C’è molto da imparare sulle persone osservando cosa le infastidisce di più. Proust era molto infastidito dal modo in cui alcuni si esprimono. Lucien Daudet racconta di un amico dello scrittore, che riteneva fosse molto chic usare espressioni inglesi, e quindi diceva «Goodbye» o, più disinvoltamente, «Bye, bye» ogni volta che usciva da una stanza. «Era una cosa che Proust detestava», racconta Daudet, «e lo costringeva a fare quel tipo di smorfia di dolore e irritazione che segue lo stridere del gesso sulla lavagna. ’Fa male ai denti!’ gemeva.» Proust provava la stessa irritazione quando sentiva i suoi connazionali chiamare il Mediterraneo la grande bleue, l’Inghilterra Albion e l’esercito francese nos petits soldats. Per non dire poi delle persone la cui unica risposta alla pioggia scrosciante era il pleut des cordes, al freddo il fait un froid de canard, e alla sordità il est sourd comme un panier.

 

Perché queste espressioni colpivano tanto Proust? Anche se il modo in cui la gente parla è cambiato un po’ dai suoi giorni, non è difficile capire che i sobbalzi dell’autore della Recherche erano dovuti a una protesta più di natura psicologica che grammaticale («Nessuno conosce la sintassi meno di me» si vantava). Condire il francese con pizzichi di inglese, parlare di Albione invece che di Inghilterra e della grande bleue invece che del Mediterraneo erano tipici di una moda, molto diffusa agli inizi del Novecento, che imponeva di mostrarsi sempre e comunque ben informati e di farlo usando una serie di pompose espressioni preconfezionate. Non c’era motivo di dire «Bye, bye» quando si prendeva congedo da qualcuno se non per un bisogno di far colpo sfruttando la smania per tutto ciò che avesse anche solo un aspetto vagamente britannico. E benché espressioni come «Il pleut des cordes» non avessero niente dell’ostentazione di un «bye, bye», erano comunque espressioni totalmente svuotate di senso, il cui uso indicava uno scarso amore di precisione. E se Proust faceva delle smorfie di dolore, era in difesa di un modo più onesto e accurato per esprimersi.

 

Lucien Daudet ci racconta di quando lui stesso, una volta, ebbe un assaggio di quest’insofferenza proustiana:

 

Un giorno, uscendo da un concerto in cui avevamo ascoltato la Corale di Beethoven, canticchiai vagamente delle note che credevo esprimessero l’emozione che avevo appena provato, ed esclamai, con un enfasi di cui solo dopo capii la ridicolaggine: «È splendido questo passaggio!» Proust si mise a ridere e mi disse: «Ma no, mio piccolo Lucien, non è il vostro pum pum pum che può rendere questa meraviglia! Sarebbe meglio cercare di spiegarlo!» Al momento la cosa non mi fece molto piacere ma avevo appena ricevuto una lezione indimenticabile.

 

Era una lezione su come cercare di trovare le parole giuste. Di solito, in questi casi, si può star sicuri che la cosa andrà a finire male. Avvertiamo una qualche emozione, e ci sforziamo di raggiungere l’espressione o il mormorio che ci sembra più vicino a comunicarla, ma che non rende giustizia a ciò che ci ha indotto a farlo. Ascoltiamo la Nona di Beethoven e canticchiamo pum, pum, pum, vediamo le piramidi di Giza ed esclamiamo «che belle!» con la pretesa che questi suoni rendano conto di un’esperienza, ma la loro povertà impedisce sia a noi sia ai nostri interlocutori di comprendere ciò che abbiamo provato. Restiamo all’esterno delle nostre impressioni, come se le osservassimo attraverso un vetro smerigliato, collegati superficialmente a esse, eppure estranei a tutto ciò che sfugge a una definizione superficiale.

Proust aveva un amico di nome Gabriel de la Rochefoucauld, un giovane aristocratico il cui antenato aveva scritto un famoso libricino nel diciassettesimo secolo, e cui piaceva trascorrere il tempo nei locali notturni alla moda di Parigi, tanto che fu definito da alcuni dei suoi contemporanei più sarcastici il «la Rochefoucauld di chez Maxim’s». Ma nel 1904 Gabriel abbandonò la vita notturna per tentare la via della letteratura. Il risultato fu un romanzo, L’amant et le médecin, che Gabriel spedì a Proust sotto forma di manoscritto non appena fu finito, con la richiesta di commenti e consigli.

 

«Sappiate che avete scritto un romanzo bello e potente, un’opera superba e tragica di complessa e consumata abilità», rispose Proust al suo amico, che però ebbe una sgradevole sorpresa quando lesse la lunga lettera che accompagnava questo elogio. Sembra che l’opera superba e tragica avesse qualche problema, tra cui, non ultimo, quello di essere piena di luoghi comuni: «Ci sono nel vostro romanzo dei paesaggi belli e grandiosi», spiegava Proust, con una certa delicatezza, «ma a volte li si vorrebbe dipinti con più originalità. È verissimo che il cielo al tramonto è infuocato, ma lo si è detto troppe volte, e che la luna brilli discreta è un po’ scialbo».

 

Bisognerebbe chiedersi perché Proust fosse contrario alle espressioni logorate dall’uso. Dopotutto, la luna non brilla forse discreta? Il cielo al tramonto non è come infuocato? I luoghi comuni non sono forse solo delle buone idee che giustamente sono diventate popolari?

 

Il problema, con i luoghi comuni, non è il fatto che contengono idee false, ma piuttosto che sono articolazioni superficiali di idee molto buone. Il sole è spesso infuocato al tramonto e la luna brilla discreta, ma se lo diciamo ogni volta che abbiamo a che fare col sole o la luna finiremo col credere che questa sia l’ultima parola da dire sull’argomento invece della prima. I luoghi comuni sono dannosi in quanto ci fanno credere di descrivere in modo soddisfacente una situazione, mentre invece ne scalfiscono solo la superficie. E se questo ha importanza, è perché il nostro modo di parlare è fondamentalmente legato al nostro modo di sentire, perché il modo in cui descriviamo il mondo deve in qualche misura riflettere il modo in cui prima lo viviamo.

 

La luna menzionata da Gabriel può naturalmente essere stata discreta, ma è probabile che fosse anche molto più di questo. E allora ci si chiede se, quando fu pubblicato il primo volume del romanzo di Proust, otto anni dopo L’amant et le médecin, Gabriel (se non era tornato a ordinare Dom Perignon da chez Maxim’s) abbia avuto il tempo di notare che anche Proust aveva parlato della luna, ma che aveva scansato opportunamente duemila anni di linguaggio sulla luna, e rivelato un’insolita metafora per meglio catturare la realtà dell’esperienza lunare:

 

A volte, di pomeriggio, il cielo era attraversato dalla luna bianca come una nube, furtiva, senza splendore, simile a un’attrice che non deve recitare a quest’ora e che dalla platea, vestita da città, guarda per un momento i suoi compagni, cercando di scomparire, sperando che non si faccia caso a lei.

 

Riconoscere lo stile proustiano in questa similitudine è facile; più difficile è che anche noi, da soli, riusciamo a concepirne una altrettanto originale. Potrà essere più o meno sentita, ma se osserviamo la luna e ci chiedono di dire qualcosa su di essa, è probabile che troviamo un’immagine scialba invece di una ispirata. Esser consapevoli che la nostra descrizione della luna non è all’altezza del suo oggetto non significa che sappiamo anche come migliorarla. Ma possiamo immaginare la reazione di Proust e supporre che una consapevole sciatteria gli avrebbe dato meno fastidio della pretesa originalità con cui talvolta si ricorre ai luoghi comuni pensando che sia sempre giusto seguire le convenzioni verbali («sfera dorata», «corpo celeste»), e che l’importante quando si parla non sia l’originalità ma assomigliare a qualcun altro.

 

Spesso la tentazione di assomigliare a qualcun altro è forte. Ci sono cliché linguistici cui ricorriamo di volta in volta per farci sembrare autoritari, intelligenti, disinvolti, opportunamente grati o profondamente commossi. A una certa età, Albertine decide anche lei di voler parlare come qualcun altro: come una giovane donna della borghesia. Comincia così a utilizzare una serie di espressioni comuni tra queste donne, che lei ha appreso da sua zia, Madame Bontemps, e usa nella stessa maniera – suggerisce Proust – in cui un piccolo di cardellino impara a comportarsi da grande imitando il comportamento dei suoi genitori. Prende l’abitudine di ripetere qualsiasi cosa le si dica, così da sembrare interessata e intenta a formarsi una propria opinione. Se le dici che l’opera di un artista è bella, o la sua casa carina, lei dirà «Oh, il suo quadro è bello, vero?», «Oh, la sua casa è carina, vero?» E quando incontra qualcuno di insolito dice «È un bel tipo», quando le proponi una partita a carte, «Non ho denaro da perdere», quando uno dei suoi amici la rimprovera ingiustamente, lei esclama «Ah, sei proprio un fenomeno!», e tutte queste espressioni le sono dettate da quello che Proust chiama «una tradizione borghese non meno antica, o quasi, dello stesso Magnificat», tradizione che impone dei codici linguistici che la ragazza borghese rispettabile deve imparare, «così come ha imparato a recitare le preghiere o a salutare».

 

La derisione delle abitudini verbali di Albertine spiega l’irritazione che Proust mostrò nei confronti di Louis Ganderax.

Louis Ganderax era un importante uomo di lettere dell’inizio del ventesimo secolo e il curatore letterario della «Revue de Paris». Nel 1906, gli chiesero di curare la corrispondenza di Georges Bizet e di scrivere una prefazione alla raccolta. Era un grande onore e una grande responsabilità: Bizet, il compositore di fama mondiale, autore della Carmen e della Sinfonia in do maggiore. E com’è naturale, Ganderax era stato invitato a scrivere una prefazione degna della corrispondenza di un genio.

Georges Bizet

Georges Bizet

Sfortunatamente, Ganderax era, diciamo così, un cardellino e nel tentativo di sembrare maestoso, molto più maestoso di quanto egli stesso deve aver pensato di essere per natura, finì con lo scrivere una prefazione di immensa e quasi comica presunzione.

 

Mentre era a letto che leggeva il giornale nell’autunno del 1908, Proust si imbatté in un estratto della prefazione di Ganderax, il cui stile lo infastidì a tal punto da spingerlo a scrivere una lettera alla vedova di Georges Bizet, che il caso voleva fosse la sua buona amica Madame Straus.

Louis Ganderax

Louis Ganderax

«Ma perché, lui che sa scrivere così bene, scrive così?» si chiedeva Proust. «Perché, quando dice ’1871’, deve aggiungere ’il più abominevole di tutti gli anni’? Perché Parigi è designata come ’la grande metropoli’ e Delaunay come ’l’esimio maestro’? Perché l’emozione deve essere per forza ’discreta’ e la buona indole ’sorridente’ e le perdite ’crudeli’, e ancora mille altre belle cose che non ricordo?»

 

Naturalmente queste espressioni erano tutto tranne che belle, erano una caricatura della bellezza, erano espressioni che avrebbero potuto essere di grande effetto nelle pagine degli scrittori classici, ma che risultavano solo goffe e altisonanti se rubate da un autore di un’altra epoca, preoccupato solo di fare sfoggio di pompa letteraria.

 

Se Ganderax si fosse preoccupato della sincerità di quello che diceva, si sarebbe forse trattenuto dal definire il 1871 come «il più abominevole di tutti gli anni». Parigi potrà anche essere stata assediata dall’esercito prussiano all’inizio del 1871, la plebe affamata essere stata spinta a mangiare gli elefanti del Jardin des Plantes, i prussiani aver marciato sugli Champs-Elysées e la Comune aver imposto un regime tirannico, ma la drammaticità di queste esperienze poteva davvero esser resa attraverso un’espressione pomposa e roboante come questa?

 

Ma Ganderax non aveva scritto belle espressioni senza senso per sua incapacità. Era la naturale conseguenza delle sue idee su come le persone dovrebbero esprimersi. Per lui, la prima regola dello scrivere bene consisteva nel seguire gli esempi dei grandi autori anziché sforzarsi di seguire la propria fantasia. Non a caso Ganderax si era guadagnato in altre occasioni il titolo di «difensore della lingua francese». La lingua aveva bisogno di essere protetta contro gli assalti dei decadenti che si rifiutavano di seguire le regole tradizionali dell’espressione; e infatti Ganderax protestava pubblicamente quando scopriva in un libro un participio al posto sbagliato o una parola adoperata in modo inconsueto.

 

Proust non avrebbe potuto essere più in disaccordo con questo modo di interpretare la tradizione, e lo fece sapere a Madame Straus:

 

Ogni scrittore è obbligato a costruirsi una lingua propria, come un violinista è obbligato a cercare un suo «suono». Non voglio dire che mi piacciono gli scrittori originali che scrivono male. Preferisco – ed è forse una mia debolezza – quelli che scrivono bene. Ma non scrivono bene che a condizione di essere originali, di costruire loro stessi una lingua propria. La correttezza, la perfezione dello stile esistono, ma al di là dell’originalità, dopo aver trovato gli errori, e non al di qua. Al di qua, lo stile corretto, l’«emozione discreta», la «sorridente bonomia», «l’anno fra tutti abominevole», tutto questo non esiste. L’unico modo di difendere la lingua è attaccarla, sì, sì, Madame Straus.

 

Ganderax non aveva considerato che ogni buon scrittore della storia – quella storia che lui difendeva così strenuamente – per potersi esprimere in modo adeguato, aveva infranto una serie di regole imposte dagli scrittori che lo avevano preceduto. Proust si divertiva all’idea che se fosse vissuto all’epoca di Racine, il «difensore della lingua» avrebbe rimproverato persino a questa incarnazione del francese classico di non scrivere molto bene perché si discostava leggermente dallo stile degli autori che erano venuti prima di lui: e si chiedeva che cosa avrebbe fatto Ganderax dei seguenti versi dell’Andromaca di Racine:

 

Io t’amavo incostante, che avrei mai fatto fedele!

 

Molto carini, ma non infrangevano forse alcune importanti regole di grammatica? Proust si immaginava Ganderax che sgrida Racine:

 

Capisco il vostro pensiero; volete dire che io t’amavo incostante, e cosa sarebbe stato se tu fossi stata fedele. Ma è espresso male. Questo può voler dire anche che siete voi che sareste stato fedele. In quanto preposto alla difesa e alla spiegazione della lingua francese, questa non posso lasciarvela passare.

 

«Non sto prendendo in giro il vostro amico, Madame, vi assicuro», affermava Proust, che non aveva smesso di ridicolizzare Ganderax dall’inizio della sua lettera. «So quanto egli sia intelligente e istruito. È una questione di ’dottrina’. Quest’uomo così scettico ha delle certezze grammaticali. Ahimè, Madame Straus, non ci sono certezze, neanche grammaticali... poiché non può essere bello che ciò che può portare l’impronta della nostra scelta, del nostro gusto, della nostra insicurezza, del nostro desiderio e della nostra debolezza.»

 

E un’impronta personale non è solo più bella, ma dà anche il senso di una maggiore autenticità. Cercare di sembrare Chateaubriand o Victor Hugo quando in realtà si è il curatore letterario della «Revue de Paris», mostra una singolare mancanza di interesse per ciò che è caratteristico dell’essere Louis Ganderax, così come voler incarnare l’archetipo della giovane donna borghese parigina («Non ho denaro da sprecare», «Ah, davvero, ti trovo magnifico!») quando in realtà si è una giovane schizzinosa di nome Albertine, vuol dire appiattire la propria personalità per incasellarla, omologarla ai ruoli imposti dalle gerarchie sociali. Se, come suggerisce Proust, siamo costretti a creare un nostro linguaggio, è perché ci sono in noi aspetti che i luoghi comuni non possono esprimere e spingono a trascurare l’etichetta per dare un timbro più limpido e squillante alla voce del nostro pensiero.

 

Il bisogno di dare un’impronta personale al linguaggio si manifesta soprattutto nell’ambito della quotidianità. Più conosciamo qualcuno, più il nome che porta ci sembra inadatto, e maggiore è il desiderio di modificarlo, in modo che rifletta la nostra consapevolezza delle caratteristiche di questa persona. Il nome di Proust sul certificato di nascita è Valentin Louis Georges Eugène Marcel Proust: un nome, tutto sommato, piuttosto scomodo da pronunciare, e forse era giusto che le persone vicine a lui lo modificassero in qualcosa di più adatto a quello che per loro era Marcel. Per la sua amata madre, lui era mon petit jaunet (il mio giallino), o mon petit serin (il mio piccolo canarino), o mon petit benêt (il mio piccolo sciocchino) o mon petit nigaud (il mio piccolo tonterello). Era anche conosciuto come mon pauvre loup (il mio povero lupo), petit pauvre loup (povero lupacchiotto) e le petit loup (il lupacchiotto; Madame Proust chiamava il fratello di Marcel, Robert, mon autre loup, cosa che ci dà un’idea di quale fosse la gerarchia degli affetti nella famiglia Proust). Per il suo amico Reynaldo Hanh, Proust era «Buncht» (e Reynaldo «Bunibuls»), per il suo amico Antonie Bibesco, Proust era «Lecram», e quando diventava troppo cordiale, le flagorneur (l’adulatore), o chissà per quale altra ragione, le saturnien. A casa, voleva che la cameriera lo chiamasse Missou e lui chiamava lei Plouplou.

 

Se Missou, Buncht e il petit jaunet sono esempi di come si possono coniare nuove parole o espressioni che sottolineano affettuosamente il nostro legame con gli altri, allora confondere il nome di Proust con quello di qualcun altro è il più triste indizio della riluttanza con cui talvolta allarghiamo il nostro vocabolario per rendere conto della varietà del genere umano. Chi non conosceva Proust molto bene aveva la deprimente tendenza a chiamarlo col nome di uno scrittore contemporaneo all’epoca molto più famoso: Marcel Prévost. «Sono totalmente sconosciuto», riconobbe Proust nel 1912. «Quando dei lettori mi scrivono a Le Figaro in risposta a un mio articolo, cosa che accade raramente, le lettere sono indirizzate a Marcel Prévost, pensando che Proust sia un errore di stampa.»

 

Usare una parola sola intendendo due cose diverse (l’autore della Recherche e l’autore delle Vergini forti) è indice di un disinteresse totale per la diversità del mondo, simile a quello di chi, per esprimersi, ricorre a dei luoghi comuni. Una persona che invariabilmente descrive un acquazzone dicendo il pleut des cordes può essere accusata di tralasciare la grande varietà degli acquazzoni esattamente come la persona che chiama «Monsieur Prévost» tutti gli scrittori il cui nome comincia con P e finisce con t può essere accusata di trascurare la reale diversità della letteratura.

 

Quindi, se parlare per luoghi comuni è un’impresa azzardata, lo è perché il mondo contiene una gamma di acquazzoni, lune, soli splendenti ed emozioni molto più vasta di quanto una frase convenzionale possa esprimere o anche solo suggerirci.

Il romanzo di Proust è pieno di individui che si comportano in modo non convenzionale. Per esempio: ci piace pensare che le vecchie zie che amano i loro familiari facciano affettuosi sogni a occhi aperti su di loro. Ma se la zia Léonie di Proust ama molto la sua famiglia, questo non le impedisce di trarre piacere dal coinvolgerla nelle più macabre fantasie. Confinata a letto per una serie di mali immaginari, si annoia a tal punto da desiderare che le succeda qualcosa di eccitante, fosse anche terribile. E la cosa più terribile che riesce a immaginare è un incendio così violento da distruggere persino le pietre della sua casa uccidendo l’intera famiglia, ma dal quale lei abbia tutto il tempo di scappare. Poi potrebbe affettuosamente piangere i suoi cari per molti anni; e magari provocare lo stupore generale in paese alzandosi dal letto per guidare la cerimonia funebre, piegata ma coraggiosa, moribonda ma in piedi.

La zia Léonie avrebbe senza dubbio preferito morire sotto tortura piuttosto che ammettere di nutrire tali «snaturati» pensieri: ma ciò non impedisce che siano del tutto normali, benché se ne parli raramente.

 

Della stessa specie di normalità sono i pensieri di Albertine quando una mattina entra nella stanza del narratore e prova una vampata d’amore per lui. Gli dice quant’è intelligente, e giura che preferirebbe morire piuttosto che lasciarlo. Chiedendo ad Albertine il perché del suo exploit ci aspetteremmo forse in risposta un panegirico delle qualità intellettuali o spirituali del suo ragazzo – e naturalmente saremmo propensi a crederle, perché le convenzioni sociali impongono di pensare che siano queste le ragioni per cui ci innamoriamo.

Tuttavia, Proust ci dice sommessamente che Albertine prova tanto trasporto per il suo ragazzo perché lui quella mattina si è appena rasato, e lei adora la pelle liscia. Dunque l’intelligenza del narratore conta ben poco nel suo entusiasmo; se lui decidesse di non radersi mai più, lei potrebbe lasciarlo domani.

Ma questo è un pensiero inopportuno. Ci piace pensare che l’amore abbia origini più profonde. Albertine potrebbe negare con forza di provare un simile sentimento solo per un viso rasato di fresco; anzi vi accuserebbe di perversione per averlo pensato e cercherebbe di cambiare argomento. Sarebbe un peccato. Non è un’accusa di perversione che può aiutarci ad avere un’idea meno convenzionale del nostro funzionamento: dobbiamo invece ampliare la categoria di ciò che è normale per noi. Se Albertine accettasse il fatto che un sentimento d’amore può avere uno straordinario numero di cause, alcune più accettabili di altre, allora potrebbe valutare con calma le basi della sua relazione e stabilire l’importanza di una buona rasatura nella sua vita sentimentale.

 

Nella descrizione della zia Léonie e di Albertine, Proust ci offre un quadro del comportamento umano che all’inizio non combacia con la spiegazione che si dà generalmente del modo in cui gli uomini agiscono, anche se in fin dei conti può essere considerato un quadro molto più veritiero.

In maniera indiretta, questo spiega il perché Proust fosse così attratto dalla storia dei pittori impressionisti.

 

Nel 1874 Claude Monet espose una tela intitolata Impression, soleil levant. Essa rappresentava il porto di Le Havre all’alba e permetteva agli osservatori di scorgere, nonostante una spessa nebbia mattutina e un miscuglio di pennellate insolitamente spezzate, il profilo di un insediamento industriale sulla costa, con gru, camini fumanti e palazzi.

Impression, soleil levant, Claude Monet

Impression, soleil levant, Claude Monet

Per chi la vide, la tela era solo un confuso guazzabuglio di colori. I più irritati furono i critici che appiopparono il nomignolo dispregiativo di «impressionisti» al suo creatore e al gruppo eterogeneo cui apparteneva, insinuando che il controllo dell’aspetto tecnico della pittura da parte di Monet era così limitato che tutto quello che era stato in grado di ottenere era uno scarabocchio infantile, che assomigliava molto poco a come era veramente l’alba a Le Havre.

 

Il contrasto con il giudizio espresso dall’élite artistica qualche anno dopo difficilmente poteva essere maggiore: tutto a un tratto si scoprì che gli impressionisti non solo sapevano usare il pennello, ma che la tecnica che avevano scelto era eccellente per cogliere un aspetto della realtà visiva trascurato dai loro contemporanei di minor talento. Qual era la causa di una rivalutazione così sensazionale? Perché la Le Havre di Monet era stata prima una gran confusione e poi la rappresentazione, di valore storico decisivo, di un porto sulla Manica?

 

La risposta proustiana parte dall’idea che tutti abbiamo l’abitudine di

 

dare a ciò che proviamo un’espressione che ne differisce di molto, ma che tuttavia, poco tempo dopo prendiamo per la realtà stessa.

 

Da questo punto di vista, la nostra nozione di realtà è in disaccordo con la realtà effettiva, perché è così spesso basata su fondamenti illusori o ingannevoli. Perché siamo subissati da rappresentazioni convenzionali del mondo, e ci sembra più che lecito, davanti a Impression, soleil levant di Monet, essere perplessi e protestare che Le Havre non è affatto così, allo stesso modo in cui protestiamo per il comportamento attribuito alla zia Léonie e ad Albertine, in apparenza privo di ogni base realistica. Ma se oggi Monet è Monet, lo dobbiamo al fatto che ha saputo liberarsi dalle tradizionali, e in qualche modo limitate, rappresentazioni di Le Havre per seguire più da vicino le impressioni immediate che gli suggeriva il paesaggio.

 

In omaggio ai pittori impressionisti, Proust ne ha inserito uno anche nel suo romanzo: l’immaginario Elstir, che ha dei tratti in comune con Renoir, Degas e Manet. Nella stazione balneare di Balbec, il narratore di Proust visita lo studio di Elstir dove trova delle tele che, come la Le Havre di Monet, sfidano la rappresentazione ortodossa del mondo reale, della sua apparenza. Nei paesaggi marini di Elstir non c’è demarcazione tra il cielo e il mare; il cielo sembra uguale al mare, il mare uguale al cielo. In un dipinto di un porto a Carquethuit, una nave che è in mare aperto sembra navigare in mezzo alla città, le donne che raccolgono gamberetti tra le rocce sembrano essere in una grotta marina sormontata da navi e onde, un gruppo di turisti su una barca sembra trovarsi in un calesse che corre su e giù tra campi soleggiati e macchie d’ombra.

 

Elstir non si sta cimentando nel surrealismo. Se la sua opera sembra insolita è perché vuole dipingere un po’ quello che noi effettivamente vediamo quando ci guardiamo attorno, invece di quello che sappiamo di vedere. Sappiamo che le navi non navigano in mezzo alle città, ma a volte può sembrare che questo accada quando vediamo una nave sullo sfondo di una città con una certa luce e da una certa angolazione. Sappiamo che c’è una demarcazione tra il mare e il cielo, ma a volte può essere difficile dire se una striscia di colore azzurro in realtà faccia parte del mare o del cielo fino a quando, razionalmente, non abbiamo ristabilito la separazione tra i due elementi, che è impossibile cogliere alla prima occhiata. Il risultato ottenuto da Elstir è quello di attenersi alla confusione originaria, e di fissare con la pittura l’immagine che s’imprime sulla retina prima che sia stata corretta dal cervello, da ciò che si sa di vedere.

 

Proust non intendeva dire con questo che la pittura avesse raggiunto il culmine con l’Impressionismo, e che il movimento avesse colto la «realtà» come mai le precedenti scuole pittoriche avevano fatto. Le sue conoscenze pittoriche andavano ben al di là dell’Impressionismo, ma le opere di Elstir illustravano con particolare chiarezza ciò che è presente in ogni opera d’arte riuscita: la capacità di restituirci una visione esatta di aspetti trascurati o dimenticati della realtà. Come affermò Proust:

 

È il lavoro fatto dal nostro amor proprio, dalla nostra passione, dal nostro spirito d’imitazione, dalla nostra intelligenza astratta, dalle nostre abitudini, quello che l’arte dovrà disfare; quello che l’arte ci farà compiere è il cammino in senso opposto, il ritorno alla profondità dove ciò che è realmente esistito è sepolto, a noi sconosciuto.

 

E tra ciò che giace sepolto dentro di noi ci sono anche quelle cose sorprendenti come le barche che attraversano le città, i mari che per un attimo non si distinguono dai cieli, fantasie in cui la nostra amata famiglia muore in un incendio e l’intenso trasporto amoroso originato dal contatto con la pelle liscia.

 

La morale? Che la vita può riuscire molto più strana e singolare quando non è preconfezionata, che i cardellini a volte dovrebbero comportarsi in modo diverso dai loro genitori, e che ci sono ragioni convincenti per chiamare la persona amata Plouplou, Missou o povero lupacchiotto.