Arrivò Greta, che si fermò da noi per il weekend. Rimase entusiasta della casa e si congratulò con noi per i mobili, per i quadri e per l'accostamento di colori. Cercò di essere poco invadente e, finito il weekend, disse che non voleva più disturbare gli sposini e che comunque doveva tornare al suo lavoro.
Ellie si divertì un mondo a mostrarle la casa. Mi resi conto di quanto bene volesse a Greta. Cercai di comportarmi in modo ragionevole e gentile, ma quando Greta tornò a Londra tirai il fiato, perché la sua presenza metteva a dura prova i miei nervi.
Dopo un paio di settimane dal nostro arrivo cominciammo a essere accettati dalla gente della zona e facemmo conoscenza con dio. Venne a trovarci un pomeriggio, senza preavviso. Ellie e io stavamo discutendo su dove far costruire un'aiuola, quando il nostro maggiordomo, un tipo corretto ma, almeno secondo me, altrettanto fasullo, venne ad annunciarci che il maggiore Phillpot era nel soggiorno. Fu allora che sussurrai a Ellie: «Dio!».
Ellie mi chiese che cosa volevo dire.
«Be', la gente del paese lo tratta come se fosse dio in terra» risposi, ridendo.
E così entrammo in casa e ci trovammo di fronte al maggiore Phillpot. Era un uomo normalissimo, sulla sessantina, senza niente di particolare. Indossava un abito sportivo piuttosto stazzonato, aveva i capelli grigi che cominciavano a diradarsi e un paio di baffetti sale e pepe. Ci chiese scusa per l'assenza della moglie e ci spiegò che non era potuta venire perché era piuttosto malandata di salute. Si mise a sedere e chiacchierò con noi. Niente di ciò che disse fu particolarmente intelligente né interessante, ma aveva il dono di far sentire la gente a proprio agio. Sfiorò una quantità di argomenti, non ci rivolse domande particolari, ma ben presto capì quali erano i nostri veri interessi. Con me parlò di corse di cavalli e con Ellie di giardinaggio, spiegandole quali erano le piante migliori per quel tipo di terreno. Era stato un paio di volte negli Stati Uniti e, appunto parlando degli Stati Uniti, scoprì che Ellie, malgrado non s'interessasse di corse ippiche, adorava cavalcare. Il maggiore le disse che se intendeva tenere dei cavalli, poteva cavalcare lungo un certo sentiero tra gli alberi e sbucare in un punto della brughiera in cui era addirittura possibile galoppare. Poi arrivammo all'argomento della casa e alle storie su Campo degli Zingari.
«Vedo che conoscete il nome locale di questo posto» disse. «Allora sarete al corrente anche di tutte le superstizioni di cui parlano.»
«Maledizioni in quantità» dissi. «Un po' troppe, per i miei gusti. Soprattutto la signora Lee si è data daffare per metterci al corrente.»
«Oh, no!» esclamo Phillpot. «La vecchia Esther... Vi ha dato fastidio, vero?»
«È un po' matta, secondo me.»
«In realtà, lo è meno di quanto non ami darlo a intendere. Mi sento responsabile, nei suoi confronti. L'ho sistemata in quella villetta, ma lei non me ne è molto grata. Le voglio molto bene, povera vecchia, anche se a volte è veramente noiosa.»
«Specie quando legge la mano.»
«Be', non lo fa spesso. Perché a voi l'ha letta?»
«Veramente» disse Ellie «più che leggerci la mano ha tentato di spaventarci. Ci ha invitati ad andarcene e a non tornare indietro.»
«Che strano» mormorò il maggiore Phillpot. «In genere, quando legge la mano è tutta miele. "Begli sconosciuti, campane di nozze, sei figli, tanto denaro e tanta fortuna, bella signorina."» Inaspettatamente il maggiore Phillpot si era esibito in una perfetta imitazione della voce cantilenante della vecchia Lee. «Quando ero ragazzo, gli zingari venivano spesso ad accamparsi qui. E io mi sentivo molto attratto da loro, anche se non erano che un branco di ladri. In fin dei conti, però, basta non aspettarsi che si comportino da bravi cittadini ossequienti alle leggi, e sono più che accettabili. Ricordo che da ragazzo adoravo il loro stufato, e ne mangiavo scodelle intere. La mia famiglia è rimasta molto grata alla signora Lee perché salvò la vita a mio fratello, quand'era piccolo. Lo ripescò da un laghetto, dov'era precipitato mentre pattinava sul ghiaccio. Il ghiaccio si ruppe e...»
Feci un gesto goffo, e rovesciai un portacenere sul tavolo. Il portacenere si frantumò.
Raccolsi i pezzi, e il maggiore Phillpot mi aiutò.
«La signora Lee dev'essere una buona donna, in fondo» disse Ellie. «Sono stata sciocca a spaventarmi a quel modo.»
«Vi siete spaventata? Voi?» Il maggiore inarcò le sopracciglia. «Ma allora deve avervi detto delle cose veramente cattive!»
«Se mia moglie si è spaventata ha avuto le sue buone ragioni» spiegai in fretta. «Più che di un avvertimento, si trattava di una minaccia.»
«Una minaccia?» Il maggiore parve incredulo.
«Be', io l'ho interpretata così. Poi, la prima sera del nostro arrivo, è accaduta un'altra cosa.»
Gli raccontai della pietra arrivata attraverso la porta-finestra.
«Temo che la zona sia infestata di giovani teppisti» disse lui. «Da queste parti non sono mai stati numerosi e violenti come in città, comunque ci sono. E a volte si comportano in modo veramente nocivo.» Guardò Ellie. «Mi dispiace che vi abbiano spaventata a questo modo. È stata una cosa orribile. E proprio la prima sera del vostro arrivo nella nuova casa...»
«Ormai l'ho superato» disse Ellie. «Ma non è stato solo quello... È accaduto anche qualcos'altro, poco dopo.»
Gli raccontai anche questo. Una mattina eravamo scesi e avevamo trovato un uccello morto, trafitto da un pugnale, con un biglietto scritto con calligrafia incerta, quasi illeggibile: "Andatevene di qui se sapete qual è il vostro bene".
A questo punto, Phillpot si arrabbiò veramente. «Avreste dovuto denunciare la cosa alla polizia!»
«Abbiamo preferito non farlo» spiegai «perché avremmo ottenuto solo di inimicarci ancor più la persona che compie queste belle imprese.»
«Ma è necessario mettere un punto fermo a queste storie» dichiarò. E, all'improvviso, saltò fuori in lui il magistrato. «Altrimenti, la gente non imparerà mai. Sono capaci di trovarlo divertente! Solo... solo che non lo è neanche un po'. È una cosa orribile, maligna... Non può trattarsi...» mentre parlava, sembrava pensare intensamente. «Non può trattarsi di qualcuno che ce l'ha con voi personalmente.»
«No» risposi. «Non può trattarsi di una cosa del genere, prima di tutto perché non abbiamo fatto niente a nessuno, e poi perché siamo appena arrivati.»
«Me ne occuperò io» dichiarò il maggiore Phillpot.
Si alzò, guardandosi attorno, e disse:
«Sapete, la vostra casa mi piace molto. Pensavo che non mi sarebbe piaciuta. Sono un conservatore, di quelli che i giovani d'oggi definiscono "ammuffiti". Mi sono sempre piaciute le case vecchie e i vecchi edifici. Non mi sono mai andati quegli alveari di mattoni che nascono come funghi in tutto il paese. Non ci vivrei neanche morto. Mi piacciono gli edifici accoglienti, con un minimo di personalità. Ma la vostra casa è stupenda. Per quanto moderna, è semplice, ha stile ed è piena di luce. E quando ci si avvicina alle finestre si vede... be', un paesaggio che è diverso da com'era prima. Interessante. Molto interessante. Chi l'ha progettata? Un architetto inglese, o uno straniero?»
Gli raccontai di Santonix.
«Mmmm...» mormorò. «Sì, ho letto di lui da qualche parte. Forse su House and Garden.»
Risposi che poteva darsi, perché Santonix era molto noto.
«Mi piacerebbe conoscerlo, anche se non so proprio di cosa potrei parlare, con lui. Io non sono artista.»
Poi ci chiese di scegliere un giorno per andare a fare colazione a casa sua, così ci avrebbe presentato sua moglie.
«Sono curioso di vedere se la mia casa vi piace» disse.
«Suppongo che sia una casa vecchia» feci io.
«Costruita nel 1720. Bel periodo. L'edificio originale era elisabettiano, ma fu divorato da un incendio nel 1800 e venne ricostruito.»
«Avete sempre vissuto là?» chiesi, non intendevo certo lui personalmente, ma il maggiore capì.
«Sì. Abitiamo da queste parti fin dal periodo elisabettiano. Abbiamo avuto molti alti e bassi. Anni di ricchezza e anni di povertà, durante i quali eravamo costretti a vendere i terreni per tirare avanti, per poi ricomprarli quando le cose andavano meglio. Sarò lieto di mostrarvi la mia casa.» Guardò Ellie e sorrise. «Agli americani le vecchie case piacciono, no? Con ogni probabilità, la più entusiasta della mia casa sarete voi, mentre vostro marito non la guarderà neanche.»
«Non me ne intendo molto di vecchie case» dissi con sincerità.
Poi il maggiore Phillpot se ne andò. In macchina lo aspettava uno spaniel. Era una vecchia macchina, con la vernice scrostata, ma ormai cominciavo a capire i veri valori della vita. Da quelle parti, il maggiore Phillpot restava un dio, che avesse la macchina nuova o no. E il maggiore Phillpot ci aveva concesso il suo "imprimatur". Me n'ero accorto subito. Ellie gli era molto simpatica, e credo che approvasse anche me, anche se di tanto in tanto mi lanciava degli sguardi scrutatori, come se scoprisse in me qualcosa che non aveva previsto.
Quando tornai nel soggiorno, Ellie stava riponendo nel cestino della carta straccia le schegge del portacenere.
«Mi dispiace che tu l'abbia rotto» disse. «Era molto bello.»
«Possiamo comprarne un altro uguale» ribattei subito. «Era moderno.»
«Lo so. Ma che cosa ti aveva preso, Mike?»
Ci pensai su per un attimo.
«Quello che stava dicendo il maggiore Phillpot mi ha ricordato una cosa avvenuta quando ero ragazzo. Io e un mio compagno di scuola eravamo andati a pattinare sul ghiaccio. E da bravi incoscienti, non ci preoccupammo di assicurarci se il ghiaccio poteva reggerci. Il mio compagno partì come una freccia e affogò prima che qualcuno potesse fare qualcosa per lui.»
«Terribile!»
«Sì. Me n'ero completamente dimenticato. Ma quando Phillpot ha parlato di suo fratello...»
«Il maggiore è simpatico. Non trovi, Mike?»
I primi giorni della settimana successiva andammo a colazione dai Phillpot. La casa era molto elegante, anche se non particolarmente eccezionale. Dentro era vecchiotta, ma accogliente. Alle pareti della lunga sala da pranzo erano appesi i ritratti di quelli che dovevano essere gli antenati del maggiore. Per la maggior parte mi parvero dei brutti ritratti ma, con ogni probabilità, se fossero stati puliti sarebbero sembrati migliori. L'unico che mi piacque veramente rappresentava una ragazza bionda in abito di raso rosa. Il maggiore Phillpot sorrise.
«Avete scelto uno dei migliori. È un Gainsborough del periodo più riuscito. La donna che raffigura, invece, fece nascere un sacco di guai, ai suoi tempi. L'accusarono di aver avvelenato suo marito. Ma con ogni probabilità si trattò solo di un pregiudizio, perché era straniera. Gervase Phillpot l'aveva trovata all'estero, non ricordo più dove.»
Il maggiore aveva invitato anche gli altri vicini, perché potessimo conoscerli. Il dottor Shaw, un ometto anziano dai modi cortesi ma stanchi. Dovette scappar via prima di finire di mangiare. Poi c'erano il vicario, giovane e simpatico, e una donna di mezza età dalla voce penetrante che allevava cincillà. C'era anche una bella ragazza bruna, piuttosto alta, che si chiamava Claudia Hardcastle e che sembrava vivere per i cavalli, malgrado la loro vicinanza le provocasse spesso una violenta febbre allergica.
Claudia ed Ellie fecero subito amicizia. Ellie adorava cavalcare e anche lei soffriva di allergia.
«Negli Stati Uniti soffrivo soprattutto quando ero vicina ai cani» spiegò. «Ma anche i cavalli mi facevano star male, qualche volta. Ormai, però, sono quasi guarita. I medici hanno scoperto tanti di quei rimedi contro ogni tipo di allergia! Vi darò qualcuna delle mie pastiglie. Sono di un bel colore arancione vivo. Se vi ricordate di prenderne una prima di salire in sella, non starnutirete neanche una volta.»
Claudia Hardcastle rispose che sarebbe stato stupendo.
«I cammelli mi fanno star peggio dei cavalli» disse. «L'anno scorso sono andata in Egitto... E le lacrime che ho versato vicino alle Piramidi!»
Ellie disse che certa gente, invece, non poteva avvicinarsi ai gatti. «E ai cuscini.»
Continuarono a parlare di allergia.
Io ero seduto vicino alla signora Phillpot, che era alta e magra, e parlava esclusivamente dei suoi malanni, tra una cucchiaiata e l'altra. Mi mise al corrente di tutti i disturbi di cui soffriva e mi spiegò che molti eminenti rappresentanti della classe medica inglese erano rimasti perplessi di fronte al suo caso. Di tanto in tanto, però, faceva delle diversioni sociali. A un certo punto, mi chiese che cosa facevo per vivere. Aggirai la domanda, imbarazzato, e lei cercò di scoprire chi conoscevo. Avrei potuto rispondere sinceramente: "Nessuno", ma mi trattenni perché la signora Phillpot non era una snob e aveva formulato la domanda più per dimostrarmi che s'interessava a me che per sapere veramente chi frequentavo. La signora Corgi, della quale non avevo afferrato il nome di battesimo, fu più diretta e più insistente nelle sue domande, ma io la distrassi mettendomi a parlare della crudeltà e dell'ignoranza dei veterinari! Fu una giornata molto tranquilla e piacevole, nel suo complesso, anche se piuttosto noiosa.
Più tardi, mentre passeggiavamo per il giardino, Claudia Hardcastle si avvicinò a me.
Disse, piuttosto bruscamente: «Ho sentito parlare di voi... Da mio fratello».
Rimasi sorpreso. Non mi sembrava possibile di aver conosciuto il fratello di Claudia Hardcastle.
«Ne siete certa?» chiesi.
Parve divertita.
«Credo proprio di sì» rispose. «Guarda caso, è stato lui a costruire la vostra casa.»
«Intendete dire che Santonix è vostro fratello?»
«Fratellastro. Non lo conosco molto bene. Ci vediamo di rado.»
«È un uomo meraviglioso.»
«Sì, molti lo considerano tale.»
«E voi no?»
«Non lo so. Esistono due individui, in lui. A un certo punto della sua vita cominciò a comportarsi piuttosto male e nessuno voleva avere a che fare con lui. E poi... poi è cambiato. Ha cominciato ad avere successo nella sua professione. Un grosso successo. Era come...» fece una pausa. «Come se avesse avuto un'ispirazione improvvisa.»
«Infatti è un uomo ispirato.»
A questo punto le chiesi se aveva visto la nostra casa.
«No... O almeno, non l'ho vista finita.»
Le dissi di venire a trovarci.
«Non mi piacerà, vi avverto. Le case moderne non mi piacciono. Il mio periodo preferito è il Queen Anne.»
Poi disse che avrebbe presentato Ellie al circolo del golf. Non solo, avrebbero fatto delle lunghe cavalcate insieme. Ellie avrebbe comprato un cavallo, forse due. Erano veramente diventate amiche.
Phillpot volle mostrarmi le scuderie, e mentre giravamo tra i cavalli mi parlò di Claudia.
«Ottima cavallerizza» disse. «Peccato che si sia rovinata la vita.»
«Davvero?»
«Sposò un uomo molto ricco e più vecchio di lei. Un americano, un certo Lloyd. Ma il matrimonio fallì quasi subito. Lei riprese il suo nome di ragazza. Non credo che si sposerà più. Ormai ha l'allergia anche agli uomini. Peccato.»
Mentre tornavamo a casa, Ellie disse: «Noiosi... ma simpatici. Brava gente. Saremo felici, qui. Vero, Mike?».
Risposi: «Lo siamo già.» Tolsi una mano dal volante e l'appoggiai sulla sua.
Quando arrivammo a casa, lasciai Ellie di fronte all'ingresso e andai a portare la macchina in garage.
Quando tornai indietro, sentii il suono soffocato della chitarra di Ellie. Ellie aveva una bellissima vecchia chitarra spagnola che doveva esserle costata una fortuna, e si accompagnava spesso, mentre cantava con voce calda, appena sussurrata. Era bello ascoltarla. Non conoscevo quasi nessuna delle canzoni che cantava. Per la maggior parte dovevano essere "spirituals" americani, e alcune ballate scozzesi e irlandesi, dolci e molto tristi. Niente musica jazz o roba del genere. Solo canti popolari.
Salii sulla terrazza e mi fermai davanti alla porta-finestra prima di entrare. I
Ellie stava cantando una delle canzoni che preferivo. Non so come s'intitolasse. Sussurrava le parole tra sé, piano, con la testa china sulla chitarra e le dita che pizzicavano delicatamente le corde. Era una melodia dolcissima e molto triste.
Molte gioie e molli affanni
sono all'uomo destinati
attraverso tutti gli anni...
Ogni giorno, a tutte l'ore
nasce un uomo che al dolore,
al dolore è destinato.
Ogni giorno, a tutte l'ore
nasce un uomo che al fulgore
della gioia è destinato.
Nasce un uomo a tutte l'ore
per la gioia o il dolore...
Ellie alzò lo sguardo e mi vide. «Perché mi guardi a quel modo, Mike?»
«Come ti guardo?»
«Mi guardi come se mi amassi...»
«Certo che ti amo. Come altro vuoi che ti guardi?»
«Ma che cosa stavi pensando?»
«Pensavo alla prima volta che ti ho vista... sotto l'abete.» Sì, ricordavo la prima volta che l'avevo vista, tutta la sorpresa e l'eccitazione che avevo provato...
Ellie sorrise e cantò dolcemente:
Nasce un uomo a tutte l'ore
per la gioia o il dolore.
Nella vita, i momenti veramente importanti si riconoscono solo quando è troppo tardi.
Quel giorno, quando tornammo a casa dopo la colazione di Phillpot, colmi di felicità, fu uno di quei momenti. Ma non lo riconobbi... Me ne resi conto solo più tardi.
Dissi: «Canta la canzone dell'uccellino».
Ellie passò a un motivetto allegro, pizzicando le corde in modo ritmato, e cantò:
Uccellino melodioso
mentre stavi appollaiato
su quell'albero frondoso
a cantare a perdifiato
è arrivato un cacciatore
ed il cuor ti ha trapassato.
Anch'io canto, danzo e rido
senza un minimo di affanno
nella sorte mia confido
danzo e rido tutto l'anno,
finché un giorno non lontano
il mio cuore spaccheranno.
Uccellino melodioso
ci convien quindi cantare
perché in fondo solo morte
ci è assegnata come sorte...
«Oh, Ellie, Ellie...»
15
È sbalorditivo come a questo mondo le cose non vadano mai come ci si aspetta!
Ci eravamo trasferiti nella nostra nuova casa, vivevamo là da soli, lontani da tutti, proprio come avevo deciso e progettato.
Solo che non eravamo per niente lontani da tutti. La vita degli altri si intersecava ugualmente nella nostra, anche attraverso l'oceano.
Prima di tutto, c'era quella maledetta matrigna di Ellie. Continuava a mandare lettere e telegrammi, pregando Ellie di mettersi in contatto con questo o con quell'agente immobiliare. Affermava di essere rimasta tanto affascinata dalla nostra casa da non poter più fare a meno di costruirsene una anche lei in Inghilterra. Voleva una casa per poter trascorrere almeno un paio di mesi all'anno dalle nostre parti! Subito dopo l'ultimo telegramma, poi, spuntò lei in persona, e noi fummo costretti a scarrozzarla nei dintorni alla ricerca di un terreno che le piacesse. Finalmente, si decise e scelse una casa già costruita. Una casa che distava dalla nostra solo venti chilometri. Non la volevamo tanto vicina, l'idea ci faceva venire la pelle d'oca... ma non osammo dirglielo. Tanto più che anche se gliel'avessimo detto, lei se ne sarebbe infischiata e avrebbe comprato ugualmente la casa che la interessava. Non potevamo certo "ordinarle" di non venire, anche se Ellie era addirittura sconvolta dal pensiero di averla per i piedi. Comunque, prima che il contratto d'acquisto fosse pronto per la firma, arrivò un ennesimo telegramma.
A quanto sembrava, zio Frank si era cacciato in qualche guaio. Una faccenda illegale, così mi parve di capire, e per tirarlo fuori ci voleva un bel mucchio di quattrini. Cominciò un andirivieni di telegrammi tra Lippincott ed Ellie, e viceversa. Subito dopo, accadde qualcosa tra Lippincott e Lloyd: una discussione piuttosto accesa a proposito di un investimento per conto di Ellie. Nella mia ignoranza, avevo pensato che gli Stati Uniti fossero lontani, molto lontani. Né mi era passato per la mente che per i parenti e gli amici di Ellie, prendere un aereo e fare un salto in Inghilterra era una cosa da nulla. Prima arrivò Stanford Lloyd. Poi, appena partito lui, spuntò Andrew Lippincott.
Ellie dovette andare a Londra a prenderli all'aeroporto. Io non ho mai avuto molto intuito per le questioni finanziarie, ma mi parve di capire che la discussione era scoppiata a proposito di un investimento, ma poi era degenerata. Tutti parlarono con molta prudenza, ma prima della fine mi resi conto che Lippincott accusava Lloyd di voler rimandare la presentazione dei conti a Ellie, e Lloyd accusava Lippincott di impedirgli di lavorare con tranquillità e di intralciarlo nella preparazione di questi stessi conti.
Tra una discussione e l'altra, Ellie e io scoprimmo il nostro "gazebo". Ancora non avevamo esplorato tutta la nostra proprietà, ma solo la parte più vicina alla casa. In genere, imboccavamo un sentiero e cercavamo di vedere dove conduceva. Un giorno infilammo un viottolo tra i boschi: era tanto coperto di erba che quasi non riuscivamo a rintracciarlo. Bene o male, comunque, lo seguimmo fino in fondo, e fu allora che Ellie vide per la prima volta quello che definì un "gazebo": una specie di tempietto di legno dipinto di bianco. Era ancora in buone condizioni, perciò lo facemmo rinfrescare con una mano di vernice, ci mettemmo dentro delle poltrone e un divanetto di vimini, un tavolino e un armadietto pieno di bottiglie. Era molto divertente. Ellie avrebbe voluto far ripulire il viottolo, in modo che fosse più facile raggiungere il "gazebo", ma io mi opposi. Dissi che sarebbe stato molto più bello se solo noi due avessimo saputo dell'esistenza del "gazebo". Ellie la considerò un'idea romantica e acconsentì.
«Non vorrai che ci venga anche Cora, spero!» esclamai. Ellie rise, scuotendo la testa.
In seguito, quando Cora se ne fu andata, salimmo di nuovo fino al "gazebo", e durante il ritorno Ellie che correva allegramente davanti a me, slittando sugli aghi di pino, inciampò contro un tronco caduto e si slogò una caviglia.
Chiamammo subito il dottor Shaw; disse che si trattava di una brutta slogatura, ma che se Ellie si fosse riguardata si sarebbe potuta alzare nel giro di una settimana. A questo punto Ellie decise di chiamare Greta. E io non potei oppormi. Non c'era nessuno, in casa, che potesse prendersi veramente cura di lei. La servitù era formata da persone del tutto incapaci di agire di testa loro. E poi, Ellie voleva Greta. E così Greta arrivò.
Arrivò e naturalmente fu una vera benedizione, per Ellie. Da un certo punto di vista lo fu anche per me. Prese in mano le redini della casa e organizzò tutto nel migliore dei modi. La servitù aveva già dato le dimissioni, con la scusa della solitudine della casa. Ma sono ancor oggi convinto che erano rimasti sconvolti da Cora. Greta mise un'inserzione su un giornale e trovò quasi subito una coppia di domestici. In quanto a lei, si occupò quasi esclusivamente di Ellie, le curò la caviglia, le raccontò barzellette, le comprò il tipo di libri che preferiva, la frutta di cui sapeva che andava matta e via discorrendo... Tutte cose delle quali io non sapevo assolutamente niente. Ellie e Greta sembravano felici, insieme. Ellie era senza dubbio contenta di avere Greta in casa. E, non so come, Greta non se ne andò più... Ellie mi disse: «Non ti dispiace, vero, se Greta si ferma per un po'?».
Risposi: «No. Neanche un po'».
«È così bello averla qui! Ci sono delle cose che si possono fare solo tra donne. A lungo andare, ci si annoia, senza un'amica.»
Giorno per giorno, Greta s'imponeva sempre di più: dava ordini, organizzava l'andamento della casa, guidava i domestici. Finsi di essere contento di averla con noi ma, un giorno, mentre Ellie era sdraiata sul divano col piede appoggiato a un cuscino, e io e Greta eravamo fuori, sulla terrazza, persi le staffe. Non ricordo con esattezza come cominciò. Greta disse qualcosa che mi irritò e io risposi sgarbatamente. Andammo avanti a dircene di tutti i colori per dieci minuti buoni. Alzammo la voce. Greta non mi risparmiò i colpi bassi, e io ricambiai con molto calore. Le dissi che era autoritaria, invadente, che aveva troppa influenza su Ellie, che non le avrei permesso di fare la padrona con mia moglie. Stavamo urlando, quando Ellie usci improvvisamente sulla terrazza. Ci guardò con aria addolorata.
«Scusami, tesoro» dissi. «Scusami.»
L'accompagnai in casa e l'aiutai a riadagiarsi sul divano. Lei disse: «Non mi ero resa conto... Non mi ero resa conto che tu soffrissi tanto ad avere Greta qui».
Cercai di tranquillizzarla, le dissi che non doveva badare a quello che era successo, che avevo perso semplicemente le staffe e che non sarebbe più accaduto. Le spiegai che mi dava fastidio l'atteggiamento autoritario di Greta e ammisi di essere stato un po' troppo sgarbato. Alla fine, conclusi dicendo che Greta mi era molto simpatica e che la colpa era stata tutta del mio caratteraccio. Sta di fatto che dovetti pregare Greta di restare.
La nostra discussione era stata tanto accesa che l'avevano sentita senza dubbio anche i domestici. Quando mi arrabbio, alzo sempre la voce. Quella volta, poi, l'avevo alzata anche più del solito.
Greta sembrava preoccuparsi molto della salute di Ellie, e continuava a consigliarle di riposarsi, di non fare questo o quello.
«Non è molto forte» mi disse una volta.
«Ellie sta benissimo» risposi. «È sana come un pesce.»
«No, Mike, non è vero. È molto delicata.»
Quando venne il dottor Shaw, Ellie era ormai guarita. La caviglia era tornata normale, ma il dottore consigliò a Ellie di non stancarsi troppo e, soprattutto, di non camminare su terreno irregolare, almeno per un po'. Approfittai dell'occasione per chiedere al medico, col solito tono dei mariti preoccupati:
«Ellie sta bene, vero, dottore? Non è delicata, voglio dire.»
«Chi dice che è delicata?» Il dottor Shaw era un medico all'antica, di quelli che il più delle volte preferiscono "lasciar fare alla Natura". «A quanto mi risulta, sta benone. Può capitare a chiunque di slogarsi una caviglia.»
«Non parlavo della caviglia. Temevo che avesse il cuore debole, o qualcosa del genere.»
Mi guardò di sopra il bordo degli occhiali. «Non fatevi venire in testa certe cose, giovanotto. Com'è che avete pensato una sciocchezza simile? Non mi sembrate il tipo che si preoccupa inutilmente.»
«È stata la signorina Andersen a mettermelo in mente.»
«Ah. La signorina Andersen. Che cosa volete che ne sappia? È forse laureata in medicina?»
«Oh, no» risposi.
«Vostra moglie è una donna molto ricca» esclamò il medico. «Almeno a quanto dice la gente. Ma spesso gli inglesi sono portati a credere che tutti gli americani siano ricchi.»
«Mia moglie lo è veramente.»
«Be', allora ricordatevi una cosa. Le donne ricche sono le meno fortunate, coi medici. Il più delle volte, i miei colleghi le imbottiscono di pastiglie inutili, tanto per farsi pagare la parcella. Eccitanti, tranquillanti, sonniferi, e chi più ne ha più ne metta. Tutte cose che possono fare solo male. Le donne povere sono molto più sane, perché nessuno si preoccupa della loro salute a questo modo.»
«Infatti, mia moglie prende delle pillole.»
«Se volete, le faccio una visita di controllo. Se non altro per scoprire che cosa diavolo la costringono a ingurgitare. Spesso, sono costretto a dire alla gente: "Buttate via quelle medicine e andate a fare una passeggiata, piuttosto".»
Prima di andarsene, parlò con Greta.
«Il signor Rogers mi ha chiesto di visitare sua moglie. La signora sta benissimo. L'unica cosa che le consiglio è un po' di movimento all'aria aperta. Che medicine ha preso, fino a oggi?»
«Delle pastiglie quando è stanca, e delle pillole quando non riesce a dormire.»
Greta e il dottor Shaw andarono a prendere le bottigliette delle pastiglie di Ellie.
Ellie abbozzò un sorriso.
«Dottor Shaw» disse «non crediate che prenda tutta quella roba. Prendo solo le capsule contro l'allergia.»
Il dottor Shaw esaminò le capsule, lesse il foglietto allegato e disse che poteva prenderle tranquillamente. Poi studiò le pillole contro l'insonnia.
«Non riuscite a dormire?» chiese.
«Da quando abito in campagna dormo benissimo. Non ho più preso una sola pillola.»
«Brava. Meglio così» le batté la mano sulla spalla. «State benissimo, signora Rogers. A volte vi preoccupate un po' troppo per delle sciocchezze, ma niente di più. Le capsule contro l'allergia sono piuttosto leggere. C'è un sacco di gente che le prende, ormai, non hanno mai fatto male a nessuno. Lasciate perdere il sonnifero, invece.»
«Non so perché mi sono preoccupato tanto» mi scusai con Ellie. «Dev'essere stato quello che ha detto Greta.»
«Oh!» Ellie scoppiò in una risata. «Greta continua a preoccuparsi per la mia salute, ma per la sua non fa mai niente.» Rise di nuovo. «Ma da oggi comincerò una nuova vita, Mike, e butterò via tutte queste porcherie.»
Ormai Ellie aveva fatto amicizia con quasi tutti i nostri vicini. Claudia Hardcastle veniva a trovarla molto spesso e la portava a cavalcare con lei. Io non sapevo cavalcare, invece. Per tutta la vita mi ero occupato solo di macchine e di motori. Non me ne intendevo un accidenti di cavalli, nonostante avessi fatto lo stalliere per un paio di settimane, anni prima. Comunque, decisi che un giorno o l'altro sarei andato a Londra a fissare delle lezioni di equitazione. Volevo imparare a cavalcare. Non potevo restarmene sempre a casa, quando gli altri se ne andavano in giro per i boschi. Prima o poi avrebbero riso di me. Ellie si divertiva un mondo, quando andava a cavallo. E io ne ero più che soddisfatto.
Greta la incoraggiava a cavalcare, malgrado neanche lei sapesse reggersi in sella.
Ellie e Claudia andarono al mercato di Londra e, su consiglio di Claudia, Ellie comprò un baio che si chiamava Conquistatore. Pregai Ellie di stare attenta, quando cavalcava da sola, ma lei scoppiò in una risata.
«So stare in sella da quando avevo tre anni» disse.
E così, Ellie prese l'abitudine di cavalcare almeno due o tre volte alla settimana. Greta, invece, andava spesso a Market Chadwell in macchina, a fare spese.
Un giorno, a colazione, Greta disse: «Voi e le vostre zingare! Stamattina ho incontrato una vecchia orribile. S'era piazzata in mezzo alla strada e per poco non l'ho investita. Ho dovuto sterzare di colpo. Per giunta, ero in salita».
«Che cosa voleva?» chiesi.
Ellie ci ascoltò in silenzio, ma mi parve che fosse preoccupata.
«Accidenti a lei, mi ha minacciata!» disse Greta.
«Minacciata?» esclamai, con voce dura.
«Sì. Mi ha detto di andarmene di qui. Ha detto: "Questa terra è degli zingari. Andatevene al vostro paese, se non volete correre rischi". Poi ha alzato il pugno e me l'ha scosso sotto il naso, urlando: "Se ti maledico, non avrai più pace. Avete osato comprare la nostra terra e costruirci sopra una nuova casa! Non vogliamo case dove dovrebbero sorgere le tende della nostra gente!".»
Greta andò avanti per un pezzo. Più tardi, Ellie mi disse: «Una storia quasi incredibile. Vero, Mike?».
«Secondo me, Greta ha calcato un po' la mano.»
«Una storia che faceva acqua da tutte le parti... Forse Greta si è divertita a esagerare.»
«Ma perché avrebbe dovuto esagerare?» Poi, bruscamente, chiesi: «In questi ultimi tempi hai visto la vecchia Esther Lee per caso? Magari quando eri in giro a cavalcare?»
«La zingara? No.»
«Non ne sembri troppo sicura.»
«Mi sembra di averla intravista» ammise Ellie. «Sai, nascosta tra gli alberi. Ma non si è mai avvicinata tanto da poterla riconoscere.»
Ma un giorno, Ellie tornò dalla cavalcata col viso pallido e le mani tremanti. La vecchia era sbucata dal bosco, ed Ellie aveva fermato il cavallo per parlare. Quella aveva scosso il pugno, borbottando qualcosa tra sé. Ellie mi disse: «A questo punto mi sono arrabbiata e le ho gridato: "Che cosa volete? Questa terra non vi appartiene! È nostra"».
La vecchia aveva risposto: "Questa terra non è vostra e non vi apparterrà mai. Vi ho avvertita una volta e vi avverto la seconda. Non vi avvertirò più. Non manca molto, ormai... Vedo la morte. È là, dietro di voi, si affaccia di sopra la vostra spalla sinistra. Il vostro cavallo ha una zampa bianca. Non lo sapete che porta sfortuna cavalcare un cavallo con una zampa bianca? Vedo la morte e vedo la grande casa che avete costruito cadere in rovina!".
«Dobbiamo farla smettere, quella vecchia pazza!» gridai.
Questa volta Ellie non rise. Tanto lei quanto Greta sembravano sconvolte. Andai diritto in paese. Prima passai dalla villetta della signora Lee, ma era chiusa. Allora proseguii fino alla stazione di polizia. Conoscevo il sergente Keene: era un omaccione massiccio e tranquillo. Mi ascoltò in silenzio, poi disse: «Mi dispiace che abbiate tutti questi fastidi. La signora Lee è vecchia, e a volte sa essere molto fastidiosa. Fino a oggi, però, non ci ha mai creato dei fastidi. Andrò a parlare con lei e le dirò di farla finita».
«Ve ne sarò molto grato» dissi.
Esitò per un attimo, poi mormorò: «Non mi piace dare consigli, in genere, ma... Signor Rogers, vi risulta per caso che ci sia qualcuno, nei dintorni, che possa avercela con voi o con vostra moglie? Magari per uno stupido malinteso?».
«Credo proprio di no. Perché?»
«In questi ultimi tempi la signora Lee è piena di quattrini... Chissà di dove vengono.»
«Che cosa intendete dire?»
«Può darsi che sia pagata da qualcuno... Da qualcuno che vuole costringervi a fuggire di qui. Molti anni fa vi fu un incidente. La signora Lee accettò del denaro da un tizio del paese, per spaventare un vicino e costringerlo ad andarsene. Usò gli stessi mezzi... Minacce, avvertimenti, apparizioni improvvise... La gente di paese è superstiziosa. Esistono innumerevoli paesi, in Inghilterra, che hanno una loro "strega privata". Comunque, da allora, la signora Lee non ha più tentato niente del genere, anche perché fu severamente ripresa. Ma va matta per il denaro... Tutti gli zingari, del resto, amano il denaro.»
Non potevo accettare la sua ipotesi. Feci presente che io ed Ellie eravamo appena arrivati nella zona e non potevamo avere nemici. «Non abbiamo avuto il tempo di inimicarci nessuno.»
Tornai a casa perplesso e preoccupato. Quando svoltai all'angolo della terrazza mi giunse il dolce suono della chitarra di Ellie, e un'alta figura che fino a quel momento era rimasta a guardare dentro, attraverso la porta-finestra, si girò di scatto e venne verso di me. Per un attimo pensai che fosse la zingara, poi mi rilassai, riconoscendo Santonix.
«Oh» esclamai con un sussulto. «Siete voi! Di dove sbucate? Sono secoli che non vi fate vivo.»
Non mi rispose direttamente. Mi prese per il braccio e mi portò vicino alla porta-finestra.
«E così, è arrivata!» disse. «Non mi meraviglia. Lo sapevo che prima o poi sarebbe venuta. Perché gliel'hai permesso? È pericolosa. Dovresti saperlo.»
«Parlate di Ellie?» chiesi incredulo.
«No, non di Ellie. Dell'altra! Come si chiama? Greta.»
Lo fissai con gli occhi sbarrati.
«Lo sapete, sì o no, com'è fatta quella? È venuta vero? Ha preso possesso della casa! Non ve ne libererete più ora. È venuta per restare!»
«Ellie si è slogata una caviglia» spiegai «e Greta è venuta per occuparsi di lei. Credo... spero che se ne vada presto.»
«Non t'illudere. Ha sempre avuto intenzione di piazzarsi qui. Lo sapevo. L'ho giudicata subito, lo stesso giorno in cui venne a vedere la casa, quando ancora la stavo costruendo.»
«Ellie sembrava contenta di averla qui» borbottai.
«Certo. Hanno vissuto insieme per anni, no? Greta sa benissimo come prendere Ellie.»
Era la stessa cosa che aveva detto Lippincott. E in questi ultimi tempi l'avevo visto coi miei occhi quanto era vero.
«Tu non vuoi che stia qui, Mike?»
«Non posso cacciarla di casa» dissi, irritato. «È una vecchia amica di Ellie. La sua migliore amica. Che cosa diavolo posso farci?»
«No» rispose Santonix. «Non puoi farci niente. Vero?»
Mi guardò. Nei suoi occhi c'era un'espressione stranissima. Ma d'altra parte Santonix era un uomo strano. Non si riusciva mai a capire il vero significato delle sue parole.
«Sai dove stai andando, Mike?» chiese. «Ne hai idea? A volte, penso che tu non lo sappia.»
«Certo che lo so» risposi. «Faccio quello che voglio e vado esattamente dove volevo.»
«Davvero? Chissà. Chissà se ti rendi conto di quello che realmente desideri. Ho paura per te, con Greta. È più forte di te, lo sai?»
«Non capisco perché mettete la cosa in questi termini. Non è questione di forza.»
«No? Io credo di si. Greta è una donna granitica, di quelle che ottengono sempre quello che vogliono. Tu non volevi che venisse qui. Così avevi detto, no? Ma è venuta ugualmente, e ora si è installata in casa. Le ho osservate, lei ed Ellie, insieme. Chiacchierano, si divertono, hanno confidenza l'una con l'altra. E tu che cosa sei, Mike? Che cosa sei diventato? L'estraneo? Oppure no? Oppure no, Mike?»
«Ogni tanto dite delle cose assurde! Che cosa significa chiedermi se sono un estraneo? Sono il marito di Ellie, o mi sbaglio?»
«Sei "tu" il marito di Ellie, o Ellie è "tua" moglie?»
«Siete matto. Che differenza c'è?»
Sospirò. All'improvviso, le sue spalle si abbassarono, come se avessero perso tutta la forza che le sosteneva.
«Non riesco a raggiungerti» disse Santonix. «Non riesco a farmi sentire da te. Non riesco a farmi capire. A volte mi sembra che tu capisca, a volte invece ho la sensazione che tu non conosca né te stesso né le persone che ti circondano.»
«Sentite, Santonix. Sono disposto a tollerare molto, da voi. Siete un architetto stupendo. Ma...»
Il suo viso mutò espressione, all'improvviso, come accadeva spesso.
«Sì, sono un buon architetto. Questa casa è la cosa più bella che io abbia mai costruito. Sono molto soddisfatto del mio lavoro. Ed Ellie voleva una casa come questa, per viverci con te. Ora avete la casa che sognavate. Manda via quella donna, Mike, prima che sia troppo tardi.»
«Come faccio a mandarla via senza irritare Ellie?»
«Quella donna ti porterà dove vuole» disse lui.
«Sentite, Santonix. Greta non mi piace, mi dà ai nervi. L'altro giorno ho avuto una discussione molto animata con lei. Ma la cosa non è semplice come pensate.»
«No. Non può essere semplice, con lei qui» rispose Santonix.
«Chi ha chiamato questo posto Campo degli Zingari e ha detto che è maledetto aveva ragione» esclamai, fuori di me. «C'è perfino una zingara che sbuca dal bosco, agitando il pugno e urlando che se non ce ne andiamo ci accadrà qualcosa di orribile. E pensare che questo posto dovrebbe essere fatto solo di bontà e di bellezza!»
Strane parole, queste ultime. Le dissi come se fosse stato qualcun altro a parlare per me.
«Sì, dovrebbe essere così» disse Santonix. «Dovrebbe. Ma non può esserlo finché c'è una forza maligna che lo possiede.»
«Non crederete mica a tutte quelle...»
«Io credo in molte cose strane... io so che cos'è il male. Non hai mai pensato, non ti sei mai reso conto che io sono composto in parte di male? Lo sono sempre stato. Per questo lo riconosco, quando mi è vicino. Anche se a volte non riesco a capire esattamente dove si trova... Voglio che la casa che ho costruito venga liberata dal male! Hai capito?» Il suo tono era minaccioso. «Hai capito? Per me ha molta importanza.»
Poi cambiò completamente atteggiamento.
«Andiamo» disse. «Finiamola con tutte queste sciocchezze. Andiamo a salutare Ellie.»
E così superammo la porta-finestra, ed Ellie salutò Santonix con enorme piacere.
Quella sera, Santonix si comportò in modo del tutto normale, senza più istrionismi né atteggiamenti incomprensibili. Fu il solito Santonix sereno e affascinante. Parlò soprattutto con Greta, destinando quasi esclusivamente a lei la sua sapiente conversazione. Chiunque avrebbe giurato che Santonix provava molta simpatia per lei, che era ansioso di piacerle. E per questo sfoderava tutto il suo fascino, che era veramente molto. Mi resi chiaramente conto che era un uomo pericoloso, con dei risvolti che non avevo mai neppure intuito.
Greta era molto sensibile all'ammirazione, e quella sera cercò di brillare più del solito. Era molto abile nello smorzare la sua bellezza quando le faceva comodo, oppure nel renderla addirittura abbagliante. E per Santonix si esibì al suo meglio, sorridendo e ascoltandolo rapita. Non l'avevo mai vista così bella.
Mi chiesi che cosa si nascondesse dietro l'atteggiamento di Santonix. Con lui non si andava mai sul sicuro. Ellie disse che sperava che si fermasse con noi per qualche giorno, ma lui scosse la testa. Doveva ripartire l'indomani.
«State costruendo una nuova casa? Siete occupato?»
Santonix scosse di nuovo la testa. No, era stato appena dimesso dall'ospedale.
«Mi hanno rappezzato di nuovo in qualche modo» spiegò. «Ma probabilmente per l'ultima volta.»
«Rappezzato? Che cosa vi hanno fatto?»
«Mi hanno cambiato il sangue malato con sangue buono. Bel sangue giovane, rosso.»
«Oh!» esclamò Ellie, rabbrividendo leggermente.
«Non preoccupatevi» disse Santonix. «A voi non potrà mai accadere.»
«Ma perché deve accadere a voi?» fece Ellie. «È una cosa terribile.»
«Terribile? Non tanto, direi. Che cosa cantavate, poco fa?»
«"Nasce un uomo che al dolore, al dolore è destinato..."»
«Io so di essere destinato al dolore, perciò ho trovato una sorta di rassegnazione. E per voi, Ellie:
"Ogni giorno, a tutte l'ore nasce un uomo che al fulgore della gioia è destinato..."
«Questa strofa sembra fatta per voi.»
«Mi accontenterei di sentirmi al sicuro.»
«Perché, non vi sentite al sicuro?»
«Non mi piace essere minacciata» disse Ellie. «Non mi piace che mi si maledica!»
«Parlate della zingara?»
«Sì.»
«Non ci pensate» la esortò Santonix. «Almeno per stasera. Cerchiamo di essere felici. Ellie... alla vostra salute... lunga vita felice a voi, e una morte veloce e indolore a me... E buona fortuna al nostro Mike...» S'interruppe, col bicchiere alzato verso Greta.
«Sì?» chiese Greta. «E a me?»
«E a voi quello che meritate. Successo, forse?» Lo disse con voce soave, quasi ironica.
Santonix ripartì la mattina dopo di buon'ora.
«Che strano uomo» disse Ellie. «Non l'ho mai capito.»
«Anche io non ho mai capito neppure la metà di quello che dice» aggiunsi io.
«Sa molte cose» mormorò Ellie, soprappensiero.
«Intendi dire che conosce il futuro?»
«No, non intendevo questo. Conosce la gente. Te l'ho già detto, ricordi? Conosce la gente più di quanto la gente non conosca se stessa. Per questo, a volte, detesta le persone che lo circondano, altre prova pietà per loro. Per me, però, non prova pietà.»
«E perché dovrebbe?» chiesi.
«Oh, perché...» fece Ellie. E s'interruppe.
16
Il pomeriggio del giorno dopo stavo camminando a passo sostenuto nella parte più buia del bosco, dove l'ombra dei pini era più minacciosa che altrove, quando vidi una donna alta, in mezzo al viottolo. Feci un balzo in avanti, convinto che fosse la zingara, ma quando mi resi conto di chi era, in realtà mi tirai indietro, d'impulso. Era mia madre. Se ne stava immobile, alta, accigliata, coi capelli grigi ravviati.
«Santo cielo!» esclamai. «Mi hai spaventato, mamma. Che fai, qui? Sei venuta a trovarci? Finalmente! Ti abbiamo invitato tante di quelle volte...»
Non era vero. Le avevo mandato un invito a dir poco freddo, e nient'altro. Avevo cercato le frasi attentamente, in modo da essere sicuro che la mamma non avrebbe accettato. Non la volevo a Campo degli Zingari. Non avevo mai voluto che venisse.
«Già» fece lei. «Finalmente sono venuta a trovarvi. A vedere se va tutto bene. E così, questa è la casa grandiosa che hai costruito. È veramente grandiosa.» Guardò oltre le mie spalle.
Mi parve di sentire nella sua voce il tono di acida disapprovazione che mi ero aspettato di trovarci.
«Troppo grandiosa per uno come me, vero?» chiesi.
«Non ho detto questo, figliolo.»
«Ma l'hai pensato.»
«Non sei certo stato allevato in una casa come quella, e allontanarsi troppo dalle proprie origini non ha mai portato fortuna a nessuno.»
«Se tutti dessero retta a te, nessuno salirebbe mai, nella vita.»
«Sì, lo so come la pensi, ma l'ambizione non ha mai fatto del bene a nessuno. Produce solo frutti marci, che avvelenano il sangue.»
«Oh, piantala di fare l'uccello del malaugurio. Vieni a vedere la mia grandiosa casa, piuttosto. Te la mostrerò centimetro per centimetro, e torci pure il naso quanto vuoi. Ti presenterò anche la mia grandiosa moglie, e provati a torcere il naso anche di fronte a lei, se hai il coraggio.»
«Tua moglie? La conosco già.»
«La conosci? Che stai dicendo, mamma?»
«Non te l'ha detto, eh?»
«Che cosa?» chiesi.
«Che è venuta a trovarmi.»
«È venuta a trovarti!» esclamai. Ero pietrificato.
«Sì. Un giorno suonano alla porta, vado ad aprire e me la trovo là, sulla soglia. Era un po' spaventata. Bella bambina, e anche tanto buona, malgrado i vestiti di lusso che porta addosso. Mi dice: "Siete la madre di Mike, vero?". E io: "Sì. E voi chi siete?". "Sono sua moglie". E poi aggiunge: "Dovevo venire a trovarvi. Non mi sembrava giusto non conoscere la madre di Mike...". E io: "Scommetto che Mike non voleva che veniste". Lei esita, perciò faccio: "Non c'è bisogno che lo ammettiate. Conosco il mio ragazzo. So che cosa vuole e che cosa non vuole". E lei: "Forse pensate che Mike si vergogni di voi perché siete povera... Ma non è così. Non gliene importa niente se voi siete povera e io sono ricca. Non si tratta di questo. Vi assicuro che non si tratta di questo". E allora io le dico: "Non c'è bisogno che me lo diciate voi, bambina. Conosco i difetti del mio ragazzo. E so che non si vergogna di sua madre, così come non si vergogna delle sue origini". E aggiungo: "Non si vergogna di me, bambina. Ha paura di me. Perché lo conosco bene". Questo sembra divertirla. Dice: "Tutte le madri pensano di conoscere tutto dei loro figli. E i figli si sentono imbarazzati per questo!"»
Feci per interromperla, ma lei continuò: «Le ho risposto che in un certo senso aveva ragione. Quando si è giovani, si preferisce fingere di essere diversi da quello che si è in realtà. Ricordo che quand'ero piccola, in casa di mia zia, sulla parete sopra il mio letto era appeso un quadro con in mezzo un grande occhio, e sotto la scritta: "Il tuo Dio ti vede". Mi faceva venire i brividi, ma fingevo sempre di...».
«Ellie avrebbe dovuto dirmelo che era venuta da te!» esclamai. Ero arrabbiato. Molto arrabbiato. Non avrei mai pensato che Ellie fosse capace di nascondermi qualcosa. «Non riesco a capire perché non me l'ha detto. Avrebbe dovuto parlarmene!»
«Forse aveva paura per quello che aveva fatto. Ma non dovrebbe avere paura di te, figliolo.»
«Vieni» dissi. «Vieni a vedere la nostra casa.»
Non so se la nostra casa le piacque o no. Credo di no. Si lasciò guidare in giro per le stanze, inarcò le sopracciglia senza parlare, poi mi seguì nel salotto che dava sulla terrazza. Ellie e Greta erano sedute in poltrona. Erano appena tornate da una passeggiata, e Greta aveva un mantello di lana rosso sulle spalle. Mia madre le fissò, restando immobile sulla soglia, come pietrificata. Ellie balzò in piedi e attraversò la stanza di corsa.
«La signora Rogers!» esclamò. Poi, voltandosi verso Greta: «È la mamma di Mike. È venuta a trovarci. Pensa che bellezza! La mia amica, Greta Andersen».
Tese le mani e strinse quelle della mamma. La mamma ricambiò la stretta, poi fissò Greta di sopra la spalla di Ellie.
«Capisco» mormorò tra sé. «Capisco.»
«Che cosa capite?» chiese Ellie.
«Mi ero chiesta come poteva essere la casa» disse la mamma. Si guardò attorno. «Sì, è proprio bella. Belle tende, bei mobili, bei quadri.»
«Bevete una tazza di tè?» chiese Ellie.
«Non vi disturbate. Vedo che voi avete già finito di berlo.»
«Il tè è una di quelle cose che non devono mai mancare, in una casa.» Si rivolse a Greta. «Greta, ti dispiace andare in cucina a prendere del tè fresco? Preferisco che te ne occupi personalmente.»
«Volentieri, tesoro» rispose Greta, e uscì dalla stanza dopo aver lanciato un'occhiata a mia madre. Un'occhiata quasi impaurita.
Mia madre si sedette.
«Dove sono i vostri bagagli?» chiese Ellie. «Spero che siate venuta per fermarvi qualche giorno.»
«No, bambina, non mi fermerò. Riprenderò il treno tra mezz'ora. Sono venuta solo per darvi un salutino.» Poi aggiunse in fretta, probabilmente per toglierselo dal gozzo prima del ritorno di Greta: «Non preoccupatevi più, piccola. Gliel'ho detto che siete venuta a trovarmi».
«Scusami se non te l'ho detto io stessa, Mike» esclamò Ellie, con voce ferma. «Ma ho pensato che fosse meglio che tu non lo sapessi.»
«È venuta, spinta dal suo buon cuore» dichiarò mia madre. «Hai sposato una brava ragazza, Mike. E anche bella. Sì, proprio bella.» Poi, tra sé, ma non tanto a bassa voce da non farsi sentire: «Mi dispiace».
«Vi dispiace?» chiese Ellie, perplessa.
«Mi dispiace di aver pensato le cose che ho pensato» spiegò mia madre. Poi aggiunse, un po' forzatamente: «Be', sapete come sono le madri. Sempre pronte a sospettare delle nuore. Ma quando vi ho vista, ho capito che mio figlio era stato fortunato. Mi sembrava troppo bello per essere vero, a essere sincera».
«Che impertinenza!» dissi. Ma feci un sorriso, mentre lo dicevo. «Ho sempre avuto buon gusto, io!»
«Hai sempre avuto il gusto delle cose costose, se è quello che intendi» ribatté lei, lanciando un'occhiata alle tende di broccato.
«In fondo, io non sono male, come cosa costosa, vero?» disse Ellie, sorridendole.
«Costringetelo a risparmiare, di tanto in tanto» disse mia madre. «Ne ha bisogno, per disciplinarsi il carattere.»
«Mi rifiuto di farmi cambiare il carattere» dichiarai. «Il vantaggio di prendere moglie è che la moglie considera perfetto tutto quello che facciamo. Vero, Ellie?»
Ellie era di nuovo allegra, ora. Rise, prima di rispondere:
«Mike, sei un pavone! Mai visto un uomo tanto presuntuoso!».
A questo punto tornò Greta con la teiera. Ci eravamo sentiti imbarazzati, fino a poco prima, e ora cominciavamo a sentirci a nostro agio. Ma il ritorno di Greta fece rinascere la tensione. Mia madre resistette a tutte le pressioni di Ellie per farla restare, e dopo un po' Ellie smise di insistere. Alla fine, io ed Ellie accompagnammo mia madre giù per il viale che si snodava tra gli alberi, fino al cancello.
«Come la chiamate?» chiese mia madre all'improvviso.
Ellie rispose: «Campo degli Zingari».
«Ah!» esclamò mia madre. «Ci sono degli zingari da queste parti, vero?»
«Come fai a saperlo?» chiesi.
«Ne ho vista una, quando sono arrivata. Aveva una faccia strana.»
«È una brava donna, in fondo» dissi. «Solo un po' matta.»
«Perché dici che è un po' matta? Mi ha guardata in un certo modo... Ce l'ha con voi per qualche ragione?»
«Non può avercela con noi» esclamò Ellie. «Ma si è messa in testa che ci siamo appropriati della sua terra, o roba del genere.»
«Vedrete che vorrà dei soldi» disse mia madre. «Le zingare sono tutte uguali. Sempre pronte a lamentarsi e a piangere per i torti ricevuti, ma appena vedono il luccichio dei quattrini smettono immediatamente.»
«Le zingare non vi piacciono, vero?» chiese Ellie.
«Sono tutte un branco di ladre. Non lavorano e non riescono a tenere le mani lontane dalla roba altrui.»
Ellie disse: «Ormai, però, non ci preoccupiamo più».
Mia madre ci salutò; poi chiese all'improvviso: «Chi è la ragazza che vive con voi?».
Ellie le spiegò che Greta aveva vissuto con lei prima del matrimonio e le disse che, se non fosse stato per Greta, la sua vita sarebbe stata un inferno.
«Greta ha fatto di tutto per aiutarci. È una donna meravigliosa» concluse Ellie. «Non saprei proprio come... come tirare avanti, senza di lei.»
«Vive con voi o è venuta semplicemente a trovarvi?»
«Be'...» Ellie evitò la domanda. «Vive con noi in questo periodo perché io mi ero slogata una caviglia e avevo bisogno di qualcuno che si occupasse di me. Ora, però, sto bene.»
«Le coppie di sposi stanno meglio da sole, soprattutto agli inizi» disse mia madre.
Restammo al cancello a guardare mia madre che scendeva la collina a passo deciso.
«Ha una personalità molto forte» disse Ellie, pensierosa.
Ero molto arrabbiato con lei. Arrabbiato perché aveva cercato mia madre, l'aveva trovata ed era andata a casa sua senza dirmi niente. Ma quando si voltò a guardarmi con un sopracciglio inarcato e un sorriso per metà timido e per metà interrogativo sul suo visetto infantile, non potei fare a meno di rilassarmi.
«Sei una piccola ipocrita» dissi.
«Be', a volte è necessario esserlo» rispose lei.
«Come in quell'opera di Shakespeare che rappresentarono una volta nella mia scuola» citai, quasi intimidito. «"Ha tradito suo padre e potrebbe tradire te".»
«Tu che parte facevi? Quella di Otello?»
«No» risposi. «Quella del padre della ragazza. È per questo che ricordo la frase, forse. Avevo ben poco d'altro da dire.»
«"Ha tradito suo padre e potrebbe tradire te"...» disse Ellie, pensierosa. «Io non ho tradito mio padre, a quanto mi risulta. Forse l'avrei tradito, però, se fosse vissuto.»
«Non credo che sarebbe stato molto soddisfatto del nostro matrimonio» dissi. «Così come non ne è stata soddisfatta la tua matrigna.»
«Hai ragione. Mio padre era piuttosto conformista, in fondo.» Poi emise di nuovo quella sua strana risatina infantile. «Perciò sarei stata costretta a fare come Desdemona: a tradire mio padre e a fuggire con te.»
«Perché ci tenevi tanto a conoscere mia madre, Ellie?» chiesi incuriosito.
«Più che a conoscerla, ci tenevo a dimostrarle che non la ignoravo. Tu non mi hai mai parlato molto di tua madre, ma credo che si sia sacrificata per non farti mancare niente. Deve aver lavorato come una schiava per toglierti dai guai, per farti studiare e per soddisfare tutti i tuoi desideri. E ho pensato che, se non fossi andata a trovarla, mi avrebbe considerato una stupida, altezzosa milionaria.»
«Tanto non sarebbe stata colpa tua, ma mia.»
«Sì» mormorò Ellie. «Forse capisco perché non volevi che andassi da lei.»
«Pensi che abbia un complesso d'inferiorità per mia madre? Non è vero, Ellie. Ti assicuro che non è vero. Non si tratta di questo.»
«No» disse lei, immersa in un suo pensiero. «Ora mi rendo conto che non era questo. Avevi paura che si mettesse a fare la madre.»
«A fare la madre? Non ti capisco.»
«È il tipo di donna che sa con esattezza quello che gli altri dovrebbero fare. Intendo dire, per te vorrebbe un certo tipo di lavoro, e...»
«Appunto» assentii. «Un lavoro sicuro. Una sistemazione a vita.»
«Non ha più importanza, ormai. Comunque, le idee di tua madre sono giuste. Ma non per te. Tu non accetteresti mai un lavoro tranquillo, monotono. Sei irrequieto. Ti piace viaggiare, conoscere gente, vedere il mondo...»
«Io voglio solo stare in questa casa con te.»
«Per un po', forse... E credo... Credo che desidererai sempre tornare qui. Così come lo desidererò io. Torneremo in questa casa una volta l'anno, e saremo più felici che mai. Ma tu vorrai anche viaggiare. Vorrai viaggiare, vedere il mondo e comprare un sacco di roba. E magari, nel frattempo, farai dei progetti per il giardino da costruire qui. Forse andremo a vedere i giardini italiani, i giardini giapponesi, e i parchi di tutto il mondo.»
«Con te, la vita è una cosa meravigliosa, Ellie» mormorai. «Scusami se ho perso le staffe, poco fa.»
«Oh, quando perdi le staffe non mi preoccupo. Non ho paura di te.» Poi aggiunse, accigliandosi: «A tua madre non è piaciuta Greta».
«C'è un sacco di gente alla quale non piace Greta.»
«Incluso te.»
«Stammi a sentire, Ellie, perché continui a ripeterlo? Non è vero. Sono stato un po' geloso di lei, agli inizi, ma poi è finita. Ormai andiamo d'accordo.» E aggiunsi: «Secondo me, la gente non la trova simpatica perché costringe gli altri a stare sulla difensiva.»
«Neanche zio Andrew ha molta simpatia per lei, vero? Pensa che abbia troppa influenza su di me.»
«E ce l'ha?»
«Perché me lo chiedi? Sì, forse sì. Ma è naturale. Greta ha una personalità molto forte, e io ho bisogno di qualcuno di cui fidarmi, a cui appoggiarmi. Di qualcuno che mi difenda.»
«In altre parole» esclamai, ridendo «hai bisogno di qualcuno che ti aiuti a realizzare tutti i tuoi desideri.»
Entrammo in casa tenendoci per la mano. Chissà perché, quel pomeriggio mi parve particolarmente buio. Forse perché il sole, tramontando dietro la collina, aveva lasciato dietro di sé una sensazione di solitudine. Ellie disse: «Che c'è, Mike?».
«Non lo so. All'improvviso, è stato come se mi fosse passato vicino un fantasma.»
«Ti è passato vicino l'asino che non sei altro» ribatté Ellie, ridendo.
Greta non c'era. I domestici dissero che era andata a fare una passeggiata.
Ora che mia madre sapeva tutto del mio matrimonio e aveva conosciuto Ellie, feci una cosa che desideravo fare da tempo. Le mandai un grosso assegno. Le dissi di trasferirsi in una casa più moderna e di comprarsi del mobilio nuovo. Ma naturalmente avevo i miei dubbi sulla probabilità che l'accettasse. Non era denaro che mi ero guadagnato, e non potevo in tutta onestà fingere che lo fosse. Come mi aspettavo, mia madre mi rimandò l'assegno, con due righe scritte in fretta: "Non voglio avere niente a che fare con questa storia" diceva. "Non cambierai mai. Ormai me ne rendo conto. Che il cielo ti aiuti". Gettai il biglietto e l'assegno sul tavolo davanti a Ellie.
«Vedi che razza di tipo è mia madre? Ho sposato una ragazza piena di quattrini, vivo alle sue spalle, e quella vecchia strega mi disprezza!»
«Non te la prendere» disse Ellie. «C'è un sacco di gente che la pensa a questo modo. Vedrai che si abituerà. Ti vuole molto bene, Mike.»
«Allora perché tenta continuamente di cambiarmi? Di plasmarmi secondo il "suo" concetto della vita? Io sono io. E non mi farò plasmare secondo il concetto di nessuno! Non sono più un bambino, da educare secondo i vecchi schemi. Io sono io! Sono adulto! Sono io!»
«Tu sei tu» disse Ellie. «E io ti amo.»
E poi, forse per distrarmi, disse una cosa che mi turbò.
«Che ne dici del nuovo domestico?» chiese.
Non l'avevo neanche mai guardato in faccia. Che cosa dovevo dire? Se non altro, era migliore di quello che avevamo prima, che faceva di tutto per farmi capire quanto mi disprezzava.
«Mi sembra un brav'uomo» dissi. «Perché?»
«Mi chiedevo se non è per caso un investigatore.»
«Un investigatore?»
«Sì. Potrebbe averlo mandato qui zio Andrew.»
«Perché zio Andrew dovrebbe fare una cosa del genere?»
«Be'... magari ha paura che mi rapiscano. Quando abitavo negli Stati Uniti mi faceva sempre proteggere da qualche investigatore, soprattutto in campagna.»
Un altro degli svantaggi dei ricchi del quale non avevo neppure sospettato l'esistenza.
«Che idea idiota!»
«Non quanto credi... Forse perché sono abituata a certe cose. Ma che importanza ha? Non ce se ne accorge neppure.»
«Anche sua moglie potrebbe essere un'investigatrice?»
«Per forza, anche se cucina molto bene. Secondo me, zio Andrew, o Stanford Lloyd, insomma quello dei due che ha organizzato quella storia, deve aver pagato profumatamente i domestici che avevamo prima perché se ne andassero. E intanto aveva già sotto mano questi due, pronti a prendere il loro posto. Piuttosto semplice.»
«Senza dirti niente?» chiesi, incredulo.
«Non si sono mai presi la briga di dirmelo. Avrei potuto creare un pandemonio. Ma forse mi sbaglio.» Assunse un'aria intenta. «Certo che quando si è abituati ad avere attorno gente di questo tipo si sviluppa una specie di sesto senso.»
«Povera ragazza ricca» mormorai.
Ellie non se la prese.
«Sì, è una frase che descrive bene la situazione.»
«Quante cose nuove continuo a scoprire con te, Ellie!»
17
Che cosa misteriosa è il sonno. Si va a letto pieni di pensieri neri su zingare e nemici segreti, su investigatori messi di nascosto in casa e sulla possibilità di un rapimento e su cento altre cose. E il sonno spazza via tutto. Si fa un lungo viaggio e non si sa dove si è andati, ma quando ci si sveglia il mondo è completamente diverso. Niente preoccupazioni, niente apprensioni.
Quando mi svegliai la mattina del 17 settembre ero di umore addirittura euforico.
«Splendida giornata» mi dissi con convinzione. «Oggi sarà una splendida giornata.»
E lo credevo veramente. Ripassai mentalmente i miei progetti. Mi ero messo d'accordo col maggiore Phillpot per incontrarlo in una villa a una ventina di chilometri di distanza. Ci sarebbe stata un'asta. La villa era piena di cose belle, e io avevo già segnato un paio di oggetti del catalogo. L'idea mi eccitava molto.
Phillpot era un intenditore di mobili d'epoca, d'argenteria e di oggetti del genere, e non perché fosse dotato di particolare sensibilità artistica... era più che altro uno sportivo... ma perché ci era nato in mezzo. Tutta la famiglia s'intendeva di certe cose.
Studiai il catalogo durante la colazione.
Ellie era scesa in abito da cavallerizza. Ora cavalcava quasi tutte le mattine, a volte sola e a volte con Claudia. Ellie aveva l'abitudine americana di bere una tazza di caffè e un bicchiere di succo d'arancia, per colazione. Da quando non ero più costretto a limitare la mia alimentazione, invece, i miei gusti erano simili a quelli di un lord dell'epoca vittoriana. Mi piaceva avere sulla tavola molti piatti caldi. Quella mattina mangiai animelle, salsicce e prosciutto. Delizioso.
«Voi che cosa fate, Greta?» chiesi.
Greta rispose che si sarebbe incontrata con Claudia Hardcastle a Market Chadwell. Sarebbero andate a Londra insieme per visitare la fiera del bianco. Chiesi che cosa fosse la fiera del bianco.
«Deve esserci veramente qualcosa di bianco?»
Greta assunse un'aria sprezzante e rispose che la fiera del bianco significava la vendita di lenzuola, asciugamani e roba per la casa. C'erano delle ottime occasioni in Bond Street, stando ai cataloghi che aveva ricevuto.
Dissi a Ellie: «Se Greta sta via tutto il giorno, perché più tardi non prendi la macchina e non vieni al "George" di Bartington? Il vecchio Phillpot dice che ci si mangia bene. Anzi, è stato lui a suggerirmi di portare anche te. All'una. Devi attraversare Market Chadwell, percorrere cinque chilometri e poi svoltare a destra. Ma vedrai i cartelli».
«D'accordo» rispose Ellie. «Verrò.»
L'aiutai a montare a cavallo, e lei s'allontanò al galoppo tra gli alberi. Ellie adorava cavalcare. In genere, percorreva uno dei tanti viottoli che si snodavano nel bosco, arrivava alla brughiera e si concedeva una lunga galoppata, prima di tornare indietro. Lasciai la macchina più piccola a Ellie, dato che era più facile da posteggiare, e presi la grossa Chrysler. Arrivai a Bartington Manor poco Prima che cominciasse l'asta. Trovai Phillpot ad aspettarmi. Mi aveva tenuto un posto.
«Bella roba» disse. «Ci sono anche un paio di quadri piuttosto buoni. Un Romney e un Reynolds. Vi interessano?»
Scossi la testa. In quel momento, mi piacevano esclusivamente gli artisti moderni.
«Sono presenti molti antiquari» disse Phillpot. «Due di Londra, anche. Vedete quell'ometto laggiù? Quello con la bocca a cuore? È Cressington. Un antiquario piuttosto conosciuto. Non avete portato vostra moglie?»
«No» risposi «le aste le danno ai nervi. E poi, stamattina non l'avrei certo voluta qui.»
«Perché?»
«Devo farle una sorpresa» spiegai. «Avete notato il Pezzo 42?»
Dette un'occhiata al catalogo, poi scrutò la sala con lo sguardo.
«Mmm... Quel leggìo di papier maché? Sì. Bel pezzo. Uno dei più begli esempi di papier maché che abbia mai visto. Per giunta, i leggii di quel tipo sono molto rari. Ce ne sono parecchi, in giro, di periodo posteriore, ma come quello no: è veramente un gioiello.»
Il leggìo era intarsiato con un disegno del Castello di Windsor e agli angoli aveva una decorazione di rose, trifogli e serti.
«Ottime condizioni» disse Phillpot. Mi guardò incuriosito. «Non avrei mai pensato che fosse di vostro gusto.»
«Non lo è, infatti. È un po' troppo floreale e ricercato, per me. Ma a Ellie quei pezzi piacciono. La prossima settimana compie gli anni e voglio regalarglielo. Una sorpresa. Ecco perché non la volevo qui, oggi. Sono convinto che non potrei farle un regalo più gradito. Ne sarà entusiasta.»
Ci mettemmo a sedere e l'asta cominciò. Il pezzo che volevo acquistare partì da una base molto alta. Entrambi gli antiquari di Londra sembravano decisi ad accaparrarselo, anche se uno dei due era tanto abile e discreto nelle sue mosse che era quasi impossibile accorgersi dell'infinitesimale movimento del suo catalogo, che il banditore osservava attentamente. Comprai anche una poltrona Chippendale, che mi parve andasse bene per il nostro atrio, e un'enorme tenda di broccato in buone condizioni.
«Vi siete divertito, eh?» esclamò Phillpot, alzandosi, dopo che il banditore aveva dichiarato chiusa l'asta. «Avete intenzione di tornare, questo pomeriggio?»
«No. Non c'è niente che m'interessi, nella seconda parte dell'asta. Per la maggior parte si tratta di camere da letto, di tappeti e di roba del genere.»
«Già, mi rendo conto che non v'interessi.» Guardò l'orologio. «Dobbiamo andare, ora. Ellie ci raggiungerà al "George"?»
«Sì. Sarà là ad aspettarci.»
«E... la signorina Andersen?»
«No, Greta è andata a Londra. A una vendita che ha chiamato la fiera del bianco. Credo che ci sia andata con la signorina Hardcastle.»
«Ah, sì. Mi pare che Claudia abbia parlato di una cosa del genere, l'altro giorno. I prezzi della biancheria di casa sono astronomici, al giorno d'oggi. Sapete quanto costa una federa? Trentacinque scellini. Un tempo le pagavamo sei.»
«Ve ne intendete anche di queste cose?» chiesi.
«Be', sento mia moglie che si lamenta continuamente» Phillpot sorrise. «Avete l'aria entusiasta, Mike. Sembrate un ragazzino che abbia preso dieci a scuola.»
«Sono felice perché sono riuscito ad aggiudicarmi il papier maché. O, almeno, questa è una delle ragioni. Stamattina mi sono svegliato allegro. Sapete, uno di quei giorni in cui tutto sembra che debba andar bene.»
«Mmm...» fece Phillpot. «State attento. Potrebbe trattarsi del classico avvertimento del furetto.»
«Del furetto? È un proverbio irlandese, vero?»
«Appunto. L'avvertimento che il furetto dà prima di un disastro. Farete meglio a frenare la vostra esuberanza, figliolo.»
«Non credo a queste stupide superstizioni.»
«Non credete neanche nelle profezie delle zingare, eh?»
«In questi ultimi tempi la nostra zingara non si è più fatta viva. Almeno nell'ultima settimana.»
«Forse è partita» meditò Phillpot.
Mi chiese se gli davo un passaggio e io risposi di sì.
«Inutile prendere due macchine. Poi mi lascerete qui lungo il ritorno. Ellie verrà in macchina?»
«Sì. Con quella piccola.»
«Spero che "George" abbia preparato qualcosa di buono, oggi» disse il maggiore Phillpot. «Ho fame.»
«Avete comprato qualcosa?» Ero troppo eccitato per accorgermene.
«No. Quando si è a un'asta bisogna tenere gli occhi aperti. Seguire quello che fanno gli antiquari. No. Non ho comprato niente. C'erano un paio d'oggetti che m'interessavano, ma il prezzo è salito oltre quello che intendevo spendere.»
Per quanto Phillpot fosse proprietario di immense estensioni di terra in tutta la zona, con ogni probabilità il suo reddito non era molto alto. Era il classico povero proprietario terriero. Solo vendendo un pezzo di terra avrebbe avuto quattrini sufficienti per vivere bene. Ma lui non l'avrebbe mai venduta. Amava la sua terra.
Arrivammo da "George" e trovammo numerose macchine nel parcheggio. Probabilmente erano le macchine della gente che aveva preso parte all'asta. Non vidi quella di Ellie, però. Quando entrammo mi guardai attorno, ma evidentemente mia moglie non era ancora arrivata. Comunque, era appena l'una.
Andammo a bere un aperitivo al bar, in attesa che arrivasse Ellie. Il locale era affollato. Guardai in sala da pranzo, ma vidi che il tavolo che avevamo prenotato era ancora libero. C'erano molti abitanti della zona che conoscevo, e vicino alla vetrina era seduto un uomo il cui viso mi era vagamente familiare. Ero sicuro di averlo conosciuto, ma non riuscivo a ricordarmi dove e quando. Non doveva essere della zona, perché era vestito in modo diverso da quello in uso nella regione. Avevo conosciuto tanta di quella gente, in vita mia, che mi capitava spesso di ricordare un viso, ma non le circostanze in cui l'avevo visto per la prima volta. L'uomo non era presente all'asta, ne ero quasi sicuro, anche se ora ricordavo di aver visto anche là una faccia familiare che non ero riuscito a collocare. Ero certo, comunque, che non fosse la stessa di ora.
La dea protettrice del "George", con il solito vestito di stile forzatamente edoardiano, mi si avvicinò.
«Signor Rogers, pensate di occupare il vostro tavolo?» chiese. «Scusatemi, ma c'è della gente in piedi e...»
«Mia moglie arriverà tra un paio di minuti...»
Tornai da Phillpot. Forse Ellie poteva anche aver forato una gomma.
«Sarà meglio entrare» dissi. «La padrona comincia a perdere la pazienza. C'è un sacco di gente in piedi. Temo» aggiunsi «che Ellie non sia la persona più puntuale che conosca.»
«Le signore si fanno un punto d'onore di farci sempre aspettare» disse il maggiore Phillpot, col suo modo di parlare fuori di moda. «Come preferite, Mike. Entriamo.»
Entrammo in sala da pranzo, ci sedemmo e ordinammo pasticcio di carne e insalata.
«Peccato che Ellie ci abbia traditi a questo modo» dissi, mentre attaccavo il pasticcio. E aggiunsi che forse dipendeva dal fatto che Greta era a Londra. «Ellie è troppo abituata al fatto che Greta le ricorda gli appuntamenti, la costringe a rispettarli e la mette in strada in tempo.»
«La signora Ellie fa molto affidamento sulla signorina Andersen, vero?»
«In un certo senso, sì.»
Continuammo a mangiare, e passammo dall'insalata alla torta di mele. La torta era squisita, ma sbandierava una decorazione floreale di pessimo gusto.
«Deve essersene completamente dimenticata» dissi all'improvviso.
«Perché non provate a telefonarle?»
«Sì, forse è meglio.» Andai al telefono e chiamai casa nostra. Rispose la signora Carson, la cuoca.
«Oh, siete voi signor Rogers. La signora non è ancora rientrata.»
«Come sarebbe a dire, non è rientrata? Non è rientrata da dove?»
«Non è ancora tornata dalla cavalcata.»
«Ma se è uscita subito dopo colazione! Non può aver cavalcato per tutta la mattina!»
«Non mi aveva detto che avrebbe ritardato, infatti. L'aspettavo per la solita ora.»
«Perché non mi avete chiamato per avvertirmi?»
«Non sapevo dove raggiungervi. Non mi avevate detto dove andavate.»
Le dissi che ero al "George" di Bartington e le detti il numero del ristorante. Doveva chiamarmi non appena Ellie fosse rientrata o non appena avesse avuto notizie di lei. Poi tornai da Phillpot. Il maggiore si accorse dall'espressione del mio viso che c'era qualcosa che non andava.
«Ellie non è ancora tornata a casa» dissi. «È uscita a cavallo, stamattina. In genere non resta fuori più di un'ora, però.»
«Non preoccupatevi più del dovuto, figliolo» disse il maggiore, gentilmente. «La vostra proprietà è molto isolata. Può darsi che il cavallo si sia azzoppato e che la signora sia costretta a tornare a piedi. Con tutti quegli alberi e quei viottoli, ci metterà parecchio ad arrivare a casa. E non incontrerà certo qualcuno cui consegnare un messaggio.»
«Se avesse deciso di non venire all'appuntamento e di andare da qualche altra parte, ci avrebbe telefonato qui» mormorai. «Ci avrebbe avvertiti.»
«Se fossi in voi, ancora non comincerei a preoccuparmi. Comunque, sarà meglio andare a vedere che cosa può essere successo.»
Quando arrivammo al parcheggio, vidi allontanarsi un'altra macchina. Al volante c'era l'uomo che avevo notato poco prima. D'improvviso mi ricordai chi era. Stanford Lloyd, o qualcuno che gli assomigliava terribilmente. Mi chiesi che cosa ci faceva da quelle parti. Veniva da noi? In questo caso, strano che non ci avesse avvertiti.
In macchina, al suo fianco, c'era una donna che mi parve Claudia Hardcastle. Ma non poteva essere: Claudia doveva trovarsi a Londra con Greta, alla fiera del bianco.
Mentre ci allontanavamo, Phillpot mi lanciò un paio d'occhiate. Incontrai i suoi occhi e dissi in tono amaro: «Stamane avete parlato dell'avvertimento del furetto. Ricordate?».
«Lasciate perdere. Può darsi che vostra moglie sia caduta da cavallo e si sia semplicemente slogata una caviglia. È un'ottima cavallerizza. L'ho vista in sella. È poco probabile che le sia accaduto un incidente.»
«Gli incidenti possono accadere a chiunque.»
Filammo a tutta velocità e finalmente raggiungemmo la strada della brughiera, sopra la nostra proprietà. Mentre proseguivamo, ci guardavamo attorno. Di tanto in tanto ci fermavamo a chiedere informazioni alla gente. Parlammo con un uomo che stava zappando e avemmo così le prime notizie.
«Sì, ho visto un cavallo senza cavaliere» rispose. «Un paio d'ore fa. Forse di più. L'avrei fermato, ma non si è fatto prendere. Non ho visto donne, però.»
«Sarà meglio andare a casa» disse il maggiore Phillpot. «Potremmo trovare novità.»
Tornammo a casa, ma non trovammo nessuna novità. Chiamammo lo stalliere e lo mandammo a cercare Ellie nella brughiera. Phillpot telefonò a casa sua e fece partire un uomo anche di là. Poi andammo sul viottolo che Ellie prendeva di solito e sbucammo sulla brughiera.
All'inizio non vedemmo niente. Poi ci avviammo verso un punto dal quale si diramavano diversi sentieri e... la trovammo. A prima vista sembrò solo un mucchietto di abiti. Il cavallo era tornato indietro, e ora era accanto al mucchietto di abiti, col muso ciondolante. Cominciai a correre. Phillpot mi seguì a una velocità che non avrei mai sospettato in un uomo tanto anziano.
Ellie era là... acciambellata su se stessa, col piccolo viso pallido rivolto al cielo. Dissi: «Non posso... Non posso...». E girai la faccia dall'altra parte.
Phillpot s'inginocchiò accanto a lei. Si alzò quasi subito.
«Bisogna chiamare un medico» disse. «Shaw. È il più vicino. Ma... non credo che serva, Mike.»
«Intendete dire... che è morta?»
«Si» mormorò. «Inutile fingere.»
«Oh, Dio!» esclamai, nascondendo la faccia tra le mani. «Non posso crederci. Non posso credere che Ellie...»
«Tenete, bevete» disse Phillpot.
Estrasse una bottiglietta piatta dalla tasca, tolse il tappo e me la porse. Ingollai una lunga sorsata di qualcosa di forte. «Grazie» dissi.
Arrivò lo stalliere, e Phillpot lo mandò a chiamare il dottor Shaw.
18
Shaw arrivò a bordo di una vecchia Land-Rover sconquassata. Doveva essere la macchina che usava per raggiungere i pazienti sparsi nella brughiera. Non guardò né me né Phillpot. Andò dritto vicino a Ellie e si chinò. Poi venne vicino a noi.
«È morta da almeno tre ore» mormorò. «Com'è accaduto?»
Gli spiegai che quella mattina era uscita a cavallo subito dopo colazione, come al solito.
«Aveva mai avuto incidenti, prima d'ora?»
«No» risposi. «Era un'ottima cavallerizza.»
«Sì, so che era un'ottima cavallerizza. L'ho vista un paio di volte. A quanto mi aveva detto, cavalcava da quando era bambina. Mi chiedevo se ultimamente non avesse avuto un incidente che potesse averle fatto un brutto scherzo ai nervi. Se il cavallo si è imbizzarrito...»
«Perché avrebbe dovuto imbizzarrirsi? È un animale tranquillo.»
«Ha ragione» disse il maggiore Phillpot. «Questo cavallo è sempre stato docile. La signora ha delle ossa rotte?»
«Non l'ho esaminata bene, ma mi sembra che non abbia ferite di sorta. Può darsi, però, che ci siano delle lesioni interne. A meno che non si sia trattato di uno choc...»
«Ma di choc non si muore!» esclamai.
«Vi sbagliate. Si muore eccome. Se era malata di cuore...»
«In America le avevano detto che aveva il cuore debole. O almeno, che doveva stare attenta.»
«Mmm. Quando l'ho visitata non mi è sembrato. Ma non abbiamo fatto l'elettrocardiogramma. Comunque è inutile parlarne, adesso. Lo sapremo più tardi. Dopo l'inchiesta.»
Con lo strano modo che ha la gente di campagna di sbucare dal nulla, tre persone si erano riunite attorno a noi. Uno era un autostoppista che, vedendoci, aveva lasciato la strada per raggiungerci. Poi c'erano una donna dalla faccia rosea, che a quanto mi parve di capire era diretta a una fattoria dei dintorni. E un vecchio stradino. Commentavano ad alta voce, scuotendo la testa.
Solo quando tutti gli altri si furono sfogati, il vecchio stradino si decise a parlare. Scosse lentamente la testa, e come se avesse parlato solo per se stesso mormorò: «L'ho visto. L'ho visto com'è accaduto».
Il medico si voltò di scatto verso di lui.
«Che cos'avete visto?»
«Ho visto un cavallo sfrecciare attraverso i campi.»
«Avete visto cadere la signora?»
«No. Questo no. Sfrecciava tra gli alberi come una saetta. Ma poi io ho voltato le spalle e ho ricominciato a tagliare le pietre per la strada. Poi ho sentito gli zoccoli che pestavano il terreno e mi sono voltato di nuovo. Il cavallo era solo. Ma non ho pensato che fosse accaduto un incidente. Ho pensato che la signora fosse scesa di sella per qualche ragione e avesse lasciato la bestia libera. Il cavallo non veniva verso di me, andava nella direzione opposta.»
«Non avete visto la signora a terra?»
«No. Non ci vedo bene, da lontano. Ho visto il cavallo solo perché si stagliava contro il cielo.»
«La signora era sola? O in compagnia di qualcuno?»
«Non c'era nessuno con lei. No. Era sola. Mi è passata vicino, mi ha superato e ha imboccato quella strada laggiù. Credo che fosse diretta verso il bosco. No, ho visto solo lei e il suo cavallo.»
«Può darsi che sia stata la zingara a farle paura» disse la donna dalla faccia rosea.
Mi girai di scatto.
«Quale zingara? Dove?»
«Dev'essere stato... Be', tre o quattro ore fa, quando sono scesa da quella strada, stamattina. Dovevano essere le dieci meno un quarto o giù di lì. È stato allora che ho visto la zingara. Quella che vive nella villetta alla periferia del paese. O almeno, credo che fosse lei. Ero troppo lontana per esserne sicura. Ma è l'unica che vaga per i boschi con uno scialle rosso sulle spalle. Qualcuno mi ha detto che aveva già tentato di spaventare la povera signora americana. Che l'aveva minacciata. Che le aveva detto che le sarebbe successo qualcosa, se non se ne andava di qui. Ho sentito dire che era stata molto aggressiva.»
«La zingara» dissi, tra me. Poi, con amarezza, a voce più alta: «Campo degli Zingari! Sarebbe stato meglio che non avessi mai visto questo posto!».
19
Mi è stranamente difficile ricordare ciò che accadde dopo. O almeno, la sequenza degli avvenimenti. Fino a quel momento, tutto è chiaro nella mia mente. Avevo solo qualche dubbio su come cominciare. Da dove cominciare. Ma da quel momento in avanti fu come se fosse calata una lama che avesse diviso la mia vita in due parti. Quello che passai dal giorno della morte di Ellie in poi fu qualcosa di inaspettato, qualcosa a cui non ero preparato. Una sorta di confusione, che m'impediva di giudicare esattamente le persone che mi circondavano, di controllare gli avvenimenti. Ciò che era successo non era successo a me, ma attorno a me. Così sembrava, almeno.
Tutti furono molto gentili. È la cosa che ricordo meglio. Vagavo per la casa, confuso, senza sapere che fare con esattezza. Ricordo anche che Greta, invece, parve trovarsi nel suo elemento. Era dotata di quella straordinaria qualità delle donne forti, che quando accade qualcosa di grave prendono in mano la situazione e risolvono tutti i problemi. Parlo dei piccoli problemi, dei problemi di tutti i giorni, dei quali qualcuno bisogna pure che si occupi. Io non sarei certo stato capace di farlo.
La prima cosa che ricordo dopo che Ellie fu portata via e io tornai a casa, la nostra casa, è la visita del dottor Shaw. Non so quanto tempo dopo arrivò, so solo che fu molto gentile, premuroso e attento. Mi spiegò tutto con delicatezza e precisione.
Preparativi. Ricordo che usò questa parola: preparativi. Che parola orribile, e con un significato ancor più orribile. Le cose della vita che hanno termini grandiosi... amore... sesso... vita... morte... odio... non sono certo quelle che governano l'esistenza. Quelle che governano l'esistenza sono ben altre: cose insignificanti, degradanti. Cose che si è costretti a sopportare, cose alle quali non si è mai pensato finché non accadono. Imprese di pompe funebri, preparativi per il funerale, inchieste. E i domestici che fanno il giro delle stanze per abbassare tutte le tende. Perché le tende dovevano stare abbassate ora che Ellie era morta? Che idiozia!
Per questo, credo, provai tanta gratitudine nei confronti del dottor Shaw. Si occupò lui di tutto, spiegandomi con tutta la delicatezza possibile perché erano necessarie certe cose, come a esempio l'inchiesta. Ricordo che parlava lentamente, con voce pacata, per essere sicuro che lo seguissi.
Non sapevo che cosa fosse in realtà un'inchiesta. Non avevo mai assistito a niente del genere. Mi parve stranamente irreale, dilettantesca. Il coroner era un ometto agitato, con gli occhiali a stringinaso. Fui costretto a riconoscere la salma, a raccontare l'ultima mattinata che avevo passato con Ellie, da quando era scesa a colazione a quando era uscita per la cavalcata. Dovetti soffermarmi anche sugli accordi che avevamo preso per incontrarci al "George". Dissi che Ellie mi era parsa del tutto normale, in ottima salute come sempre.
La deposizione del dottor Shaw fu tranquilla, scientifica. Nessuna ferita grave, una vertebra spezzata e qualche livido, evidentemente provocato dalla caduta da cavallo... Niente di grave. Tutte ferite superficiali. Nessuna tale da poter avere provocato la morte. Quindi il dottor Shaw era costretto a supporre che la signora Rogers era morta per collasso cardiaco causato da choc. Da quello che riuscii a capire dalla quantità di termini medici usati dal dottor Shaw, Ellie era morta semplicemente perché non aveva più potuto respirare... Una specie di asfissia. I suoi organi erano in perfetto stato, il contenuto dello stomaco normale.
Greta, che fu chiamata al banco dei testimoni subito dopo il dottor Shaw, insistette nell'affermare che Ellie aveva sofferto di attacchi cardiaci, tre o quattro anni prima. Non le avevano mai detto niente di preciso in proposito, ma i parenti di Ellie avevano ripetuto spesso che mia moglie aveva il cuore debole e che doveva stare attenta a non stancarsi troppo. Greta ammise di non aver sentito niente di più preciso.
Poi furono chiamate le persone che si erano trovate sul luogo dell'incidente o nelle vicinanze. Il primo a salire sul banco dei testimoni fu il vecchio che io e Shaw avevamo visto zappare.
Sì, aveva visto passare la ragazza. A una cinquantina di metri da lui. Sapeva chi era, anche se non le aveva mai parlato. Era la padrona della nuova casa.
«La conoscevate di vista?»
«No, non esattamente. Ma conoscevo il cavallo, signore. Un baio con una zampa bianca. Prima era di proprietà del signor Carey, di Shettlegroom. Un buon cavallo, tranquillo come pochi. Proprio la bestia adatta per una signora.»
«Quando avete visto la signora Rogers, il cavallo le dava qualche fastidio? Si era imbizzarrito, per caso?»
«No. Mi è sembrato tranquillissimo. Era una mattinata stupenda.»
Aggiunse che non c'era molta gente, in giro. O almeno, lui non aveva visto quasi nessuno. Quel viottolo attraverso gli alberi arrivava fino alla brughiera ed era usato solo raramente da qualche contadino, come scorciatoia. Erano passate solo un paio di persone in tutta la mattinata. Un uomo in bicicletta e un altro a piedi. Ma erano troppo lontani perché lui avesse potuto riconoscerli. E poi, non ci aveva fatto molto caso. All'inizio della mattinata, prima di vedere la signora a cavallo, gli era parso di scorgere la vecchia signora Lee. Ma non ne era sicuro. Era arrivata lungo il viottolo, verso di lui, ma quando si era accorta della sua presenza si era voltata di scatto e si era allontanata attraverso il bosco. La signora Lee vagava spesso per la brughiera e per i viottoli che si perdevano tra gli alberi.
Il coroner chiese come mai la signora Lee non era in aula. A quanto gli risultava, era stata chiamata a testimoniare. Gli fu risposto che la donna aveva lasciato il paese qualche giorno prima. Nessuno sapeva con esattezza quando. Non aveva lasciato nessun indirizzo. Ma non era una cosa insolita: capitava spesso che la signora Lee si allontanasse per lunghi periodi, senza dire niente a nessuno, per poi tornare all'improvviso. Due uomini dichiararono anzi di essere convinti che la donna fosse addirittura partita prima del giorno dell'incidente. Il coroner si rivolse di nuovo al vecchio: «Voi, comunque, pensate che la donna che avete visto fosse la signora Lee?».
«Sì, ma non potrei giurarlo. Non l'ho vista bene. So solo che era alta, camminava a passi lunghi, come la signora Lee, e portava uno scialle rosso. Non l'ho guardata con particolare attenzione. Avevo da fare, e poi la cosa non m'interessava. Poteva essere lei, ma poteva anche essere un'altra. Chissà?»
In quanto al resto, ripeté all'incirca quello che aveva già detto a me e al maggiore Phillpot. Si era visto passare Ellie piuttosto vicino. L'aveva già vista cavalcare da quelle parti. Non le aveva prestato molta attenzione. Solo più tardi aveva visto il cavallo che galoppava senza nessuno in sella. «Come se fosse rimasto spaventato da qualcosa» aggiunse. E poi: «O almeno, potrebbe essere così».
Non sapeva che ore erano. Potevano essere le undici, o più presto. Aveva rivisto il cavallo molto più tardi; in lontananza. Sembrava diretto di nuovo verso il bosco.
Poi il coroner volle parlare di nuovo con me e mi rivolse qualche domanda sulla signora Lee. La signora Esther Lee, domiciliata al Vine Cottage.
«Voi e vostra moglie conoscevate la signora Lee di vista?»
«Sì» risposi. «E piuttosto bene, anche.»
«Avete mai parlato con lei?»
«Sì, molte volte. O meglio, è stata lei a parlare con noi.»
«Ha mai minacciato voi o vostra moglie?»
Feci una breve pausa.
«In un certo senso si» dissi alla fine. «Ma non ho mai pensato...»
«Non avete mai pensato che cosa?»
«Non ho mai pensato che facesse sul serio.»
«Vi è parso che nutrisse del rancore verso vostra moglie?»
«Una volta mia moglie disse che quella donna ce l'aveva con lei. Che covava dei risentimenti nei suoi confronti, anche se non riusciva a capire perché.»
«Voi o vostra moglie l'avevate mai cacciata dalla vostra proprietà, l'avevate minacciata o bistrattata in qualche modo?»
«Qualunque atto di ostilità era sempre partito dalla signora Lee.»
«Avete mai avuto la sensazione che fosse squilibrata?»
Ci pensai sopra. «Sì» risposi. «Un paio di volte l'ho pensato. Sembrava convinta che la terra sulla quale avevamo costruito la casa appartenesse a lei, o alla sua tribù, o come diavolo si definiscono. Aveva una specie d'ossessione a questo proposito.» Aggiunsi lentamente: «Credo che peggiorasse di giorno in giorno, che l'ossessione si facesse sempre più radicata».
«Capisco. Ha mai minacciato vostra moglie di violenza fisica?»
«No» dissi, deciso. «Non sarebbe onesto accusarla di una cosa del genere. Ricorreva semplicemente a... be', a una sorta d'avvertimento. Come: "Se resterete qui, avrete mala sorte". Oppure: "Se non ve ne andate, sarete maledetta".»
«Ha mai usato la parola "morte"?»
«Sì, mi pare di sì. Ma noi non l'abbiamo presa sul serio. O almeno» mi corressi «io non l'ho mai presa sul serio.»
«Pensate che vostra moglie ne fosse rimasta impressionata?»
«Temo di sì. Almeno un paio di volte. Quella vecchia sapeva essere orribile, quando voleva. Ma sono convinto che non fosse pienamente responsabile di quello che faceva o diceva.»
L'istruttoria terminò e il coroner aggiornò l'inchiesta di quindici giorni. Tutto portava a pensare che si fosse trattato di una morte accidentale, ma non c'erano prove sufficienti per stabilire quali erano state le cause dell'incidente. Il coroner aveva aggiornato l'inchiesta perché prima di dichiararla chiusa voleva ascoltare anche la testimonianza della signora Lee.
20
Il giorno dopo l'inchiesta andai a trovare il maggiore Phillpot e gli dissi senza tanti giri di parole che volevo la sua opinione. Una persona, che il vecchio contadino aveva preso per la signora Lee, aveva vagato per i boschi proprio la mattina dell'incidente.
«Voi conoscete quella vecchia meglio di chiunque altro» dissi. «Pensate che sia capace di causare un incidente, di proposito?»
«No, Mike, non credo. Per fare una cosa del genere, dovrebbe avere un motivo molto grave. Dovrebbe avere ragione di volersi vendicare di voi o di vostra moglie. Ed Ellie che cosa poteva averle mai fatto? Niente.»
«Sembra assurdo, lo so. Ma allora perché continuava ad apparire tra gli alberi, a minacciare Ellie, a invitarla ad andarsene? Sembrava nutrire un risentimento contro di lei, ma perché mai avrebbe dovuto? Non aveva mai conosciuto Ellie prima che venisse qui. Per lei, mia moglie non poteva essere altro che una signora americana del tutto sconosciuta. Non esistevano rapporti passati, tra loro, né legami di nessuna sorta.»
«Lo so, lo so» disse Phillpot. «Ho la sensazione che ci sia sotto qualcosa che non riusciamo a capire. Non so quanto tempo si sia fermata in Inghilterra, vostra moglie, prima di sposarsi. Aveva mai abitato da queste parti?»
«No, ne sono sicuro. È tutto così difficile... A conti fatti, non so quasi niente di Ellie. Non so chi conosceva, dove andava. Ci siamo semplicemente conosciuti e...» M'interruppi, cercando di controllarmi. Poi: «Non lo sapete, vero, come ci eravamo conosciuti? No, non potreste mai indovinarlo». E poi, mio malgrado, cominciai a ridere. Riuscii a controllarmi solo con uno sforzo. Mi rendevo conto di essere molto vicino a una crisi isterica.
Vidi che il maggiore Phillpot aspettava pazientemente che ritornassi in me. Era un uomo molto sensibile. Su ciò non avevo dubbi.
«Ci conoscemmo qui» dissi. «Qui, a Campo degli Zingari. Avevo letto l'annuncio della vendita all'asta della Torre e avevo deciso di salire fino alla cima della collina, per vedere la casa. M'incuriosiva. Fu là che vidi Ellie per la prima volta. Sotto un albero. La spaventai... O forse fu lei a spaventare me. Comunque, cominciò tutto così. Così finimmo col venire a vivere in questa casa maledetta, orribile, sfortunata.»
«L'avete sentito fin dal principio? Che sarebbe stata sfortunata?»
«No. Sì. Non lo so neanch'io. Non l'ho mai ammesso. Mi sono sempre rifiutato di ammetterlo. Ma sono convinto che lei lo pensasse, che fosse spaventata fin dall'inizio.» Poi scegliendo le parole mormorai: «Credo che qualcuno l'abbia spaventata deliberatamente».
Il maggiore Phillpot disse con voce dura: «Non vi capisco. Chi l'ha spaventata deliberatamente, secondo voi?».
«Con ogni probabilità la zingara. Ma non ne sono sicuro... Aveva preso l'abitudine di nascondersi tra gli alberi in attesa di Ellie, e quando la vedeva le diceva di andarsene, perché questo posto le avrebbe portato sfortuna, perché altrimenti le sarebbe accaduto qualcosa.»
«Puah!» esclamò, fuori di sé. «Perché non mi avete messo al corrente di tutto questo? Ci avrei pensato io a parlare con la vecchia Esther, a dirle che non poteva fare cose del genere.»
«Ma perché l'ha fatto? Che cosa può averla spinta?» chiesi.
«Come la maggior parte della gente» spiegò Phillpot «anche a Esther piace rendersi importante. Ha la mania di predire l'avvenire a chiunque, promettendo o eterna felicità o pene a non finire. Le piace fingere di avere una seconda vista.»
«E se qualcuno le avesse dato del denaro?» chiesi lentamente. «Ho sentito dire che i soldi le piacciono.»
«Sì, è vero. Esther ha un debole per i soldi. E se qualcuno l'avesse pagata... Ma che cosa vi ha fatto venire in mente un'idea simile?»
«Il sergente Keene» risposi. «Io non ci avrei mai pensato.»
«Capisco.» Scosse la testa con espressione dubbiosa.
«Ma non credo» continuò poi «che possa aver tentato deliberatamente di spaventare vostra moglie tanto da provocare un incidente.»
«Forse non ha previsto che l'incidente potesse essere mortale. Può aver fatto semplicemente qualcosa per spaventare il cavallo, magari cacciando un urlo improvviso, o agitando un pezzo di carta bianca. A volte anch'io ho avuto la sensazione che nutrisse un rancore nei confronti di Ellie, un rancore per una ragione che non conoscevo.»
«Non è molto credibile.»
«Questa proprietà non le è mai appartenuta, vero?» chiesi. «Non è mai stata sua?»
«No. Può darsi che la sua gente sia stata cacciata di qua, un tempo. Gli zingari continuano a essere cacciati dalle proprietà altrui, ma non conservano mai un rancore tanto a lungo.»
«Sì, avete ragione. Ma ammettiamo per un attimo che esista una ragione che non conosciamo... Che qualcuno abbia pagato Esther...»
«Una ragione che non conosciamo? Quale ragione?»
Ci pensai sopra per un paio di minuti.
«Qualunque cosa possa dire vi sembrerà assurda» mormorai alla fine. «Ammettiamo, secondo la teoria di Keene, che sia stata pagata da qualcuno. Che cosa poteva volere questo qualcuno? Diciamo che il suo scopo era quello di farci andar via di qui. E ha puntato su Ellie perché io non mi sarei lasciato spaventare tanto facilmente. Ha spaventato Ellie per costringerla, e con lei costringere me, ad abbandonare questa casa. Il che significa che questo qualcuno aveva interesse che la casa fosse messa nuovamente in vendita. In altre parole, voleva la nostra proprietà.» Mi fermai.
«È un suggerimento logico» disse Phillpot «ma non riesco a immaginare una sola ragione perché questo qualcuno potesse desiderare la proprietà con tanta ostinazione.»
«Mettiamo che esista un importante deposito minerario» suggerii «del quale nessuno conosce l'esistenza.»
«Mmmm, ne dubito.»
«O qualcosa come un tesoro sepolto. Sì, lo so che suona assurdo. Oppure i proventi di una grossa rapina.»
Phillpot scuoteva ancora la testa, ma con meno veemenza.
«L'unica altra ipotesi» proseguii «è che esista un nemico di Ellie, un nemico che noi non conosciamo e che si è servito della signora Lee per vendicarsi.»
«Ma a quanto mi pare d'aver capito voi non credete che vostra moglie potesse avere dei nemici.»
«No. Non conosceva nessuno da queste parti. Ne sono sicuro. Non aveva mai avuto nessun rapporto con la gente di qui.» Mi alzai. «Comunque, grazie per avermi ascoltato.»
«Mi dispiace di non esservi stato maggiormente utile.»
Uscii, giocherellando con l'oggetto che avevo in tasca. Poi, prendendo una decisione improvvisa, girai bruscamente su me stesso e tornai nella stanza.
«C'è una cosa che vorrei mostrarvi» dissi. «Avevo deciso di portarla dal sergente Keene, ma vorrei che prima la vedeste voi.»
Affondai la mano in tasca ed estrassi un sasso rotondo, attorno al quale era legato un pezzo di carta sgualcita, con delle parole scritte a stampatello.
«L'hanno buttato in casa nostra una mattina» spiegai. «L'ho sentito fracassare i vetri della porta-finestra mentre scendevo le scale. Era già accaduto che ci buttassero un sasso, la sera in cui arrivammo qui. Non so se è la stessa persona.»
Tolsi la carta che avvolgeva il sasso e gliela porsi. Era un pezzo di carta sporco, sgualcito, con sopra delle lettere tracciate in inchiostro chiaro. Phillpot tirò fuori gli occhiali e si chinò a leggere. Il messaggio era molto breve. Diceva solo: "È stata una donna a uccidere vostra moglie".
Phillpot inarcò le sopracciglia.
«Straordinario» dichiarò. «Anche il primo messaggio era scritto in stampatello?».
«Non ricordo. Era solo un avvertimento ad andarcene di qui. Non ricordo neanche le parole esatte. Comunque, quello era stato scritto senza dubbio da qualche giovane teppista. Non mi pare che il secondo possa essere stato ideato dalla stessa persona.»
«Pensate che vi sia stato lanciato da qualcuno che sa qualcosa?»
«Probabilmente si tratta della solita persona maligna che si diverte a mandare messaggi anonimi. Nei paesi certe cose sono all'ordine del giorno.»
Il maggiore mi restituì il foglio.
«Comunque, fate bene a portarlo al sergente Keene» disse. «Se ne intende senz'altro più di noi, di messaggi anonimi.»
Trovai il sergente Keene alla stazione di polizia. Rimase molto colpito dalla cosa. Molto interessato.
«Succedono delle cose strane» mormorò.
«Secondo voi, che cosa significa?» chiesi.
«Difficile dirlo. Può darsi che si tratti di cattiveria spicciola per fare accusare qualcuno.»
«In questo caso, per fare accusare la signora Lee.»
«No, non mi sembra così semplice. Può darsi che la persona che l'ha scritto abbia udito o visto qualcosa. Che abbia udito un grido, a esempio, e poi abbia visto il cavallo correre da solo e, subito dopo, una donna. Ma a quanto pare la donna in questione non è la zingara, perché ormai tutti pensano che la zingara sia coinvolta in qualche modo in questa storia. Quindi il messaggio si riferisce a un'altra donna, a una donna completamente diversa.»
«E la signora Lee?» chiesi. «Avete avuto notizie di lei? L'avete trovata?»
Scosse la testa, lentamente.
«Sappiamo dove va, in genere, quando si assenta dal paese. Va nell'Anglia. Ha degli amici nelle tribù degli zingari. Non è andata a trovare i suoi amici, però. O almeno, così hanno detto. Ma l'avrebbero detto comunque. È gente che sa tenere la bocca chiusa, quando vuole. Comunque, la signora Lee è molto conosciuta da quelle parti, e neppure gli abitanti della zona l'hanno vista. Sono sicuro, però, che non si sia spinta oltre l'Anglia.»
C'era qualcosa di strano nel modo in cui pronunciò l'ultima frase.
«Non capisco» dissi.
«Considerate la cosa da questo punto di vista: quella donna ha paura. Ha delle ragioni per avere paura. Ha spaventato vostra moglie, l'ha minacciata, e ora, diciamo, ha causato un incidente che è costato la vita a vostra moglie. La polizia la cerca. E lei lo sa. Quindi, cercherà di mettere molta distanza tra questo paese e se stessa. E si nasconderà con tutti i mezzi possibili. Perché teme di essere riconosciuta da qualcuno.»
«Ma voi pensate che riuscirete ugualmente a trovarla?»
«Certo. Prima della fine la troveremo. Queste cose richiedono del tempo. Ammesso che sia andata come pensiamo.»
«A quanto mi sembra di capire, siete convinto che le cose non siano andate così.»
«Be', lo sapete che cos'ho pensato fin dal principio: che la signora Lee sia stata pagata da qualcuno, per fare ciò che ha fatto.»
«In questo caso, sarà ancor più ansiosa di scomparire» gli feci presente. «Perché avrà paura, oltre che della polizia, anche della persona che l'ha pagata.»
«Certamente. Ma a questo punto comincerà ad avere paura anche qualcun altro. Non dobbiamo dimenticarlo.»
«Parlate della persona che l'ha pagata?»
«Sì.»
«Ammettiamo che sia stata una donna a pagare la signora Lee.»
«E ammettiamo che qualcuno l'abbia sospettato e abbia cominciato a mandare messaggi anonimi. In questo caso, anche la donna in questione ha cominciato ad avere paura. Certo non si aspettava che le cose precipitassero fino a questo punto. Sono convinto che non desiderava la morte di vostra moglie: voleva solo che la signora Lee la spaventasse, tanto da costringerla ad abbandonare la sua proprietà.»
«Sì, avete ragione» mormorai. «La morte di mia moglie è giunta inaspettata anche per la persona che aveva deciso di spaventarla. Di spaventare mia moglie e me in modo che ce ne andassimo.»
«Ma ora chi ha più paura di tutti? La donna che ha causato l'incidente, non la signora Esther Lee. Perché teme che la zingara, spinta dal timore di essere accusata della morte di vostra moglie, venga da noi ad ammettere tutto e, magari, a fare il nome della persona che l'ha pagata. E a questa persona non piacerebbe neanche un po'. Vero, signor Rogers?»
«Alludete alla donna che, secondo noi, ha pagato la signora Lee? Può darsi, ma non dimenticate che tutta la nostra teoria regge solo su un'ipotesi campata in aria. Non siamo sicuri di niente.»
«Uomo o donna, qualcuno ha pagato la signora Lee. E questo qualcuno vuole senz'altro che la signora Lee non abbia la possibilità di parlare. Giusto?»
«Pensate che la zingara possa essere morta?»
«È una possibilità» disse Keene. Poi cambiò bruscamente argomento. «Signor Rogers, avete presente il "gazebo" che sorge in cima alla collina, nella vostra proprietà?»
«Sì, certo» risposi. «Ma che c'entra? Io e mia moglie l'avevamo riattato e di tanto in tanto ci andavamo. Di recente, però, non ci abbiamo messo più piede. Perché?»
«Be', abbiamo battuto tutta la zona e siamo arrivati fino al "gazebo". Non era chiuso.»
«No» dissi. «Non ci siamo mai presi la briga di chiuderlo. Non c'è mai stato niente di valore, dentro. Solo qualche poltrona e pochi altri oggetti.»
«Avevamo pensato che poteva averlo usato la signora Lee, ma non abbiamo trovato alcuna traccia. Abbiamo trovato questo, però. Se non foste venuto voi da me, sarei venuto io a mostrarvelo.» Apri un cassetto ed estrasse un piccolo accendino d'oro. Era un accendino da donna e aveva un'iniziale in brillanti. La lettera C. «Non è di vostra moglie, vero?»
«No. Il nome di mia moglie non cominciava con la C. No, non era di Ellie» dissi. «Non aveva niente di questo tipo. Non può essere neanche della signorina Andersen. Si chiama Greta.»
«Era lassù. Evidentemente l'ha perso qualcuno. Bell'oggetto, vero? Dev'essere costato parecchio.»
«C...» ripetei l'iniziale, pensierosamente. «Non riesco a ricordarmi nessuno il cui nome cominci con la C. A parte Cora.» Spiegai: «Cora è la matrigna di mia moglie. La signora van Stuyvesant. Ma non riesco a immaginarla arrampicarsi fino al "gazebo", su per quel viottolo pieno di erbacce. E poi, è parecchio che non viene da noi. Circa un mese. Non mi pare di averla mai vista usare quell'accendino. Ma a me certe cose sfuggono. Forse la signorina Andersen se ne ricorda.»
«Bene. Portatelo con voi e mostrateglielo.»
«Lo farò. Ma se è così, se l'accendino è di Cora, strano che non l'abbiamo visto quando siamo andati su al "gazebo". Non c'è molta roba, in giro. L'avremmo notato, se fosse stato sul pavimento... Era sul pavimento?»
«Sì, vicino al divano. Ma chiunque può usare quel "gazebo". È un posticino comodo per due innamorati che vogliono incontrarsi di nascosto. Parlo degli innamorati del paese. Solo che è improbabile che qualcuno di qui abbia un oggetto tanto costoso.»
«C'è Claudia Hardcastle!» esclamai. «Ma non credo che abbia oggetti tanto raffinati. E poi, che cosa potrebbe essere andata a fare, su al "gazebo"?»
«Era molto amica di vostra moglie, vero?»
«Sì. Era la sua migliore amica, da queste parti. E sapeva che a noi non sarebbe certo importato se avesse usato il "gazebo" quando e come le piaceva.»
«Ah!» esclamò il sergente Keene.
Lo guardai duramente. «Non penserete che Claudia Hardcastle fosse una... una nemica di Ellie, vero? Sarebbe assurdo.»
«D'accordo, apparentemente non esiste una sola ragione perché lo fosse. Ma con le donne non si sa mai.»
«Credo...» dissi. Ma m'interruppi, perché quello che stavo per dire poteva sembrare a dir poco strano.
«Sì, signor Rogers?»
«Se non mi sbaglio, Claudia Hardcastle è stata sposata con un americano, certo Lloyd. Be', il principale amministratore di mia moglie negli Stati Uniti si chiama Stanford Lloyd. Ma esistono migliaia di Lloyd, in America, e può darsi che si tratti semplicemente di una coincidenza. E poi, che cosa potrebbe avere a che fare con tutto questo?»
«Apparentemente niente. Eppure...» S'interruppe.
«Lo strano è che mi è parso di vedere Stanford Lloyd da queste parti... E proprio il giorno dell'incidente. Era al "George" di Bartington...»
«E non è venuto a salutarvi?»
Scossi la testa.
«Era in compagnia di una donna che assomigliava molto a Claudia Hardcastle. Ma forse mi sono sbagliato. Lo sapete, vero, che l'architetto che ha costruito la nostra casa è fratello della signorina Hardcastle?»
«La signorina s'interessava molto alla casa?»
«No» risposi. «Non credo che il tipo d'architettura di suo fratello le piaccia.» Mi alzai. «Non vi farò più perdere tempo. Cercate di trovare quella zingara.»
«State tranquillo, la cercheremo per mari e monti. Anche il coroner vuole parlarle.»
Lo salutai e uscii dalla stazione di polizia.
Come accade spesso quando si parla di una persona, questa persona appare all'improvviso di fronte a noi. Mentre passavo davanti all'ufficio postale, infatti, mi trovai faccia a faccia con Claudia Hardcastle, che ne usciva. Ci fermammo. Lei disse, con quella lieve traccia d'imbarazzo che ha la gente quando parla con qualcuno che ha appena avuto un lutto.
«Mike, sono rimasta sconvolta per la morte di Ellie. Non dirò di più. In genere, in questi casi si dicono solo delle sciocchezze. Ma dovevo... dovevo dirvi almeno questo.»
«Grazie» risposi. «Siete stata sempre molto gentile con Ellie. L'avete fatta sentire a casa, qui. Ve ne sono molto grato.»
«Volevo chiedervi una cosa, prima che partiste per l'America. Ho sentito che partirete molto presto.»
«Appena possibile. Ho un mucchio di cose da sistemare laggiù.»
«Si tratta... Be', se avete intenzione di mettere in vendita la casa, sarebbe meglio che lo decideste prima di andare in America... In questo caso vi sarei grata se mi permetteste di fare la prima offerta.»
La guardai con gli occhi sgranati. Rimasi molto sorpreso. Era l'ultima cosa che mi sarei aspettato.
«Intendete dire che sareste disposta a comprarla? Credevo che quel tipo di architettura non vi piacesse.»
«Mio fratello Rudolf ha affermato che è la casa più bella che abbia mai costruito. E penso che se ne intenda. Suppongo che intendiate chiedere un prezzo molto alto, ma sono disposta a pagarlo. Sì, voglio quella casa.»
Non potei fare a meno di pensare che era strano. Claudia Hardcastle non aveva mai dimostrato la minima ammirazione per la casa, quando veniva a trovarci. Mi chiesi, come mi ero già chiesto un paio di volte, quali fossero in realtà i suoi rapporti col suo fratellastro. Nutriva veramente una grande devozione per lui? A volte avevo avuto la sensazione che non le piacesse, addirittura che lo detestasse. Certo che parlava di lui in modo strano. Ma qualunque fosse il sentimento che provava per lui, non era certo indifferenza. No, era qualche cosa d'importante. Scossi lentamente la testa.
«Mi rendo conto che pensiate che voglia vendere la casa e andarmene di qui, ora che Ellie è morta» dissi. «Ma in realtà non ho nessuna intenzione di farlo. Abbiamo vissuto qui e siamo stati felici. Quella casa è il posto migliore in cui vivere per ricordare Ellie. Non venderò Campo degli Zingari... È fuori discussione! Mettetevelo bene in testa.»
I nostri sguardi s'incrociarono. Era come una sfida. Ma fu lei ad abbassare i suoi.
«Non sono affari miei» dissi. «Ma un tempo eravate sposata. Vostro marito si chiamava per caso Stanford Lloyd?»
Mi fissò per un attimo senza parlare.
Poi disse bruscamente: «Sì».
E se ne andò.
21
Confusione... Non riesco a ricordare altro, quando mi guardo indietro. Giornalisti che facevano domande... che chiedevano interviste... masse di lettere e di telegrammi... E Greta che si occupava di tutto...
La cosa che più mi meravigliò, ricordo, fu che i parenti di Ellie non erano in America, come avevamo pensato. Anzi, fu una specie di choc, per me, scoprire che in realtà erano quasi tutti in Inghilterra. In un certo senso era comprensibile che ci fosse Cora van Stuyvesant; era una donna irrequieta, sempre in giro per il mondo, dall'Italia alla Francia, da Londra all'America, da Palm Beach al ranch nel Texas. Qua, là, ovunque. Il giorno in cui Ellie era morta, Cora si trovava a meno di sessanta chilometri da noi, ancora alla ricerca affannosa di una casa da acquistare in Inghilterra. Aveva preso l'aereo, si era fermata a Londra per due o tre giorni e si era rivolta a un paio di nuovi agenti immobiliari perché le sottoponessero delle case da comprare. E il giorno della morte di Ellie aveva vagato per la regione, visitando cinque o sei ville.
Risultò che Stanford Lloyd era arrivato con lo stesso aereo di Cora, a quanto pareva per presenziare a una riunione d'affari a Londra. Vennero a conoscenza della morte di Ellie non attraverso i telegrammi che avevamo diramato in tutti gli angoli degli Stati Uniti, ma attraverso la stampa.
Vi fu una sgradevole discussione sul luogo di sepoltura di Ellie. Secondo me, era più che naturale che fosse sepolta dov'era morta. Qui dove avevamo vissuto insieme.
Ma i parenti di Ellie si opposero violentemente all'idea. Volevano che la salma fosse portata in America per essere sepolta coi suoi ascendenti, vicino a suo nonno, a suo padre, a sua madre e ad altri della famiglia. A ripensarci bene, anche loro avevano ragione.
Fu Andrew Lippincott a parlarne per primo con me. Espose la questione in modo molto ragionevole.
«Ellie non ha lasciato disposizioni sul luogo della sepoltura» mi fece notare.
«Perché avrebbe dovuto farlo?» risposi, fuori di me. «Quanti anni aveva? Ventuno? A ventun anni non si pensa certo di poter morire. Non si pensa certo al luogo in cui si vuole essere seppelliti. Se ne avessimo parlato, senza dubbio avremmo deciso di farci seppellire insieme, nello stesso posto, anche se fossimo morti in periodi diversi. Ma chi pensa alla morte nel pieno della vita?»
«Osservazione più che giusta» disse il signor Lippincott. Poi aggiunse: «Temo che dovrete venire in America. Ci sono innumerevoli questioni di cui dovrete occuparvi personalmente».
«Che tipo di questioni? Che cos'ho a che fare, io, con queste faccende?»
«Ne avrete a che fare parecchio» esclamò lui. «Vi rendete conto che siete il maggiore erede di Ellie?»
«Intendete dire perché ero suo marito?»
«No. Per testamento.»
«Non sapevo che Ellie avesse fatto testamento!»
«Oh, sì» fece lui. «Ellie era un'accorta donna d'affari. Doveva esserlo. Aveva sempre vissuto in mezzo a questioni del genere. Fece testamento poco dopo aver compiuto i ventun anni. Eravate già sposati, ormai. Lo depositò presso il suo avvocato di Londra e lo pregò di inviarmene una copia.» Esitò, poi disse: «Se verrete negli Stati Uniti, cosa che vi consiglio, sarà meglio che affidiate i vostri affari nelle mani di qualche valido legale».
«Perché?»
«Perché quando si è proprietari di un patrimonio ingente, con investimenti, immobili, azioni e interessi in varie industrie, si ha bisogno di consulenti di un certo livello.»
«Io non me ne intendo assolutamente di cose del genere» mormorai. «Non me ne intendo neanche un po'.»
«Me ne rendo conto» disse il signor Lippincott.
«Non potrei affidare a voi tutta la faccenda?»
«Sì, certo.»
«Bene. Allora è fatta.»
«Un momento. Secondo me, sarebbe meglio che aveste un vostro rappresentante personale. Io sono già consulente di alcuni membri della famiglia, e potrebbe sorgere qualche conflitto d'interessi. Se affidate la cosa nelle mie mani, farò in modo che i vostri interessi siano protetti da un legale fidato e preparato.»
«Grazie» dissi. «Siete molto gentile.»
«Mi permettete di essere indiscreto?» Mi parve leggermente a disagio... L'idea che Lippincott potesse essere indiscreto mi divertiva enormemente.
«Certo» risposi.
«Vorrei consigliarvi di stare molto attento a ciò che firmate, soprattutto se si tratta di documenti finanziari. Leggete attentamente, prima di apporre la firma.»
«Perché, pensate forse che i documenti finanziari avrebbero qualche significato, per me, anche se li leggessi?»
«Se non vi fossero del tutto chiari, passateli al vostro legale.»
«Volete mettermi in guardia contro qualcosa o qualcuno?» chiesi, con interesse improvviso.
«È una domanda alla quale non mi sento di rispondere» esclamò il signor Lippincott. «Mi limiterò a ricordarvi che quando ci sono in ballo grosse somme di denaro, è sempre meglio non fidarsi di nessuno.»
E così, voleva veramente mettermi in guardia contro qualcuno, ma non era disposto a fare nomi. Che alludesse a Cora? Oppure nutriva dei sospetti - magari da lunga data - nei confronti di Stanford Lloyd, il florido banchiere cordiale e pieno di bonomia che era venuto a Londra di recente, per "affari"? O alludeva a zio Frank, nel timore che cercasse di raggirarmi facendomi firmare dei documenti a suo favore? All'improvviso mi vidi coi suoi occhi: un povero ragazzo innocente che nuotava in una pozza d'acqua circondata da perfidi coccodrilli mascherati da individui premurosi e sorridenti.
«Il mondo» disse il signor Lippincott «è un posto pieno di cattiveria.»
Forse era una cosa stupida da dire, ma all'improvviso gli rivolsi una domanda: «La morte di Ellie porta beneficio a qualcuno?».
Mi guardò negli occhi, sorpreso.
«Strana domanda» mormorò. «Come mai vi è venuta in mente?»
«Non lo so» risposi. «Senza nessuna ragione particolare.»
«Porta beneficio a voi.»
«Certo» ribattei. «Questo l'ho capito. Ma non parlavo di me. Chiedevo se porta beneficio a qualcun altro.»
Il signor Lippincott restò silenzioso per qualche minuto.
«Se intendete chiedermi quali sono le altre persone che beneficiano della morte di Fenella, devo rispondervi che praticamente non ne esistono. O almeno, i benefici non sono tali da poter essere considerati notevoli. Fenella ha provveduto a lasciare qualcosa ad alcuni vecchi domestici, alla sua governante e a un paio d'istituti di carità, ma niente di particolarmente sostanzioso. C'è anche un legato a favore della signorina Andersen, ma piuttosto limitato, perché come già sapete Fenella le aveva già consegnato una somma considerevole.»
Feci un cenno d'assenso. Ellie mi aveva messo al corrente della cosa.
«Eravate suo marito, e Fenella non aveva altri parenti veri e propri. Ma ho la sensazione che la vostra domanda volesse parare da qualche parte.»
«Non lo so neanch'io dove volesse parare» dissi. «Ma non so come, siete riuscito a rendermi sospettoso. Di tutto e di tutti. Non me ne intendo di economia.»
«Questo è evidente. Vi assicuro, comunque, che non volevo mettervi in guardia contro qualcuno in particolare. Quando muore una persona molto ricca, in genere si è tenuti a presentare i conti ai suoi eredi. Solo che la cosa può essere effettuata nel giro di pochi mesi, oppure rimandata praticamente all'infinito.»
«Ho capito. Pensate che qualcuno degli altri amministratori possa tentare di mettermi nel sacco, facendomi firmare un'accettazione, o come diavolo si chiama in termini tecnici.»
«Se gli investimenti di Fenella non erano tutti nelle condizioni ottimali che pensiamo, allora... be', la sua morte prematura può essere stata provvidenziale per qualcuno. Non farò nomi, ma questo qualcuno preferirà senza dubbio avere a che fare con una persona sprovveduta come voi, piuttosto che con una donna d'affari come Fenella. Ma non dirò altro sull'argomento. Mi sono spinto anche troppo oltre. Non sarebbe giusto continuare su questo tasto.»
Il servizio funebre fu molto semplice. Se avessi potuto non andarci l'avrei fatto. Tutta la gente riunita davanti alla chiesa in attesa del mio arrivo mi dette terribilmente sui nervi. Mi fissavano con occhi attenti, curiosi. Greta mi aiutò a superare i momenti più difficili. Fino a quel momento non mi ero ancora reso conto di quanto fosse forte, sicura di sé. Aveva pensato a tutto: ai fiori, alle partecipazioni, ai ringraziamenti. Ora capivo come mai Ellie si fosse sempre tanto appoggiata a lei. Non esistono molte Grete, al mondo.
Le persone ammassate in chiesa erano soprattutto abitanti del paese. Gente che conoscevo appena di vista. Ma notai la faccia che pensavo di conoscere e che non ricordavo dove avevo visto. Quando arrivai a casa, Carson annunciò che c'era un signore, in salotto. Voleva parlarmi.
«Non voglio vedere nessuno, oggi! Non dovevate neanche farlo entrare! Mandatelo via!»
«Scusatemi, signore, ma ha detto che è un parente.»
«Un parente?»
All'improvviso ricordai l'uomo che avevo visto in chiesa.
Carson mi stava nel frattempo porgendo un biglietto da visita.
In un primo momento non significò niente, per me, William R. Pardoe. Lo girai da tutte le parti, scossi la testa e lo porsi a Greta.
«Sapete chi sia, per caso?» le chiesi. «La sua faccia mi è sembrata familiare, ma non sono riuscito a ricordare dove l'avevo vista. Forse è un lontano parente di Ellie.»
Greta prese il biglietto, lo lesse, poi annuì.
«Certo.»
«Chi è?»
«Zio Reuben. Ricordate? Il cugino di Ellie. Vi ha parlato di lui, no?»
A questo punto ricordai perché avevo avuto la sensazione di averlo già visto. Ellie aveva sempre tenuto le fotografie dei suoi parenti in camera da letto, appoggiate sui ripiani dei mobili. Ecco perché la faccia di quell'uomo mi era parsa tanto familiare. Avevo avuto la sua fotografia sotto gli occhi per parecchio tempo.
«Vengo subito» dissi a Carson.
Poco dopo entravo nel soggiorno. Il signor Pardoe si alzò, dicendo:
«Michael Rogers? Forse non conoscete il mio nome, ma vostra moglie era mia cugina. Mi chiamava zio Reuben. Spero che vi abbia parlato di me, anche se non abbiamo avuto la fortuna di conoscerci. È la prima volta che ho occasione di venire in Inghilterra, dopo il vostro matrimonio».
«Certo che mi ha parlato di voi.»
Non è facile descrivere Reuben Pardoe. Era un omaccione corpulento dalla faccia carnosa e gli occhi perennemente distratti, come se pensasse sempre a qualcos'altro. Ma dopo aver parlato con lui per qualche minuto ci si rendeva conto che era tutt'altro che distratto, e molto più intelligente di quanto non sembrasse a prima vista.
«Non so dirvi quanto sia rimasto sconvolto e addolorato dalla morte di Ellie» disse.
«Preferisco non parlarne» risposi. «Non sono ancora in me.»
«Certo, certo, me ne rendo conto.»
Aveva una certa carica di simpatia, ma nonostante questo c'era qualcosa, in lui, che mi metteva lievemente a disagio. Dissi, mentre entrava Greta:
«Conoscete la signorina Andersen?».
«Naturalmente, Come state, Greta?»
«Abbastanza bene. Siete in Inghilterra da molto?»
«Un paio di settimane. Ho fatto un viaggetto.»
Poi ricordai. E dissi impulsivamente:
«Vi ho visto l'altro giorno».
«Davvero? Dove?»
«A una vendita all'asta, in un posto chiamato Bartington Manor.»
«Ricordo, ora» esclamò. «Sì, sì, ricordo di avervi notato. Eravate in compagnia di un uomo sulla sessantina. Un tipo coi baffi grigi.»
«Proprio così. Il maggiore Phillpot.»
«Eravate molto allegri. Tutti e due.»
«È vero. Non mi ero mai sentito così felice...» E ripetei, con la strana sorpresa che continuavo a provare: «Non mi ero mai sentito così felice».
«Naturale... Ancora non sapevate quello che stava per accadere. Era il giorno dell'incidente, vero?»
«Sì. Ellie avrebbe dovuto raggiungerci per fare colazione con noi.»
«Tragico» disse zio Reuben. «Veramente tragico.»
«Non sapevo che foste in Inghilterra» dissi. «Neanche Ellie lo pensava, credo.» Aspettai per sentire che cos'aveva da dire.
«No» rispose. «Non le avevo scritto. Non avevo idea di quanto mi sarei fermato. Ma siccome avevo concluso i miei affari prima di quanto mi fossi aspettato, cominciavo a chiedermi se non mi sarebbe rimasto un ritaglio di tempo per venire a trovarvi. Dopo l'asta, naturalmente...»
«Siete venuto dagli Stati Uniti per affari?» domandai.
«Be'... Si e no. Cora aveva bisogno del mio consiglio su un paio di questioni. Una riguardava la casa che aveva intenzione di comprare da queste parti.»
Fu allora che mi disse che anche Cora era in Inghilterra. Di nuovo commentai:
«Non lo sapevamo.»
«Anzi, Cora abitava poco lontano di qui.»
«Poco lontano di qui? In albergo?»
«No, era ospite di un'amica.»
«Non sapevo che Cora avesse degli amici da queste parti.»
«Una donna che si chiama.. Come diavolo si chiama? Hard... qualcosa. Hardcastle.»
«Claudia Hardcastle?» Ero sorpreso.
«Sì. È molto amica di Cora. Cora l'aveva conosciuta quando era negli Stati Uniti. Non lo sapevate?»
«Mi rendo conto di sapere molto poco» mormorai. «Molto poco, su tutti voi.»
Guardai Greta.
«Voi lo sapevate che Cora conosceva Claudia Hardcastle?»
«Non mi pare di averla mai sentita parlare di lei» rispose Greta.
«Ecco perché Claudia non si è fatta viva, quel giorno.»
«È vero!» esclamai. «Dovevate incontrarvi a Market Chadwell... per andare insieme a fare spese a Londra.»
«Sì. Ma non è venuta. Ha telefonato qui subito dopo che io ero uscita e ha lasciato detto che era arrivata una sua amica dall'America, inaspettatamente, e che non poteva uscire.»
«Chissà se l'amica era Cora...?» chiesi.
«Certo che era lei» disse Reuben Pardoe. Scosse la testa. «Che confusione!» esclamò. Poi: «A quanto ho sentito, l'inchiesta è stata aggiornata.»
«Sì» risposi.
Scosse la testa e si alzò.
«Ora vi lascio, perché penso che preferiate restare solo» disse. «Se avete bisogno di qualcosa non fate complimenti. Mi troverete all'Hotel Majestic di Market Chadwell».
Risposi che purtroppo non poteva fare niente e lo ringraziai. Quando se ne fu andato, Greta disse:
«Chissà che cosa vuole. Perché è venuto?» Poi, con voce tagliente: «Vorrei tanto che se ne tornassero di dove sono venuti!».
«Mi chiedo se l'uomo che ho visto al "George" era veramente Stanford Lloyd... Non ho avuto modo di osservarlo bene.»
«A quanto pare, era con una donna che assomigliava a Claudia, quindi non poteva essere che lui. Forse è venuto per parlare con Claudia, e Reuben è venuto per parlare con Cora. Che pasticcio!»
«Non mi va... Non mi va di avere tutta questa gente continuamente per i piedi.»
Greta commentò che spesso la vita è fatta di complicazioni, ma che non bisogna prendersela... Come al solito, fu ottimista ed equilibrata.
22
Ormai non avevo più niente da fare a Campo degli Zingari. Affidai la casa a Greta e partii per gli Stati Uniti, dove mi sarei occupato dei miei affari e avrei presenziato alle esequie di Ellie. Temevo che sarebbe stato il funerale più pacchiano e più orribile che avessi mai visto.
«Quando si va nella giungla» mi mise in guardia Greta «bisogna stare molto attenti, se non si vuole essere spellati vivi.»
Aveva ragione. Mi trovai veramente in una specie di giungla. Me ne accorsi appena arrivato. Ero fuori dal mio elemento e me ne rendevo conto. Non ero il cacciatore, ma la preda. Ero circondato da persone che mi sorvegliavano di nascosto, che mi puntavano i fucili addosso da ogni parte. Ma forse, a volte, era tutto frutto della mia fantasia. Altre volte, invece, i miei sospetti erano giustificati. Ricordo che andai dall'avvocato procuratomi dal signor Lippincott, un individuo molto educato, che mi trattò con rispetto ed estrema educazione. Mi avevano consigliato di liberarmi di certe miniere, le cui azioni non erano del tutto solide.
L'avvocato mi chiese chi me l'aveva consigliato, e io risposi che era stato Stanford Lloyd.
«Allora dobbiamo prendere in considerazione la cosa» disse. «Se un uomo come Stanford Lloyd dà consigli del genere, bisogna se non altro approfondire la questione. È un intenditore.»
Invece più tardi mi disse:
«Le vostre azioni sono solidissime e non c'è nessun bisogno di sbarazzarvi delle miniere in tutta fretta, anche se Stanford Lloyd dice il contrario. Tenetevele care, anzi.»
Cominciai ad avere la sensazione di averci visto giusto: tutti tentavano di farmela. Sapevano benissimo che ero un sempliciotto, nel campo degli affari.
Il funerale fu grandioso e, almeno secondo me, orribile. Pacchiano, come avevo temuto. Al cimitero, montagne di fiori. Il cimitero stesso, poi, sembrava un immenso parco. E lo status della defunta era espresso in migliaia di dollari di marmo pregiato. Ero sicuro che Ellie avrebbe detestato tutta quella pompa. Ma a conti fatti i suoi parenti avevano il diritto di esprimere il loro dolore come meglio credevano.
Quattro giorni dopo il mio arrivo a New York, ebbi notizie dà Kingston Bishop.
Il cadavere della signora Lee era stato trovato in un crepaccio, dall'altra parte della collina. La zingara era morta da almeno quattro giorni. C'erano già stati degli incidenti, in quel crepaccio, e da tempo si parlava di far mettere un recinto, ma ancora non era stato fatto niente. Il verdetto era stato di morte accidentale, e il Consiglio Comunale era stato sollecitato a far recintare al più presto la zona. Nella villetta della signora Lee erano state trovate tremila sterline nascoste sotto le tavole del pavimento, tutte in banconote da una sterlina.
Il maggiore Phillpot aveva aggiunto un post scriptum: "Vi dispiacerà sapere che Claudia Hardcastle è caduta da cavallo, ieri, ed è rimasta uccisa".
Claudia... uccisa? Non riuscivo a crederci! La notizia mi sconvolse. Due persone uccise per una caduta da cavallo nel giro di quindici giorni. Una coincidenza quasi impossibile.
Non voglio soffermarmi sul periodo che trascorsi a New York. Ero uno straniero in un'atmosfera ostile. Sentivo di dover stare continuamente attento a quello che facevo o dicevo. La Ellie che conoscevo, la Ellie che mi era appartenuta in modo quasi totale, era molto diversa. Non la ritrovai, a New York. Ora la vedevo solo come una ragazza americana, erede di un enorme patrimonio, circondata da amici, conoscenti e lontani parenti, membro di una famiglia che viveva là da cinque generazioni. Era giunta nel mio paese come una cometa, di passaggio.
Ora era tornata per farsi seppellire tra la sua gente, nel paese in cui si trovava la sua vera casa. Ero contento di vederla sotto questa nuova luce. Non sarebbe stato facile, per me, saperla nel piccolo camposanto tra i pini, a Campo degli Zingari. No, non sarebbe stato facile.
"Torna coi tuoi, Ellie" dissi tra me.
Di tanto in tanto mi tornava in mente la canzone che Ellie amava cantare, accompagnandosi con la chitarra. Ricordavo le sue dita esili che pizzicavano dolcemente le corde.
Ogni giorno, a tutte l'ore nasce un uomo che al dolore...
E pensavo: "È vero per te. Eri nata per il fulgore della gioia. Sei stata fulgidamente felice, a Campo degli Zingari. Ma non è durata molto. Ora è finita. Sei tornata dove forse non esiste molta gioia, dove non sei stata felice. Ma sei 'a casa'. Sei tra la tua gente".
Mi chiesi all'improvviso dove sarei stato io, quando fosse arrivato il momento della mia morte. A Campo degli Zingari? Forse. Mia madre sarebbe venuta ad assistere al mio funerale... se non era già morta. Ma non riuscivo a pensare a mia madre morta. Mi era più facile pensare a me stesso morto. Sì, sarebbe venuta al mio funerale. E forse la durezza che le irrigidiva i lineamenti si sarebbe addolcita. Distolsi la mente da lei. Non volevo pensare a lei. Non volevo più vederla, non volevo più starle vicino.
Non volevo più vederla? No, non è esatto. Con mia madre non era mai questione di vederla. Era sempre lei che vedeva me, con quegli occhi che mi trapassavano da parte a parte, emettendo una specie di forza magnetica che mi paralizzava. Pensai: "Le madri sono diaboliche! Perché continuano a preoccuparsi per i figli? Perché sono convinte di sapere tutto dei loro figli? Invece non è vero. Non è vero! Dovrebbe essere felice per me, orgogliosa di me, felice per la vita stupenda che sono riuscito a raggiungere. Dovrebbe...". A questo punto mi sforzai di non pensare più a mia madre.
Quanto restai negli Stati Uniti? Non riesco neanche a ricordarmene. Fu come un'eternità, comunque. Un'eternità fatta di prudenza, di cautela, di individui che mi scrutavano continuamente, con le labbra atteggiate al sorriso e gli occhi pieni di inimicizia. Tutti i giorni mi ripetevo: "Devo uscirne... Devo superare questa prova. E poi...". Erano come un toccasana, quelle due parole. Le ripetevo continuamente. Tra me, s'intende. Me le ripetevo giorno per giorno. Le due parole del mio futuro. "E poi..." Le usavo così come fino a qualche tempo prima avevo usato la parola "voglio".
Tutti si davano un gran daffare per essere gentili con me, perché ero ricco! Grazie al testamento di Ellie, anzi, ero un uomo estremamente ricco. Che strana sensazione. Avevo investimenti dei quali non capivo niente. E azioni, proprietà, depositi. Non sapevo neanche da che parte cominciare ad amministrarli.
Il giorno prima di ripartire per l'Inghilterra ebbi un lungo colloquio col signor Lippincott. Quando pensavo a lui lo chiamavo sempre così: il signor Lippincott. Non era mai diventato zio Andrew, per me. Gli dissi che avevo intenzione di non usare più Stanford Lloyd come amministratore.
«Davvero?» Mi fissò con le sopracciglia grigie inarcate, gli occhietti astuti fissi su di me, la faccia inespressiva. Mi chiesi che cosa volesse dire, in realtà, quel "davvero".
«Pensate che faccia bene?» gli chiesi ansioso.
«Avrete le vostre buone ragioni, immagino.»
«No» risposi. «Nessuna ragione. Una sensazione, niente di più. Credo però di potervi dire tutto quello che mi passa per la testa...»
«Tutto quanto mi direte resterà tra noi.»
«E va bene» mi decisi. «Ho la sensazione che Stanford Lloyd sia un farabutto.»
«Ah!» Il signor Lippincott sembrava molto interessato. «Sì, forse il vostro intuito non sbaglia.»
E così capii che avevo ragione. Stanford Lloyd aveva fatto il furbo e aveva approfittato in lungo e in largo del patrimonio di Ellie. Preparai una delega e la porsi a Lippincott.
«Siete disposto ad accettarla?» chiesi.
«Per quanto riguarda le questioni finanziarie potete fidarvi ciecamente di me» rispose. «Farò del mio meglio per proteggere i vostri interessi. Non credo che avrete mai ragione di lamentarvi del mio operato.»
Mi chiesi che cosa intendesse dire con esattezza. Ma certo intendeva dire qualcosa. Con ogni probabilità, che non gli piacevo, che non gli ero mai piaciuto, ma che siccome ero stato il marito di Ellie avrebbe fatto del suo meglio per aiutarmi finanziariamente. Firmai tutti i documenti necessari. Alla fine mi chiese come avevo intenzione di tornare in Inghilterra. In aereo? Risposi di no. Avrei preso la nave.
«Ho bisogno di restare solo con me stesso» dissi. «Credo che un viaggio per mare mi farà bene.»
«Vi siete già scelto una residenza?»
«Sì. Campo degli Zingari.»
«Ah! Intendete continuare ad abitare là?»
«Sì.»
«Pensavo che avreste deciso di venderla.»
«No.» E lo dissi con voce più tagliente di quanto non avessi intenzione. Non ci pensavo neppure lontanamente di dividermi da Campo degli Zingari. Campo degli Zingari aveva fatto parte dei miei sogni, dei sogni nei quali mi ero cullato fin da quando ero ragazzo.
«Chi si occupa della casa durante la vostra assenza?» domandò.
Risposi che l'avevo affidata a Greta Andersen.
«Ah!» esclamò il signor Lippincott. «Già, Greta.»
Il modo in cui disse "Greta" sottintendeva qualcosa, ma non capii con esattezza che cosa. Che gli fosse antipatica era evidente. Gli era sempre stata antipatica. Vi fu una pausa imbarazzata, poi mi resi conto che dovevo dire qualcosa.
«È stata molto buona con Ellie» dichiarai. «L'ha curata quando era malata, è venuta a vivere con noi e si è occupata di lei. Le sono... le sono molto grato per tutto quello che ha fatto. Vorrei tanto che lo capiste. Non potete immaginare quanto mi sia stata utile. Ha pensato a tutto, si è preoccupata di tutto, dopo la morte di Ellie. Non so che cos'avrei fatto, senza di lei.»
«Me ne rendo conto, me ne rendo conto» mormorò il signor Lippincott. Aveva parlato con voce dura. Non l'avrei mai immaginato capace di tanta freddezza.
«Devo molto a quella ragazza» insistetti.
«Capisco. È molto efficiente.»
Mi alzai, lo salutai e lo ringraziai di tutto.
«Non avete niente di cui ringraziarmi» disse lui, ancor più gelido.
E aggiunse: «Vi manderò una breve lettera. La indirizzerò a Campo degli Zingari. Se prendete la nave, con ogni probabilità la troverete già a casa, al vostro arrivo». Poi aggiunse: «Buon viaggio».
Gli chiesi, con una certa esitazione, se aveva conosciuto la moglie di Stanford Lloyd... una certa Claudia Hardcastle.
«Ah, intendete parlare della sua prima moglie. No, non l'ho mai conosciuta. Credo che il matrimonio sia durato molto poco. In seguito, Stanford Lloyd si è risposato, ma anche il secondo matrimonio è fallito.»
Ecco come stavano le cose.
Quando tornai in albergo trovai un telegramma. Era del primario di un ospedale della California: mi comunicava che un mio amico, Rudolf Santonix, aveva chiesto di me, aveva poco da vivere e voleva vedermi prima di morire.
Chiesi alle linee marittime di annullare la mia prenotazione e di rimandarla per la nave successiva, e presi l'aereo per San Francisco. Santonix non era ancora morto, ma si spegneva alla svelta. I medici dissero che temevano che non riprendesse conoscenza, prima di morire. Ma qualche giorno prima aveva chiesto insistentemente di me. Rimasi seduto nella stanza d'ospedale a guardarlo, a guardare l'ombra dell'uomo che avevo conosciuto. Aveva sempre avuto l'aria malata e una sorta di trasparenza strana, una delicatezza, un'esilità particolari. Ma ora sembrava una figura di cera. Rimasi seduto a pensare: "Come vorrei che aprisse gli occhi e mi parlasse. Come vorrei che dicesse qualcosa, prima di morire. Qualunque cosa".
Mi sentivo così solo, così orribilmente solo! Ero riuscito a sfuggire ai nemici ed ero arrivato al fianco di un amico. Il mio unico amico. Era la sola persona al mondo che avesse capito tutto di me, oltre alla mamma. Ma non volevo pensare alla mamma.
Un paio di volte parlai con un'infermiera, le domandai se non potevano fare qualcosa, ma lei scosse la testa e rispose vagamente di no, senza darmi ulteriori spiegazioni.
«Potrebbe riprendere conoscenza. Ma non ne siamo sicuri.»
Rimasi al mio posto. Poi, alla fine, Santonix si mosse, sospirò. L'infermiera lo sollevò delicatamente sui cuscini. Lui mi guardò, ma non capii se mi aveva riconosciuto. Mi fissava, ma era come vedesse qualcosa oltre di me. Poi, all'improvviso, vi fu un mutamento nel suo sguardo. Pensai: "Mi ha visto! Mi ha riconosciuto!".
Sussurrò qualcosa con voce flebile. Mi chinai sul letto per sentire. Ma erano parole senza alcun significato. Poi il suo corpo ebbe una violenta contrazione, un sussulto. E a questo punto Santonix urlò: «Idiota!... Idiota, perché non hai scelto l'altra strada?».
Poi ricadde e morì.
Non so che cosa volle dirmi, né se sapeva lui stesso che cosa stava dicendo.
Fu l'ultima volta che vidi Santonix. Oggi mi chiedo se avrebbe potuto sentirmi, se gli avessi detto qualcosa. Avrei voluto ripetergli che la casa che aveva costruito per me era la cosa più bella che avevo al mondo. La cosa che più aveva importanza, per me. Strano che una casa potesse significare tanto. Doveva essere una specie di simbolo. Qualcosa che si desidera, che si desidera al punto da non sapere con esattezza che cosa sia. Ma lui l'aveva capito, che cos'era, e me l'aveva donata. E ora era mia. E ora stavo per tornarci.
Torno a casa. Quando salii sulla nave non riuscivo a pensare ad altro. Un solo pensiero e un'infinita stanchezza... E poi un'immensa ondata di felicità, scaturita dalle radici del mio essere.
Tornavo a casa. Tornavo a casa...
Torna a casa il marinaio
a casa torna dal mare.
Torna a casa il cacciatore
a casa torna dal bosco...
23
Sì, ecco che cosa facevo. Era fatta, ormai. L'ultima tappa del viaggio.
Mi sembrava che fossero passati secoli, dall'epoca della mia irrequieta giovinezza. Dai giorni del "voglio, voglio". Ma non era passato molto. Meno di un anno...
Ripensai a tutto ciò che era successo, restando sdraiato sulla cuccetta, nella cabina della nave.
L'incontro con Ellie, le ore che avevo trascorso in Regent's Park, il nostro matrimonio. La casa... Santonix che la costruiva... la casa pronta ad accoglierci. Mia, tutta mia. Ero me stesso, finalmente... Me stesso, me stesso, me stesso, come avevo sempre desiderato. Avevo tutto quello che desideravo e stavo tornando a casa a godermelo.
Prima di lasciare New York avevo scritto una sola lettera, che avevo spedito via aerea perché arrivasse prima di me. Avevo scritto a Phillpot. Non so perché, avevo la sensazione che solo Phillpot potesse capire. Gli altri no.
Ed era più facile dirglielo per lettera che a voce. Tanto più che doveva saperlo. Tutti dovevano saperlo. Qualcuno, con ogni probabilità, non avrebbe capito. Ma lui si. Ne ero sicuro. Aveva visto coi suoi occhi quanto erano state vicine Ellie e Greta, quanto Ellie si era appoggiata a Greta. Ora si sarebbe reso conto senza dubbio che anch'io dovevo appoggiarmi a lei, che non mi sarebbe stato possibile vivere solo nella casa in cui avevo vissuto con Ellie, che avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse. Non so se riuscii a esprimere tutto questo: so solo che feci del mio meglio.
"Voglio che siate il primo a saperlo" scrissi. "Siete stato molto gentile con noi. Sono certo che solo voi potete capire. Non riesco a sopportare l'idea di vivere da solo a Campo degli Zingari. Ci ho pensato per tutto il periodo in cui mi sono fermato in America e ho deciso che appena arriverò a casa chiederò a Greta se vuole sposarmi. È l'unica persona con la quale potrò parlare di Ellie. Greta mi capirà. Non so se accetterà di sposarmi, ma credo di si. Sarà come se fossimo di nuovo tutti e tre insieme".
Scrissi la lettera tre volte, prima di riuscire a mettere giù quello che volevo dire. Phillpot l'avrebbe ricevuta almeno un paio di giorni prima del mio arrivo.
Quando la nave si avvicinò all'Inghilterra salii sul ponte. Guardai la terra che si faceva sempre più distinta, pensando: "Come vorrei che Santonix fosse qui con me". Lo desideravo veramente. Desideravo che assistesse alla realizzazione dei miei sogni. Tutto quello che avevo desiderato... tutto quello che avevo pensato... tutto quello per cui mi ero battuto.
Avrei dimenticato l'America, avrei dimenticato quel branco di avidi arruffoni che mi detestavano e che io detestavo. Quei poco di buono che mi guardavano dall'alto in basso solo perché avevo delle origini misere. Tornavo in trionfo! Tornavo al bosco di pini e alla pericolosa strada tutta curve che saliva verso Campo degli Zingari, fino alla casa sulla collina. La mia casa! Tornavo alle due cose che più desideravo al mondo: la casa e quella donna meravigliosa... L'avevo sempre saputo che un giorno avrei incontrato una donna stupenda. E l'avevo incontrata. Una donna di sogno. L'avevo capito appena l'avevo vista che era la mia donna, che lo sarebbe sempre stata. E che io sarei stato il suo uomo. E ora, finalmente, tornavo da lei.
Nessuno mi vide arrivare a Kingston Bishop. Era quasi buio, quando scesi dal treno. M'incamminai lungo una stradetta secondaria, perché non volevo incontrare qualcuno. Non quella sera...
Il sole era ormai completamente tramontato, quando raggiunsi la strada che saliva verso Campo degli Zingari. Avevo detto a Greta che era arrivato il momento, e lei mi aspettava a casa. Finalmente! Era finita, ormai, coi sotterfugi e con le finzioni... La finzione che Greta non mi piacesse. Ora risi tra me, ripensando alla parte che avevo recitato con tanta cura fin dal principio, quando avevo assunto un atteggiamento ostile nei confronti di Greta, facendo capire che non mi piaceva, che non volevo che venisse a stare con noi. Sì, ero stato molto abile. Ci avevano creduto tutti, al mio atteggiamento. Ricordai anche la discussione che avevamo avuto quel giorno sulla terrazza: anche quella era stata prestabilita, perché Ellie potesse sentirci.
Greta aveva capito com'ero fatto fin dal primo momento in cui mi aveva conosciuto. Non avevamo mai nutrito stupide illusioni l'uno sul conto dell'altra. Lei aveva il mio stesso tipo di mentalità, desiderava le stesse cose che desideravo io. Volevamo il Mondo, e non ci saremmo accontentati d'altro. Volevamo tutto ciò che la vita poteva offrirci. Volevamo soddisfare qualunque ambizione. Volevamo avere tutto, non volevamo negarci niente. Ricordo ancora fino a che punto le aprii il mio cuore il giorno in cui l'avevo conosciuta, ad Amburgo. Come le raccontai tutti i miei sogni, come le spiegai il desiderio irresistibile che mi spingeva a desiderare tante cose. Non avevo avuto bisogno di nasconderle la mia disordinata avidità, perché lei nutriva lo stesso tipo di avidità.
Aveva detto: «Per avere ciò che desideri dalla vita, hai bisogno di quattrini».
«Sì. E non so come farò a procurarmeli.»
«Non certo col lavoro. Non sei il tipo.»
«Lavoro!» avevo esclamato. «Dovrei lavorare per anni, e non sono disposto ad aspettare tanto. Non voglio ottenere ciò che voglio quando avrò cinquant'anni! La conosci la storia di Schliemann, no? Ha lavorato, faticato e si è fatto una fortuna per realizzare il sogno della sua vita: andare a Troia e organizzare degli scavi per rintracciare le rovine della città. Ha realizzato il suo sogno, certo, ma l'ha realizzato quando aveva ormai quarant'anni. Io non voglio aspettare tanto. Quarant'anni! A quarant'anni si è vecchi, ormai. Si ha un piede nella fossa. Voglio godermi la vita finché sono giovane e pieno di energie. Anche tu lo vuoi, vero?»
«Sì. E conosco il modo per realizzare i nostri sogni. È facile. Strano che tu non ci abbia già pensato. Piaci alle donne, vero? Sono convinta di si. Lo vedo. Lo sento.»
«Pensi forse che le donne m'interessino? Che mi abbiano mai interessato? C'è una sola donna al mondo che voglio: te. E tu lo sai. Ti appartengo. L'ho capito appena ti ho vista la prima volta. Lo sapevo che prima o poi avrei incontrato una ragazza così. E l'ho incontrata. Ti appartengo.»
«Sì» aveva mormorato Greta. «È vero.»
«E tutti e due vogliamo le stesse cose dalla vita.»
«Ti dico che è facile. Facilissimo. Basterà che sposi una ragazza ricca, una delle ragazze più ricche del mondo. Sono in grado di aiutarti.»
«Non essere assurda!»
«Non sono assurda. È la verità.»
«No» avevo ribattuto. «Non è questo che desidero. Non voglio essere il marito di una donna ricca. Non voglio che sia mia moglie a comprarmi ciò che desidero, non voglio essere tenuto in una gabbia d'oro. No, non voglio questo. Una moglie ricca mi terrebbe come uno schiavo.»
«No. Ti sbagli. Una cosa del genere non deve necessariamente durare a lungo. Le mogli muoiono.»
L'avevo fissata, sbalordito.
«Sei scandalizzato, vero?» aveva chiesto lei.
«No. Neanche per sogno.»
«Lo sapevo che non ti saresti scandalizzato. Anzi, ho addirittura pensato che tu avessi già...»
Mi aveva fissato interrogativamente, ma io non avevo risposto. No, non avrei mai risposto a una domanda del genere. Avevo ancora sufficiente spirito di conservazione. Esistono dei segreti che nessuno deve conoscere, oltre a noi. Non che i miei segreti fossero importanti, ma non volevo pensare soprattutto al primo. Mi rendevo conto che era puerile, che non significava gran che, ma preferivo non parlarne. Quando ero ragazzo avevo fatto una malattia per un orologio automatico che un mio compagno di scuola aveva avuto in regalo per il suo compleanno. Lo volevo. Lo volevo a tutti i costi. Era un orologio di lusso, che doveva valere un piccolo patrimonio. Al mio compagno era stato regalato da un padrino molto ricco. Sì, lo volevo, ma non riuscivo a immaginare come sarei mai riuscito a ottenerlo. Poi, un giorno, eravamo andati a pattinare insieme. Il ghiaccio non era tanto spesso da poterci reggere. Era accaduto all'improvviso, senza che ce ne accorgessimo: il ghiaccio si era rotto e il mio compagno era precipitato nell'acqua. Ero corso accanto a lui e lo avevo trovato con le mani aggrappate ai bordi frastagliati del ghiaccio. Naturalmente ero accorso per aiutarlo, ma quando mi ero chinato su di lui avevo visto lo scintillio dell'orologio. Avevo pensato: "E se andasse sotto e affogasse?" Sarebbe stato molto facile...
Quasi senza rendermi conto di quello che facevo, avevo slacciato il cinturino dell'orologio, m'ero impossessato dell'oggetto e avevo appoggiato la mano sulla testa del mio compagno, in modo da cacciargliela sott'acqua, invece di salvarlo. Non c'era voluta molta forza, perché lui non poteva reagire, impacciato com'era dal ghiaccio. Poi era arrivata della gente di corsa, e tutti avevano pensato che io fossi accorso in aiuto del mio amico. Con una certa fatica erano riusciti a tirarlo fuori, poi gli avevano praticato la respirazione artificiale. Ma ormai era troppo tardi.
Avevo nascosto il mio tesoro in un posto che conoscevo solo io, dove mettevo tutti gli oggetti che non volevo far vedere alla mamma, perché lei mi avrebbe chiesto senz'altro dove li avevo presi. Un giorno, però, la mamma aveva trovato l'orologio, mentre metteva a posto i miei calzini nel cassetto. E mi aveva chiesto: "Non è l'orologio di Pete, questo?". Avevo risposto che si sbagliava, che avevo fatto un cambio con un mio compagno di scuola.
Ero sempre nervoso, quando ero con la mamma. Avevo la sensazione che sapesse troppe cose su di me. Mi ero innervosito anche quando aveva scoperto l'orologio e mi ero chiesto se avesse sospettato qualcosa. Non poteva "esserne certa", naturalmente. Nessuno poteva esserne certo. Ma la mamma aveva cominciato a fissarmi in un certo modo, da quel giorno. Un modo strano. Tutti erano convinti che io avessi fatto di tutto per salvare Pete. Ma sono sicuro che la mamma non l'ha mai pensato. Sono sicuro che abbia capito. Avrebbe preferito non intuire niente, ma sapeva troppe cose di me. Per un po' provai un lieve senso di colpa, ma ben presto me ne dimenticai completamente.
Poi c'era stata l'altra volta, quando ero sotto le armi. Un certo Ed era venuto con me in una specie di bisca. Io non avevo avuto fortuna e avevo perso fino all'ultimo centesimo. Il mio amico Ed, invece, aveva vinto un bel malloppo. Dopo aver cambiato le fiches con tante banconote fruscianti, era uscito con me dal locale. Aveva le tasche piene zeppe di quattrini. A questo punto, ci erano saltati addosso due teppisti, sbucati all'improvviso da un androne. Erano armati di coltelli a serramanico e li manovravano con molta abilità. Mi avevano preso a un braccio, di striscio. Il mio amico Ed, invece, si era beccato un bel colpo, che l'aveva fatto crollare a terra. A questo punto avevamo sentito dei passi che si avvicinavano di corsa. I due teppisti avevano tagliato la corda. Io avevo pensato che se ero svelto... E lo ero stato! Ho sempre avuto i riflessi molto veloci. Mi ero avvolto un fazzoletto attorno alla mano, avevo estratto il coltello dalla carne di Ed e l'avevo piantato in un altro paio di punti migliori. Il mio amico aveva emesso un gemito ed era morto. Naturalmente avevo avuto paura, per un minuto o due, ma poi mi ero calmato, rendendomi conto che sarebbe andato tutto bene. Ed ero stato orgoglioso di me stesso, orgoglioso per come avevo agito in fretta e per come avevo saputo sfruttare l'occasione. Avevo pensato: "Povero Ed, è sempre stato un idiota". Mi ci erano voluti solo un paio di secondi per trasferire i quattrini dalle sue tasche alle mie. Nella vita basta avere i riflessi pronti e il cervello che funziona come un meccanismo ben oliato. Certa gente si spaventa, quando ammazza qualcuno, e la paura l'accompagna per tutta la vita. Io, invece, avevo riacquistato la calma quasi immediatamente.
A conti fatti, era una cosa che non capitava tutti i giorni. Bisogna uccidere solo quando ne vale veramente la pena. Non so come avesse fatto Greta a intuire il mio segreto, ma aveva capito. Con questo non intendo dire che avesse capito che avevo ucciso due persone, ma che l'idea di uccidere non mi avrebbe né spaventato né scandalizzato. Io avevo chiesto:
«Spiegami che cos'hai in mente, Greta. Sembra una favola.»
Aveva risposto: «Sono in condizioni di poterti aiutare. Posso metterti in contatto con una delle più ricche ereditiere americane. In un certo senso, sono la sua tutrice. Vivo con lei e ho molta influenza su di lei».
«E pensi che potrebbe interessarsi a un tipo come me?» Non ci credevo. Perché mai una ragazza ricca, che poteva scegliere tra uno stuolo di uomini affascinanti, avrebbe dovuto interessarsi a me?
«Sei dotato di molto sex-appeal» aveva detto Greta. «Se vuoi, puoi conquistare qualunque donna.»
Avevo sorriso, commentando che in fondo in fondo non potevo lamentarmi.
«La ragazza di cui parlo non ha mai avuto esperienze, in questo campo. È stata sorvegliata fin troppo bene. Gli unici giovanotti che le è stato permesso di frequentare sono tutti tipi poco pericolosi: figli di banchieri, figli di magnati di questo e di quello. È stata allevata in modo che debba sposare un uomo della sua stessa classe sociale, pieno di quattrini. I suoi parenti hanno il terrore che possa incontrare uno squattrinato cacciatore di dote. Ma naturalmente lei ha un debole per gli spostati. Non ne ha mai conosciuti da vicino, ma sono sicura che si lascerebbe tirare nella rete con molta facilità. Dipende da te, saper giocare bene le tue carte. Devi fingere di essere rimasto folgorato a prima vista e devi farle perdere completamente la testa. Sarà facile. Nessuno ha mai tentato di prenderla dal lato del sesso. E comunque, puoi sempre provarci.»
«Sì, certo» avevo mormorato, dubbioso.
«Allora dobbiamo tentare di organizzare la cosa.»
«Ma la sua famiglia interverrà, cercherà di mettermi i bastoni fra le ruote.»
«Neanche per sogno. Non sapranno neanche niente, finché non sarà troppo tardi. Finché tu non l'avrai sposata in segreto.»
«La tua idea è questa, allora?»
E così ne avevamo discusso insieme. Avevamo preparato il piano. Non nei particolari, naturalmente. Greta era tornata in America, ma si era tenuta in contatto con me. Io avevo tirato avanti passando da un lavoro all'altro. Poi avevo scritto a Greta parlandole di Campo degli Zingari e del mio desiderio di avere una casa là. Lei aveva risposto che era il luogo adatto per imbastire una storia romantica. E avevamo organizzato le cose in modo che il mio primo incontro con Ellie avvenisse là. Greta avrebbe convinto Ellie che sarebbe stato stupendo che lei avesse una casa in Inghilterra, in modo da potersi allontanare dai suoi parenti non appena diventata maggiorenne.
Oh, sì, avevamo studiato il piano con molta cura. Greta era abilissima, in queste cose. Non credevo che sarei riuscito a escogitare un piano simile da solo, ma ero sicuro di essere in grado di sostenere la mia parte. Mi aveva sempre divertito spacciarmi per quello che non ero. Era stato così che avevo conosciuto Ellie, che era cominciato tutto.
Mi ero divertito dal principio alla fine. Divertito come un matto perché c'era sempre un certo pericolo. Le uniche volte in cui m'innervosivo era quando vedevo Greta. Dovevo stare molto attento a non tradirmi, quando la guardavo. Cercavo di "non guardarla". Ci eravamo messi d'accordo anche su questo punto: dovevo fingere di provare antipatia per lei, di detestarla, addirittura. Di esserne geloso, perfino. E io avevo interpretato la mia parte alla perfezione.
Ricordo il giorno in cui avevamo litigato ad alta voce, in modo da farci sentire da Ellie. Non so, forse esagerammo leggermente. Ma non lo credo. A volte temevo che Ellie potesse intuire qualcosa, che potesse indovinare almeno in parte quello che nascondevo. Ma non credo neanche questo. O meglio, non lo so. Non lo so davvero. Con Ellie non ero mai sicuro di come la pensasse.
Era facile l'amore con Ellie. Ellie era molto dolce. Sì, molto dolce. Solo che a volte mi faceva paura perché prendeva delle iniziative senza dirmi niente. E sapeva delle cose che non avrei mai supposto che sapesse. Ma mi amava. Sì, mi amava. E a volte... be', credo che anch'io l'amavo.
Scrivo tutto questo perché è quello che pensavo la sera in cui tornai dall'America. Quando arrivai nel mio eden, dopo aver ottenuto tutto quello che desideravo malgrado i rischi, malgrado i pericoli, malgrado avessi commesso un omicidio.
A volte mi dicevo che qualcuno poteva insospettirsi, tirare delle somme. Ma nessuno poteva essere sicuro di ciò che pensava, vista l'abilità con cui l'avevamo attuato. Ora i rischi erano finiti, i pericoli erano finiti, e io tornavo a Campo degli Zingari. Salivo su per la strada così com'ero salito il giorno in cui avevo visto l'annuncio della vendita all'asta e avevo deciso di andare a vedere la vecchia casa diroccata. Su per la salita, oltre la collina...
E poi... fu allora che la vidi. Intendo dire che fu allora che vidi Ellie. Appena superata la curva pericolosa dove erano accaduti tanti incidenti. Ellie era là, nel punto in cui l'avevo vista la prima volta, all'ombra dell'abete. Ed era identica ad allora quando, vedendomi, aveva sussultato, e io, vedendo lei, avevo sussultato a mia volta.
Era stato là che ci eravamo guardati negli occhi per la prima volta, e io mi ero avvicinato per parlarle, recitando la parte del bravo ragazzo rimasto improvvisamente folgorato dall'amore. E devo dire che non me l'ero cavata male. Niente male. Sono un ottimo attore, quando voglio.
Ma non mi ero aspettato di vederla, ora... Cioè, non era possibile che la vedessi, vero? Invece? Invece la vedevo... Mi guardava... mi guardava diritto negli occhi. Solo... solo che c'era qualcosa che mi faceva paura... che mi faceva molta paura. Era... come se non mi vedesse. Voglio dire: lo sapevo che non poteva essere là, lo sapevo che era morta. Eppure la vedevo! Era morta e il suo cadavere era sepolto nel cimitero americano. Eppure era sotto l'abete e mi fissava. No, anzi, non guardava "me". Fissava il vuoto come se si aspettasse di vedermi comparire da un momento all'altro, e nei suoi occhi c'era tanto amore. Lo stesso amore che avevo visto un giorno, un giorno in cui lei pizzicava le corde della chitarra. Il giorno in cui mi aveva detto: "Che cosa stavi pensando?". E io avevo risposto: "Pensavo alla prima volta che ti ho vista... sotto l'abete". E lei aveva ribattuto: "Mi guardi come se mi amassi". E io avevo detto qualcosa di sciocco, come: "Certo che ti amo".
Rimasi immobile. Come pietrificato, in mezzo alla strada. Tremavo dalla testa ai piedi. Gridai: «Ellie!».
Non si mosse. Rimase dov'era, a guardarmi...
A guardare oltre il mio viso. Ed era questo che mi faceva paura, perché sapevo che se mi fossi soffermato a pensarci per un attimo l'avrei capito perché non poteva vedermi. E non volevo saperlo. No, non volevo saperlo. Ero sicuro di non poterlo sapere. Fissava il punto in cui mi trovavo, senza vedermi. Scattai a correre, e corsi come un vigliacco fino in cima alla strada, finché non riuscii a scrollarmi di dosso quell'assurdo panico, finché non vidi la casa con tutte le finestre illuminate. Era il mio trionfo. Ero tornato a casa. Ero il cacciatore che rientrava dai boschi. Ero tornato a casa e all'altra cosa che avevo desiderato più di ogni altra al mondo, alla donna stupenda che desideravo con la carne e con l'anima.
Ora ci saremmo sposati e avremmo vissuto nella Casa. Avevamo ottenuto tutto quello che volevamo. Avevamo vinto! Vinto su tutta la linea.
La porta non era chiusa a chiave. Entrai, a passo sicuro, e oltrepassai la soglia della libreria. E là vidi Greta, in piedi vicino alla finestra, ad aspettarmi. Era stupenda. Era la cosa più bella e più affascinante che avessi mai visto. Era simile a Brunilde, a una superba valchiria dai capelli biondi come miele. Profumava di sesso, sapeva di sesso, era tutta sesso. Ci eravamo negati l'uno all'altra per molto tempo, a parte qualche incontro occasionale su al "gazebo".
Mi buttai tra le sue braccia, come un marinaio che torna a casa dal mare. Sì, fu uno dei momenti più stupendi della mia vita.
Poi tornammo sulla terra. Mi misi a sedere, e Greta mi porse un plico di lettere. Ne scelsi una meccanicamente: aveva un francobollo americano. Era la lettera speditami via aerea da Lippincott. Mi chiesi perché mi avesse scritto, che cosa voleva dirmi.
«Be'» disse Greta, con un profondo sospiro soddisfatto. «Ce l'abbiamo fatta.»
«Sì. È il giorno della vittoria» risposi.
Scoppiammo in una risata irrefrenabile. Sul tavolo c'era dello champagne. Stappai la bottiglia, e io e Greta brindammo.
«Questa casa è meravigliosa» dissi, guardandomi in giro. «È ancor più bella di quanto la ricordassi. Santonix... Ma non te l'ho ancora detto! Santonix è morto.»
«Oh, no!» esclamò lei. «Che peccato! Allora era proprio malato.»
«Certo che era malato. Non ho mai voluto crederci, ma lo era. Sono andato a trovarlo in ospedale. Era già moribondo.»
Greta ebbe un brivido.
«Io non avrei avuto la forza di farlo. Ha detto qualcosa?»
«Sì, ma non ho capito che cosa intendesse dire. Ha detto che sono stato un idiota, che dovevo prendere l'altra strada.»
«Come? Quale altra strada?»
«Non ho capito neanch'io. Probabilmente delirava. Credo che non si rendesse conto di quello che diceva.»
«Be', questa casa è un bel monumento alla sua memoria» disse Greta. «Credo proprio che non ce ne disferemo. Vero?»
La fissai con gli occhi sbarrati. «Certo che non ce ne disferemo! Pensi che potrei vivere da qualche altra parte?»
«Comunque non possiamo certo vivere qui continuamente, per tutto l'anno. Sepolti in un buco come questo paese!»
«Ma è qui che voglio vivere... Che ho sempre voluto vivere.»
«Sì, certo. Ma, Mike, abbiamo tutti i quattrini del mondo! Possiamo andare dove vogliamo, viaggiare per l'Europa, partecipare ai safari in Africa. Possiamo avere delle avventure stupende! Possiamo girovagare per tutto il mondo e cercare le cose più belle... Quadri, per esempio. Andremo ad Angkor Wat. Non hai voglia di vivere avventurosamente?»
«Sì... Forse sì. Ma poi torneremo sempre qui, vero?»
Avevo una strana sensazione. La strana sensazione che qualcosa non fosse come avevo sognato. Fino a quel momento avevo pensato solo alla mia casa e a Greta. Non avevo desiderato altro. Ma lei sì. Ora me ne rendevo conto. Cominciava. Cominciava a volere delle cose diverse. Cominciava a chiedere, sapendo che l'avrebbe vinta. All'improvviso ebbi una specie di presentimento. Fui scosso da un brivido.
«Che ti succede, Mike? Mike, tremi... Hai preso freddo?»
«No, il freddo non c'entra.»
«Che cos'è successo, Mike?»
«Ho visto Ellie.»
«Che stai dicendo? Che hai visto Ellie?»
«Stavo venendo su per la strada, ho svoltato a una curva e lei era là, sotto un abete, e mi guard... cioè, e guardava verso di me.»
Greta spalancò gli occhi.
«Non essere ridicolo. È uno scherzo della fantasia.»
«Può anche darsi che sia uno scherzo della fantasia. Dopo tutto, questo è Campo degli Zingari. Comunque Ellie era là e aveva l'aria... Be', si, aveva l'aria felice. La stessa aria felice di quando l'ho conosciuta, come se... come se fosse sempre stata là e non dovesse più andarsene.»
«Mike!» Greta mi afferrò per le spalle, mi scosse. «Mike, non dire cose del genere! Hai bevuto, prima di venire?»
«No. Ho aspettato di arrivare qui. Sapevo che avresti tenuto in fresco lo champagne.»
«Bene. Allora non pensiamo più a Ellie e beviamo alla nostra salute.»
«Era Ellie» dissi, ostinato.
«Ma neanche per sogno! È stato uno scherzo del buio... o qualcosa del genere.»
«Era Ellie ed era là, sotto l'abete. Aspettava... aspettava me, guardava la strada in attesa di vedermi comparire. Ma non poteva vedermi. Greta, non poteva vedermi!». Alzai la voce. «E io so perché. So perché non poteva vedermi.»
«Che stai dicendo?»
Fu allora che sussurrai per la prima volta, con voce appena udibile: «Perché non ero io. Io non ero là. Ellie poteva vedere solo il buio. Il buio, Greta. Io, io sono il buio!». Poi mi misi a urlare, con voce rotta dal panico: «"Nasce un uomo che al dolore, al dolore è destinato!" Io, Greta, io!».
Poi, più piano: «Greta, ricordi quando si sedeva sul divano? Cantava spesso questa canzone, con la sua voce dolce. Devi ricordarla.»
«"Ogni giorno a tutte l'ore nasce un uomo che al dolore, al dolore è destinato"» cantai con voce soffocata. «"Ogni giorno a tutte l'ore nasce un uomo che al fulgore della gioia è destinato". E questa era Ellie, Greta. Era nata per il fulgore della gioia. "Nasce un uomo a tutte l'ore per la gioia e il dolore". Ecco che cos'ha sempre saputo la mamma di me. Che ero nato per il dolore. Anche se ancora non l'avevo raggiunto. Ma lei lo sapeva. Anche Santonix lo sapeva. L'aveva capito che avevo scelto questa strada. Ma avrebbe anche potuto non accadere. C'è stato un attimo, un attimo solo, quando Ellie cantava questa canzone. Avrei potuto essere felice, al fianco di Ellie. Vero? Avrei potuto continuare a vivere con lei.»
«No, non avresti potuto esserlo» disse Greta. «Non avrei mai pensato che tu potessi perdere la testa fino a questo punto, Mike.» Mi scosse con violenza, di nuovo. «Svegliati, Mike.»
Sbarrai gli occhi, fissandola.
«Scusami, Greta. Che cos'ho detto?»
«Devono aver messo a dura prova i tuoi nervi, negli Stati Uniti. Ma non hai commesso errori, vero? Voglio dire, la questione economica è sistemata, no?»
«Certo, certo che è sistemata» dissi. «È tutto pronto per il futuro. Il nostro futuro glorioso.»
«Parli in modo strano, stasera. Vorrei sapere che cosa dice Lippincott nella sua lettera.»
Tirai la lettera verso di me e l'aprii. Dentro c'era solo un ritaglio di giornale. Non un ritaglio nuovo, ma un pezzetto di carta sgualcito e stranamente consunto. Lo fissai, sbalordito. Rappresentava una strada. Riconobbi la strada, che aveva un edificio grandioso sullo sfondo. Era una strada di Amburgo, con della gente che veniva verso il fotografo. E davanti a tutti c'era una coppia. Un uomo e una donna che avanzavano sotto braccio. Io e Greta. E così, Lippincott aveva sempre saputo! L'aveva sempre saputo che io e Greta ci conoscevamo già. Qualcuno doveva avergli mandato quel ritaglio, probabilmente senza intenzioni cattive. Magari divertito di aver riconosciuto la signorina Greta Andersen che passeggiava per le strade di Amburgo sottobraccio a uno sconosciuto. Lippincott l'aveva sempre saputo che io e Greta ci conoscevamo già. Ricordai che durante il nostro primo incontro Lippincott mi aveva chiesto se conoscevo Greta Andersen, ed era rimasto stranamente perplesso quando avevo risposto di no. Avevo dovuto negarlo, naturalmente, ma lui sapeva che mentivo. E aveva cominciato a sospettare di me.
All'improvviso ebbi paura di Lippincott. Certo non poteva sospettare che avevo ucciso Ellie. Ma qualcosa sospettava. Forse sospettava anche questo.
«Senti» dissi a Greta. «Lippincott sapeva che ci conoscevamo. L'ha sempre saputo. L'ho sempre odiato, quel vecchio ficcanaso, e lui ha sempre odiato te. Quando saprà che abbiamo intenzione di sposarci, sospetterà.» Ma, a questo punto, mi resi conto che con ogni probabilità Lippincott l'aveva già pensato che io e Greta ci saremmo sposati. Forse aveva immaginato anche che eravamo amanti.
«Mike, finiscila di comportarti come un coniglio spaventato! Sì un povero coniglio spaventato. Ti ammiravo. Ti ho sempre ammirato. Ma ora stai cadendo a pezzi. Hai paura di tutti.»
«Non dirmi cose del genere!»
«È vero.»
«Nato per il dolore...»
Non riuscivo a dire altro, anche se ancora mi chiedevo che cosa significasse in realtà. Significava notte senza fine. Significava buio. Significava che ero come un lembo di notte. Io potevo vedere i morti, ma i morti non potevano vedere me, anche se ero vivo. Non potevano vedermi perché in realtà non esistevo. L'uomo che aveva amato Ellie non esisteva. Era entrato per sua scelta a far parte del buio.
«Notte senza fine...» sussurrai.
«Finiscila di dire stupidaggini!» urlò Greta. «Alzati! Sii uomo, Mike. Non abbandonarti a certe assurde superstizioni!»
«Non posso farne a meno» sussurrai. «Ho venduto l'anima a Campo degli Zingari, no? Campo degli Zingari è sempre stato pericoloso. È sempre stato pericoloso per tutti. È stato pericoloso per Ellie ed è pericoloso per me. Forse è pericoloso anche per te.»
«Che stai dicendo?»
Mi alzai. Andai verso di lei. L'amavo. Sì, l'amavo ancora e la desideravo come un pazzo. Ma amore, odio, desiderio... non sono forse la stessa cosa? Sono tre in uno e uno in tre. Non avrei mai potuto odiare Ellie, ma odiavo Greta. E godevo di quest'odio. La odiavo con tutto il cuore e con una profonda gioia trionfante... Non potevo aspettare la sicurezza, la tranquillità. Non potevo. Mi avvicinai ancor più a Greta.
«Lurida sgualdrina!» dissi. «Odiosa, stupenda, lurida sgualdrina bionda! Non sei al sicuro, Greta. Non sei al sicuro da me. Capisci? Ho imparato a divertirmi... a divertirmi a uccidere la gente. Ero eccitato, il giorno in cui Ellie è uscita per quella cavalcata, diretta verso la morte. Mi sono divertito tutta la mattina perché stavo per commettere un omicidio. Ma non mi sono mai avvicinato realmente al vero omicidio. Ora è diverso. Voglio sapere che cosa significa fino in fondo. Non è sufficiente sapere che qualcuno morirà perché a colazione ha inghiottito una pastiglia. Non è sufficiente spingere una vecchia in un crepaccio. Voglio usare le mani!»
Ora Greta aveva paura. Lei, che avevo amato fin dal primo giorno che l'avevo vista, ad Amburgo. Lei, per la quale avevo abbandonato il lavoro, per la quale avevo rinunciato a me stesso, pur di restare al suo fianco. Sì, allora le ero appartenuto con il corpo e con l'anima. Ma ora avevo ritrovato me stesso. Stavo per entrare in un impero diverso da quello che avevo sognato.
Aveva paura. Mi piaceva vedere il terrore nei suoi occhi. Misi le mani attorno al suo collo. Sì, anche ora che sono seduto a scrivere tutto di me, anche ora che sento di fare una cosa importante come quella di raccontare tutto di me, dei miei pensieri, della mia vita, di come ho ingannato chiunque... Sì, anche ora riprovo una gioia profonda, al ricordo di aver ucciso Greta. Fu una cosa stupenda, esaltante.
24
Dopo di questo non c'è molto altro da dire. Fu allora che la mia vita raggiunse il suo culmine. In genere non si pensa che a un certo punto si è avuto tutto, che non c'è altro da scoprire. Rimasi seduto per molto tempo. Non so quando arrivarono gli altri. Non so neanche se arrivarono tutti insieme... Ma non è possibile che fossero sempre stati là, altrimenti mi avrebbero impedito di uccidere Greta. Ricordo, però, che prima di tutto vidi dio. Non intendo Dio... sono confuso... intendo il maggiore Phillpot. Mi era sempre stato simpatico, anche perché con me si era sempre comportato in modo perfetto. In un certo senso era come Dio... Cioè, come sarebbe Dio se fosse un essere umano, e non qualcosa di soprannaturale su nel cielo. Il maggiore Phillpot era un uomo molto buono. Molto buono e molto gentile. Si occupava sempre di tutti, e faceva del suo meglio per aiutare i suoi simili.
Non so fino a che punto avesse capito di me. Ricordo come mi aveva guardato stranamente, quella mattina alla vendita all'asta, quando aveva parlato del "furetto". Mi chiedo ancora come mai aveva pensato che la mia felicità potesse essere il preludio a una tragedia. Poi, quando eravamo arrivati vicino a quel mucchietto di abiti che era Ellie... chissà se Phillpot aveva capito che avevo avuto qualcosa a che fare con la morte di mia moglie?
Comunque, dopo la morte di Greta rimasi seduto davanti al mio bicchiere di champagne. Era vuoto. Tutto era vuoto. Completamente vuoto. C'era una sola luce, quella che io e Greta avevamo acceso, ma era in un angolo. E non era sufficiente a illuminare tutta la stanza. Tanto più che il sole... Sì, il sole doveva essere tramontato da molto tempo. Così mi parve, almeno. Rimasi seduto a chiedermi che cosa sarebbe accaduto, ora. Me lo chiedevo con una curiosità stranamente distaccata.
Poi cominciò ad arrivare la gente. Forse arrivarono molti insieme. Entrarono senza far rumore, ne sono certo, altrimenti li avrei notati.
Forse, se fosse stato vivo Santonix, mi avrebbe detto che cosa dovevo fare. Ma era morto. Aveva imboccato una strada diversa dalla mia, e ora non poteva più aiutarmi. Nessuno poteva più aiutarmi.
Dopo un po' notai il dottor Shaw. Era entrato tanto silenziosamente che in un primo momento non mi ero neanche accorto della sua presenza. Era seduto vicino a me, come in attesa di qualcosa. Dopo un po' pensai che aspettasse che io parlassi. Dissi: «Sono tornato a casa».
Dietro di lui c'erano un paio di persone, che si muovevano in punta di piedi. Anche loro sembravano aspettare qualcosa, qualcosa che dipendeva dal dottor Shaw.
«Greta è morta» dissi. «L'ho uccisa io. Sarà meglio che portiate via il cadavere».
Qualcuno fece esplodere un flash. Doveva essere un fotografo della polizia che fotografava il cadavere. Il dottor Shaw voltò la testa e disse con voce tagliente: «Non ancora».
Riportò lo sguardo su di me. Mi chinai verso di lui e dissi: «Ho visto Ellie, stanotte».
«Davvero? Dove?»
«Fuori. Era sotto un abete. Nel posto in cui l'avevo vista la prima volta.» Feci una pausa, poi aggiunsi: «Ma lei non mi ha visto... Non poteva vedermi, perché non c'ero». Un'altra pausa, più lunga. Alla fine mormorai: «Questo mi ha sconvolto. Mi ha sconvolto profondamente».
Il dottor Shaw chiese: «Era nella capsula, vero? Cianuro nella capsula? È questo che avevate dato a Ellie quella mattina?»
«Era per la febbre da fieno» spiegai. «Prendeva sempre una capsula contro l'allergia, prima di andare a cavalcare. Io e Greta aprimmo due o tre capsule; ci mettemmo dentro il veleno e poi le incollammo di nuovo. Lo facemmo su nel "gazebo". Intelligente, vero?» E risi. Ma fu una risata strana. Me ne accorsi io stesso. Più un chioccio che una vera e propria risata. Dissi: «Avevate esaminato tutte le medicine di Ellie, quando eravate venuto a visitarla per la caviglia slogata. Sonnifero, pillole contro l'allergia... Ed era tutto normalissimo, no? Non c'era niente di strano».
«Infatti» disse lui. «Tutto normalissimo.»
«Siamo stati intelligenti, eh?»
«Sì, siete stati intelligenti, ma non a sufficienza.»
«Non capisco come abbiate fatto a scoprire che c'era qualcosa sotto.»
«L'abbiamo scoperto quando c'è stata una seconda morte, una morte che non avevate previsto.»
«Claudia Hardcastle?»
«Sì. È morta allo stesso modo di Ellie. È caduta da cavallo, su nel bosco. Claudia era una ragazza sanissima, eppure è caduta da cavallo ed è morta all'istante. Solo che questa volta abbiamo trovato il cadavere poco dopo. L'hanno raccolta quasi subito dopo la caduta, e l'odore del cianuro non si era ancora dissolto. Claudia non è rimasta all'aperto per qualche ora, come Ellie, quando non c'era più niente da odorare, da trovare. Non riesco a capire come abbia fatto Claudia a procurarsi la capsula, però. A meno che non ve ne foste dimenticata una nel "gazebo". Claudia andava lassù, qualche volta. Abbiamo trovato le sue impronte, nel "gazebo". Aveva perso anche un accendino.»
«No» dissi. «Dev'essere stata Ellie a darle le capsule. Soffriva anche lei di allergia, ed Ellie le aveva offerto le sue capsule, quel giorno a casa vostra.»
Poi dissi: «L'avevate sospettato che avevo avuto a che fare con la morte di Ellie, vero? Tutti voi?» Guardai le figure indistinte che affollavano la stanza. «Forse tutti voi.»
«Spesso si capiscono certe cose. Ma non sapevo come fare a dimostrarlo.»
«Dovreste farmi la predica, ora» dissi, in tono di rimprovero.
«Non sono un funzionario di polizia.»
«Che cosa siete, allora?»
«Sono un medico.»
«Ma io non ho bisogno del medico!»
«Questo resta da vedersi.»
A questo punto guardai il maggiore Phillpot. «E voi che cosa farete?» chiesi. «Siete venuto per giudicarmi? Per farmi un processo?»
«Sono semplicemente giudice di pace» rispose lui. «No, sono qui come amico.»
«Amico mio?» chiesi.
«Amico di Ellie.»
Non capivo. Tutta quella storia non aveva senso, per me, ma non potevo fare a meno di sentirmi importante. Tutta quella gente! Polizia e medici, Shaw e Phillpot. Tutta gente che senza dubbio aveva molto da fare e che si era scomodata per me! Tutto era molto complicato. Cominciavo a perdere il contatto con la realtà. Ero molto stanco.
Fu allora che cominciai a stancarmi all'improvviso e ad addormentarmi da un momento all'altro.
E che andirivieni! Gente che veniva apposta per parlare con me. Gente di tutti i tipi. Avvocati, e poi il rappresentante della pubblica accusa, e poi un altro avvocato ancora, in compagnia di alcuni medici. Molti medici, anzi. Erano irritanti, e io non avevo nessuna voglia di rispondere alle loro domande.
Uno di loro mi chiese se desideravo qualcosa. Risposi di sì.
C'era una cosa sola al mondo che desideravo. Volevo una penna a sfera e tanta carta. Volevo scrivere tutto, raccontare com'era cominciato.
I medici... o meglio, uno di loro... parve pensare che era una buona idea. Dissi: «Chiedete sempre alla gente di fare una deposizione. Bene, perché io la mia non posso scriverla? Un giorno, forse, tutti potranno leggerla».
Mi permisero di farlo. Non riuscivo a scrivere molto a lungo, però. Mi stancavo presto. Qualcuno usò una frase come "parziale infermità mentale" e qualcun altro negò che fosse vero. Quante cose s'è costretti a sentire! A volte, la gente pensa che non la si ascolti, ma non è vero.
Poi dovetti presentarmi in tribunale; volli che mi portassero il mio vestito migliore, perché volevo fare bella figura. Saltò fuori che da un po' di tempo mi facevano sorvegliare da due investigatori. I due nuovi domestici. Mi pare di ricordare che era stato Lippincott ad assumerli, perché mi tenessero d'occhio. E a quanto pare avevano scoperto un sacco di cose interessanti su me e Greta. Strano, da quando era morta non pensavo più a Greta...
Di tanto in tanto cerco di ricordare la sensazione di trionfo che provai quando la strangolai, ma anche quella si è dissolta.
All'improvviso, un giorno, venne a trovarmi mia madre.
Si fermò sulla soglia e mi fissò. Non aveva più l'espressione ansiosa di sempre. Ora era solo triste. Non disse molto, così come non dissi molto io.
Si limitò a mormorare: «Ho tentato, Mike. Ho tentato con tutte le mie forze di salvarti. Ma non ci sono riuscita. E l'ho sempre temuto che non ci sarei riuscita».
Risposi: «Lascia perdere, mamma. Non è colpa tua. Me la sono scelta da solo, la mia strada».
E all'improvviso pensai: "È quello che ha detto Santonix! Anche lui aveva paura per me. E neanche lui ha potuto fare niente. Nessuno avrebbe potuto fare niente... tranne io, forse... Ma non lo so. Non ne sono sicuro. Ma di tanto in tanto ricordo... ricordo il giorno in cui Ellie mi chiese: 'Perché mi guardi in quel modo, Mike?' E io: 'Come ti guardo?'. 'Come se mi amassi'. Be', in un certo senso l'amavo davvero. Avrei potuto amarla, almeno. Era così dolce, Ellie. Così tenera... Era il fulgore della gioia".
Il guaio, con me, era che avevo voluto sempre troppe cose, e le avevo volute con avidità e senza essere disposto a rinunciare a niente.
Quella prima volta. La prima volta che andai a Campo degli Zingari e conobbi Ellie. Mentre scendevamo lungo la strada incontrammo Esther. Fu allora, quando la zingara lesse la mano di Ellie, che mi misi in mente di pagarla. Sapevo che era il tipo disposto a fare qualunque cosa per il denaro. Sì, l'avrei pagata. Avrebbe cominciato a minacciare Ellie, a spaventarla, a farle sentire che era in pericolo. Così sarebbe risultato più credibile che Ellie era morta per collasso cardiaco. Ma quel primo giorno, e ora ne sono sicuro, Esther era spaventata. Spaventata per Ellie. Tant'è vero che le consigliò di andarsene, di allontanarsi da Campo degli Zingari, di non averci niente a che fare, ma naturalmente le consigliava di non avere niente a che fare con me. Allora non lo capii. Non lo capì neanche Ellie.
Ellie aveva paura di me? Sono certo di sì, anche se lei stessa non se ne rendeva conto. Sapeva che c'era qualcosa che la minacciava, sapeva di essere in pericolo. Santonix, invece, aveva intuito il male che si nascondeva in me, come l'aveva intuito mia madre. Forse tutti e tre avevano capito. Ellie l'aveva capito, ma non gliene importava. Non glien'era mai importato. È strano; molto strano. Ora lo so. Eravamo stati felici insieme. Sì, molto felici. Come vorrei averla capita prima, quella felicità... Mi era stata offerta una possibilità. Forse a tutti viene offerta una possibilità, nella vita. Solo che io le voltai le spalle.
Strano, vero, che Greta non abbia più nessuna importanza?
Non ha più nessuna importanza neanche la mia bella casa.
Solo Ellie... Ed Ellie non può ritrovarmi... Questa è la fine della mia storia... "Nella mia fine è il mio principio"... La gente non fa che ripeterlo. Ma che cosa significa, in realtà?
E qual è il principio della mia storia? Devo sforzarmi, pensare...
FINE