La terza impresa: l’ordinamento del tempo, dello spazio e degli uomini

Il poeta Ovidio e alcune iscrizioni ci dicono che il calendario romuleo durava dieci mesi e coincideva con la durata della gravidanza della donna. Alcuni storici, come Theodor Mommsen, e studiosi delle religioni antiche, come Angelo Brelich, avevano già intuito che il calendario più antico di Roma fosse nascosto in quello più tardo e che fosse leggibile, e forse ricostruibile, ponendo attenzione ad alcune feste particolari, indicate con lettere a caratteri più grandi nei calendari giunti a noi per via epigrafica, come a ricordarne l’importanza e forse l’antichità.

Io stesso ho provato a ricostruire il calendario, proprio perché un particolare mi sorprendeva. Mi è parso immediatamente interessante, infatti, che il nostro ultimo mese dell’anno si chiamasse dicembre, ovvero contenesse nel nome il numero dieci. Se dicembre era il decimo mese, il primo era dunque marzo. Il 15 marzo, del resto, era il capodanno romano originario, la festa di Anna Perenna. Dove oggi si trova l’Ara Pacis, c’era un bosco in cui si svolgevano scene carnascialesche, si festeggiava il perpetuo rinnovarsi dell’anno e anche l’arrivo della fecondità, l’arrivo delle mestruazioni, l’inizio del ciclo biologico della donna. Mi domandavo, inoltre, come mai l’anno si concludesse con la festa denominata Terminalia, che cadeva il 23 dicembre, e non con la fine di quel mese. Terminus, dio dei limiti, chiudeva lo spazio e anche il tempo, l’anno. Ho pensato allora che potesse esserci un nesso con il termine della gravidanza. Ho contato i giorni dal 15 marzo al 23 dicembre e ho verificato che sono 274, proprio il numero di giorni che gli antichi attribuivano alla gravidanza. Il natale dei Romani, dunque, cadeva all’alba del 24 dicembre, era questo il termine esatto di una gravidanza umana simbolica. Il natale di Cristo, testimoniato a partire dalla prima metà del IV secolo d.C., cadrà solamente un giorno più tardi, il 25 dicembre.

Una volta dimostrato che il calendario romuleo è esistito, che constava di dieci mesi e che coincideva con il periodo della gravidanza della donna, rimanevano da giustificare gli altri giorni, quelli che vengono dopo il 23 dicembre, cioè dopo la fine dell’anno e prima dell’inizio dell’anno successivo. Ora, tra la fine dell’anno, il 23 dicembre, e il capodanno, il 15 marzo, si può individuare proprio un periodo caratterizzato dalla sterilità. E infatti, prima dell’insorgere delle mestruazioni e nei giorni dopo il parto la donna è sterile.

Ritorniamo a Roma per capire quale fosse la sua estensione nell’VIII secolo a.C. Le necropoli segnano i limiti dell’abitato: già dalla metà del IX secolo a.C., infatti, non ci sono più tombe all’interno della città. Avvalendomi dei sacrari che sorgevano all’interno di ciascuna curia, denominati Argei, sono riuscito a localizzare dov’erano e a capire com’erano strutturati i primi rioni di Roma. Essi, probabilmente, in origine erano ventisette, poi Romolo ne aggiunse tre (fig. 13).

Fig. 13. I rioni (curie) della Roma di Romolo.

Fig. 13. I rioni (curie) della Roma di Romolo.

L’antico territorio di Roma era minimo e sarà proprio Romolo ad ingrandirlo con le prime conquiste. Era articolato in tre tribù, che coincidevano con i distretti dei tre antichi popoli Albani che abitavano il sito di Roma prima della fondazione della città. La tribù dei Titienses, estesa tra il Tevere e la via Prenestina, coincideva con il distretto dell’antico popolo dei Latinienses che avevano la loro rocca sul collis Latiaris, un’altura vicina al Quirinale, oggi occupata dal quartiere Monti. La tribù dei Ramnes, estesa tra la via Prenestina e la via Appia, coincideva con il distretto del popolo dei Querquetulani, la cui rocca era invece il Celio. Infine la tribù dei Luceres, estesa tra la via Appia e il Tevere, coincideva con il distretto del popolo dei Velienses, che avevano la loro rocca sulla Velia, nel cuore di Roma, dove ora passa via dei Fori imperiali.

I distretti delle tribù erano come spicchi di uno spazio approssimativamente circolare che comprendeva l’abitato di Roma, ma anche la campagna, l’ager. Quest’ultimo era diviso, oltre che in spicchi, anche in senso concentrico. Tra l’abitato e il primo miglio, limite segnato da santuari, doveva trovarsi la maggior parte dei lotti di terra assegnati ai singoli cittadini, che misuravano per legge due iugeri, cioè mezzo ettaro (5000 mq). Tra il primo miglio e il limite dell’agro si trovavano le terre coltivate da feudatari, capifamiglia legati da vincoli di parentela.

Le tribù dell’abitato si articolavano in quartieri (montes o colles) e in rioni (curie); oltre l’abitato, la campagna era suddivisa in distretti rurali (pagi). Le tribù partecipavano all’esercito di Roma ed erano comandate da ausiliari del re chiamati tribuni militum. Grazie ad un recente studio di Luigi Capogrossi Colognesi, storico del diritto romano, abbiamo potuto calcolare che l’abitato e l’agro, fino al limite del primo miglio, potevano contenere fino a 3680 lotti romulei di due iugeri ciascuno. Di questi, 3300 dovevano essere assegnati ai giovani in armi, in parte con padre vivente, in parte già padri di famiglia e quindi legittimi e diretti proprietari del terreno. Esistevano poi 380 patres familias anziani, ma titolari dei propri fondi.

Con questi dati possiamo spingerci ad immaginare una comunità composta da 6600 giovani, metà maschi e metà femmine; i bambini e i ragazzi, sia maschi che femmine, dovevano aggirarsi intorno agli 8900 (circa il 50% della comunità), gli anziani intorno ai 2300 circa (il 13%), di cui circa 1150 maschi. L’intera comunità dei Quiriti, i primi Romani, ammontava dunque a 17.000 individui circa, quanti ne conta oggi un paese come Ariccia, per rimanere nei pressi di Roma.

Sia Remo che Romolo appartenevano probabilmente alla tribù dei Luceres, essendo stati allevati sul Palatino che rientrava nell’antico distretto dei Velienses. Remo, come abbiamo detto nel terzo capitolo, avrebbe voluto fondare il suo abitato, Remora o Remoria, sull’Aventino, oppure un poco più lontano, dove oggi c’è il quartiere dell’EUR. Entrambi questi luoghi facevano parte dell’ager, denominato in questo caso Remorinus, poiché sotto il controllo di Remo.

Romolo, invece, aveva voluto fondare la sua urbs nel cuore dell’abitato proto-urbano, sul monte Palatino, escludendo dalle mura la nobile altura della Velia che, come dice il nome stesso, era stata il centro del distretto dei Velienses.

Possiamo supporre che Remo provenisse proprio dalla Velia quando tentò di violare le mura sante della città di Romolo, come ci racconta la leggenda, un atto sacrilego che pagò con la morte. È questo un momento cruciale della saga. Non solo perché rappresenta la conclusione della originaria contesa tra i due fratelli decisa nel giorno dei primi auspici, quando per la prima volta prevalse Romolo, qualificandosi come l’eroe fondatore, il vincente. Ma anche e soprattutto perché è l’affermazione del nuovo ordine stabilito, il primo atto di difesa della città di Roma.

Il punto in cui avvenne la violazione corrisponde forse al luogo dove molto tempo dopo sarebbe stato costruito l’arco di Tito. Possiamo supporlo perché proprio da questo luogo provengono quattro cippi, volutamente antichizzati, ma in realtà risalenti all’epoca di Augusto, che facevano probabilmente parte di un monumento eretto in memoria del gesto di Remo. I cippi infatti recano iscrizioni relative a Remo e al suo tentativo di scavalcare le mura in spregio sia ai divieti religiosi sia alle divinità che proteggevano le stesse mura. Era abitudine dei Romani ricordare gli eventi legati alle proprie origini attraverso monumenti costruiti e ricostruiti sempre nel luogo dove tali eventi si erano originariamente svolti o dove, come nel nostro caso, si immaginava che si fossero svolti. Oltre alla tradizione letteraria, che perpetuava la memoria negli strati colti della popolazione, erano proprio questi “luoghi della memoria” a fissare nei cittadini il ricordo delle loro lontane origini.

Con l’uccisione di Remo – nemico interno perché appartenente alla stessa tribù del fratello – l’intero distretto dei Luceres finì sotto il controllo della rocca del Palatino e dunque sotto il controllo di Romolo.

Ma Remo non fu l’unico nemico da combattere. Un secondo nemico fu il re Acrone, signore di Caenina, sotto la cui influenza si trovava un’altra parte del territorio oltre il primo miglio, che faceva capo alla tribù dei Ramnes. Della sua fine e delle sue spoglie, portate in trionfo da Romolo e appese alla quercia sacra, abbiamo già parlato. Inutile dire che le armi di Acrone esibite nell’ovatio e poi sul Campidoglio costituivano uno scoraggiante monito per altri signori intenzionati a ribellarsi al potere regio. Talmente forte era il messaggio comunicato dall’esibizione delle spoglie sottratte al nemico e condotte in città come trofei, che il motivo della rappresentazione delle armi ricorrerà frequentissimo nei monumenti onorari e celebrativi di generali e imperatori vittoriosi nell’arco di tutta la storia di Roma: sugli archi, sulle basi di statua, sui fregi dei colonnati dei Fori e perfino sulla facciata delle case di alcuni potenti, ad esempio quella di Pompeo Magno, o nel vestibolo della dimora di Augusto sul Palatino. Infine, anche gli abitanti dell’antica Antemnae sferrarono un attacco contro Roma, ma anch’essi finirono sconfitti.

L’unica battaglia che Romolo perse fu quella contro i Sabini di Tito Tazio, re di Cures, con cui dovette trattare un compromesso. In realtà non si trattò propriamente di una battaglia, perché i nemici raggiunsero il cuore di Roma, il Campidoglio, entrando dalle porte, che gli furono aperte da Tarpeia, figlia di Tarpeio, signore della rocca capitolina e segreto alleato dei Sabini. Sul Campidoglio, Tito Tazio si insediò, costruendovi una dimora, mentre Tarpeia e suo padre furono uccisi. Il re di Cures e Romolo si scontrarono in seguito più volte, nella valle dove sorgerà il Foro, ma da nessuna di queste contese uscì un vincitore. Fu così che decisero di allearsi e di collaborare. Latini e Sabini stabilirono un compromesso per regnare insieme e i due re attuarono congiuntamente una parte dell’impresa fondativa.

Roma appare dunque l’esito dell’iniziativa di due popoli, Latini e Sabini, intenzionati a stabilirsi in questo sito presso il guado del Tevere, all’incrocio delle strade che dal mare portavano verso l’interno. Le resistenze all’impresa romulea, diffuse in tutto il territorio e ultima delle quali fu quella di Tito Tazio, indicano quanto innovativa e sanguinosa fosse stata la fondazione di Roma e l’attuazione della città-stato. Romolo dovette imporsi con violenza. D’altra parte, fondare una città è un atto traumatico, difficile, soprattutto quando comporta l’assoggettamento di chi prima occupava lo stesso spazio con autorità.

Lo Stato con il suo territorio – che misurava solo un quinto rispetto a quello della etrusca Veio – era finalmente costituito. Ma ciò non bastava. E così seguirono le conquiste di altre vicine città come Crustumerium e Medullia e, in una seconda fase, Fidenae e i territori dei Septem pagi e le Salinae.