7. Il conte Marchionni
Entrò per primo un vecchio forte e diritto, molto distinto, elegante di un'eleganza quasi giovanile. Lo seguiva un uomo piccolino ed esile, ma che ognuno si sarebbe voltato per la strada a guardare, tanto il suo abito grigio-chiaro era vistoso e tutto il suo modo di fare attirava l'attenzione. Aveva anelli alle dita, un grosso brillante alla cravatta dai colori vivaci. E sopra quel fantastico brillante e quella non meno fantastica cravatta, un volto volgare, da furetto, che sembrava fiutasse in sempiterno.
Cruni si era tratto da parte, per lasciarli entrare ed aveva chiusa la porta dietro di essi.
Il vecchio avanzò con sicurezza, dicendo:
«Vorrei parlare al commissario incaricato dell'inchiesta. Mi hanno detto in Questura che si trova qui. Sono il conte Marchionni.»
Aveva il volto grave ed ermetico e, quando vide Giannetto, non un muscolo della faccia gli si contrasse.
De Vincenzi ritrovò immediatamente la sua serena sicurezza. Avanzò verso il sopravveniente, inchinandosi, con freddezza:
«Commissario De Vincenzi. Sono a sua disposizione...»
Poi guardò Harrington ed ebbe un sorriso ironico.
«Avete trovato il vostro da fare, Harrigton!»
L'uomo dai molti gioielli proclamò in fretta, con una leggera aria di trionfo, alzandosi sui talloni:
«Ho l'autorizzazione del Questore, cavaliere. Il signor conte l'ha chiesta ed ottenuta!»
«È esatto,» confermò il conte Marchionni. «Ho creduto valermi dell'opera del signor Harrington, non perché non avessi fiducia nell'intelligenza e nella capacità dei funzionari di Pubblica Sicurezza, ma perché penso che un detective privato abbia maggiore libertà di movimenti e possa riuscire là dove essi falliscono. Ho vissuto molto in Inghilterra e mi sono abituato a considerare la professione del detective privato come necessaria e indispensabile.»
Fece una pausa, quasi attendesse che il commissario gli muovesse qualche obiezione. Ma De Vincenzi tacque e lui continuò:
«Il Questore ha cercato di comprendere le mie ragioni e ha soprattutto compreso quanto sia vitale per me conoscere la verità, tutta la verità. Soltanto in tal modo potrò rendere immune da calunnie e da falsi apprezzamenti l'onore di mia figlia...»
Giannetto, che fino a quel momento era rimasto muto e immobile in un angolo della camera, fece un passo avanti. Il suo volto, se era possibile, diventò più pallido ancora. Per un attimo gli occhi gli brillarono.
Ma De Vincenzi, si frappose con un movimento rapido fra lui e Marchionni. Temeva che Aurigi potesse abbandonarsi a qualche eccesso e disse in fretta al conte:
«Non capisco, signor conte, in che cosa possa venire messo in causa, sia pure lontanamente, l'onore di sua figlia...»
«Fino a ieri, mia figlia era la fidanzata dell'assassino.»
A quella parola anche De Vincenzi ebbe un sussulto visibile; e la voce di Aurigi risuonò sorda e spasimante:
«Lei non può credere che io sia un assassino!»
Marchionni si voltò lentamente verso quella voce.
«Io non credo nulla! Constato. Cerco di sapere sino in fondo. Giudico. Altri deve condannare.»
De Vincenzi intervenne con autorità:
«Mi permetta, conte...» e fece un gesto con la mano, quasi per impedirgli materialmente di continuare. Poi si volse verso il fondo e chiamò Cruni: «Venite qui, brigadiere.»
Cruni avanzò nella stanza e il commissario gli indicò Giannetto.
«Il signor Aurigi è in istato di arresto. Ve lo affido, Cruni. Conducetelo di là, nella camera da pranzo, in attesa di tradurlo a San Fedele. Egli non deve parlare con nessuno. Chiudete le porte e non vi separate da lui, per nessun motivo, neppure un istante.»
Giannetto aveva ascoltate quelle parole con indifferenza. Ricadde nel suo stato di torpore e non oppose la più piccola resistenza, quando il brigadiere gli si avvicinò e gli disse con cortesia:
«Venga con me...»
Tutti e due scomparvero nella sala da pranzo, della quale Cruni richiuse la porta.
La scena si era svolta in pochi secondi. Il conte aveva assistito ad essa, senza dar segno di meraviglia. Il silenzio, che seguì fu brevissimo. Con perfetta naturalezza di movimenti, De Vincenzi offrì una sedia a Marchionni:
«Vuol sedere, signor conte? Dal momento che lei, venendo qui, è andato incontro al mio desiderio, le chiedo un colloquio.»
«Sono qui anche per questo,» rispose il conte, sedendosi.
De Vincenzi si voltò verso Harrington.
«Credo che v'interesserà dare un'occhiata al luogo del delitto, Harrington. Giacché siete stato autorizzato a seguire l'inchiesta, ve lo permetto. Bene inteso, il giudice istruttore si regolerà come vorrà nei vostri riguardi. A me, per ora, voi non date alcun fastidio.»
Subito il detective assunse un'aria cordialmente confidenziale.
«Spero, anzi, di poterle dare qualche aiuto, cavaliere. Conosco qualcosa di più di quanto hanno pubblicato i giornali stamane e posso dirle che ho già una teoria.»
«Una teoria, eh, Harrington?» disse De Vincenzi, con un lieve sorriso ironico. «Bella cosa avere una teoria!... Sappiate che, invece, io non l'ho una teoria!»
L'altro non volle afferrare l'ironia del commissario.
«Oh! basta far lavorare le cellule grigie del proprio cervello!»
«Già!» fece De Vincenzi, ma troncò subito, con freddezza: «Ebbene, fatele lavorare, Harrington. È proprio questo il momento!»
Si diresse verso la porta del salottino e fece cenno al detective di seguirlo. Quando fu sulla soglia, indicò la camera e disse:
«Ecco, in questo salotto è stato trovato il cadavere... Entrate pure e non toccate nulla... anche perché, intanto, tutto quello che c'era da toccare lo abbiamo toccato noi...»
Entrando nel salottino, Harrington mormorò:
«Lo credo, cavaliere!»
De Vincenzi tornò subito verso il conte.
«Mi scusi! Come vede, facilito il compito al suo detective... Un brav'uomo, quell'Harrington... Aspettava di potersi occupare di un delitto, di un vero delitto, con così ansioso desiderio!... Mettersi un nome inglese, come Sherlock Holmes, e doversi occupare soltanto d'informazioni e di pedinamenti... Un martirio! Ma il buon Dio lo ha aiutato, finalmente...»
Fece una pausa, e poi, fissando Marchionni, chiese:
«Ma a che cosa crede che le possa essere utile, signor conte, l'opera di un detective privato?»
«Intanto, a recare un aiuto alla Polizia... E a rendere, quindi, più rapida l'istruttoria...»
Aveva nella voce un leggero sarcasmo; ma De Vincenzi non sembrò rilevarlo, perché disse con perfetta sincerità: «Grazie!»
«E poi a dimostrare a tutti, nel caso ce ne fosse bisogno, che il conte Marchionni, pur essendo Giannetto Aurigi il fidanzato di sua figlia, non ha esitato a prendere decisamente posizione contro di lui...»
«... dato che sia colpevole realmente...» insinuò con un sorriso dolce il commissario.
Il conte lo fissò con attenzione, quasi con meraviglia:
«Oh questo sì, naturalmente. Ma purtroppo quali speranze si potrebbero avere, ch'egli sia innocente? Ha trovato qualcosa, lei? A che punto è l'inchiesta?»
«Al principio, per conto mio, al principio...» rispose De Vincenzi, scuotendo il capo. «In quanto al giudice istruttore, credo non l'abbia neppure iniziata, se non per pura forma ancora...»
«Vede!... No, no, non ritengo che ci si possa fare illusioni...»
E tacque, chinando il capo.
«È un delitto complesso e terribilmente oscuro,» osservò il commissario, anche per rompere l'imbarazzo di quel silenzio. «Tutto sembra accusare Aurigi. Non si riesce a pensare chi potrebbe essere stato, se non lui. Eppure la ragione si ribella ad ammetterlo...»
«Sì, infatti, la ragione di chi lo ha conosciuto fino a ieri, di chi gli ha data tutta la sua fiducia, sino al punto da accoglierlo nella propria famiglia, si rifiuta a crederlo colpevole. Ma appunto perché ho temuto che, questa volta, la ragione s'identificasse col sentimento... O col tornaconto, ho ritenuto mio dovere far qualche cosa di effettivo, di visibile, per contribuire a svelare la verità.»
Adesso l'ironia di De Vincenzi apparve manifesta:
«Mettendo in opera le doti di indagine e di deduzione del nostro amico Harrington?»
Il conte si alzò. E disse con un certo calore:
«Precisamente! Comunque, egli sarà un testimonio.»
«Per noi», disse freddamente De Vincenzi, «non ce ne sarebbe stato bisogno, di un testimonio!»
«Già la sua ragione, dottore, che pure non può essere né sentimento, né tornaconto, come mai esita ad accettare tutte quelle prove... che esistono ed accusano Aurigi?»
«Perché sarebbe la prima volta che un delinquente avrebbe messo in opera tutte le proprie doti d'intelligenza e di astuzia, per rendere assolutamente inequivocabile la propria colpevolezza!»
«Oh!» fece Marchionni, alzando le spalle, «Aurigi, anche assassino, non sarebbe che un assassino occasionale...»
«Sì... ma, se si toglie la premeditazione a questo delitto, il delitto non poteva compiersi. E, se la si ammette, esso non poteva venir compiuto nel modo con cui sembra esserlo stato...»
«Perbacco!» esclamò il conte.
Sembrava, più che colpito dalle parole del commissario, imbarazzato. Per cambiar discorso e quasi per mettersi subito sopra un terreno pratico e affrontare la situazione nettamente, disse irrigidendosi:
«Ma lei voleva interrogarmi...»
L'altro corresse con troppa cortesia, per essere sincero:
«Un colloquio, le ho chiesto. Non mi sarei permesso un interrogatorio! Ma non le nascondo che faccio appunto assegnamento su quanto vorrà dirmi lei, per far fare all'inchiesta un passo decisivo...»
«Non saprei come; ma può cominciare...»
De Vincenzi sembrò raccogliersi un istante e poi, fissando il suo interlocutore, domandò:
«Ieri sera, Giannetto Aurigi è stato alla "Scala" con loro, nel suo palco?»
«Aurigi era il fidanzato di mia figlia. Potrei cercare giustificazioni a questo fatto, che mi è impossibile negare. Preferisco non cercarle. Era fidanzato da un anno. Avrebbe dovuto sposarsi dopo la Quaresima. Le accerto, però, che questo matrimonio, per mia decisione, non si sarebbe fatto»
«Perché?... Se vuol dirmelo...»
«Da qualche mese a questa parte, Aurigi si era messo a giocare. Il mese scorso ha avuto una fortissima perdita in Borsa. Questo mese la sua situazione era ancora peggiore. Anche se non fosse accaduto... Quel che è accaduto, egli non avrebbe potuto evitare la rovina.»
«Capisco!» disse De Vincenzi. «A che ora ha lasciato il teatro, ieri sera, Aurigi?»
«Dopo il secondo atto dell'Aida. Saranno state le undici.»
«Ed era stato nel ridotto con lei?»
«Questo è abbastanza esatto,» riconobbe subito Marchionni, con un breve sorriso. «Fui io ad invitarlo a venire con me nel ridotto per parlare. La discussione fu tempestosa, quanto naturalmente poteva essere tempestosa una discussione nel ridotto della "Scala", in mezzo a tutta la gente, che ci ascoltava.»
«Dal ridotto, Aurigi si allontanò per uscire di teatro?...»
«No. Tornò nel palco. Si trattenne qualche minuto con mia moglie e con mia figlia e poi, accusando un improvviso mal di capo, ci salutò ed uscì.»
«Lei rimase nel palco con le signore?»
«Sì... Naturalmente...»
De Vincenzi notò che, per la prima volta da quando dava le sue risposte, Marchionni aveva manifestato un leggero imbarazzo. Lo fissò e il conte continuò subito, in fretta:
«Intanto, era cominciato il terzo atto... Mia figlia andò a far visita alla marchesa di Belmonte, nel suo palco, e rimase con la figlia della marchesa, che è sua amica, sino al termine dello spettacolo. Uscì dal teatro assieme a loro e tornò a casa nell'automobile della marchesa.»
«Vedo...» mormorò il commissario. «Sicché sua figlia è rientrata al palazzo verso la una di notte...»
«Calcolo appunto a quell'ora...»
«Lei la vide rientrare?» chiese subito De Vincenzi, scrutandolo.
«Sì. Ma perché mi fa queste domande? Non vedo come possa interessarla tutto quanto ieri sera abbiamo fatto io e la mia famiglia...»
«Infatti! Non m'interessa... È soltanto per precisare le ore e per rendermi conto di quelle che possono essere state le mosse di Aurigi, che io le chiedo dove e come abbiano trascorsa la serata lei e i suoi...»
«Se le fa proprio piacere, allora, le dirò che io, terminato lo spettacolo, sono andato al Savini e poi al Clubino... Dal Clubino sono uscito alle due... O circa alle due.»
«Oh!» esclamò De Vincenzi. «Strano!...»
L'altro disse sarcasticamente:
«Che cosa è strano? Che io abbia ceduto ad un presentimento, rimanendo fuori di casa proprio nelle ore in cui si stava commettendo un omicidio?»
«Io credo ai presentimenti,» disse De Vincenzi.
«Io no, invece. E le dirò che era stata semplicemente la discussione avuta con Aurigi, che mi aveva turbato. Sentivo, che Aurigi correva verso la rovina. Temevo effettivamente il peggio e mi preoccupavo della impressione, che una separazione ormai inevitabile e definitiva avrebbe potuto produrre su mia figlia...»
Il conte passeggiò per qualche minuto per la camera e poi deliberatamente si fermò davanti al commissario:
«Mia figlia amava il suo fidanzato,» scandì con forza. «Ella lo aveva liberamente scelto. Per sposarlo, avrebbe perduto il titolo...»
Tacque, aspettò che De Vincenzi dicesse qualche cosa e, poiché invece quello taceva, riprese a camminare per la stanza. Parlava quasi tra sé, dimenticando che non era solo:
«Certamente, non avrei mai potuto pensare ad una cosa così terribile... ma sapevo Aurigi nella più grave delle situazioni finanziarie... Lo vedevo ridotto alla rovina... Al fallimento... alla fuga, forse... Sapevo che Maria Giovanna aveva avuto con lui, ieri sera stessa, una spiegazione violenta... Nel palco e poi nei corridoi li avevo veduti parlare concitatamente...»
Si fermò di nuovo e fissò l'altro, che taceva sempre, osservandolo:
«Presentimento, eh?» disse con un sogghigno amaro. «Intuizione! Che c'è di strano che mi fossi sentito nervoso e turbato?»
De Vincenzi credette di aver taciuto abbastanza.
«Non era per questo suo presentimento, che io ho esclamato: strano!» disse con voce tranquilla. «La stranezza è altrove...»
Il conte si mise sulla difensiva:
«Si spieghi.»
«È strano, dicevo, che lei abbia potuto assistere al ritorno di sua figlia a casa, alla una, se si trovava al Savini... o al Clubino...»
Il turbamento del conte non fu eccessivo. Egli sorrise:
«Oh! così?... Infatti, non l'ho veduta tornare. Il portinaio mi ha detto, questa notte stessa, a che ora era rientrata e mia moglie me lo ha confermato. Le sembra che tutto ciò abbia la minima importanza?»
«Nessuna!» disse De Vincenzi con indifferenza.
«Appunto! Nessuna. E non trovo che lei debba torturarsi eccessivamente il cervello, per ricostruire la scena del delitto...»
«Le pare! Sì, di ricostruzioni logiche ce n'è più di una. Ma suonano tutte false, come campane incrinate...»
Marchionni ebbe uno sguardo di sincera commiserazione:
«E lei è giunto a questa conclusione!»
«No! Io non sono giunto ancora a nessuna conclusione... Cerco!»
«Sta bene,» disse il conte, con voce fredda, come per troncare quel colloquio. «Ma lascerà che anche Harrington cerchi e non gli intralcerà i movimenti, non è vero?»
«Certo no! Purché cerchi realmente le prove della verità.»
Il conte si diresse verso la porta del salottino:
«Vado a dirglielo, allora, se permette.»
De Vincenzi si inchinò:
«S'accomodi...»
Quando lo vide sull'uscio, lo richiamò:
«Mi scusi, signor conte! Posso permettermi di telefonare alla contessa, per pregarla di ricevermi?»
Marchionni si volse lentamente e guardò De Vincenzi con perfetta tranquillità:
«Non può telefonare al palazzo, dottore...»
Fece una pausa calcolata. Certamente, pensò tra sé De Vincenzi, è un uomo abile! Lui aveva perfettamente compreso a che cosa mirasse la richiesta del commissario. E infatti continuò quasi con ironia:
«Non abbiamo telefono... Non ho mai voluto metterlo...»
«Allora, se crede, vorrebbe avvertirla lei di una mia visita?»
«Naturalmente. Lo dirò a mia moglie io stesso e lei potrà venire oggi nel pomeriggio...»
Rispose con un cenno della testa all'inchino del commissario e scomparve nel salottino.
De Vincenzi rimase assorto. Quel colloquio gli aveva rivelato un orizzonte nuovo. Nuovo e niente affatto sereno. Dove si sarebbe andati a finire? Adesso, il dramma si metteva per vie tortuose e irte di ostacoli d'ogni genere. Evidentemente, quel gentiluomo aveva uno scopo, che non era certo quello da lui confessato. Ricordava il paragone già fatto, De Vincenzi, e pensava che anche Marchionni suonava falso come una campana incrinata.
Ma perché? In lui dov'era la screpolatura e da che cosa causata?
Esitò un poco, poi si decise e andò rapidamente alla porta della sala da pranzo. Guardò dentro e fece cenno a Cruni di raggiungerlo, quindi richiuse subito la porta. Quando il brigadiere gli fu vicino, lo prese per un braccio confidenzialmente e gli mormorò:
«Cruni, amico mio... Voi avete fiducia in me, vero?»
Lui gli dava un po' del tu e un po' del voi, secondo i momenti.
Cruni non si meraviglò né del tono, né delle parole del suo superiore. Lo conosceva e gli voleva bene. Era un commissario, che non angariava i propri dipendenti con eccessive pretese. L'unico sempre cortese con loro. L'unico, che non facesse ricadere su gli altri i propri errori e tutte le noie del servizio.
«Sono otto anni, dottore,» disse con voce quasi commossa, «che sto con lei! È lei che deve avere fiducia in me... Io farei qualunque cosa per meritarmela!»
E sottolineò la frase, con un gesto energico, stringendo il pugno ed agitandolo in aria.
De Vincenzi ebbe un sorriso.
«Lo so, Cruni! Ebbene, adesso io faccio proprio assegnamento su di voi... Debbo...»
Ebbe una breve esitazione, fissò il dipendente negli occhi e vi lesse una tale franchezza, che subito riprese:
«Cruni, io sto per fare qualcosa di non regolare... di non molto regolare... e voi la dovete fare con me, se acconsentite! Ma è necessario! Oh! Non soltanto per salvare quello lì...» e indicò la porta della camera da pranzo, «... se pure meriterà di essere salvato...»
Il brigadiere lo interruppe:
«Dottore, quell'uomo non ha ucciso! Glielo dico io, che me ne intendo! Non ha ucciso!»
De Vincenzi mormorò:
«Non lo so, Cruni! Io stesso non lo so! Quanto so con sicurezza, però, è che in questo delitto c'è qualche elemento... e proprio l'elemento più atroce... che è estraneo ad Aurigi. Ebbene, Cruni, bisogna, capite? bisogna che io veda chiaro e sino in fondo. I mezzi normali, legali, regolamentari, non bastano e non servono, in questo caso... Io debbo ricorrere agli altri mezzi, se voglio arrivare sino alla verità, a tutti gli altri mezzi, qualunque essi siano. La mia coscienza me lo permette, anzi mi ci obbliga, anche se il regolamento o il codice me lo vietano. Quindi, ho bisogno di voi. Siete disposto ad aiutarmi?»
«Disponga di me, dottore!» disse Cruni, mettendosi una mano sul petto.
«Sì, conto su voi! Adesso vi dirò che cosa c'è da fare, ma prima chiamatemi un agente. Ce ne debbono essere due in portineria. Fatemi venire il più sveglio.»
Il brigadiere uscì rapidamente dal fondo, lasciando aperto l'uscio dell'ingresso.
De Vincenzi fissò la porta della camera da pranzo. Lentamente si avvicinò ad essa, ascoltando. Non sentì il più piccolo rumore. La socchiuse e vide Giannetto seduto davanti al tavolo, con la testa fra le mani. Non si muoveva e non si mosse neppure, quando l'uscio si aprì.
De Vincenzi ebbe un sorriso amaro e richiuse la porta.
Tornò in mezzo alla stanza. Guardò di nuovo verso Aurigi e questa volta ebbe un gesto d'ira. Ma perché si ostinava a tacere? Perché lui doveva proprio salvarlo ad ogni costo?
Dall'ingresso vennero Cruni e un agente. De Vincenzi guardò quest'ultimo e gli disse:
«Bene. Tu, va' a metterti in quella camera,» e gli indicò la sala da pranzo. «Vi troverai un signore, che è in istato d'arresto. Tu me ne rispondi. Ma bada, devi trattarlo con cortesia e soprattutto cerca di dargli l'impressione che non ci sei e che non lo sorvegli. Chiudi la porta, anche a chiave dal di dentro, se credi, e non far entrare nessuno, tranne naturalmente il giudice istruttore. Ma quello lo vedrò prima io. Hai capito?»
L'agente s'inchinò, allargando le braccia con un gesto goffamente espressivo:
«Sì, cavaliere.»
«Va'.»
E lo condusse lui stesso sin quasi dentro la camera, richiudendo la porta.
Poi si avvicinò a Cruni.
«E adesso ascoltami.»
Rapidamente, ma con la maggiore chiarezza possibile, gli espose i punti essenziali delle affermazioni fattagli dal conte Marchionni e gli ordinò di controllarle. Si recasse al Savini, al Clubino, al palazzo del conte e interrogasse tutti coloro, che potevano confermare o meno quanto Marchionni aveva detto. Gli raccomandò, però, di usare la maggiore discrezione possibile. Cruni doveva capire come, tanto lui, quanto il commissario, giocavano una carta pericolosa, controllando a quel modo le informazioni di un testimone di quella importanza. Cruni rispondeva con cenni di assenso. Aveva capito perfettamente. Ad un certo punto, esclamò:
«Anche a me, quel signore non sembra molto cristiano!»
«Cristiano o no, caro Cruni, se il Questore viene a sapere quel che facciamo, senza avere avuta la sua autorizzazione, ci fa saltare tutti e due. Per me è cosa da nulla; ma per voi...»
«Oh, per me!» fece il brigadiere, alzando le spalle, e preso il cappello, che aveva posato sopra una sedia dell'ingresso, si diresse verso l'uscio.
Proprio in quel momento, dal di fuori, una chiave venne introdotta nella serratura. Il rumore, che fece girando si sentì netto e sicuro.
De Vincenzi afferrò immediatamente Cruni per un braccio e lo trasse in un angolo. Tutti e due rimasero lì, appiattiti, con gli occhi fissi alla porta.
La chiave girò due volte e l'uscio si aprì lentamente.