Nota dell’Autore

Conosciamo la storia di Roma tra i Cesari Augusto e Nerone soprattutto grazie agli Annali di Tacito (115-120 d.C. circa) e alla Storia romana di Cassio Dione (200-222 d.C. circa), che narrano gli eventi anno per anno, e alle Vite dei Cesari di Svetonio (119-122 d.C.), che raccontano le gesta degli imperatori in un modo sintetico.

È un patrimonio eccezionale di notizie che è riuscito a sopravvivere alla fine dell’Impero, ad avere per secoli grande fortuna – si pensi al Britannicus di Racine – e a raggiungere perfino noi. A questa eredità io guardo stupito e ammirato, per la ricchezza e il fascino degli avvenimenti, per lo stile stupefacente di Tacito.

Eppure mi pare che a quelle opere manchino, per essere godute oggi appieno, due dimensioni importanti per questa nostra epoca: un punto di osservazione unico e coevo capace di unificare la visione dei diversi principati e una dimensione spaziale che gli storici antichi quasi interamente hanno ignorato a vantaggio di quella temporale. Così i paesaggi rurali e urbani e le costruzioni e le architetture nei quali gli eventi si sono svolti non sono stati considerati, inevitabilmente dimidiando la totalità del reale. Componenti al contrario presentissime nel romanzo moderno, come in Balzac, massimo archeologo di tempi feudali e borghesi in Francia. Una eredità può essere accolta passivamente oppure attivamente nella vita; in questo libro sta il mio modo di essere fedele ai dati, ma in maniera attiva, quindi ad un tempo ligia e libera.

Fino a non molto tempo fa ritrovare e ricostruire le configurazioni reali dei luoghi antichi era impossibile o comunque molto problematico (ancora nel ’700 si lavorava soprattutto di fantasia) perché l’archeologia scientifica contemporanea ha dovuto entrare nel XXI secolo per raggiungere – oltre all’abilità stratigrafica necessaria a leggere terreni e costruzioni conformemente al modo in cui si sono stratificati – l’abilità topografica, che sta nell’interpretare i frammenti monumentali superstiti, duri in quanto dati ma comprensibili solo agli specialisti, entro ricostruzioni contestuali che abbiano un grado accettabile di completezza e di verosimiglianza e che possano risultare comprensibili a tutti.

A quest’ultimo fine la mia scuola ha dedicato gli ultimi dodici anni di ricerche e il risultato è stato The Atlas of Ancient Rome della Princeton University Press (seconda ristampa aggiornata al luglio 2017), premessa indispensabile a ogni successivo sviluppo sia riguardo Roma, sia riguardo il Suburbio e il Latium vetus, ai quali sarà dedicato il prossimo Atlas of Ancient Latium a cui Paolo Carafa e i suoi allievi stanno già lavorando, con la mia consulenza.

Un giorno mi sono trovato per il Fondo Ambiente Italiano nel Museo Comunale della Centrale Montemartini, a Roma. Lì ho rivisto la statua di Agrippina minore incoronata (con metallo perduto), diademata e velata, scolpita in una fastosa pietra grigio-verde chiamata basanite; proveniva probabilmente dal tempio del divo Claudio e rappresenta l’Augusta come sacerdotessa del marito divinizzato, che aveva avvelenato; accanto alla statua quel giorno era presente anche la testa originale di quella statua, normalmente conservata lontano, nella Ny Carlsberg Glyptotek di Copenaghen (fig. 19). È mai esistito uno sguardo femminile tanto contenuto e fremente, quindi tanto enigmatico?

La figura e il volto mi hanno attratto al punto che mi è venuto il desiderio d’impossessarmi una volta ancora degli anni e delle vite dei Cesari, intese però questa volta sia da un punto di vista individuale, coevo e autorevole, sia usando a piene mani le conoscenze archeologiche che ho accumulato durante l’ultima generazione soprattutto riguardo a Roma ma non solo, allo scopo di intendere il racconto storico a partire da un singolo straordinario individuo donna e dai luoghi e dalle costruzioni, cioè dal volto della storia, che in genere rimane velato.

Gli storici giudicano per lo più lo spazio come una dimensione poco rilevante e l’archeologia come una disciplina ausiliaria, ma sbagliano. L’interdisciplinarità guadagnata tra archeo­logi e storici in una felice e passata stagione italiana (AA.VV., Analisi marxista e società antiche, Atti dell’Istituto Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1978; A. Giardina-A. Schiavone, a cura di, Società romana e produzione schiavistica, I-III, Roma-Bari 1981) è andata purtroppo interamente perduta, per il peso divisivo proprio delle abitudini accademiche, da aborrire come tutti i pensieri fatti, e invece infine pienamente restaurate.

Potremmo capire Luigi XIV senza la reggia di Versailles? Augusto senza il palazzo sul Palatino? Nerone senza la domus Aurea?

Ho cercato un precedente narrativo scritto in prima persona. Ho scartato le Mémoires d’Hadrien di Marguerite Yourcenar, del 1951, che a suo tempo poco mi avevano attratto, pur essendo stata l’autrice grande amica di mia zia Nina Riffini e avendo io scritto un libro su Vibia Sabina, la moglie di Adriano. Ho scelto invece I, Claudius di Robert Graves, del 1934, una preferenza dovuta anche al fatto che da trent’anni passo le mie vacanze con mia moglie Mara Fazio a Deià, il villaggio di Mallorca dove Graves ha vissuto – la sua casa è diventata un eloquente museo realizzato dal figlio William –, dove è stato sepolto (nel più bel cimiterino ch’io conosca) e dove ho l’occasione di parlare di lui con la figlia Lucia.

Così mi è venuto in mente di scrivere un pendant di I, Claudius, che naturalmente ha preso il titolo di Io, Agrippina, la nipote e moglie di Claudio. Un pendant che desse però valore alla prospettiva della protagonista, per come le fonti antiche ci consentono di ricostruirla, e ai vari luoghi, per come l’archeologia stratigrafico-topografica oggi consente di ipotizzarli. Un poco come avviene nei romanzi dell’800.

Parrebbe questa una impresa antistorica, oltraggiosamente modernizzante – inventare l’autobiografia di una grande signora di Roma –, eppure non lo è, perché se i Cesari hanno scritto sovente loro memorie anche Agrippina minore lo ha fatto (esperimento del tutto eccezionale), scrivendo suoi Commentarii, come se fosse stata un magistrato, un capo militare.

Era una delle tante donne che alle qualità femminili hanno unito qualità maschili, realtà che oggi ben conosciamo e apprezziamo – ho conosciute almeno due signore dello stesso genere alle quali mi sono anche ispirato –, ma che il patriarcalismo maschilistico dei Romani non sopportava. Infatti a Roma nessuna moglie di principi e imperatori è mai stata chiamata principessa o imperatrice, pure essendolo stata, anticipando da tanto lontano i tempi attuali. Oh importanza delle radici e della tradizione, oggi tanto sbeffeggiate!

Ho riletto le fonti antiche considerandole e rielaborandole a partire da quella che a mio avviso potrebbe essere stata l’ottica di Agrippina – le fonti trattano sovente di lei e Plinio il Vecchio e Tacito citano i suoi Commentarii come sorgente di informazione – e ridando agli eventi la matrice oggettuale, architettonica e paesaggistica in cui in origine erano avvolti.

Tra il linguaggio letterario dello storico e la cultura visiva dei monumenti e delle opere d’arte vi è una relazione pregna di significato che l’uomo curioso dell’holon mai si lascia sfuggire, anzi appassionatamente persegue. Unire la sequenza impalpabile degli avvenimenti ai contesti materiali significa, oltre che soddisfare una inclinazione personale, venire incontro agli antichisti di nuova generazione e ai lettori di questa stagione, che difficilmente possono fare a meno di vedere oltre che di leggere una storia.

Affrontare un tale esperimento storico-letterario, che equivale a scrivere l’autobiografia di una donna antica, è impresa difficilissima, perché i Commentarii di Agrippina sono perduti e manca ogni altro antico confronto.

Pierre Grimal ha tentato di colmare questa lacuna con le sue Mémoires d’Agrippine, del 1992, riuscendovi tuttavia in modo da non dissuadermi dal tentare l’esperimento un’altra volta, mettendo al centro del racconto il punto di vista di una Augusta dal carattere maschile che vive muovendosi indefessa verso la propria visione del mondo – oggi si direbbe resilient –, entro paesaggi dell’animo, del potere e dello spazio che s’incrociano, reciprocamente fecondandosi, per cui i monumenti danno vita alla narrazione e viceversa. Per qualche tempo ho esitato, ma poi Giuseppe Laterza mi ha convinto a tentare l’impresa.

Non bastava semplicemente inserire la menzione dei luoghi nel racconto; occorreva anche risuscitarli nella concretezza dei sempre ipotetici ma anche sempre più verosimili disegni ricostruttivi dei luoghi antichi. Così l’intera materia storica e archeologica è stata ripensata nella sua globalità, diventando una medaglia a due facce.

Grazie a questo intento, sono nate ulteriori riflessioni archeologiche e rielaborazioni più dettagliate dei luoghi, sempre a partire dalle tavole dell’Atlas of the Ancient Rome, per cui in questo libro, per la prima volta, Tacito e gli altri autori antichi sono stati, per così dire, messi sistematicamente in scena grazie alla mia finta ma plausibile autobiografia e ai grafici illustrativi che documentano come chi scrive e la sua scuola conoscono e interpretano le costruzioni nelle quali gli eventi narrati si sono svolti.

I grafici sono l’esito di discussioni tra chi scrive e due allievi a cui si deve la realizzazione informatica dei grafici in Autocad e Illustrator: Maria Cristina Capanna per quanto riguarda Roma, i cui grafici speriamo possano trovar posto in una nuova edizione dell’Atlas, e Francesco De Stefano, i cui grafici meritano di essere spiegati e commentati in altra sede scientifica, visto che non è stato possibile farlo in Io, Agrippina, opera di carattere in primo luogo letterario, che troppi apparati non avrebbe potuto sopportare.

Per non appesantire la narrazione ho evitato le complicate datazioni ai consolati, che avrebbero implicato sei tra prenomi, nomi e cognomi, adottando i nostri anni, gli unici familiari ai lettori di oggi.

Vari membri della casata Giulio-claudia portano gli stessi nomi, per cui ho fatto il possibile per distinguerli, evitando tuttavia i noiosi anche se utili espedienti eruditi che normalmente li identificano tra i dotti.

Notizie, avvenimenti e nomi geografici dal carattere specialistico trovano le necessarie brevi spiegazioni nelle note. Dato il carattere letterario più che saggistico dell’opera, ho evitato i riferimenti puntuali agli autori antichi e agli storici contemporanei, che in questo contesto mi parevano fuori luogo.

Infine, ho usato un linguaggio adatto al soggetto e al tempo stesso attuale, quindi con inevitabili e anche voluti anacronismi (come il termine «fronda»).

Mi è stato assai utile conoscere le interpretazioni di L. Braccesi, Agrippina [maggiore], la sposa di un mito, Roma-Bari 2015; Y. Rivière, Germanicus, Paris 2016; A.A. Barrett, Agrippina, mother of Nero, London 1996; V.Girod, Agrippine. Sexe, crimes et pouvoir dans la Rome Impériale, Paris 2015, ai quali vanno debito e gratitudine. Ringrazio Daniela Bruno per quanto ha scritto in Le case del potere, Roma-Bari 2010 e per la sua conoscenza intelligente ed esatta del Palatino in The Atlas of Ancient Rome, Princeton 2017. Ringrazio anche Eva Cantarella, per il suo Come uccidere il padre, Milano 2017, che spiega bene quelli che a noi paiono gli orrori della famiglia romana. Infine ringrazio Sara Bossi e Nicolò Squartini per la loro ricostruzione rivoluzionaria (perché stratigrafica) del Porto di Claudio. Ringrazio anche Massimiliano Papini, uno storico dell’arte che ama l’archeologia, che mi ha consigliato sui ritratti riprodotti in questo libro. Il testo molto deve al paziente aiuto di Maria Cristina Capanna e Francesco De Stefano.

Ho scritto Io, Agrippina nel corso del 2017. Solo tra il 31 dicembre e il 1° gennaio del 2018 ho individuato lo scribano più appropriato per redigere la bella copia delle memorie di una Augusta in un’altra donna: la liberta Cenide. Da Antonia, e secondo il mio racconto anche da Agrippina, lei ha appreso quanto è bastato per diventare poi l’amante e l’aiuto finanziario di Vespasiano, principe dalle modeste origini, essendo lei, di fatto se non di nome, una Augusta nata schiava, avvenimento paradossale ma reale.

Penso che ogni cosa esistita ma in gran parte perduta abbia bisogno di essere risarcita e quindi di resuscitare al mondo, come per rappresentare una tappa, piccola, media e grande del cammino dell’umanità. È come seguire Germanico che recupera ossa e teschi dei legionari di Varo massacrati, come Caligola che recupera i resti di Agrippina maggiore e come Galba che recupera quelli di Agrippina minore...

È un gesto di pietas che ha anche un aspetto egoistico e per certi aspetti onnipotente: quello di non far mancare nulla di utile e significativo alla formazione propria e dell’umanità, a costo di errori ma anche a vantaggio di verosimiglianze. A me Io, Agrippina è servito a capire meglio tanti amati paesaggi e monumenti, e anche a intendere meglio me stesso: tutta questa rilevanza data a donne grandi e anche umili che nella vita riescono... Agli altri il libro potrà essere di aiuto per conoscere più intimamente e concretamente una delle epoche meglio testimoniate del mondo antico, che quindi bene si presta a illustrare un tratto significativo del sentiero tracciato dagli uomini nel corso delle passate quasi cinquantanove generazioni.

Io, Agrippina
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