Prima di Roma

Ma che cosa c’era prima del 775-750 a.C. nel luogo in cui poi sorse Roma?

Ce lo raccontano diversi autori antichi: Cicerone, Livio, Dionigi di Alicarnasso, Plutarco, Varrone e Verrio Flacco. La leggenda narra che Roma sorse dal nulla, che fu una specie di miracolo. Eppure nulla ha propriamente origine dal nulla. Roma è senz’altro un inizio epocale, ma ha alle sue spalle altri inizi.

Prima di Roma c’era un insediamento “pre-urbano” fatto di villaggi sparsi, questo hanno pensato gli storici. E non sbagliavano. Dagli scavi nel Foro di Cesare, a due passi dal traffico di via dei Fori Imperiali, a circa dieci metri di profondità, proprio di recente sono state scoperte le tombe di uno di questi insediamenti.

Si tratta probabilmente dell’insediamento di uno dei tre “popoli Albani” che si installarono nel sito di Roma. I popoli Albani erano trenta, lo sappiamo da Plinio il Vecchio, che ne elenca gli strani nomi: Abolani, Bubentani, Polluscini, Vitellensi, e così via (fig. 1). Appartenevano ad una federazione che faceva capo ad Albalonga, una città posta “lungo” l’orlo del cratere di un antico vulcano che conteneva un lago (oggi il lago di Albano), ai piedi del Monte Albano (oggi Monte Cavo).

Fig. 1. Localizzazione ipotetica dei territori di alcuni dei trenta popoli Albani; sono esclusi Bubentani, Macrali, Octulani, Olliculani e Vimitellani.

Fig. 1. Localizzazione ipotetica dei territori di alcuni dei trenta popoli Albani; sono esclusi Bubentani, Macrali, Octulani, Olliculani e Vimitellani.

I tre popoli insediati nel sito di Roma si chiamavano Latiniensi, Veliensi e Querquetulani. Avevano scelto questo luogo per le sue caratteristiche favorevoli dal punto di vista naturale: alture pianeggianti vicine al Tevere, ma non troppo da subirne le inondazioni. Qui vi era un guado frequentato fin dalle epoche più antiche perché da qui passava la “strada del sale”. Il sale costituiva un elemento essenziale per l’alimentazione e per la conservazione dei cibi, soprattutto della carne, e veniva raccolto nelle Saline a nord della foce del Tevere. Percorrendo la via Campana (l’odierna via Portuense), il sale giungeva al guado del Tevere nel sito della futura Roma, passava sulla sponda opposta, dove c’era un primitivo approdo, e attraverso la via Salaria penetrava all’interno, verso nord, verso l’Etruria e la Sabina. Sulla sponda sinistra del Tevere, proprio in prossimità del suddetto guado, fin da epoca molto antica si trovavano le Saline di Roma, un deposito destinato al consumo della città. Siamo alle estreme pendici dell’Aventino – nella Roma di oggi lungo l’attuale Lungotevere Aventino, all’altezza del Circo Massimo. Per una comunità di pastori come quella insediata nel sito di Roma, l’importanza del sale era tale che a protezione delle Saline vi era una divinità – Ercole – il cui altare sorgeva, appunto, accanto ai magazzini in cui veniva custodito il sale.

Ercole, del resto, era un pastore. Tra le faticose dodici imprese che aveva dovuto affrontare gli era stato ordinato di uccidere il mostro a tre teste Gerione, che sull’isola di Eritea, nel Mediterraneo occidentale, forse una delle isole Baleari, possedeva una mandria di favolosi buoi. Una volta compiuta la missione, l’eroe era ripartito, portando con sé i buoi. Nel suo lungo peregrinare sulla via del ritorno la leggenda narra che Ercole avesse fatto tappa con la sua mandria proprio nel sito di Roma, giungendo con due navi, intorno al 1235 a.C., all’approdo delle pendici dell’Aventino. Qui gli era toccata un’ennesima impresa: un brigante locale, Caco, aveva rubato i suoi buoi mentre l’eroe dormiva. Poiché il ladro li aveva trascinati per la coda, all’indietro, più difficile era ripercorrerne le tracce e scovarne il nascondiglio. Ercole tuttavia trovò Caco, lo uccise e recuperò la mandria. Per aver liberato la comunità dal brigante Caco (kakòs in greco significa “il cattivo”), il re locale, di nome Evandro (Eu-andros invece significa “l’uomo buono”), fece erigere un santuario con un altare a lui dedicato, l’ara Massima di Ercole, un luogo di culto destinato a lunga fortuna e i cui resti sono stati individuati dove oggi sorge la chiesa di Santa Maria in Cosmedin.

I villaggi sparsi che costituivano l’insediamento “pre-urbano” a poco a poco lasciarono il posto ad un grande centro “proto-urbano”, ovvero un grande insediamento unitario, suddiviso in rioni. Questa non è leggenda, sono alcuni antiquari, cioè studiosi di antichità dell’antica Roma, come Varrone, a rivelarcene il nome: Septimontium. In italiano potremmo tradurre: il Settimonzio, cioè un grande centro esteso su sette monti. “Dove ora è Roma – racconta Varrone – era allora il Septimontium” (fig. 2). La nascita del Septimontium fu un’impresa ardua perché il luogo era inadatto ad ospitare un insediamento unitario. La principale difficoltà consisteva nel superare le profonde valli, percorse da ruscelli, periodicamente invase dalle inondazioni del Tevere, oppure paludose, che isolavano i monti e impedivano la continuità dell’abitato. Eppure gli scavi testimoniano la volontà ostinata di questa comunità di progredire verso l’esperienza urbana, a prescindere dalla natura dei luoghi. Abbiamo trovato agglomerati di capanne non più solo sulla cima dei monti, ma sui pendii, nei fondovalle, a creare un tessuto abitativo sempre rado, ma continuo.

Fig. 2. L’abitato proto-urbano denominato Septimontium diviso in monti (Velia, Palatino, Cermalo, Celio, Oppio, Cispio, Fagutale) e colli (Quirinale, Salutare, Muciale, Viminale, Laziare). Fuori dal Septimontium il pagus dell’Aventino e gli altri villaggi.

Fig. 2. L’abitato proto-urbano denominato Septimontium diviso in monti (Velia, Palatino, Cermalo, Celio, Oppio, Cispio, Fagutale) e colli (Quirinale, Salutare, Muciale, Viminale, Laziare). Fuori dal Septimontium il pagus dell’Aventino e gli altri villaggi.

Possiamo immaginare questo insediamento come una specie di “città-giardino”, con nuclei di tre o quattro capanne circondati da ampi orti e frutteti e dotati di un pozzo per l’acqua, di fosse nel terreno per raccogliere derrate alimentari e di recinti per animali. Uno di questi nuclei è stato scoperto alle pendici settentrionali del Palatino ed era dotato perfino di un forno per produrre oggetti in ceramica nello spazio antistante le umili abitazioni. Le case avevano uno o al massimo due ambienti ed erano costruite con pali di legno che costituivano lo scheletro di muri in argilla, mescolata con paglia, pressata ed essiccata al sole. Sul terreno restano le loro tracce, poiché questi fragili muri venivano elevati a partire da una fossa di fondazione, ovvero un solco scavato nel terreno che ne definiva il percorso e lo spessore.

L’abitato proto-urbano si sviluppò dapprima sulle alture maggiori di Palatino, Velia e Cermalo, dove sono stati documentati i più antichi insediamenti; seguirono poi i vicini monti Esquilino e Celio. A questi si aggiunsero in seguito cinque colli, corrispondenti alle varie cime del Viminale e del Quirinale. È questo processo di aggregazione che portò al Septimontium che ci descrive Varrone.

Questo grande insediamento, ben distinto dalla campagna, era suddiviso in 27 rioni o curiae e unito da usi e riti comuni, almeno un secolo prima della fondazione della città di Roma.

I suoi abitanti si chiamavano Quiriti, erano protetti dal dio locale Quirino e organizzati in curie, cioè associazioni di uomini legati da rapporti di parentela; ad ogni curia corrispondeva un settore dell’abitato o rione. Da quando l’abitato si era unificato seppellivano i loro morti in uno stesso luogo, sulla cima dei rilievi dell’Esquilino e del Quirinale, a differenza di quanto accadeva nel periodo precedente, in cui ogni villaggio possedeva la sua necropoli in periferia, solitamente nei fondovalle tra i monti. Le comunità del Septimontium, inoltre, celebravano una processione comune che il 16-17 marzo faceva tappa in ciascun rione, in un sacello denominato Argeo. Due sacrifici sancivano l’inizio e la fine di questo rito: il primo era celebrato sulla Velia, l’ultimo sul Palatino e si chiamava Palatuar, perché destinato alla dea Palatua, protettrice di quel monte.

L’abitato proto-urbano del sito di Roma si estendeva su 205 ettari circa; la dimensione originaria di Roma sarà di 240 ettari, non molto superiore. Da ciò si può dedurre che la fondazione della città non fu un progresso in termini quantitativi, quanto piuttosto in termini qualitativi, consistendo nell’invenzione di una nuova forma di organizzazione sociale e di governo.