi leggera e accelerava di colpo, toccava terra e quel che vedevo era un po’ di fumo in più e ancora le fiamme e l’elicottero che si alzava di nuovo in volo.

Aprii tutte le porte e tutte le finestre di casa. In mutande mi sedetti in soggiorno e non la minima corrente si fuse col mio sudore. Feci una doccia, prima calda e poi fredda e poi ancora calda. Dal frigo presi una bottiglia di tè alla pesca e la bevvi tutta.

Affacciato al balcone fumai pensando che se hai freddo ti copri, ma che contro il caldo non ci sono rimedi efficaci. E che il ventilatore comprato due estati prima, all’improvviso, s’era fermato e che l’avevamo buttato e mio padre non aveva ritenuto necessario comprarne un altro. Diceva che l’unica cosa che davvero funzionava contro il caldo era il non pensarci.

Sotto, per strada, tra il mio palazzo e quello di fronte, passò uno con in mano un sacchetto della spazzatura e mio padre sosteneva anche che non andava buttata di giorno, soprattutto d’estate, «perché puzza o prende fuoco, la roba dentro è come se si cuocesse e poi infezioni, topi, gatti e cani».

Lo feci, dunque, con la leggerezza che accompagna i gesti assolutamente giusti e necessari.

E per noia.

Misi le mani attorno alla bocca e la sigaretta la strinsi tra l’indice e il medio.

«E allora, uomo di merda, a quest’ora butti la monnezza, la monnezza come te?».

Il tipo proseguì, facendo finta di non avermi sentito: solo un passo più lento degli altri lo tradì.

«Sì, tu, tu, uomo di merda, è inutile che fai finta che il fatto non è il tuo» urlai e quello continuò a rimanere indifferente e a camminare.

Muovendomi veloce feci cadere la sigaretta, andai in cucina e presi un uovo. Tornai fuori e lo lanciai. Volò seguendo una parabola, morbidamente. Lo mancai di poco e il tipo si fermò e alzò la testa. Io mi nascosi abbassandomi, buttandomi verso l’interno.

«Strunzill, fatti vedere che salgo e ti riempio di schiaffi» disse, ai palazzi, non a me.

Io risi e, nel pollice e nell’indice, chiusi, feci una pernacchia lunga e sottile.

«Quella cessa di tua madre» gli sentii dire e poi proseguì.

Mi sentii offeso, personalmente.

Pensai che se mia madre non se ne fosse andata nessuno le avrebbe mai dato della cessa. Pensai che se mia madre fosse stata ancora con noi, io non mi sarei messo a lanciare un uovo dal balcone. E pensai che di tutto questo, a lei, non importava assolutamente nulla.

Presi l’enciclopedia dal mobile del soggiorno e dentro c’era scritto che Bologna era il capoluogo di provincia e della regione, Emilia Romagna, un tot di abitanti, eccetera eccetera. Poi andai veloce e saltai e chiusi, perché mentre leggevo, in un’altra parte del mio cervello, cominciò a crearsi questa fantasia di me che arrivavo lì e che la trovavo e lei piangeva. Mi abbracciava e mi piacevano le sue lacrime, perché significavano che il nostro legame esisteva ancora e che ancora mi voleva bene, esattamente come io ne volevo a lei e immaginai di aiutarla con le buste della spesa e di andare a casa sua. Di salire queste piccole e vecchie scale e di entrare in una casa luminosa e bianca, con le finestre aperte e le tende agitate dal vento. Immaginai di sedermi al tavolo della cucina, davanti a lei, e di fumare e di vederla ridere del fatto che fumavo. Dopo, di dover andare in bagno e di percorrere un lungo corridoio e di vedere, per terra, ordinate vicino al battiscopa, come se non fossero importanti, come se io non avessi un cuore, un paio di pantofole troppo grandi per lei. E di uscire dal bagno ed entrare nella sua camera da letto e di trovare un paio di scarpe maschili.

Immaginai di vomitare.

Sulle scarpe, e sulle mie mani, e sul pavimento.

O peggio ancora, immaginai di trovarla mano nella mano con il figlio nuovo, che mi assomigliava, con i capelli ricci e il sorriso ancora reale. E che me lo presentava.

Mi stesi con la schiena sopra le mattonelle. Erano fredde.

Come si fa a lasciar andare le persone, mi chiesi.

Come si fa a spiegare quanto l’ami se quella persona non ti ama più o non ti ha mai amato?

Mi sarebbe piaciuto essere importante per lei.

Mi sarebbe piaciuto essere il motivo delle sue tristezze e delle sue gioie.

Volevo salire sul suo letto, mentre dormiva, e abbracciarla e dormire anch’io, davvero, rilassandomi, saziandomi della consapevolezza che lei era con me, nel mio stesso posto, e che al mio risveglio l’avrei ritrovata senza bisogno d’inseguirla o d’affannarmi.

Avrei voluto presentarle Serena e vedere entrambe che faccia facevano. E dopo sarei voluto rimanere solo con mia madre, per sentirle dire che dovevo essere buono, perché le ragazze sono una bella cosa.

Piansi. Con le lacrime, ma senza fare rumore. Perché non c’era una parola o un mio gesto che l’avrebbe convinta a volermi bene. Perché l’amore non è una misura relativa, poco o molto, ma o c’è o non c’è. Perché dovevo vivere, ma senza di lei, e mi sentii povero, impotente, schiacciato. Desiderai che Serena mi stringesse tra le sue braccia e che mi accarezzasse la testa.

I singhiozzi arrivarono quando capii che anche scendere di casa, così come stavo, e andare fino a Bologna correndo come un pazzo non sarebbe servito.

Mi alzai dal pavimento e mi buttai sul letto, soffocando la faccia e il pianto nel cuscino. Trattenni il fiato, al punto che i polmoni mi fecero male. Mi svuotai. Tornai a respirare. Le lacrime non scendevano più.

Mi sedetti e giurai a me stesso che quella era stata l’ultima volta che mia madre mi aveva fatto del male. Perché non potevo più andare avanti così, non aveva senso, perché stare male non serviva a niente e perché quando stai male nessuno ti vede e quindi è come se non accadesse. Pensai che volevo stare bene e che quindi mi serviva Serena. Immaginai la Calabria, il campeggio, e i miei piedi sporchi di terra. E mi sentivo molto stanco ma capii che mi serviva un nuovo motivo e agii usando le mie ultime energie.

Lavai il viso e feci passare del tempo, perché non volevo che dalla mia voce s’accorgesse che avevo pianto. Feci il numero, lo sapevo a memoria.

«Domani, vuoi venire a pranzo da me?».

Ci mise meno di un secondo per rispondermi. «Sì» disse.

Mi vestii. Il sangue mi pompava nelle vene. In un angolo della mia testa, mattone dopo mattone, muravo viva mia madre, per lasciare il resto dello spazio al resto della mia vita.

Infilai i pantaloncini e una stecca era già in tasca. La fumammo tutta, io e Tonino, e lui non fece domande e quando tornai a casa, a cena con mio padre, non riuscivo a tenere gli occhi aperti e quasi nemmeno a masticare.

Il giorno dopo mi svegliai e in me c’era solo calma, come se fossi nato in quel preciso istante e niente fosse mai successo prima.

Misi in ordine la mia camera. Spazzai i pavimenti. Quando entrammo in casa fu come se tutti i mobili, il soffitto e i muri ballassero una danza allegra, di gioia, come se quel luogo tornasse a risplendere dopo anni di cieli coperti e neri.

«Mi piace casa tua, è spaziosa» fu la prima cosa che disse. «È come te: piena di cose» disse della mia camera, prendendo un giornaletto dalla libreria.

Si sedette sul mio letto e i pantaloncini le lasciavano nude le gambe. Indossava scarpe da ginnastica e la maglietta era nera. Non seppi cosa fare. Andai in soggiorno e accesi la televisione. La chiamai e lei venne. Si piegò sulle ginocchia, davanti a me, e mi baciò e in quel bacio c’era dell’altro, qualcosa che s’agitava dentro, perché era l’inizio di un viaggio.

Infilò le mani sotto la mia maglia. Mi accarezzò la schiena. Mi sfilò la maglia ed io pensai di star sognando.

Si alzò in piedi. «Ehi» disse.

Ci mettemmo sul letto e la baciavo e non pensavo, ma in realtà mi domandavo cosa stava per accadere e dove saremmo arrivati e quali sarebbero state le nostre condizioni alla fine di quella lunga corsa.

Interruppe il bacio e si tolse la maglietta e fui stupito, perché l’avevo già vista in costume ma in reggiseno era tutta un’altra cosa.

Lo tolse e il cuore mi esplose. I suoi capezzoli erano rosa, grandi e belli. Li toccai e li sentii diventare duri. Mise una mano sopra il mio cazzo e ad uno ad uno aprì i bottoni dei miei jeans e li abbassò. Mi abbassò anche le mutande e realizzai che quella era la prima volta che mi vedeva nudo e mi chiesi cosa pensasse, se le piacevo, s’ero come lei aveva immaginato e mi spaventò l’idea d’averla delusa.

«Tieni le gambe belle» disse e quei pensieri svanirono e una sua mano era sulla mia pancia e i miei addominali erano stretti e duri e poi prese il cazzo e mi si buttò addosso.

Le nostre lingue si strinsero l’una con l’altra e avrei voluto annodare la mia alla sua e una sua mano era sempre lì e l’altra me la mise dietro il collo. Spinse la mia testa ed io obbedii e seguii il suo volere, quel movimento, e mi ritrovai con il naso tra i suoi seni. Obbedii ancora e la mia bocca fu sul capezzolo.

«Ti piaccio?».

«Uà» fu l’unica cosa che ebbi la forza di dire.

Lo rifece. «Ti piaccio?».

«Sì» risposi.

«E dillo».

«Mi piaci».

«Dillo» mi disse prendendomi per il collo e avvicinandomi al suo viso e le mie mani erano sempre sul suo corpo.

Aveva gli occhi chiusi.

«Mi piaci».

«Dillo» disse ancora e poi li aprì.

«Mi fai morire, Sereni’» le dissi e vidi il suo viso cambiare, diventare quasi arrabbiato, concentrato, sotto sforzo e mentre lo vidi prendere quelle sembianze capii che quella era la maschera del piacere e che io le piacevo davvero.

Fu così che venni, per quel pensiero, non solo per la sua mano.

Venni sulle sue dita e sulla mia pancia. Si fermò solo quando anche l’ultima goccia scappò via dal mio corpo e il mio cazzo divenne orribile, inutile e mi vergognavo a stare così. Ritornai sulla Terra e realizzai che stavamo con le scarpe sul letto e che tutto era sporco e che c’erano macchie bianche ovunque.

Andai in bagno, presi la carta igienica e cercai di pulire tutto ma non fu abbastanza. Allora bagnai un asciugamano con dell’acqua calda e strofinai il mondo intero. Quando smisi, quando mi sembrò d’esserci riuscito e che tutto fosse tornato normale, mi accorsi che Serena s’era rimessa il reggiseno.

La baciai. Non solo perché ne avevo voglia, ma anche perché volevo ignorare quella cosa e non renderla un segnale. Dopo lei mi sorrise e mi sentii salvo.

«Hai fame?» le chiesi.

«Un po’» mi rispose.

Le cucinai pasta al pesto. «Mangiamo stesi sul letto, come gli antichi romani» propose ed io fui felice di dirle di sì.

Togliemmo le scarpe. M’imboccò e della pasta mi cadde sul petto. Sentii che mi scottava. Baciò la macchia e la tolse via. «Non sapevo che cucinassi così bene» mi disse ed io abbassai le sopracciglia e feci finta, ma solo per un secondo, d’essermi arrabbiato.

Lavai i piatti e ci stendemmo, abbracciati, sul divano, a guardare la televisione. Ero dietro di lei e lei girava i canali ed io le annusavo i capelli. Lo schermo non lo vedevo nemmeno, perché davanti a me c’era la sua testa.

Non parlai, non mi mossi, non dissi nulla e agli occhi di qualcun altro potevo sembrare morto e invece ero vivo e stavo riempiendo il mio corpo col suo odore.

Dopo quasi un’ora di ininterrotto silenzio disse che doveva andare a casa.

«Perché?» le chiesi.

«Perché sì».

«Ma ora fa caldo, aspettiamo».

«Siamo giovani» mi rispose.

In strada ci tenemmo per mano ma lei guardava dritto davanti a sé. E mi sembrò anche che camminassimo più velocemente del solito e mi dispiaceva saperla arrabbiata. Volevo rimediare e le avrei chiesto scusa, se fosse servito, non importava, perché volevo solo che tornassimo a stare bene.

«Sereni’, che c’è?» le chiesi.

«Niente».

«Ho fatto qualcosa di male?».

«No».

Mi fermai e la costrinsi a girarsi e a guardarmi negli occhi. «Spiegami, per favore».

Mi accarezzò il viso. Il mio corpo era completamente duro, in tensione. Mi baciò le labbra. Non aprì la bocca ed io non aprii la mia. Lei fece il rumore del bacio ed io no.

Riprendemmo a camminare e delle goccioline di sudore mi scendevano dalla testa e mi correvano sul viso. Sentivo le gambe bagnarsi all’interno dei jeans, che avevo messo perché i pantaloncini mi sembravano una cosa da bambini ed io volevo piacerle.

Sotto quel sole, mentre bruciavo, mi resi conto che tutto quello che facevo lo facevo solo per lei e incominciai, nella mente, a elencare quelle mie azioni ma lei mi distrasse.

«Non puoi arrivare fin sotto casa. Per quella cosa dei miei genitori, non ti offendere».

Passammo fuori dallo stadio, di fianco agli ingressi della tribuna Posillipo e, al centro dello spiazzo della Mostra d’Oltremare, con la strada composta da tanti mattoni quadrati, incollati l’uno all’altro, glielo domandai ancora.

«Mi dici cosa c’è che non va?».

«Non so come dirlo».

«Mi stai lasciando?» le chiesi e mi pentii subito d’averle fatto quella domanda, ad alta voce, perché non volevo sapere la risposta. Perché piuttosto che non vederla più preferivo che fosse lei a cucinare e che ci mettesse del veleno nel mio piatto. Poi morivo, ma non che non stavamo più assieme.

«No» disse.

«E cosa, allora?».

«Credo che ti amo».

Le lasciai la mano e le mie gambe si bloccarono. Mi spensi. Le guardai la schiena, i capelli e il viso. Fece un passo verso di me. «Io ti amo» mi ripeté ed io non parlai. Reagii come potevo.

«Magari» le risposi. Poi sorrisi.

Lei si girò di nuovo e la vidi diventare piccola e allontanarsi. La rincorsi. Le misi una mano sulla spalla e lei me la tolse. Dissi il suo nome un milione di volte e fermati e aspetta ma niente funzionò.

Mi misi davanti a lei e la bloccai. «Oh».

«E tu? Tu mi ami?» mi chiese.

Interpretò male il mio silenzio: questo è. Ci separammo e ognuno andò per la sua strada e camminavo e pensavo.

Esattamente pensavo che ero certo solo di amare mia madre ma che quell’amore non dava piacere ma solo dolori e sofferenze. Pensai che non capivo, che Serena non poteva pretendere che fingessi d’amarla e che dicessi quella cosa se non n’ero certo. Perché per me amore voleva dire per sempre, senza possibilità di tornare indietro e quindi doveva apprezzare la mia sincerità e mi sembrò che mi amasse, forse, ma che di sicuro non mi capiva. Che non capiva questo fatto che il volere bene a qualcuno è una sfortuna, perché ci si mette nelle sue mani e si diventa come nuvole: piccole forme delicate e semplici da distruggere. E pensai anche che non volevo perderla, perché volevo andare al mare con lei altre mille volte. Perché volevo vedere le sue unghie colorate di tutti i colori del mondo. Perché volevo leccarle di nuovo i capezzoli e volevo essere io a toglierle la maglia.

Diedi un calcio a una pigna e sentii un dolore acuto all’alluce. Desiderai di prendere uno, uno qualsiasi, uno che passava per strada e di riempirlo di calci. Pensai che volevo fumare e ubriacarmi, così a lungo che quando poi fossi tornato normale non mi sarei ricordato nemmeno la forma dei suoi occhi.

Volevo che avesse più pazienza.

Volevo che aspettasse un attimo e invece lei correva e correva molto più veloce di me ed io volevo starle vicino e allora dovevo correre ma anche lei doveva rallentare un po’. E poi pensai che più di tutto mi dispiaceva che non sapevo cosa fosse l’amore.

Salii le scale tenendo le mani in tasca. Aprii la porta e la casa mi sembrò di nuovo buia e brutta.

Sedetti sul divano e mi dissi che le case non dovevano essere così, ma rumorose e piene di grida di gioia e di risate e di sedie che strusciano per terra mentre vengono avvicinate a tavole grandi, dove si mangia tutti assieme. Mi dissi che l’amore è una casa felice. E che la nostra, fino a che Serena non era uscita dalla porta, era tornata a essere bella, seppur soltanto per qualche ora.

Capii e mi resi conto che la risposta la sapevo già ma che non avevo parlato perché stavo tentando di salvarmi.

Andai al telefono. Decisi di scommettere, di lasciarle puntare alla mia testa questa pistola carica e senza sicura che la gente chiama amore.

Mentre facevo il suo numero mi parve evidente che in pericolo c’ero già, e da diverso tempo.

Mi rispose lei.

«Voglio mangiare con te tutte le volte che mi viene fame».

Fece silenzio, scavalcò il suo orgoglio e mi parlò.

«Che significa?».

«Che ti amo».

«E perché non me l’hai detto?».

Guardai il telefono, il mobile che lo reggeva, il pavimento e il muro.

«Perché mi fai paura».

Lessi un articolo riguardante un esorcismo.

Diceva che nel 1968 una ragazza tedesca cominciò a comportarsi in maniera strana e innaturale e che alcune parti del suo corpo, come le mani, le crebbero a dismisura.

Fecero un pellegrinaggio e nel pullman la voce le uscì bassa e profonda, maschile. Arrivati davanti al santuario bestemmiò e il prete notò che sembrava mossa da una potenza che la faceva roteare su se stessa e che la scagliava, con forza, per terra.

Verso la fine del 1973 i genitori giunsero alla conclusione che la ragazza era posseduta ma nessuno gli credette. E dopo qualche anno, visto l’odio per tutti i simboli religiosi, la forza fuori dal comune e il fatto che parlava sempre più spesso usando lingue antiche, il vescovo decise di farla esorcizzare. I due preti incaricati usarono un rituale del milleseicento e, durante il primo tentativo, i demoni si presentarono col nome di Lucifero, Giuda, Hitler, Nerone e Caino.

Gli esorcismi si ripeterono e, nei momenti di lucidità, la ragazza, per sua scelta, come cura, mangiava solo ostie consacrate e quando era posseduta si cibava di ragni e scarafaggi. Inoltre, si arrampicava sui muri emettendo suoni mostruosi e si rompeva i denti mordendo le pareti della sua camera, con gli occhi che le diventano completamente neri.

Nel luglio del 1976 la ragazza muore. Ha ventiquattro anni. L’autopsia rivela la presenza delle stimmate e i genitori e i due preti vengono indagati e poi condannati. C’è chi chiede al Papa di rimuovere la figura dell’esorcista. Il Papa non dice niente e la Chiesa acquisisce tutto il materiale, registrazioni audio e appunti, riguardanti la vicenda.

Vennero diffusi e nell’articolo elencavano quello che Satana aveva detto ai preti, attraverso la bocca della ragazza.

Provai a leggere tutte quelle cose ma non ci riuscii.

“Gli uomini sono così bestialmente stupidi. Credono che dopo la morte sia finito tutto”.

Smisi con l’articolo e chiusi la rivista, perché passando gli occhi su quella frase mi chiesi quanto fosse vecchia casa nostra e se non ci fosse mai morto qualcuno. Non mi seppi rispondere e avvertii dell’agitazione, perché mi dissi che se esisteva Satana voleva dire ch’esisteva anche l’inferno e che l’anima non era un’invenzione e quindi esistevano anche i fantasmi. Mi sentii come se in qualsiasi momento potesse accadermi qualcosa di grave e m’accorsi che mi faceva paura tutto quello che non riuscivo a vedere. Sentii ch’era più semplice venire attaccati da un fantasma o dal Diavolo se non si sta con qualcuno e mi sembrò pure che a star da soli si finisce per stare sempre più soli.

Scesi di casa. Mi sedetti su una panchina e mi tolsi la maglia e provai ad abbronzarmi, ma mi annoiai quasi subito. Salii tutte le scale, arrivai fino alla chiesa e lo spiazzo era vuoto. Me ne andai, tornai indietro. Entrai nel mercatino e c’erano poche bancarelle e nessuno urlava per vendere la propria merce.

Continuai e fuori dalla stazione alzai la testa e vidi Tonino appoggiato al muro del palazzo di fronte. Attraversai. «Non me lo ricordo più com’era quando non faceva caldo» mi disse, quando gli fui davanti.

Tornammo alla chiesa e ci fumammo un po’ del suo fumo. Lo chiuse e lo accese. Si tolse la maglia, la mise sulla strada e ci si stese sopra. Io non dissi niente e feci lo stesso, senza preoccuparmi delle blatte o di tutto il resto. Ci mettemmo a prendere il sole e fumammo con gli occhi chiusi e con il buio colorato di rosa dalla luce immensa che ci incollava al mondo.

«Non capisco che l’hanno inventata a fare, l’estate» disse, dopo un po’.

Mi voltai verso di lui e aprii gli occhi.

«È perché il pianeta ruota. La Terra ruota attorno al Sole, non l’ha inventata nessuno».

Non aggiunsi altro. Perché lui era sempre gentile con tutti e poi fumavo lentamente, nel tentativo di tenerlo quanto più a lungo con me. Perché una volta finito, accortosi dell’orario, se ne sarebbe tornato ed io sarei rimasto da solo. E da solo, a casa, non ci volevo stare, io e i fantasmi, a non dirci nulla, mentre lui mangiava con la madre perché pure lui era figlio unico e il padre faceva il cameriere in una pizzeria di Milano e tornava ogni tre settimane. Mio padre diceva ch’era una brava persona e non era poco. Quando lo incontravo, che era a Napoli, mi sembrava sempre che andasse di fretta, come se avesse un milione di cose da fare e di Milano raccontava che faceva molto freddo e che la gente parlava quasi sempre in italiano. Una volta Tonino diede un pugno in faccia a Marco perché Marco gli aveva detto che la madre si teneva un altro e Tonino lo spinse e Marco gli disse che non doveva arrabbiarsi, perché le corna sono come le scarpe: un paio vecchio o un paio nuovo lo devi tenere per forza. Fu dopo quella frase che Tonino gli diede il pugno e gli si azzeccò addosso. Io provai a dividerli ma non ci riuscii. Lunno lasciò che si picchiassero per un po’ e poi intervenne e scaraventò Marco cinque metri lontano, senza nemmeno sfiorare Tonino, e Marco non gli chiese mai scusa per quella battuta.

Tonino si sollevò. «Sto morendo» disse e faceva davvero molto caldo. Lo sentivo sopra e sotto il corpo.

C’alzammo e, senza indossare le maglie, scendemmo alcuni scalini, per poi fermarci sotto l’ombra degli alberi. Presi una mia sigaretta e cercai di capire come fare con mio padre e col fatto della Calabria, che dovevo andarci e che mi servivano pure i suoi soldi. Fino a quel momento avevo rimandato per paura d’affrontarlo, perché dopo la bocciatura quasi non mi parlava più, anche se non sembrava arrabbiato.

Una finestra s’aprì e venne richiusa. Sentii un motore abbassare i giri e poi fermarsi del tutto.

«Devo andare» disse Tonino ed io non gli risposi. «E tu?».

«Mangerò».

«Da solo?».

Feci di sì con la testa e lui m’invitò a casa sua.

Entrai e la madre ci sorrise ma sembrò come se si sforzasse nel farlo, come se in realtà la mia presenza la infastidisse. Ci sedemmo e dal frigo venne presa un’insalata di pasta e parlammo del fatto ch’ero stato bocciato e che invece Tonino, finita l’estate, cominciava a lavorare nel salone da parrucchiere dello zio. Che sarebbe partito dagli shampoo e che per i diciotto anni avrebbe avuto abbastanza soldi per comprarsi una macchina da solo. Chiesi un po’ di Coca-Cola e Tonino, nel versarla, ne fece cadere molta sulla tovaglia e la madre prima pronunciò il suo nome, ad alta voce, e poi gli disse ch’era sempre distratto e di non pensare ai debiti, che a quelli ci pensava lei. Sempre seduti al tavolo della cucina, mangiammo del gelato alla nocciola, preso da una vaschetta di polistirolo e messo nei bicchieri. Con il cucchiaino in mano, la madre di Tonino mi chiese di mio padre, se stava bene ed io le risposi di sì, la ringraziai e disse che mio padre, come suo marito, lavorava sempre.

Dopo mangiato ci mettemmo davanti alla televisione e la madre, fatti i piatti, ci raggiunse. Si sedette vicino a noi e mi sembrò una cosa strana, una specie d’invasione. Guardai Tonino e lui dovette capirmi, perché le disse che saremmo andati nella sua camera e lei gli rispose di lasciare la porta aperta.

«So che non dovrei, ma a volte è proprio ’na stronza» disse, dopo che ci sedemmo per terra; sulle caviglie e sui polpacci mi arrivava del vento, dell’aria fresca.

«Sto bene… ora!» gli risposi e risi e rise pure lui, più rumorosamente di me, come se quella risata servisse a scacciare qualcosa o a tranquillizzare sua madre. Non fu così.

«Tutto bene?» ci gridò, dall’altra stanza, e Tonino alzò gli occhi al cielo e rise di nuovo.

Passate le ore più calde andammo fuori dalla chiesa e mi accorsi di non aver telefonato a Serena. Arrivarono Marco, Lunno e Maria Rosaria e Tonino e Marco parlarono di un videogioco di zombie e di gente che si mangiava l’una con l’altra.

«T’ho detto» gli disse Tonino. «Preferisco i giochi di macchine».

«Ma che sfizio c’è? Se vai a sbattere non ti fai nemmeno male» gli rispose Marco.

Io non avevo un’opinione e il resto di quelle ore le riempii lasciandomi coinvolgere in una partita di calcio. Mi tolsi la maglia e la lasciai sul muretto. Giocai e smisi e il sudore mi si asciugò addosso. Andai a casa. Trovai mio padre seduto al tavolo della cucina. Lo salutai, feci una doccia e tornai da lui. Nel mio corpo c’era il silenzio che c’è sulla Luna.

«Papà…» dissi.

«Sì».

«Ti devo parlare».

«Siediti» mi rispose.

Cominciai dall’inizio, da Maria Rosaria, che mi piaceva ma che stava con Lunno e a me nessuno aveva detto niente. Che mi ero sentito tradito e, quando pensavo che nulla di buono mi sarebbe mai accaduto, avevo conosciuto Serena e mi piaceva, davvero, e gli spiegai che lei andava in Calabria, con Maria Rosaria, e anche Lunno ci andava e io non potevo stare un mese senza di lei, perché un mese erano un sacco di giorni e potevano succedere molte cose. Gli dissi che mi servivano dei soldi, che avremmo dormito in campeggio e che sarei tornato quando sarebbero finiti e non avrei fatto nulla di male, che gli avrei telefonato tutti i giorni, anche due volte al giorno, se lo reputava necessario. Accennai al fatto che era stato un anno brutto, la scuola, la squadra, ma senza entrare nel dettaglio, solo per fargli capire che mi serviva stare lontano per un po’ e, soprattutto, senza nominare Fusco e nemmeno Gioiello, perché non volevo allarmarlo. Gli dissi che gliel’avrei fatta conoscere, ch’era bella ed ero sicuro che gli sarebbe piaciuta e che mai più avrei avuto dei segreti con lui. E tutto questo lo dissi mentre ci guardavamo negli occhi e con mio padre che aveva lasciato la sigaretta nel posacenere, fino a che non s’era consumata tutta.

Ne accese un’altra, abbassò lo sguardo e aspirò. Il fumo gli uscì prima dal naso e poi dalla bocca. Io non parlai più e lui fece cadere della cenere sulla tavola e la disperse con la mano.

«Vorrei dirti di no, ma ti dirò di sì. Però, mi raccomando…» disse e aspirò di nuovo e chiuse gli occhi.

Io mi alzai, feci il giro della tavola e lo abbracciai strettissimo.

Il giorno dopo dissi a Serena che sarei andato pure io in Calabria, perché volevo starle vicino, e lei incominciò a piangere.

«Di felicità» specificò, dopo aver ripreso fiato.

Singhiozzava. Com’era bella.

La strada era vuota, deserta e puzzava. Io, invece, stavo da dio.

Una quindicina di giorni e mio padre sarebbe andato in ferie e non ci saremmo visti, perché partivo, e un po’ mi dispiaceva e un po’ no, perché così vanno le cose. Ero cresciuto, avevo conosciuto una ragazza e mi piaceva e per lui era arrivato il momento d’arrangiarsi un po’ da solo. E non mi sentivo in colpa né niente, perché i cuccioli nascono e bevono il latte della madre. Poi gli spuntano i denti, diventano aggressivi e se ne vanno a caccia per conto loro.

M’aveva pure già dato i soldi ed erano molti di più di quanto m’aspettassi.

«Ma sei sicuro?».

«Mo’ ti do uno schiaffo» m’aveva risposto, ridendo, e a Serena, saputa la cifra, era venuta la fissazione di ringraziarlo di persona.

L’avevo portata a casa e c’era dell’imbarazzo. Però mio padre era felice, lo vedevo, e al momento d’uscire lei l’aveva baciato sulle guance ed io mi dirigevo verso l’edicola. Non perché mi servisse qualcosa, ma giusto per muovermi e per far passare il tempo.

Le panchine erano libere e il sole ci sbatteva sopra. Serena era in giro con la madre, a comprare roba per la spiaggia. Lunno non lo sapevo, non l’avevo cercato.

Scelsi un Dylan Dog e un Martin Mystère, che mai avevo preso prima. Feci tutta via Giustiniano e girai su via Epomeo e solo alcuni negozi erano aperti. Tornai indietro. Passò un carrettino e comprai una granita al limone. La succhiai da una cannuccia nera, seduto su un gradino.

E dunque, tutto si riduceva a questo: aspettare.

Aspettare che arrivasse il momento. Aspettare che tutto s’aggiustasse.

E uno che poteva farci se le cose non miglioravano?

Tirai un sospiro di sollievo, perché quello non era il mio caso.

Un vecchio mi camminò davanti e mi chiese l’ora.

«Non la so» gli risposi.

«Ma come, un giovanotto come te che se ne va in giro senza un orologio?».

Mi parlò con dolcezza, quasi con stupore e non mi passò proprio per il cervello, nemmeno per un secondo, di domandargli perché lui non ne avesse uno.

Non ero più così.

Finii la granita e rimasi seduto ancora per un po’. Non passava nessuno, non c’era nulla da vedere. Mo’ mi faccio dei popcorn e mi guardo una cassetta, pensai. Ne presi due scatole e un bottiglia grande di Coca-Cola e mi misero tutto in una busta.

Andavo verso casa, senza pensare a niente, e guardavo per terra quando mi ritrovai Marco davanti, proprio come se fosse saltato fuori da un tombino.

«Che fai?» disse.

«Me ne sto tornando».

Ripresi a camminare e lui mi venne dietro. Mi domandò quando saremmo partiti, ma non gli risposi perché lui, ogni anno, passava tutto il mese d’agosto in villeggiatura, con i genitori, e quindi non gli importava davvero.

Spostai la busta nell’altra mano; Marco aveva dei pantaloncini neri e nemmeno un muscolo s’induriva quando appoggiava i piedi per terra. Faceva schioccare le dita e si toccava la pancia e, per fortuna, non parlava.

Attraversammo ed ebbi paura di non riuscire a liberarmi di lui prima d’arrivare al portone. Rallentai il passo, andavamo lentissimi, non dicevo nulla e non avevo la minima intenzione di farlo.

Stavamo sotto gli alberi del viale quando aprì la bocca.

«Hai saputo di Tonino?» mi chiese e a me si gelò il sangue nelle vene.

«Cosa?».

«Nei giardinetti. L’hanno visto fare un pesce in mano a un vecchio. Per cinquantamila lire».

Due moto ci corsero di fianco, velocissime. Il rumore cessò.

«E vuoi sapere cosa mi ha risposto l’amico tuo, quando gliel’ho detto?».

«Lunno?».

«Eh».

«Cosa ti ha detto?».

«Che in culo ce lo prendiamo tutti, prima o poi».

Una volta in casa, accesi il televisore. Lasciai la busta in cucina, andai in bagno e pensai che Tonino era un amico e tale rimaneva. E che a volte, quando ti servono dei soldi, ti riduci a tutto e poi si fa subito a giudicare, perché la gente non sa e non immagina.

Uscii e sentii di volere molto bene sia a Tonino che a Lunno. A Marco no, per niente.

Girai la busta sottosopra e tutto cadde sul tavolo. Misi la bottiglia in frigo, presi i fumetti e vidi lo scontrino.

C’era il prezzo che avevo pagato, l’ora e la data.

Era il 24 luglio.

Cercai di non capire e di far finta di nulla.

Aprii un pacco di popcorn e l’altro lo misi nel mobile.

Presi la pentola.

Facevano cinque anni esatti che mia madre ci aveva abbandonati.

La passata di pomodoro e il basilico li avevamo già e comprai solo una melanzana e un pacco di pasta.

Al telefono le avevo chiesto cosa voleva mangiare, qualsiasi cosa e lei aveva risposto pasta alla norma. Agganciammo e cercai su un libro di ricette che avevamo in cucina. Sfogliai, la trovai ed era semplice da preparare e mi sentii sollevato. Mi alzai sulle punte e posai il libro sulla mensola e mi sembrò come se con Serena nulla potesse diventare davvero un problema.

Misi la melanzana nel frigo e lasciai la pasta sul tavolo. Ridiscesi. Nell’aiuola c’erano dei passeri che si rincorrevano e un gatto, steso con la pancia per terra, che li studiava.

Citofonai e Lunno si affacciò, senza la maglia, e mi lanciò le chiavi del motorino dalla finestra. Tutto era pronto. Avevamo chiamato il campeggio e non c’erano problemi: solo i biglietti del treno ci mancavano. Serena e Maria Rosaria sarebbero partite l’indomani e noi le avremmo raggiunte dopo una settimana e una settimana non era troppo tempo, si poteva fare.

Aprii il lucchetto, sfilai la catena e lo richiusi. Spostai la bottiglia di Sambuca, misi tutto nella sella e accesi. L’aria mi entrava ovunque e stavo bene e più acceleravo e più stavo bene. La lancetta del contachilometri era ferma e morta sullo zero, perché s’era rotta e l’avevamo fatta riparare e s’era rotta di nuovo e allora ci avevamo rinunciato.

Mi fermai all’incrocio. Vidi un cartellone pubblicitario, grande, con un culo in costume da bagno e che diceva scopri la sicilia. Diedi gas, passai sotto il ponte della tangenziale e scesi per via Terracina. Scansavo le buche e non mi preoccupavo. Ci fu lo stadio e mi fermai all’inizio della strada e l’aria divenne di nuovo immobile e irrespirabile, spostata solo dalle macchine che mi passavano di fianco. C’erano i clacson e i rumori della città, inutili e brutti e tutti uno sopra l’altro. C’era l’asfalto, i palazzi e nessuna cosa bella, solo cose normali. Poi la vidi arrivare. Correndo. Aveva la gonna e una maglia azzurra. Mi fece ciao con la mano. Sorrise. Salì dietro di me e mi diede un bacio sull’orecchio. «Ciao amo’».

Da qualche tempo mi chiamava così, amo’, ed io non avevo mai detto niente al riguardo ma ogni volta saltavo, come se avessi il singhiozzo o come se qualcosa m’avesse punto.

Le dissi che a quell’orecchio avevo avuto l’otite e poi misi in moto.

«Shhh» disse lei, mentre cominciammo a muoverci, e mi diede un altro bacio, sullo stesso punto, ma senza farlo scoppiare. «Ma quindi oggi che ci mangiamo?» mi chiese, dopo qualche minuto; eravamo fermi nel traffico; la sua testa poggiava sulla mia schiena e le sue braccia stavano strette attorno al mio petto. Le accarezzai una mano, mi piegai in avanti e mi girai quel tanto che bastava per farle l’occhiolino.

Cucinai e fu semplice.

Mettemmo i piatti, la pentola e la padella nel lavello e, senza bisogno di parlare, andammo in camera mia.

Chiusi la veneziana lasciando la finestra spalancata e ci baciammo dei baci più belli del mondo.

Le tolsi la maglia e le slacciai il reggiseno, senza che m’aiutasse. Tolsi la mia e la spinsi sul letto. Lei rise, risi pure io e ogni volta che rideva morivo di gioia e i suoi occhi grandi si stringevano e forse scomparivo dall’immagine, non mi vedeva più ma io c’ero sempre e lei lo sapeva. E le sue guance diventavano tonde e saltavano fuori ed io non potevo non baciarle.

Le misi le mani sulle zizze e lei mi chiamò “amore mio”. Le leccai i capezzoli e mi passò una mano sulla testa. Tolsi i pantaloni, le sfilai la gonna, le tolsi le mutandine e dopo tolsi le mie.

Lo feci senza accorgermene, come se fosse stato tutto già deciso.

Gliel’accarezzai e i suoi peli erano piccoli batuffoli corti e morbidi. Le infilai un dito dentro e chiusi gli occhi e lei mi toccò il cazzo e le nostre schiene erano sul materasso e sudavamo e ci toccavamo.

«Voglio mangiarti. Devo mangiarti proprio» le sussurrai all’orecchio.

«Amore mio» mi rispose e il mio braccio era dietro la sua testa e la mia bocca sulla sua e il mio dito andava avanti e indietro e la sua mano faceva su e giù e il mio dito si bagnava.

«Ti amo pure io» le dissi.

L’orecchio le spuntava dai capelli e glielo morsi. Scesi e le leccai il lobo e la vidi sorridere e non potei farne a meno: le baciai le guance, perché le sue guance erano belle, piccole e rosse come fragole. Gliele morsi, piano, e mai gliel’avevo toccata e forse mai c’avevo nemmeno pensato. Lo feci, percorrendo un corridoio che non sapevo dove portava e senza accendere la luce e c’erano il mio dito, la sua mano, le guance, l’orecchio e i capelli. L’odore dei suoi capelli. Le labbra. Dio.

La sentii lamentarsi. M’infilò le unghie nel collo. Sentii del dolore e la sua voce si alzò, divenne sottile, pungente, e rimase zitta e mi fermò la mano. Mi guardò. Si mise in ginocchio. Appoggiò la sua testa su di me e la baciai e l’abbracciai. Poi venni. Su di me e su di lei.

Non dovetti alzarmi, perché ormai avevo imparato: la carta igienica era nel cassetto vicino al letto.

Rimanemmo stesi. M’infilò un dito nell’ombelico.

«Lo sai che mi fa impressione» dissi e lei smise.

«Sei scemo e il tuo ombelico è strano» mi rispose.

Lavato tutto, scendemmo di casa. Stavamo stretti, con il mio braccio sulle sue spalle, nonostante il caldo.

«Praticamente, domani andiamo da Maria Rosaria e poi facciamo il viaggio assieme» mi disse e salimmo le scale, fino ad arrivare sopra la chiesa. I palazzi che creavano Napoli sembravano inseguirsi e scontrarsi. Il sole ancora batteva e batteva anche sulle nostre schiene. Sia io che Serena avevamo i gomiti sul muretto e da lontano ci arrivò della musica. Si mescolava con l’aria e si diluiva.

«Sarà un casino, però» mi disse.

Le chiesi cosa intendesse.

«Che se mio padre scopre di noi, che stai pure tu là, c’intossichiamo tutta la vacanza. Non sempre sarà possibile, ma cercheremo di passare quanto più tempo assieme».

La musica divenne più forte.

«È una cosa bella, no?».

«Sì» le risposi.

Tornammo indietro. Salimmo sul motorino e mi abbracciò e mi baciò dietro il collo, sotto la nuca, con le labbra chiuse ed io sperai che smettesse. Perché era impossibile guidare così, con tutti quei pensieri e l’emozione e non volevo andare a sbattere.

Desiderai di trovare tutte le macchine del mondo ferme davanti a noi, per strada, e di metterci ore per arrivare da lei, ma la città era vuota, la gente chissà dove e ci mettemmo niente.

Spensi il motorino e non scesi. Lei mi venne davanti e mi guardava. I suoi occhi erano luminosi e dentro c’ero io, mi vedevo riflesso. Con la mano si portò i capelli dietro l’orecchio e poi mi abbracciò, forte, e mi sentii al sicuro ma anche triste. Lei capì tutto.

«Non fare così» disse e mi accarezzò il viso e mi diede un bacio sulle labbra. «Si tratta solo di una settimana, passerà subito».

«Ok».

«Ridi, quando ridi sei un milione di volte più bello» disse.

Io tirai le labbra, ma non sorrisi davvero. La guardai e guardai le mie braccia che finivano sul manubrio. Serena infilò le mani sotto le mie ascelle e mosse le dita. Mi fece il solletico ed io risi e lei continuò e mi baciò sul collo.

La fermai. «Sei veramente tutta scema».

Ci baciammo e quando smettemmo andò via.

Si allontanò, mosse tre passi e tornò indietro e mi baciò di nuovo.

Riportai il motorino a Lunno e a casa fumai affacciato al balcone della cucina; i mattoni del palazzo di fronte, con la luce sopra, erano quasi arancioni e più che triste mi sentivo come in attesa di qualcosa che non sapevo quando sarebbe accaduta. Mi sentivo come se stessi aspettando il pullman. Lanciai il mozzicone di sotto e mio padre tornò. Aprì il frigo ed io ero ancora sul balcone, che guardavo dentro casa e guardavo anche lui. Prese dell’acqua, bevve, appoggiò il bicchiere sul mobile.

«È venuta Serena?» disse.

«Sì».

«Me ne sono accorto perché in giro è tutto ordinato».

Poi cominciò a fumare. «Parte domani, vero?» mi chiese.

«Sì» risposi.

«Non stare in ansia, non farti venire niente. Una settimana e la rivedi».

Scesi a buttare la spazzatura. Ne approfittai per fumare anch’io. Era sera e non c’erano rumori, ma solo palazzi e anche loro mi sembrarono soli e annoiati e impazienti.

Guardai un po’ di televisione con mio padre, un film, ma la mia attenzione andava e veniva e lui cominciò a cambiare canale ed io smisi del tutto di farci caso. In camera mia sfogliai delle riviste e i Dylan Dog che ancora non avevo letto. Ci rinunciai. Mi stesi e prima di dormire pensai che lo star bene non era per nulla differente dal camminare su un sottile filo rosso, di cotone, che andava da un palazzo a un altro.

Dormii. Mi svegliai. Col pensiero che potevo ancora vederla un’ultima volta.

Mio padre era già sceso per andare al lavoro, ma non era troppo tardi. Mi lavai giusto i denti e sciacquai il viso. Corsi in strada. Attraversai e andai alla fermata, perché da quella posizione vedevo la tabaccheria del padre di Maria Rosaria e quello era il punto più vicino alla loro casa e quindi il posto dove probabilmente avrebbero caricato la macchina.

Aspettai. Due pullman e quattro sigarette. Il tabaccaio apparve. Parcheggiò, spense il motore e gli sentii tirare il freno a mano. Scese e tornò cinque minuti dopo, col figlio e con Maria Rosaria e con delle valigie. Il figlio rimase e lui e Maria Rosaria tornarono indietro e poi ritornarono con degli altri bagagli. Per ultima comparve la madre, con una busta di plastica in mano, dentro cui ipotizzai ci fosse del cibo.

La lasciò in macchina e aspettarono in piedi.

Il tabaccaio controllava di continuo il suo orologio. Indossava una maglietta e aveva un marsupio giallo. Portò le mani al viso e alzò lo sguardo al cielo e scosse la testa. Parlò alla moglie e lei gli rispose e non sentii ma lo immaginai lamentarsi e che la moglie gli dicesse di stare calmo, di rilassarsi, che stavano partendo per le vacanze e che nessuno gli correva dietro.

Aspettai ancora nella piccola ombra che mi rimaneva, e sperai di vederla apparire prima che il sole mi divorasse. A furia di stare in piedi, fermo sul posto, mi facevano male le gambe. Mi chiesi se quello che stavo facendo avesse senso, perché c’eravamo già salutati, bene, baciandoci, ed eravamo stati buoni e dolci. Mi chiesi chi m’avesse cecato d’aspettarla per ore, così, e mi risposi che non avevo alternative, che dove stava lei dovevo stare pure io.

Fumai di nuovo, sbattei i piedi per terra. Mi piegai sulle ginocchia e strinsi la schiena, per stendere i muscoli e farli respirare. Buttai la sigaretta e una macchina rossa parcheggiò dietro quella di Maria Rosaria. Sul tettuccio c’erano delle valigie. Accanto al faro, quasi sulla ruota davanti, c’era il segno di uno scontro e la vernice rossa lasciava il posto al grigio del metallo.

Scesero e si salutarono tutti. Serena parlò brevemente con la cugina. Indossava dei pantaloncini blu, una maglietta viola e le infradito. Si sedettero e il tabaccaio mise in moto. Io attraversai, lentamente. Poi la paura che non m’avrebbe visto e non avrebbe mai saputo che c’ero mi fece camminare più velocemente.

La macchina del tabaccaio sfilò e quella di Serena si mosse e si fermò per permettermi di passare; il padre era grosso, con i capelli castani. La madre portava gli occhiali.

In mezzo alla strada, mi girai e la macchina ricominciò a muovere le ruote e guardai dentro e lei mi vide. Mi superarono, io rimasi fermo. Serena si voltò e mi sorrise. Tutto qui.

Rimasi immobile, disorientato e impreparato a tutto. Non mossi nemmeno un muscolo.

Ciao, pensai. Solo questo.

«Mo’ scendo» disse Lunno e la sua testa scomparve e la finestra rimase aperta.

Mi voltai e guardai l’erba, che non c’era più, stracciata dall’aiuola che occupava lo spazio tra un palazzo e l’altro. Quel che restava era solo il terreno, chiaro, spaccato perché bruciato e mangiato dal sole. E in un angolo, contro la ringhiera, c’erano i resti di una sdraio.

Mi sedetti. Sentii il freddo del metallo superare il tessuto dei miei pantaloncini, farsi largo, e dissolversi dopo un secondo.

Davanti a me vedevo il vetro e gli infissi in rame del portone, aperto, e il grigio del marmo delle scale e quello dell’asfalto. Serena, al telefono, mi aveva detto che in Calabria sembrava di stare in Africa ma che non era un guaio, perché bastava buttarsi a mare e tutto passava. Dietro la sua voce c’erano il verso dei grilli e qualcuno che discuteva.

Seduto sulla ringhiera feci una smorfia e poi tornai normale. La feci di nuovo e smisi. Dovevamo andare alla stazione di Campi Flegrei, a fare i biglietti del treno, per questo motivo aspettavo.

Piegai il piede e la plastica della suola si staccò dalla scarpa e formò un buco. Mi alzai. Mio padre aveva detto che ci volevano un sacco di ore per arrivare e che quasi mai c’era l’aria condizionata e che difficilmente saremmo riusciti a sederci. Sul muro del palazzo avevano scritto tre lettere grandi, con una bomboletta nera, mds, e sotto, più piccolo, malati di sesso.

Mi stropicciai gli occhi con gl’indici. Entrai nel palazzo.

Tirai su i calzini, rifeci i lacci e Lunno ancora non scendeva. Lo maledissi, più volte. Mi domandai cosa stesse facendo e poi non ebbi più il tempo, perché sentii il rumore di una porta che si chiudeva e dei passi, un saltello, e una melodia che venne fischiata e poi si spense.

Lo vidi.

Girò il pianerottolo delle scale e m’apparve con la sigaretta tra le labbra, con addosso una camicia, verde, infilata nei pantaloni e aperta fino al petto. Ci stringemmo la mano. Nell’aria sentii volare il suo deodorante. Scese gli ultimi scalini ed io camminai nella sua scia, seguendolo.

«Lu’, ma come ti sei vestito, che succede?» gli chiesi. Lui abbassò la testa e accese.

«Statti zitto che sto facendo un film» mi rispose, senza voltarsi.

Sedetti dietro e il motorino andò giù dal cavalletto. La sigaretta era tra l’indice e il medio e la sua mano era sull’acceleratore. Poi, strinse la sigaretta tra le labbra, con gli occhi socchiusi, supposi, per non farci entrare il fumo dentro, e le mie mani erano sui suoi fianchi. Le nostre gambe pure erano vicine, quasi incastrate come tessere di un puzzle.

Uscimmo e un tale ci bussò. Lunno rallentò, perché doveva guardare all’interno della macchina e si mise di lato, per farlo passare.

Non accadde nulla. Lo superammo. Lunno staccò una mano e sporse il braccio. «’Sta faccia di cazzo» disse e accelerammo di nuovo e a me venne in mente che in Calabria mi sarebbe piaciuto andarci in motorino, così come stavamo: io dietro, aggrappato a lui, e indifferente a tutto, con niente che mi poteva toccare, perché solo di una cosa m’importava. Il resto era tutto sfondo, fondale, roba sfuocata e il suono della marmitta era stridente. Ci fermammo. «Comprami le sigarette» disse e mi diede i soldi.

Tornando, vedendolo da lontano, era più grosso del motorino. La sua camicia verde sul blu della carrozzeria mi sembrò una montagna che sorgeva alle spalle di un lago.

Gli diedi il resto, risalii. La mia schiena e la mia testa e oltre le spalle di Lunno e i suoi capelli. Mi chiesi se nel cesso del campeggio ci sarebbe stato uno specchio e vicino una presa della corrente, per rasarmi. Ci pensai un po’ e poi mi dissi che non importava, che non m’importava per niente, che sarebbero ricresciuti e tornato a Napoli li avrei rasati di nuovo e il motorino procedeva ed io guardavo. Le erbacce delle aiuole diventate alte e gialle, il mercatino, vuoto, e lessi trattoria, pizzeria e il giallo s’interruppe.

Passammo davanti all’edicola e allo stazionamento dei pullman. Girai la testa, nonostante sapessi cosa avrei trovato dall’altro lato. I pini, altre erbacce e le case basse e in mattoni, che facevano da confine del rione, e cioè sempre le stesse cose, e allora mi rincuorò l’idea che ancora qualche giorno e tutto quel mondo sarebbe scomparso, che non sarebbe più esistito almeno per un po’.

Ancora qualche giorno ed io avrei baciato di nuovo Serena.

Ancora qualche giorno ed io e Lunno avremmo montato la tenda, litigando su come fare, e arrivato il momento di dormire gli avrei detto che gli puzzavano i piedi e lui non m’avrebbe nemmeno risposto.

Lunno era fatto così, lo sapevo. Non ci facevo più nemmeno troppo caso. Eppure c’era e c’era sempre stato e considerai che ognuno è fatto a modo suo e che Lunno era Lunno, che non mi piaceva del tutto ma che comunque restava il mio migliore amico.

Soprattutto, pensai che gli volevo bene, così bene che di sicuro anche lui ne voleva almeno un po’ a me e mi sentii felice di partire con lui. Immaginai che forse non ci saremmo proprio divertiti, ma se avessi dovuto scegliere una sola persona tra tutti gli abitanti del pianeta per fare questa cosa, io, avrei scelto lui. E assieme, partendo, avremmo cancellato il quartiere, il rione, quelle strade e poi ci ragionai meglio e capii che il rione, mio padre e i lampioni e i cassonetti della spazzatura là rimanevano. Saremmo stati noi a non esserci e mi piacque.

Procedevamo e vidi prima il fumo e dopo il tipo che c’agitava sopra un pezzo di cartone. Arrostiva dei carciofi e li vendeva. L’odore andava da ogni parte. Li vidi davanti a noi: il fumo che saliva, lento, e poi lui.

Ci avvicinammo come se stessimo ingoiando quella scena, come se ci stesse infilzando gli occhi, ma quando ci passammo davanti scomparve in un istante.

Pensai che ci voleva molto per arrivare a fare le cose e che ci voleva un attimo per vederle finire.

Lo pensai e decisi di non pensarlo mai più nella vita. Per questo parlai.

«Lu’» dissi, ad alta voce, perché l’aria si rubava le parole. «Ma un po’ di fumo ce lo portiamo o è pericoloso?».

«Boh» mi rispose, girandosi per un secondo verso di me; e alla nostra destra, oltre il muretto e la ringhiera azzurra, oltre i cartelloni pubblicitari e gli alberi, c’era il parco.

«Lo cerchiamo lì?» chiesi e lui rimase zitto.

Pronunciai il suo nome.

«T’ho detto, non lo so» mi disse, sgarbato, e le sue dita erano stese sul freno davanti, le chiavi nell’accensione e il portachiavi danzava seguendo la forma della strada.

Le ruote giravano veloci. Il suo corpo si rifletteva nello specchietto.

Lunno, mio amico e anche la persona a cui avevo scelto di non assomigliare.

Partivamo e avremmo litigato? E se non avessimo più voluto saperne l’uno dell’altro, una volta tornati?

Sì, mi dissi, che c’andavo per Serena, però mi dispiaceva che lui non riuscisse mai a godersi nulla e che rovinasse sempre, almeno un po’, l’umore degli altri.

Pensai fosse un peccato, essere così, e i palazzi diventarono un po’ più alti, bianchi, pieni di tende, e provai pena per Lunno. Perché mi sembrò che passasse il tempo sforzandosi d’apparire sempre forte e duro. Non mi piaceva questa cosa ed io non volevo essere così. C’avevo provato e avevo capito che non ero così e che invece volevo solo amare ed essere felice e volevo che tutti se ne accorgessero. Volevo fare del mio sorriso un simbolo, uno sfregio permanente che mi rovinava la faccia.

Gli battei una mano sul fianco.

«Ma mica ti sei arrabbiato?» gli chiesi e nel parlare mi stupii di me stesso, perché anche io ero un po’ come lui e ancora non sapevo dire tutto. Ma mi uscì naturale ed è per questo che mi stupii.

Percorremmo alcuni metri, non pochi e non molti. «Tutto a posto, frate’» mi rispose e sulla bocca mi sbatteva il colletto della sua camicia, che si muoveva come gli alberi nelle giornate di vento.

Superammo un pullman. Un vecchio camminava sul marciapiede impugnando un bastone e si fermò a guardarci e poi arrivammo al polifunzionale, mai finito, composto di sole colonne di cemento, come un pontile o una palafitta, ma senza niente sopra e senza acqua.

Dicevano che dentro, di notte, ci facevano i combattimenti dei cani.

Dicevano tante cose.

Pensai che io e Serena fossimo la sola cosa bella mai successa, perché il resto non esisteva o se esisteva era brutto e incompleto. Di bello c’eravamo solo noi e i nostri baci e gli amici, quando sentivi di volergli bene. L’aria era calda e una lacrima mi scese lungo la guancia.

Chiusi gli occhi e li riaprii e, appoggiato al tronco di un albero, vidi un materasso matrimoniale.

Dicevano che li lanciavano in strada e che le macchine non riuscivano a passarci sopra. E che uscivano da dietro gli alberi e se le rubavano.

Ok, pensai, perché non avevamo una macchina e perché, saputo quello che avremmo fatto, Marco aveva detto che andavamo in Calabria a chiavare e ogni tanto me lo domandavo, se sarebbe accaduto davvero, così come stavo facendo in quel momento.

Sperai di sì, ancora una volta, con tutto il cuore, ma pensai anche che non era così importante.

Volevo, certo, ma avrei aspettato, senza lamentarmi, perché mi sembrava che ci fosse sempre tempo e non volevo sbranare, ma gioire.

Non volevo lasciare dietro di me morti e feriti, ma persone felici.

Volevo che tutti mi volessero bene e che tutti si volessero bene tra loro e solo di Tonino mi preoccupavo. Perché non aveva detto nulla, non una parola sulla Calabria, ed io mi sentivo in colpa, soprattutto con lui. Perché del nostro fumo nessuno immaginava niente, e anche Serena e Maria Rosaria non lo sapevano, e forse non l’avrebbero mai nemmeno ipotizzata una cosa del genere. O magari se ne sarebbero accorte, perché arrivato settembre, insieme alla scuola e al calcio, avrei ricominciato, con Lunno, anche quella storia. L’avremmo venduto, con calma, senza ambizioni, solo per avere dei soldi in tasca. Come avevamo già fatto ma meglio, e ancora un anno, mi dicevo, quando ci pensavo, per farmi forza, perché poi sarei andato con gli Allievi e m’avrebbero pagato e non ne avrei avuto più bisogno.

Non c’erano problemi. I problemi veri non esistevano. Oramai ne ero certo. L’unico problema era ch’esistevano i segreti.

Sto bene, mi dissi. Va tutto bene, calma.

Però, con la testa riparata dall’aria, dietro la schiena di Lunno, considerai che niente era accaduto nella mia vita eccetto l’arrivo di Serena. Che era stata lei a mettere ordine e a disperdere i fantasmi. E m’infastidiva stare bene solo grazie a lei e me lo chiesi, quindi, mentre rallentavamo, cosa sarebbe successo quando anche Serena avrebbe deciso di lasciarmi.

Andai avanti, perché non potevo fare altrimenti. Rimisi la faccia contro l’aria e quelle idee volarono via.

Girammo l’incrocio e svoltammo a sinistra e i palazzi erano ancora alti. Le erbacce saltavano fuori dai muretti ed erano dei graffi che seguivo con lo sguardo. La strada era una lingua che ritraevamo nella bocca. Una macchina era giusto davanti a noi. Non vedemmo la buca, perché la macchina ci passò sopra, e noi la prendemmo in pieno.

Strinsi i denti e sentii la scossa tutta nella schiena.

«Speriamo che non s’è bucata la ruota» disse Lunno e diede uno schiaffo sul contachilometri.

Io gli battei con la mano sulla spalla, per comunicargli che non era successo niente e di stare calmo. Per dirgli che anche se la ruota si fosse bucata, non era successo nulla d’irreparabile e che uno non ci pensa mai al fatto che le cose stanno per accadere, fino a che non le intravede. Non ci si pensa mai che esiste anche quello ch’è invisibile agli occhi, fermo da qualche parte, in attesa proprio di te.

Sotto un ombrellone aperto, uno in pantaloncini e canottiera aveva fatto delle montagnelle di cozze sopra a un tavolo di legno ed io non le avevo mai mangiate. Mio padre l’aveva fatto, in un ristorante, e poi gli era venuta l’epatite. E non m’importava davvero, però lo feci lo stesso, solo per parlare con lui, perché eravamo amici.

Domandai a Lunno se gli piacevano e lui mi rispose che non erano brutte ma che gli faceva schifo tenerle in bocca.

«So’ mosce» disse, dopo qualche secondo, ed io immaginai la sua faccia, mentre mi parlava, con le sopracciglia che puntavano verso il basso.

Sempre le stesse espressioni.

Sempre gli stessi visi.

Sempre le stesse persone.

Le cose si ripetono e dopo un po’ diventano la tua casa o il tuo posto ed io non lo sapevo.

Non sapevo nulla e pensavo un sacco e mi sembrava di sapere e quella presunzione era un’armatura, che mi venne portata via, lasciandomi del tutto nudo.

Un cane uscì dalle erbacce, correndo, e Lunno non riuscì nemmeno a pensare di dover frenare. Lo investimmo in pieno e il motorino divenne una catapulta e ci alzammo in volo, senza peso eppure d’acciaio, pesanti ed enormi.

I nostri corpi si staccarono, definitivamente, per sempre, e ognuno prese direzioni diverse.

Rinvenni subito e, steso sull’asfalto, mi resi immediatamente conto di quello ch’era accaduto; il mio cervello registrò tutto: l’incidente, il dolore, i motivi e previde il futuro.

Urlai.

Guardai e dalla mia gamba destra lo stinco bucava la carne e l’osso, bianco e rosso, sporco di sangue, s’affacciava sul mondo.

Ebbi paura, cominciai a piangere.

La ferita mi pulsava e visto il dolore lo sentii e sentivo solo quello.

Alzai lo sguardo e vidi il cane, con il sangue che gli usciva dalla bocca e gli occhi aperti e morti. Dopo vidi il motorino. Era accartocciato su se stesso, come se fosse stato di carta e qualcuno, strappato il foglio, l’avesse appallottolato per buttarlo via. Le ruote ancora giravano. Perdeva benzina e olio e il loro odore riempiva l’aria.

Mi guardai intorno e non lo trovai o forse non volli trovarlo. Il dolore lasciò il posto alla fretta e incominciai a saltellare sull’unica gamba che mi era rimasta. Andai e mi apparve dopo il terzo salto. Era disteso per terra, pancia all’aria, gli occhi verso il cielo e le braccia aperte che sembravano volessero abbracciarlo.

Mi avvicinai, gli fui sopra e la camicia era sporca, strappata, e aveva un graffio sulla fronte. Gli occhi erano aperti ed erano come quelli del cane ma ancora più morti, perché da dentro era fuggito qualcosa che aveva preso il volo per non tornare mai più. E dietro la sua testa s’allargava una macchia di sangue che disegnava una specie di aureola. Sulla bocca gli si accennava un ghigno, ma sembrava anche un sorriso.

Mi sedetti vicino a lui e lo tirai e lo colpii, a cazzotti sul petto, a schiaffi in faccia, e urlai il suo nome.

Non reagì.

Piansi e piansi, perché capii, e me ne resi conto. L’asfalto, sotto la mia pelle, era rovente. Cuoceva me e cuoceva Lunno e fu così che ci bruciammo. Fu così che ci bruciammo così tanto che poi non fummo più niente.

Rimasi lì, senza muovermi, seduto vicino al mio migliore amico, morto, e aspettai. Mi stesi e sentii delle voci avvicinarsi. Dei passi che, attraverso la strada, mi rimbombarono nella testa che tenevo attaccata alla terra.

Aspettai, ma fui uno stupido e sono uno stupido tutt’oggi, perché ancora aspetto quando non ho più alcun motivo per sperare.

Sono passati decenni, i miei denti sono marciti e mio padre cammina un po’ più curvo ed io ancora aspetto, eppure niente più succederà perché tutto è già successo. Perché non siamo altro che cose che rotolano giù per una discesa e che prima o poi si fermeranno.

Perché siamo vivi finché ci muoviamo.

Perché siamo vivi finché andiamo giù.

Ci dissanguiamo costantemente e che tutto sanguini, per favore, per sempre, allora, perché il sangue è quello che c’è prima che la vita cominci.

La vita.

La vita non è altro che un’inconsapevole attesa. Poi arriva, e fa male.