Prologo
Le memorie delle Agrippine
Io, Giulia Agrippina Augusta,
oggi 6 novembre del 55 giorno del mio quarantesimo natale, ho deciso: per il ruolo che ho svolto nella famiglia Giulia, per rispondere alle insinuazioni di palazzo trapelate in città e per difendere l’operato della mia famiglia scrivo le gesta delle due Agrippine – fatto senza precedenti –, cioè di mia madre e mie, che abbiamo tratto il nome dal nonno M. Vipsanio Agrippa1.
Ho preso questa decisione nello studiolo chiamato Syracusae, posto al primo piano della parte privata del palazzo che ora è casa mia. Era stato Augusto a volerlo e a dargli il raro nome, perché in esso si isolava, come se si trovasse a Syracusae, la città contenuta in una isola (tavv. 9a, 11a, 12, 13)2. Nello studiolo scrivo queste righe mossa da una rissa di ricordi. Fuori dalla finestra, sopra l’Aventino, si addensano nuvole scure: il tempo volge al peggio.
Le memorie vengono redatte in due esemplari: uno noto e di mia mano, la brutta copia; l’altro ignoto e di mano di una liberta, la bella copia. Il secondo esemplare avrà due vantaggi rispetto al primo: includerà la mia fine, che magari conoscerò ma non potrò narrare, e sarà quello che più facilmente sopravviverà a questo tempo inquieto. Infatti la bella copia verrà consegnata all’archivio del palazzo quando l’imprevedibile mio figlio Nerone avrà finito di vivere.
Benché sia una donna, ho preso a modello le memorie di Giulio Cesare, di Augusto e di Claudio; non quelle menzognere di Tiberio – carnefice di genitori e fratelli –, come avrò modo di argomentare. Mia madre e io abbiamo sostenuto guerre in famiglia sanguinose quanto quelle rivolte ai nemici.
Ricordo poco della vita familiare dei miei primi anni – fatta eccezione del fuoco che crepitava scaldando e profumando la casa in legno sotto la neve –, ma ho nel cuore i racconti di mia madre, che così sempre li concludeva: «Sono l’eredità più preziosa, dicono chi siamo e cosa dobbiamo fare!». Ho anche compulsato i due archivi accolti in Syracusae, soprattutto riguardo al tempo di mia madre Agrippina.
Le gesta che narro si sono svolte alle estremità dell’Impero – tra il Reno e l’Albis3 e oltre l’Eufrate – e in città come Mitilene4, Rodi, Antiochia5, Alessandria (tavv. 27-30) e soprattutto Roma, nelle case e nei palazzi del Palatino, monte sul quale sorge il villaggio del potere nel quale tra parenti e affini ci si uccide.
Le case sono quelle rivolte alla Velia6, all’Arce, al Campidoglio e all’Aventino (tav. 2). In esse e sopra di esse sono sorti poi tre palazzi: la casa di Augusto, che al suo fianco ne ha generato un’altra chiamata Augustiana voluta da mio figlio Nerone; la casa di Tiberio, successore di Augusto, che ha generato la sua estensione chiamata casa Tiberiana; la casa di mio padre Germanico, che ha generato dirimpetto la casa di mio fratello Gaio soprannominato Caligola (tav. 3b).
Le gesta della vecchia classe dirigente repubblicana, benché predisposte negli atri delle case, erano deliberate in pubblico nel Foro. Invece le gesta dei principi si preparano e decidono nel chiuso dei palazzi. Affronto pertanto in queste memorie vicende segrete, massimo paradosso, ché la storia può fiorire soltanto quando le contese fra gli uomini si svolgono davanti al popolo.
Ah, se mosaici, marmi, pitture e stucchi, che tutto hanno visto, potessero parlare! Sarebbero i soli testimoni certi delle vite dei Cesari. Oltre ai papiri e alle tavolette cerate, confido di poter decifrare la lingua arcana degli edifici, che della storia sono il volto rivelatore. Potrebbe intendersi il principato d’Augusto ignorando il palazzo dal quale lui e gli altri Cesari hanno governato il mondo (tavv. 4-5, 9-13)?
In tutto l’Impero, il solo uomo rimasto libero è il principe e gli unici esseri che di lui tutto sanno sono sua moglie, i parenti, la corte, i liberti, i servi e le concubine. Da questo punto di vista mi considero la narratrice ideale della casata dei Cesari – pronipote di Augusto, sorella di Caligola, moglie di Claudio e madre di Nerone (tav. 1) –, sufficientemente vicina ai fatti senza però averli potuti determinare salvo in qualche onda lunga del potere. Sono pertanto una testimone inferiore alle pietre, ma superiore ai pettegolezzi che cingono il palazzo con il miasma degli «Ho sentito dire...». Per gli eventi che ho vissuto e che in alcuni momenti ho contribuito a determinare non riferisco chiacchiere o versioni in contrasto tra loro – come fanno abitualmente gli storici – ma le notizie così come le ho sapute.
Sangui, matrimoni, adozioni
Tra l’aristocrazia numerosa e i rari principi le genealogie familiari rivestono una importanza che l’uomo comune ignora. Per questa ragione i nostri atri e i nostri funerali sono gremiti d’immagini di avi.
Da parte di madre appartengo alla famiglia dei Giuli, ammessa nel senato da Tarquinio Prisco e nel patriziato da Servio Tullio7 – questa è la tradizione –, famiglia nella quale scorre il sangue celeste di Venere, dea che con il troiano Anchise ha generato Enea, da cui viene Iulus, il capostipite dei Iulii, come io stessa ho letto negli annali massimi conservati nella parte pubblica del palazzo. Sono infatti una pronipote del divo Augusto, prima chiamato Ottavio e poi Ottaviano quando è stato adottato da Giulio Cesare. Madre di Ottavio era Azia, figlia di Giulia sorella di Giulio Cesare, per la quale Ottavio dodicenne aveva pronunciato l’orazione funebre. Mia nonna, che era figlia di Augusto, si chiamava anche lei Giulia e mio nonno era, come ho detto, Vipsanio Agrippa – correggente del primo principe –, il padre di mia madre Agrippina.
Appartengo da parte di padre alla famiglia patrizia dei Claudi Neroni, originaria della Sabina e trasferitasi a Roma pochi anni dopo la cacciata di Tarquinio il Superbo, famiglia nelle cui vene scorre un sangue molto nobile ma non divino. Mio padre era Germanico – unico eroe di queste memorie –, mio nonno era Druso fratello di Tiberio – il principe succeduto infelicemente ad Augusto – e mio bisnonno era Tiberio Claudio Nerone, primo marito di Livia – massima e pessima signora di Roma –, che sposerà Ottaviano poi chiamato Augusto. Livia è stata la prima donna a essere libera e potente quasi come il principe (tav. 1).
Anche Livia discendeva dai Claudi. Suo padre era M. Livio Druso Claudiano, morto suicida nel 42 dopo la battaglia persa a Filippi8. Ha lasciato suo marito, il bisnonno Ti. Claudio Nerone, quando era incinta del nonno Druso; voleva sposare a tutti i costi Ottaviano, come il bisnonno Augusto allora si chiamava; ha partorito Druso il 14 gennaio del 38 e solo tre giorni dopo si è unita al nuovo marito. Ottaviano nel 39 era bramoso anche lui di sposare Livia, per cui ha lasciato la bisnonna Scribonia – dignitosa e prolifica nipote di Pompeo e di Silla –, nello stesso giorno della metà di ottobre del 39 in cui ha dato alla luce la nonna Giulia.
È sorto così il sospetto che Druso, nato tre mesi dopo i due divorzi, fosse un bastardo di Ottaviano. «Ai fortunati nascono i figli in tre mesi...», si mormorava nella buona società. Non penso che ciò sia vero, ma piuttosto l’esito di una decisione precipitosa, non ho capito se mossa da ragioni di alleanza o di passione. Se Augusto non avesse divorziato da Scribonia, la storia dei Cesari non sarebbe stata intrisa di sangue.
Così il 17 gennaio del 38 a.C. Livia ha lasciato la casa dei Claudi Neroni, che si trova sul Palatino dietro i templi di Vittoria e della Grande Madre, ha fatto quattro passi, lungo la strada principale verso le scale di Caco (tav. 3a)9, ed è entrata con il neonato Druso nella casa di Ottaviano.
Era questa una casa speciale, oggi non più visibile. Si trovava dirimpetto alla capanna di Romolo, periodicamente restaurata con legni, argilla e frasche, e alla fossa con altare nella quale il primo re aveva fondato la città unendo terre e primizie dei diversi rioni dell’abitato. Fervevano in quel tempo i lavori per trasformare quella che era stata la casa dell’oratore Ortensio10 nella dimora più fastosa di Roma, quella di Ottaviano. Avrebbe dovuto gravitare intorno a due corti porticate incentrate su un atrio, ben più vasto di quello di Emilio Scauro, che a suo tempo era il maggiore della città (tav. 6).
Ma nel 36 a.C., durante i lavori, un fulmine è caduto sull’atrio appena terminato. Il segno dal cielo, opportunamente interpretato, indicava che Apollo – dio che aveva fatto vincere Ottaviano ad Azio nel 31 a.C.11 – intendeva avere proprio lì una sua area sacra e un tempio, ai lati del quale lui – futuro Augusto – avrebbe potuto avere le proprie abitazioni (tav. 9a). Così è sorta la casa del principe, che chiamiamo «palazzo» perché posta sul Palatium12.
Ottaviano ha avuto da Scribonia non un figlio ma una figlia, Giulia. Ciò ha complicato enormemente la successione, che a Roma ignora precedenti e regole – un figlio o un nipote naturali, un figlio o un nipote adottati, un parente della casata, un senatore? –, per cui essa diventa occasione di sanguinosi conflitti. In assenza di figli maschi, era logico che ad Augusto succedesse un nipote nel quale scorreva il celeste sangue dei Giuli.
Giulia era una donna geniale ma irrequieta, stravagante e ribelle; dispiaceva sommamente al padre, che aveva ristabilito i costumi della famiglia romana sancendoli con apposite leggi. Violando queste leggi, lei legava alla propria azione politica uomini tramite patti adulterini; per di più tra i suoi amanti era Iullo, figlio di Fulvia13 e Antonio, il massimo nemico. Ciò ha riempito Augusto di rabbia, tanto che ha fatto esiliare Giulia, proibendo di accoglierne in futuro le ceneri nel proprio Mausoleo (tav. 18).
Restavano tuttavia tre figli di Giulia, che il principe avrebbe voluto fossero i suoi eredi. Ma la progettata successione è andata in fumo, a causa delle morti di Gaio, Lucio e Agrippa Postumo14 – almeno due di loro eliminati da Livia –, e così ad Augusto è succeduto Tiberio, adottato dal principe dietro pressione della moglie alla quale non sapeva resistere; ma Tiberio dispiaceva al principe, ché suo padre era stato un nemico sia dopo l’uccisione di Cesare, sia nella guerra perduta a Perugia15.
Con Livia e suo figlio Tiberio è germogliato nella casa di Ottaviano un pessimo seme claudio; ma i Claudi avevano espresso anche un ottimo seme, andato però disperso. Era quello di Druso, fratello di Tiberio, morto anzitempo combattendo in Germania, e quello di suo figlio e mio padre Germanico, morto avvelenato ad Antiochia con l’assenso di Tiberio.
Così Fortuna ha voluto che il principato sfuggisse fino da principio ai Giuli e passasse ai Claudi e ciò ha comportato un conflitto insanabile nella casata. Augusto, che aveva vinto cinque guerre civili e che per lungo tempo ha governato l’orbe, non ha saputo resistere a una moglie sposata troppo in fretta, salvo che al quarantesimo anno di governo, quando era troppo tardi; infatti nel 14 sono stati eliminati a Nola Augusto e nelle isole dell’esilio Agrippa e sua madre Giulia. Ma questo risveglio della coscienza di Augusto prima della sua fine ha riscattato il principe, almeno nella memoria.
Le dinastie sono state sempre nidi di aspidi: gli Atridi ad Argo, i Tarquini e i Giulio-Claudi a Roma, la famiglia di Arminio tra i Cherusci in Germania... È come se la storia vi aggrumasse tutto il potere e il male; ché al potere il bene poco conviene, come prova la infelice sorte di mio padre Germanico: buono, poco dominatore e presto spento.
Nella augusta casata al bisnonno Augusto, un giulio, è succeduto Tiberio, un claudio; a Tiberio, un claudio, è succeduto mio fratello Caligola, un giulio-claudio; a Caligola è succeduto un fratello di Germanico, Claudio, mio zio e poi anche marito; a Claudio è succeduto Nerone, figlio mio e di Gn. Domizio Enobarbo, grazie al quale il sangue dei Giuli è tornato ad animare il principato.
Ma i sangui nella casata dei Cesari erano ben più vari e bizzarramente mescolati. Essi sono: il sangue giulio di Giulio Cesare, di Augusto e di Giulia, sposa di Vipsanio Agrippa, confluito in mia madre Agrippina; il sangue claudio di Livia, Tiberio, Druso e Germanico mio padre; il sangue antonio di primo letto di Antillo e di Iullo, figli di Antonio e Fulvia, in seguito fatti sopprimere; il sangue antonio di secondo letto di Antonia, figlia di Antonio e di Ottavia sorella di Augusto, che ha sposato Druso fratello di Tiberio generando Germanico e Claudio; il sangue giulio unito a quello Lagide16 di Cesarione, figlio di Giulio Cesare e di Cleopatra, in seguito eliminato; il sangue antonio unito a quello Lagide di Tolemeo Filadelfo, di Alessandro Elio e di Cleopatra Selene, figli di Antonio e Cleopatra, accolti invece come parenti.
I nove figli di Agrippina e Germanico, tra i quali sono io, sono esito della fusione del sangue giulio e di quello claudio, che tanta speranza all’inizio ha suscitato nell’augusto casato. Altri miscugli hanno portato, al contrario, a gravi infelicità: soprattutto il sangue dello sconfitto Antonio mescolato a quello del vittorioso Ottaviano, tanto che l’unione di nonna Giulia con Iullo, figlio di Antonio, ha fatto di lei la capostipite della nostra rovina.
L’intreccio tra le famiglie è avvenuto grazie all’affinità consentita dai matrimoni. L’affiliazione fra principi e successori è avvenuta tramite adozione17: il giulio Augusto ha adottato il claudio Tiberio; quest’ultimo ha adottato, per volontà dello stesso principe, il claudio Germanico, padre del giulio-claudio Caligola, anche lui adottato da Tiberio; infine Claudio ha adottato il giulio-claudio Nerone (tav. 1).
Le adozioni hanno rivelato le intenzioni dei principi o le pressioni ch’essi hanno ricevuto riguardo alle successioni. Era preferibile per un principe disporre almeno di due figli naturali o adottivi, dato il frequente sopraggiungere di morti, omicidi, suicidi e condanne.
Per chi veniva adottato e poi otteneva il principato non sorgevano problemi, ma l’adottato che non aveva ottenuto il principato faceva una brutta fine. I figli adottati dai principi hanno avuto una grande rilevanza pubblica, ma i cuori degli Augusti e delle Auguste hanno palpitato soprattutto per i figli naturali. Per non dire dei parenti più stretti della casata, che correvano il rischio di apparire possibili successori e dunque venivano considerati potenziali cospiratori. Soprattutto se uno di loro era troppo ricco, troppo amato dalle legioni e dal popolo e troppo insisteva sul bel nome e sulla parentela con l’augusta casata era facile che venisse ritenuto un ribelle. Così uomini di grande talento sono stati eliminati senza poter giovare alla cosa pubblica.
Nella guerra che travaglia le dinastie le donne hanno, come ho detto, gesta da rammentare; gesta maligne, come quelle dell’astuta Livia, e gesta benigne, come quelle di mia madre, la troppo franca e ingenua Agrippina. Livia non ha scritto memorie, ché avrebbero sfigurato rispetto a quelle di Augusto; Agrippina avrebbe voluto scriverle ma non ha potuto perché è finita in esilio. Considero la sua vita come la prima parte della mia: due donne, un solo nome, una unica impresa, se non una sola vita, e una sola memoria.
Anche per me una stessa tragica fine? O chiuderò gli occhi da vecchia nella mia stanza e nel mio letto – gli stessi nei quali ha dormito Augusto (tavv. 9a, 12) –, come fino a ora soltanto a Livia è toccato?
1 Artefice di molte vittorie di Ottaviano (63-12 a.C.), la più considerevole delle quali è stata quella della battaglia navale di Azio contro Marco Antonio e Cleopatra (31 a.C.).
2 La parte più antica di Siracusa si trova nell’isola di Ortigia, occupata poi dalla reggia dei tiranni, la cui alcova stava su una isoletta a cui si accedeva con una passerella.
3 Il fiume Elba in Germania.
4 Città nell’isola di Lesbo.
5 Città capitale della provincia di Siria.
6 Monte di fronte alla pendice settentrionale del Palatino, distrutto in grande parte tra Nerone e Mussolini.
7 Siamo tra la fine del VII e il VI secolo avanzato a.C.
8 La battaglia di Filippi ha opposto le forze cesariane del secondo triumvirato, composto da Antonio, Ottaviano e Lepido, alle forze di Bruto e Cassio. La battaglia si è svolta nell’ottobre del 42 a.C. nei pressi di Filippi, cittadina della provincia di Macedonia.
9 Scale che portavano dalla valle Murcia, dove era il Circo Massimo, al ciglio del Palatino chiamato Cermalus. A. Carandini-P. Carafa (a cura di), Atlas of Ancient Rome, 2017, tab. 64.
10 Q. Ortensio Ortalo, console nel 69 a.C., grande oratore dallo stile esuberante e fastoso, amico di Cicerone; i due si erano confrontati nel processo di Verre, il primo come difensore e il secondo come accusatore.
11 La battaglia di Azio si è svolta il 2 settembre del 31 a.C. davanti al golfo di Arta (Ambracia). La vittoria di Ottaviano su Antonio e Cleopatra ha concluso le guerre civili. Vedi pp. 44 ss., tavv. 32-33.
12 Palatium indica sia il monte Palatino – l’aggettivo palatinus, a, um significa afferente al Palatium –, sia il palatium o i palatia, il palazzo o i palazzi che sopra vi sorgevano.
13 Fulvia aveva sposato prima Clodio, il discusso tribuno massacrato nel 52 a.C. dalla banda di Milone; lei aveva esposto il corpo del marito nell’atrio della casa che era stata di Emilio Scauro (tav. 6). Ottaviano aveva sposato sua figlia Clodia Pulcra, presto ripudiata per matrimonio non consumato. Nella casa di Antonio e Fulvia sul Palatino, vicina a quella di Cicerone (tav. 3a), si decidevano le sorti della cosa pubblica, con la partecipazione della padrona di casa. Fulvia è stata attiva nelle proscrizioni che hanno causato la morte di Cicerone. Dopo l’esposizione nel Foro della testa dell’oratore, Fulvia la ha dissacrata in casa sua, sputandoci sopra e trapassando la lingua con un fermaglio.
14 D’ora in poi chiamato Agrippa.
15 La guerra di Perugia, svoltasi tra il 41 e il 40 a.C., è stata l’esito della rivalità tra Ottaviano e Lucio Antonio fratello di Marco, che ha perso il confronto. Avendo Ti. Claudio Nerone combattuto a fianco di Lucio Antonio, è stato costretto a fuggire con sua moglie Livia e il figlio Tiberio prima a Palestrina, poi a Napoli e infine in Grecia, dove ha raggiunto Antonio. Nel 40 a.C. ha potuto rientrare a Roma.
16 La dinastia Lagide prende il nome da Lago padre di Tolomeo Sotere e ha governato l’Egitto dal 305 al 30 a.C., fino alla conquista di Ottaviano e alla morte di Antonio e Cleopatra, ultima regina Lagide.
17 Il potere di dare un figlio in adozione, sancito dalle XII tavole, spettava al pater familias. L’adozione comportava che il figlio adottivo avesse lo stesso status del pater familias sotto la cui autorità andava a ricadere; un plebeo adottato da un patrizio diveniva anch’egli patrizio; viceversa, un patrizio adottato da un plebeo diveniva plebeo e poteva accedere alle magistrature e agli incarichi riservati alla plebe. L’adozione di un patrizio da parte di un plebeo doveva essere approvata dal pontefice massimo: è il caso della transitio ad plebem di Clodio, adottato dal senatore plebeo Publio Fonteio. Talvolta il pater familias che dava in adozione il proprio figlio riceveva un indennizzo in denaro. Colui che veniva adottato prendeva il nome del padre adottivo, al quale aggiungeva un cognomen costruito con il nomen del padre naturale e con il suffisso -anus. Così Gaio Ottavio, adottato nel 44 da Gaio Giulio Cesare, è stato chiamato Gaio Giulio Cesare Ottaviano. L’adozione serviva a costruire alleanze politiche tra le famiglie, volte ad accrescere la loro influenza.