I CANTI DEL RITORNO

1. ELISEWIN

In bilico sull’orlo della terra, a un passo dal mare in burrasca, riposava immobile la locanda Almayer, immersa nel buio della notte come un ritratto, pegno d’amore, nel buio di un cassetto.

Benché fosse finita da tempo la cena, tutti, inspiegabilmente, continuavano a indugiare nella grande stanza del camino. La furia del mare, là fuori, inquietava gli animi e disordinava le idee.

— Io non voglio dire, ma forse sarebbe il caso...

— State tranquillo, Bartleboom. In genere le locande non fanno naufragio.

— In genere? Come sarebbe a dire in genere?

Ma la cosa più curiosa erano i bambini. Tutti lì, con il naso schiacciato contro i vetri, stranamente muti, a spiare il buio di fuori: Dood, che viveva sul davanzale della finestra di Bartleboom, e Ditz, che regalava i sogni a Padre Pluche, e Dol, che vedeva le navi per Plasson. E Dira. E perfino la bambina, bellissima, che dormiva nel letto di Ann Deverià e che, in giro per la locanda, nessuno aveva mai visto. Tutti lì, ipnotizzati da chissà cosa, silenziosi e inquieti.

— Sono come degli animaletti, credetemi. Sentono il pericolo. É l’istinto.

— Plasson, se vi deste un po’ da fare per tranquillizzare il vostro amico...

— Dico, quella bambina è meravigliosa...

— Provateci voi, madame.

— Non ho assolutamente bisogno che qualcuno si prenda la pena di tranquillizzarmi giacché sono perfettamente tranquillo.

— Tranquillo?

— Perfettamente.

— Elisewin... non è bellissima? Sembra...

— Padre Pluche, la devi smettere di guardare sempre le donne.

— Non è una donna...

— Sì che è una donna.

— Piccola però...

— Diciamo che il buon senso mi detta una sacrosanta prudenza nel considerare...

— Quello non è buon senso. Quella è paura bell’e buona.

— Non è vero.

— Sì.

— No.

— Certo che sì.

— Certo che no.

— Ah, basta. Sareste capaci di andare avanti ore. Io mi ritiro.

— Buona notte madame —, dissero tutti.

— Buona notte —, rispose un po’ distrattamente Ann Deverià. Ma non si alzò dalla sua poltrona. Non cambiò nemmeno posizione. Se ne rimase lì, immobile. Come se non fosse successo niente. Davvero: era una notte strana, quella. Forse, alla fine, si sarebbero poi tutti arresi alla normalità di una notte qualunque, uno ad uno, sarebbero saliti nelle loro stanze, si sarebbero perfino addormentati, nonostante quel fragore instancabile di mare in burrasca, ciascuno infagottato nei suoi sogni, o nascosto in un sonno senza parole. Forse, alla fine, sarebbe potuta anche diventare una notte qualunque. Ma non lo diventò.

La prima a staccare gli occhi dai vetri, a girarsi improvvisamente e a correre fuori dalla stanza, fu Dira. Gli altri bambini la seguirono, senza una parola. Plasson guardò

allibito Bartleboom che guardò allibito Padre Pluche che guardò allibito Elisewin che guardò allibita Ann Deverià che continuò a guardare davanti a sé. Ma con impercettibile sorpresa. Quando i bambini rientrarono nella sala portavano in mano delle lanterne. Dira prese ad accenderle, una ad una, con una strana frenesia.

— È successo qualcosa? —, chiese garbatamente Bartleboom.

— Tenete qui —, gli rispose Dood, porgendogli una lanterna accesa. — E voi, Plasson, tenete questa, presto.

Non se ne capiva più nulla. Ognuno si trovò con una lanterna accesa in mano. Nessuno spiegava niente, i bambini correvano da una parte all’altra come divorati da un’ansia incomprensibile. Padre Pluche guardava ipnotizzato la fiammella della sua lanterna. Bartleboom mormorava vaghi fonemi di protesta. Ann Deverià si alzò dalla poltrona. Elisewin si accòrse di tremare. Fu in quell’istante che la grande porta a vetri che dava sulla spiaggia si spalancò. Come catapultato nella sala, un vento furibondo prese a correre intorno a tutto e a tutti. Il volto dei bambini si illuminò. E Dira disse

— Presto... di qua!

Uscì di corsa dalla porta spalancata, con la sua lanterna in mano.

— Andiamo... fuori, fuori di qui!

Gridavano, i bambini. Ma non di paura. Gridavano per vincere quel frastuono di mare e di vento. Ma era una specie di gioia - inspiegabile gioia - che tintinnava nelle loro voci.

Bartleboom se ne rimase irrigidito, in piedi, in mezzo alla stanza, completamente disorientato. Padre Pluche si voltò verso Elisewin: le vide sul volto un pallore impressionante. Madame Deverià non disse una parola, ma prese la sua lanterna e seguì Dira. Plasson le corse dietro.

— Elisewin, è meglio che tu rimanga qui...

— No.

— Elisewin stammi ad ascoltare...

Bartleboom prese meccanicamente il mantello e uscì di corsa mormorando qualcosa tra sé.

— Elisewin...

— Andiamo.

— No, ascoltami... non sono affatto sicuro che tu...

Tornò indietro la bambina - quella bellissima - e senza dire una parola prese per mano Elisewin, sorridendole.

— Ne sono sicura io, Padre Pluche.

Le tremava la voce. Ma tremava di forza, e di voglia. Non di paura. La locanda Almayer se ne rimase indietro, con la sua porta a sbattere nel vento, e le sue luci a rimpicciolire nel buio. Come lapilli schizzati via da un braciere, dieci piccole lanterne correvano lungo la spiaggia, disegnando nella notte geroglifici spiritosi e segreti. Il mare, invisibile, macinava un frastuono da non crederci. Soffiava il vento, scompigliando mondo, parole, facce e pensieri. Meraviglioso vento. É

oceano mare.

— Esigo di sapere dove diavolo stiamo andando!

— Eh?

— DOVE DIAVOLO STIAMO ANDANDO?

— Tenete su quella lanterna, Bartleboom!

— La lanterna!

— Ehi, ma dobbiamo proprio correre così?

— Era anni che non correvo...

— Anni che?

— Dood, accidenti, si può sapere...

— ANNI CHE NON CORREVO.

— Tutto bene, signor Bartleboom?

— Dood, accidenti...

— Elisewin!

— Sono qui, sono qui.

— Restami vicino, Elisewin.

— Sono qui.

Meraviglioso vento. Oceano mare.

— Sapete cosa penso?

— Come?

— Secondo me è per le navi. LE NAVI.

— Le navi?

— Si fa quando c’è burrasca... Si accendono dei fuochi sulla costa per le navi... perché non finiscano sulla costa...

— Bartleboom, avete sentito?

— Eh?

— State per diventare un eroe, Bartleboom!

— Ma cosa diavolo dice Plasson?

— Che state per diventare un eroe!

— Io?

— SIGNORINA DIRA!

— Ma dove va?

— Non ci si potrebbe fermare un attimo?

— Lo sapete cosa fanno gli abitanti delle isole, quando c’è burrasca?

— No, madame.

— Corrono all’impazzata su e giù per l’isola con delle lanterne sollevate sulla testa... così le navi... così le navi non ci capiscono più niente e finiscono contro le scogliere.

— Voi scherzate.

— Non scherzo affatto... Ci sono isole intere che vivono con quello che si trova nei relitti.

— Non vorrete dire che...

— Tenetemi la lanterna, per favore.

— Fermatevi un momento, diavolo!

— Madame... il vostro mantello!

— Lasciatelo lì.

— Ma...

— Lasciatelo lì, perdìo! Meraviglioso vento. Oceano mare.

— Ma cosa fanno?

— Signorina Dira!

— Dove diavolo vanno?

— Ma insomma...

— DOOD!

— Correte, Bartleboom.

— Sì, ma da che parte?

— Ma insomma, hanno perso la lingua ‘sti bambini?

— Guardate là.

— È Dira.

— Sta salendo sulla collina.

— Io vado di là.

— Dood! Dood! Bisogna andare verso la collina!

— Ma dove va?

— Cristo, qui non se ne capisce più niente.

— Tenete alta quella lanterna e correte, Padre Pluche.

— Non farò più un solo passo se...

— Ma perché non parlano?

— Non mi piace niente quello sguardo che hanno.

— Cos’è che non vi piace?

— Gli occhi. GLI OCCHI!

— Plasson, dov’è finito Plasson?

— Io vado con Dol.

— Ma...

— LA LANTERNA. SI È SPENTA LA MIA LANTERNA!

— Madame Deverià, dove andate?

— Insomma vorrei sapere almeno se sto per salvare una nave o per farla naufragare!

— ELISEWIN! La mia lanterna! Si è spenta!

— Plasson, cos’ha detto Dira?

— Di là, di là...

— La mia lanterna...

— MADAME!

— Non vi sente più, Bartleboom.

— Ma non è possibile...

— ELISEWIN! Dov’è finita Elisewin? La mia lanterna...

— Padre Pluche, venite via da lì.

— Mi si è spenta la lanterna.

— Al diavolo, io vado di là.

— Venite, ve la accendo.

— Dio mio, Elisewin, l’avete vista?

— Sarà andata con madame Deverià.

— Ma era qui, era qui...

— Tenetela dritta questa lanterna.

— Elisewin...

— Ditz, hai visto Elisewin?

— DITZ! DITZ! Ma cosa diavolo è successo a questi bambini?

— Ecco... la vostra lanterna...

— Io non ci capisco più niente.

— Su, andiamo.

— Devo trovare Elisewin...

— Andiamo, Padre Pluche, son già tutti avanti.

— Elisewin... ELISEWIN! Buon Dio, dove sei finita... ELISEWIN!

— Padre Pluche, basta, la troveremo...

— ELISEWIN! ELISEWIN! Elisewin, ti prego...

Immobile, con la lanterna spenta in mano, Elisewin sentiva il proprio nome arrivarle da lontano, mescolato al vento e al fragore del mare. Nel buio, davanti a sé, vedeva incrociarsi le piccole luci di tante lanterne, ognuna sperduta in un suo viaggio sull’orlo della burrasca. Non c’erano, nella sua mente, né inquietudine né paura. Un lago tranquillo le era esploso, tutt’a un tratto, nell’anima. Aveva lo stesso suono di una voce che conosceva.

Si voltò, e lentamente tornò sui suoi passi. Non c’era più vento, non c’era più notte, non c’era più mare, per lei. Andava, e sapeva dove andare. Questo era tutto. Sensazione meravigliosa. Di quando il destino finalmente si schiudere diventa sentiero distinto, e orma inequivocabile, e direzione certa. Il tempo interminabile dell’avvicinamento. Quell’accostarsi. Si vorrebbe non finisse mai. Il gesto di consegnarsi al destino. Quella è un’emozione. Senza più dilemmi, senza più

menzogne. Sapere dove. E raggiungerlo. Qualunque sia, il destino. Camminava - ed era la cosa più bella che avesse mai fatto.

Vide la locanda Almayer avvicinarsi. Le sue luci. Lasciò la spiaggia, arrivò sulla soglia, entrò e chiuse dietro di sé quella porta da cui, insieme agli altri, chissà quanto tempo prima, era uscita di corsa, senza ancora nulla sapere. Silenzio. Sul pavimento di legno, un passo dopo l’altro. Granelli di sabbia che scricchiolano sotto i piedi. In un angolo, per terra, il mantello caduto a Plasson, nella fretta di corrersene via. Nei cuscini, sulla poltrona, l’orma del corpo di madame Deverià, come se si fosse appena alzata. E al centro della stanza, in piedi, immobile, Adams. Che la guarda.

Un passo dopo l’altro, fino ad arrivargli vicino. E dirgli:

— Non mi farai del male, vero?

Non le farà del male, vero?

— No.

No.

Allora

Elisewin

prese

tra le mani

il volto

di quell’uomo,

e

lo baciò.

Nelle terre di Carewall, non smetterebbero mai di raccontare questa storia. Se solo la conoscessero. Non smetterebbero mai. Ognuno a modo suo, ma tutti continuerebbero a raccontare di quei due e di un’intera notte passata a restituirsi la vita, l’un l’altra, con le labbra e con le mani, una ragazzina che non ha visto nulla e un uomo che ha visto troppo, uno dentro l’altra - ogni palmo di pelle è un viaggio, di scoperta, di ritorno - nella bocca di Adams a sentire il sapore del mondo, sul seno di Elisewin a dimenticarlo - nel grembo di quella notte stravolta, nera burrasca, lapilli di schiuma nel buio, onde come cataste franate, rumore, sonore folate, furiose di suono e velocità, lanciate sul pelo del mare, nei nervi del mondo, oceano mare, colosso che gronda, stravolto - sospiri, sospiri nella gola di Elisewin - velluto che vola - sospiri ad ogni passo nuovo in quel mondo che valica monti mai visti e laghi di forme impensabili - sul ventre di Adams il peso bianco di quella ragazzina che dondola musiche mute - chi l’avrebbe mai detto che baciando gli occhi di un uomo si possa vedere così lontano - accarezzando le gambe di una ragazzina si possa correre così

veloci e fuggire - fuggire da tutto - vedere lontano - venivano dai due più lontani estremi della vita, questo è stupefacente, da pensare che mai si sarebbero sfiorati, se non attraversando da capo a piedi l’universo, e invece nemmeno si erano dovuti cercare, questo è incredibile, e tutto il difficile era stato solo riconoscersi, riconoscersi, una cosa di un attimo, il primo sguardo e già lo sapevano, questo è il meraviglioso - questo continuerebbero a raccontare, per sempre, nelle terre di Carewall, perché nessuno possa dimenticare che non si è mai lontani abbastanza per trovarsi, mai - lontani abbastanza - per trovarsi - lo erano quei due, lontani, più di chiunque altro e adesso - grida la voce di Elisewin, per i fiumi di storie che forzano la sua anima, e piange Adams, sentendole scivolare via, quelle storie, alla fine, finalmente, finite - forse il mondo è una ferita e qualcuno la sta ricucendo in quei due corpi che si mescolano - e nemmeno è amore, questo è stupefacente, ma è mani, e pelle, labbra, stupore, sesso, sapore - tristezza, forse - perfino tristezza - desiderio - quando lo racconteranno non diranno la parola amore - mille parole diranno, taceranno amore - tace tutto, intorno, quando d’improvviso Elisewin sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e pensa: morirò. Sente la schiena spezzarsi e la mente sbiancare, stringe quell’uomo dentro, gli afferra le mani e, vedi, non morirà.

— Ascoltami, Elisewin...

— No, non parlare...

— Ascoltami.

— No.

— Quello che succederà qui sarà orrendo e...

— Baciami... è l’alba, torneranno...

— Ascoltami...

— Non parlare, ti prego.

— Elisewin...

Come si fa? Come glielo dici, a una donna così, quello che devi dirle, con le sue mani addosso e la sua pelle, la pelle, non si può parlare di morte proprio a lei, come glielo dici a una ragazzina così, quello che lei sa già e che pure bisognerà che ascolti, le parole, una dopo l’altra, che puoi anche sapere ma devi ascoltare, prima o poi, qualcuno deve dirle e tu ascoltarle, lei, ascoltarle, quella ragazzina che dice

— Hai degli occhi che non ti ho visto mai.

E poi

— Se solo tu lo volessi, potresti salvarti.

Come glielo dici, a una donna così, che tu vorresti salvarti, e ancora di più vorresti salvare lei con te, e non fare altro che salvarla, e salvarti, tutta una vita, ma non si può, ognuno ha il suo viaggio, da fare, e tra le braccia di una donna si finisce facendo strade contorte, che neanche tanto capisci tu, e al momento buono non le puoi raccontare, non hai le parole per farlo, parole che ci stiano bene, li, tra quei baci e sulla pelle, parole giuste, non ce n’è, hai un bel cercarle in quel che sei e in quel che hai sentito, non le trovi, hanno sempre una musica sbagliata, è la musica che gli manca, lì, tra quei baci e sulla pelle, è una questione di musica. Così poi dici, qualcosa, ma è una miseria.

— Elisewin, io non sarò mai più salvo.

Come glielo dici, a un uomo così, che adesso sono io che voglio insegnargli una cosa e tra le sue carezze voglio fargli capire che il destino non è una catena ma un volo, e se solo ancora avesse voglia davvero di vivere lo potrebbe fare, e se solo avesse voglia davvero di me potrebbe riavere mille notti come questa invece di quell’unica, orribile, a cui va incontro, solo perché lei lo aspetta, la notte orrenda, e da anni lo chiama. Come glielo dici, a un uomo così, che diventare un assassino non servirà a nulla e a nulla servirà quel sangue e quel dolore, è solo un modo di correre a perdifiato verso la fine, quando il tempo e il mondo per non far finire nulla sono qui a aspettarci, e a chiamarci, se solo sapessimo ascoltarli, se solo lui potesse, davvero, davvero, ascoltarmi. Come glielo dici, a un uomo così, che ti sta perdendo?

— Io me ne andrò...

— ...

— Io non voglio esserci... io vado via.

— ...

— Io non voglio sentire quell’urlo, voglio essere lontana.

— ...

— Non lo voglio sentire.

É la musica che è difficile, questa è la verità, è la musica che è difficile da trovare, per dirselo, lì così vicini, la musica e i gesti, per sciogliere la pena, quando proprio non c’è più nulla da fare, la musica giusta perché sia una danza, in qualche modo, e non uno strappo quell’andarsene, quello scivolare via, verso la vita e lontano dalla vita, strano pendolo dell’anima, salvifico e assassino, a saperlo danzare farebbe meno male, e per quésto gli amanti, tutti, cercano quella musica, in quel momento, dentro le parole, sulla polvere dei gesti, e sanno che, ad averne il coraggio, solo il silenzio lo sarebbe, musica, esatta musica, un largo silenzio amoroso, radura del commiato e stanco lago che infine cola nel palmo di una piccola melodia, imparata da sèmpre, da cantare sotto voce

— Addio, Elisewin.

Una melodia da nulla.

— Addio, Thomas.

Scivola via da sotto il mantello e si alza, Elisewin. Con il suo corpo da ragazzina, nudo, e addosso il tepore di tutta una notte. Raccoglie il vestito, si avvicina ai vetri. Il mondo di fuori è sempre là. Puoi fare qualsiasi cosa ma stai certo che te lo ritrovi al suo posto, sempre. C’è da non crederci, ma è così.

Due piedi nudi, da ragazzina. Salgono le scale, entrano in una stanza, vanno verso la finestra, si fermano.

Riposano, le colline. Come se non avessero nessun mare davanti.

— Domani partiremo, Padre Pluche.

— Come?

— Domani. Partiremo.

— Ma...

— Per favore.

— Elisewin... non si può decidere così su due piedi... dobbiamo scrivere a Daschenbach... guarda che quelli non stanno lì ad aspettarci tutti i santi giorni.

— Non andremo a Daschenbach.

— Come sarebbe a dire non andremo a Daschenbach?

— Non ci andremo.

— Elisewin, manteniamo la calma. Noi siamo venuti fin qui perché devi curarti, e per curarti devi entrare nel mare, e per entrare nel mare devi andare a...

— Io sono già entrata nel mare.

— Prego?

— Io non ho più nulla da cui guarire, Padre Pluche.

— Ma...

— Io sono viva.

— Gesù... ma cosa diavolo è successo?

— Niente... devi solo fidarti di me... ti prego, devi fidarti.

— Io... io mi fido di te, ma...

— Allora fammi partire. Domani.

— Domani...

Se ne rimane lì, Padre Pluche, rigirando tra le mani il suo stupore. Mille domande, in testa. E sa benissimo quale dovrebbe fare. Poche parole. Chiare. Una cosa semplice:

“E tuo padre cosa dirà?”. Una cosa semplice. Eppure si perde per strada. Non c’è

verso di andarla a ripescare. È ancora lì che la cerca, Padre Pluche, quando sente la propria voce chiedere:

— E com’è?... Il mare, com’è?

Sorride, Elisewin.

— Bellissimo.

— E poi?

Non smette di sorridere, Elisewin.

— A un certo punto, finisce.

Partirono di mattina presto. La carrozza filava via sulla strada lungo il mare. Padre Pluche si lasciava sballottare sul suo sedile con la stessa ilare rassegnazione con cui aveva fatto i bagagli, salutato tutti, risalutato tutti, e dimenticato apposta una valigia, alla locanda, perché un pretesto per tornare bisogna sempre seminarselo dietro, quando si parte. Si sa mai. Rimase silenzioso fino a quando non vide la strada girare e il mare allontanarsi. Non un attimo di più.

— Sarebbe troppo chiedere dove stiamo andando? Elisewin teneva un foglio stretto in mano. Gli diede un’occhiata.

— Saint Parteny.

— E cos’è?

— Un paese —, disse Elisewin richiudendo la mano sul foglio.

— Un paese dove?

— Ci vorrà una ventina di giorni. È nella campagna intorno alla capitale.

— Una ventina di giorni? Ma è una follia.

— Guarda il mare, Padre Pluche, se ne sta andando.

— Una ventina di giorni... Voglio sperare che tu abbia un’ottima ragione per fare un viaggio del genere...

— Se ne sta andando...

— Elisewin, dico a te, cosa andiamo a fare laggiù?

— Andiamo a cercare una persona.

— Venti giorni di viaggio per andare a cercare una persona?

— Sì.

— Diavolo, ma allora deve trattarsi almeno di un principe, che so, del re in persona, di un santo...

— Più o meno... Pausa.

— È un ammiraglio. Pausa.

— Gesù...

Nell’arcipelago di Tamal si alzava ogni sera una nebbia che divorava le navi restituendole all’alba completamente coperte di neve. Nello stretto di Cadaoum, ad ogni luna nuova, l’acqua si ritirava lasciando dietro di sé un immenso banco di sabbia popolato da molluschi parlanti e alghe velenose. Al largo della Sicilia un’isola era scomparsa e altre due, inesistenti sulle carte, erano affiorate poco lontano. Nelle acque di Draghar era stato catturato il pirata van Dell, che aveva preferito buttarsi in pasto agli squali piuttosto che cadere nelle mani della marina reale. Nel suo palazzo, infine, l’ammiraglio Langlais continuava con estenuata esattezza a catalogare i plausibili assurdi e le inverosimili verità che gli giungevano da tutti i mari del mondo. La sua penna vergava con immutabile pazienza la geografia fantastica di un mondo instancabile. La sua mente riposava nell’esattezza di una quotidianità immutata. Identica a se stessa, si srotolava la sua vita. É incolto, quasi inquietante, dimorava il suo giardino.

— Il mio nome è Elisewin —, disse la ragazza quando giunse davanti a lui. Lo colpì, quella voce: velluto.

— Ho conosciuto un uomo che si chiamava Thomas.

Velluto.

— Quando viveva qui, con voi, il suo nome era Adams.

L’ammiraglio Langlais rimase immobile, tenendo lo sguardo negli occhi scuri di quella ragazza. Non disse nulla. Quel nome, aveva sperato di non sentirlo mai più. L’aveva tenuto lontano per giorni, mesi. Aveva pochi istanti per impedire che ritornasse, a ferirgli l’anima e i ricordi. Pensò di alzarsi e di pregare quella ragazza di andarsene. Le avrebbe dato una carrozza. Dei soldi.

Qualsiasi cosa. Le avrebbe ordinato di andarsene. Nel nome del re, andatevene. Gli giunse, come da lontano, quella voce di velluto. E diceva:

— Tenetemi con voi.

Per cinquantatré giorni e nove ore, Langlais non seppe cosa lo aveva spinto in quell’istante a rispondere

— Sì, se voi volete.

Lo capì una sera, seduto accanto a Elisewin, sentendo quella voce di velluto recitare

— A Timbuktu questa è l’ora in cui alle donne piace cantare e amare i loro uomini. Si scostano i veli dal volto e perfino il sole si allontana, sconcertato dalla loro bellezza. Langlais sentì un’immensa e dolce stanchezza salirgli al cuore. Come se avesse viaggiato per anni, smarrito, e finalmente avesse ritrovato la via del ritorno. Non si voltò verso Elisewin. Ma disse piano

— Come sapete questa storia?

— Non so. Ma so che è vostra. Questa, e tutte le altre.

Elisewin rimase nel palazzo di Langlais per cinque anni. Padre Pluche per cinque giorni. Al sesto disse a Elisewin che era incredibile ma aveva dimenticato una valigia, laggiù, alla locanda Almayer, incredibile, davvero, ma c’era roba importante, là

dentro, dentro alla valigia, un vestito e forse perfino il libro con tutte le preghiere

— Come sarebbe a dire forse?

Forse... cioè, certamente, adesso che ci penso, certamente, è in quella valigia, tu capisci non posso assolutamente lasciarlo là... non che siano chissà che, quelle preghiere, per carità, ma, insomma, proprio perderle così... considerato che si tratta poi di un viaggetto di una ventina di giorni, non è poi così lontano, è solo questione di...

— Padre Pluche...

— ... è inteso comunque che tornerei... vado giusto a riprendere la valigia, magari mi fermo qualche giorno a riposare e poi...

— Padre Pluche...

— ... è una questione di un paio di mesi, tutt’al più potrei magari fare un salto da tuo padre, cioè, voglio dire, per assurdo, sarebbe anche meglio che io...

— Padre Pluche... Dio come mi mancherai.

Partì il giorno dopo. Era già sulla carrozza, quando ne ridiscese e avvicinandosi a Langlais gli disse:

— Sapete una cosa? Avrei detto che gli ammiragli stessero sul mare...

— Anch’io avrei detto che i preti stessero nelle chiese.

— Oh, be’, sapete, Dio è dappertutto...

— Anche il mare, Padre. Anche il mare.

Partì. E non lasciò una valigia dietro di sé, questa volta.

Elisewin rimase nel palazzo di Langlais per cinque anni. L’ordine meticoloso di quelle stanze e il silenzio di quella vita le ricordavano i tappeti bianchi di Carewall, e i viali circolari, e la vita sfiorata che suo padre, un giorno, aveva allestito per lei. Ma quel che laggiù era medicina e cura, lì era limpida sicurezza e lieta guarigione. Quel che aveva conosciuto come grembo di una debolezza, lì riscopriva come forma di una forza cristallina. Da Langlais imparò che tra tutte le vite possibili, a una bisogna ancorarsi per poter contemplare, sereni, tutte le altre. A Langlais regalò, una a una, le mille storie che un uomo e una notte avevano seminato in lei, sa dio come, ma in modo incancellabile e definitivo. Lui l’ascoltava, in silenzio. Lei raccontava. Velluto. Di Adams non parlarono mai. Solo una volta Langlais, alzando improvvisamente gli occhi dai suoi libri, disse lentamente

— Io l’ amavo, quell’uomo. Se voi potete capire cosa vuol dire, io lo amavo. Morì, Langlais, una mattina d’estate, divorato da un dolore infame e accompagnato da una voce - velluto - che gli raccontava il profumo di un giardino, il più piccolo e bello di Timbuktu.

Il giorno dopo Elisewin partì. Era a Carewall, che voleva tornare. Ci avrebbe messo un mese, o una vita, ma lì sarebbe tornata. Di ciò che la stava aspettando, riusciva a immaginare poco. Sapeva solo che tutte quelle storie, custodite in lei, le avrebbe tenute per sé, e per sempre. Sapeva che qualsiasi uomo avesse amato, in lui avrebbe cercato il sapore di Thomas. E sapeva che nessuna terra avrebbe nascosto, in lei, l’ orma del mare.

Tutto il resto era ancora nulla. Inventarlo - questo sarebbe stato meraviglioso.

2. PADRE PLUCHE

Preghiera per uno che si è perso, e dunque, a dirla tutta, preghiera per me.

Signore Buon Dio

abbiate pazienza

son di nuovo io.

Dunque, qui le cose

vanno bene,

chi più chi meno,

ci si arrangia,

in pratica,

si trova poi sempre il modo

il modo di cavarsela,

voi mi capite,

insomma, il problema non è questo.

Il problema sarebbe un altro,

se avete la pazienza di ascoltare

di ascoltarmi

di.

Il problema è questa strada

bella strada

questa strada che corre

e scorre

e soccorre

ma non corre diritta

come potrebbe

e nemmeno storta

come saprebbe

no.

Curiosamente,

si disfa.

Credetemi

(per una volta credete voi a me)

si disfa.

Dovendo riassumere dovendo,

se ne va

un po’ di qua

e un po’ di là

presa

da improvvisa

libertà.

Chissà.

Adesso, non per sminuire, ma dovrei spiegarvi questa cosa, che è cosa da uomini, e non è cosa da Dio, di quando la strada che si ha davanti si disfa, si perde, si sgrana, si eclissa, non so se avete presente, ma è facile che non abbiate presente, è una cosa da uomini, in generale, perdersi. Non è roba da Voi. Bisogna che abbiate pazienza e mi lasciate spiegare. Faccenda di un attimo. Innanzitutto non dovete farvi fuorviare dal fatto che, tecnicamente parlando, non si può negarlo, questa strada che corre scorre soccorre, sotto le ruote di questa carrozza, effettivamente, volendo attenersi ai fatti, non si disfa affatto. Tecnicamente parlando. Continua diritta, senza esitazioni, neanche un timido bivio, niente. Dritta come un fuso. Lo vedo da me. Ma il problema, lasciatevelo dire, non sta qui. Non è di questa strada, fatta di terra e polvere e sassi, che stiamo parlando. La strada in questione è un’altra. E corre noti fuori, ma dentro. Qui dentro. Non so se avete presente: la mia strada. Ne hanno tutti una, lo saprete anche voi, che, tra l’altro, non siete estraneo al progetto di questa macchina che siamo, tutti quanti, ognuno a modo suo. Una strada dentro, ce l’hanno tutti, cosa che facilita, per lo più, l’incombenza di questo viaggio nostro, e solo raramente, la complica. Adesso è uno di quei momenti che la complica. Volendo riassumere volendo, è quella strada, quella dentro, che si disfa, si è disfatta, benedetta, non c’è

più. Succede. Credetemi. E non è una cosa piacevole.

No.

Io credo

sia stato,

Signore Buon Dio,

sia stato

io credo

il mare.

Il mare

confonde le onde

i pensieri

i velieri

la mente ti mente improvvisamente

e le strade

che c’erano ieri

non sono più niente.

Tanto che credo,

io credo,

che quella vostra trovata

del diluvio universale

sia stata

in effetti

una trovata geniale.

Perché

a voler

trovare

un castigo

mi chiedo

se qualcosa di meglio

si poteva inventare

che lasciare un povero cristo

da solo

in mezzo a quel mare.

Neanche una spiaggia.

Niente.

Uno scoglio.

Un relitto derelitto.

Neanche quello.

Non un segno

per capire

da che parte

andare

per andarci a morire.

Allora vedete,

Signore Buon Dio,

il mare

è una specie

di piccolo

diluvio universale.

Da camera.

State lì,

passeggiate

guardate

respirate

conversate

lo spiate,

da riva, s’intende,

e quello

intanto

vi prende

i pensieri di pietra

che erano

strada

certezza

destino

e

in cambio

regala

veli

che ti ondeggiano in testa

come la danza

di una donna

che ti farà

impazzire.

Scusate la metafora.

Ma non è facile spiegare

com’è che non hai più risposte

a furia di guardare il mare.

Così adesso, volendo riassumere volendo, il problema è questo, che ho tante strade intorno e nessuna dentro, anzi a voler essere precisi, nessuna dentro e quattro intorno. Quattro. Prima: me ne torno indietro da Elisewin e me ne rimango lì, con lei, che poi era anche la ragione prima, se vogliamo, di questo mio andare. Seconda: continuo così e vado alla locanda Almayer, che non è un posto perfettamente sano, stante la vicinanza pericolosa col mare, ma che anche è un posto da non crederci tanto è bello, e quieto, e leggero, e struggente, e finale. Terza: proseguo diritto, non giro verso la locanda, e me ne torno dal barone, a Carewall, che mi aspetta, e poi tutto sommato la mia casa è lì, e quello è il mio posto. Era, quantomeno. Quarta: pianto tutto, mi tolgo questo abito nero e triste, scelgo un’altra strada qualsiasi, imparo un lavoro, sposo una donna spiritosa e non bellissima, faccio qualche figlio, invecchio e alla fine muoio, con il vostro perdono, sereno e stanco, come un cristiano qualsiasi. Come vedete non è che io non abbia le idee chiare, le ho chiarissime ma solo fino a un certo punto della questione. So perfettamente qual è la domanda. É la risposta che mi manca. Corre, questa carrozza, e io non so dove. Penso alla risposta, e nella mia mente diventa buio. Così

questo buio

io lo prendo

e lo metto

nelle vostre mani.

E vi chiedo

Signore Buon Dio

di tenerlo con voi

un’ora soltanto

tenervelo in mano

quel tanto che basta

per scioglierne il nero

per sciogliere il male

che fa nella testa

quel buio

e nel cuore

quel nero,

vorreste?

Potreste

anche solo

chinarvi

guardarlo

sorriderne

aprirlo

rubargli

una luce

e lasciarlo cadere

che tanto

a trovarlo

ci penso poi io

a vedere

dov’è.

Una cosa da nulla

per voi,

così grande

per me.

Mi ascoltate

Signore Buon Dio?

Non è chiedervi tanto

chiedervi se.

Non è offesa

sperare che voi.

Non è sciocco

illudersi di.

È poi solo una preghiera,

che è un modo di scrivere

il profumo dell’attesa.

Scrivete voi,

dove volete,

il sentiero

che ho perduto.

Basta un segno,

qualcosa,

un graffio

leggero

sul vetro

di questi occhi

che guardano

senza vedere,

io lo vedrò.

Scrivete

sul mondo

una sola parola

scritta per me,

la

leggerò.

Sfiorate

un istante

di questo silenzio,

lo sentirò.

Non abbiate paura,

io non ne ho.

E scivoli via

questa preghiera

con la forza delle parole

oltre la gabbia del mondo

fino a chissà dove.

Amen.

Preghiera per uno che ha ritrovato la sua strada, e dunque, a dirla tutta, preghiera per me.

Signore Buon Dio

abbiate pazienza

son di nuovo io.

Muore lento,

quest’uomo,

muore lento

come se volesse

gustarsela,

sgranarla

sotto le dita

l’ultima vita

che ha.

Muoiono i baroni

come muoiono gli uomini,

adesso si sa.

Io sono qui,

ed è evidente

era il mio posto,

qui accanto a lui,

il barone morente.

Vuole sentire

di sua figlia

che non c’è,

non si sa dov’è,

vuole sentire

che è viva

dov’è

non è morta nel mare

nel mare

è guarita.

Io gli racconto

e lui muore

ma è morire un po’ meno

morire così.

Io gli parlo

vicino

un po’ piano

ed è chiaro

che il mio posto

era

qui.

Voi mi avete preso

da una strada qualunque

e paziente

mi avete portato

in quest’ora

che aveva bisogno di me.

Ed io

che ero perduto

in quest’ora

mi sono

trovato.

É pazzesco pensare

che stavate ad ascoltare

quel giorno

davvero ad ascoltare

me.

Uno prega

per non rimanere solo

uno prega

per tradire l’attesa,

mica” si sogna che

Dio

a Dio

gli piaccia sentire.

Non è pazzesco?

Mi avete sentito.

Mi avete salvato.

Certo, se posso permettermi, in tutta umiltà, non credo ci fosse bisogno davvero di far franare la strada per Quartel, una cosa che tra l’altro fu anche seccante per la gente del posto, sarebbe bastato, probabilmente, qualcosa di più lieve, un segno più

discreto, che so, qualcosa di più intimo, fra noi due. Così come, se posso fare una piccola obbiezione, la scena dei cavalli che si inchiodarono sulla strada che;mi riportava da Elisewin, e proprio non c’era verso di farli andare avanti, era tecnicamente qualcosa di ben riuscito ma forse fin troppo spettacolare, non credete?, avrei capito anche con molto meno, vi succede ogni tanto di strafare o sbaglio?, comunque sia sono ancora lì a raccontarsela, quelli di laggiù, una scena così non si dimentica. Tutto sommato credo che sarebbe bastato quel sogno col barone che si alzava dal letto e gridava “Padre Pluche! Padre Pluche!”, una cosa ben fatta, nel suo genere, non lasciava margini al dubbio, e infatti la mattina dopo ero già lì che viaggiavo verso Carewall, vedete che basta poco, poi, in fondo. No, ve lo dico, perché dovesse capitarvi di nuovo, sapete poi come regolarvi. Un sogno è roba che funziona. Se volete un consiglio, quello è il sistema buono. Per salvare qualcuno, nel caso. Un sogno.

Così

mi terrò

questo abito nero

abito triste

e queste colline

liete colline negli occhi

e addosso.

In saecula saeculorum

questo è il mio posto.

È tutto

più semplice adesso.

Adesso

semplice

è

tutto.

Quel che resta da fare

saprò farlo da me.

Se serve qualcosa,

Pluche,

che vi deve la vita,

sapete dov’è.

E scivoli via

questa preghiera

con la forza delle parole

oltre la gabbia del mondo

fino a chissà dove.

Amen.

3. ANN DEVERIÀ

Caro André, mio amato amore di mille anni fa,

la bambina che ti ha dato questa lettera si chiama Dira. Le ho detto di fartela leggere, appena arrivato alla locanda, prima di lasciarti salire da me. Fino all’ultima riga. Non cercare di mentirle. Con quella bambina non si può mentire. Siediti, allora. E ascoltami.

Non so come hai fatto a trovarmi. Questo è un posto che quasi non esiste. E se chiedi della locanda Almayer, la gente ti guarda sorpresa, e non sa. Se mio marito cercava un angolo di mondo irraggiungibile, per la mia guarigione, l’ha trovato. Dio sa come hai fatto a trovarlo anche tu.

Ho ricevuto le tue lettere, e non è stato facile leggerle. Si riaprono con dolore le ferite del ricordo. Se io avessi continuato, qui, a desiderarti e ad aspettarti, quelle lettere sarebbero state abbagliante felicità. Ma questo è un posto strano. La realtà

sfuma e tutto diventa memoria. Perfino tu, a poco a poco, hai cessato di essere un desiderio e sei diventato un ricordo. Mi sono arrivate le tue lettere come messaggi sopravvissuti a un mondo che non esiste più.

Io ti ho amato, André, e non saprei immaginare come si possa amare di più. Avevo una vita, che mi rendeva felice, e ho lasciato che andasse in pezzi pur di stare con te. Non ti ho amato per noia, o per solitudine, o per capriccio. Ti ho amato perché il desiderio di te era più forte di qualsiasi felicità. E lo sapevo che poi la vita non è

abbastanza grande per tenere insieme tutto quello che riesce a immaginarsi il desiderio. Ma non ho cercato di fermarmi, né di fermarti. Sapevo che lo avrebbe fatto lei. E lo ha fatto. É scoppiata tutto d’un colpo. C’erano cocci ovunque, e tagliavano come lame.

Poi sono arrivata qui. E questo non è facile da spiegare. Mio marito pensava fosse un posto dove guarire. Ma guarire è una parola troppo piccola per ciò che succede qui. É semplice. Questo è un posto dove prendi commiato da te stesso. Quello che sei ti scivola addosso, a poco a poco. E te lo lasci dietro, passo dopo passo, su questa riva che non conosce tempo e vive un solo giorno, sempre quello. Il presente sparisce e tu diventi memoria. Sgusci via da tutto, paure, sentimenti, desideri: li custodisci, come abiti smessi, nell’armadio di una sconosciuta saggezza, e di un’insperata pace. Riesci a capirmi? Riesci a capire come tutto questo sia bello?

Credimi, non è un modo, solo più lieve, di morire. Non mi sono mai sentita più

viva di adesso. Ma è diverso. Quel che io sono, è ormai successo: e qui, e ora, vive in me come un passo in un’orma, come un suono in un’eco, e come un enigma nella sua risposta. Non muore, questo no. Scivola dall’altra parte della vita. Con una leggerezza che sembra una danza.

É un modo di perdere tutto, per tutto trovare.

Se riesci a capire tutto questo, mi crederai quando ti dico che mi è impossibile pensare al futuro. Il futuro è un’idea che si è staccata da me. Non è importante. Non significa più nulla. Non ho più occhi per vederlo. Ne parli così spesso, nelle tue lettere. Io faccio fatica a ricordarmi cosa vuol dire. Futuro. Il mio, è già tutto qui, e adesso. Il mio sarà la quiete di un tempo immobile, che collezionerà istanti da posare uno sull’altro, come se fossero uno solo. Da qui alla mia morte, ci sarà quell’istante, e basta.

Io non ti seguirò, André. Non mi ricostruirò nessuna vita, perché ho appena imparato ad esser la dimora di quella che è stata la mia. E mi piace. Non voglio altro. Le capisco, le tue isole lontane, e capisco i tuoi sogni, i tuoi progetti. Ma non esiste più una strada che mi potrebbe portare laggiù. E non potrai inventarla tu, per me, su una terra che non c’è. Perdonami, mio amato amore, ma non sarà mio, il tuo futuro. C’è un uomo, in questa locanda, che ha un buffo nome e studia dove finisce il mare. In questi giorni, mentre ti aspettavo, gli ho raccontato di noi e di come avessi. paura del tuo arrivo e insieme voglia che tu arrivassi. É un uomo buono e paziente. Mi stava ad ascoltare. E un giorno mi ha detto: “Scrivetegli”. Lui dice che scrivere a qualcuno è l’unico modo di aspettarlo senza farsi del male. E io ti ho scritto. Tutto quello che ho dentro di me l’ho messo in questa lettera. Lui dice, l’uomo col nome buffo, che tu capirai. Dice che la leggerai, poi uscirai sulla spiaggia e camminando sulla riva del mare ripenserai a tutto, e capirai. Durerà un’ora o un giorno, non importa. Ma alla fine tornerai alla locanda. Lui dice che salirai le scale, aprirai la mia porta e senza dirmi nulla mi prenderai fra le braccia e mi bacerai. Lo so che sembra sciocco. Ma mi piacerebbe succedesse davvero. É un bel modo di perdersi, perdersi uno nelle braccia dell’altra.

Niente potrà rubarmi il ricordo di quando, con tutta me stessa, ero la tua Ann

4. PLASSON