2
Trasformazioni dell’aggressività
Bullismo
Thomas Leoncini:
Steven Spielberg, Barack Obama, Rihanna, Miley Cyrus, la principessa Kate Middleton, Madonna e Bill Clinton hanno qualcosa in comune: ai tempi della scuola sono stati vittime di bullismo e hanno subito numerosi episodi di violenza. Proviamo ad analizzare il bullismo, partendo però da un aspetto inusuale. Secondo il pensiero di Arnold van Gennep, tra i più noti studiosi di antropologia del Novecento, le principali caratteristiche dei riti di passaggio sono costruite, assemblate e formate attorno a tre stadi. Il primo è il periodo di separazione dell’individuo dalla comunità (quello chiamato dei riti preliminari, che permette al soggetto di chiudere con la condizione precedente). A questo segue il periodo di margine (quello chiamato di liminalità) in cui avviene una vera e propria sospensione di status sociale; il soggetto è infatti in una sorta di limbo che può rappresentare un pericolo, sia per lui sia per la stabilità sociale, perché può creare un nuovo spirito comunitario, una nuova communitas, come sosteneva l’antropologo scozzese Victor Turner. Basti pensare che molte delle recenti rivoluzioni sociali anticonformiste hanno visto la propria genesi attraverso situazioni di liminalità: gli hippie degli anni Sessanta sono ormai irriconoscibili antenati dei giovani punkabbestia o dei dark, ma a loro volta questi sono gli antenati degli emo, che oggi forse hanno solo gli hipster come ulteriore trasformazione liquida liminale. Il terzo è lo stadio dell’aggregazione, quello chiamato tecnicamente dei riti postliminari, perché il soggetto torna a tutti gli effetti nel suo habitat naturale come parte integrante e nuovamente connessa, ma con nuove caratteristiche individuali, che diventano vive quando si rapportano a quelle sociali.
Separazione, marginalità e aggregazione, dunque. Questi stadi, se li cerchiamo in molte situazioni dove è diffuso il fenomeno del bullismo, sono spesso rappresentativi anche del percorso che obbligatoriamente la vittima di bullismo subisce. Di fronte agli attacchi del bullo, soprattutto se reiterati, la vittima si sente psicologicamente (e spesso anche fisicamente) «separata» dagli altri.
Questa vita a parte della vittima non solo stravolge la sua quotidianità, coinvolgendo sia la vita scolastica sia quella degli affetti, ma porta anche in alcuni casi (non rari) a un mutamento delle amicizie, dei contatti quotidiani. Può creare quindi un nuovo nucleo minimo di appartenenza sociale, e questo coincide con la fase di margine, quella in cui come risposta al disagio molte vittime del bullismo escogitano modi per non soffrire più, per trovarsi un’altra identità, visto che quella precedente aveva portato come risultato molta sofferenza. Dopo (o durante) tutto ciò è però inevitabile – perché è la società che ce lo impone – un ritorno alla base, una nuova aggregazione; quindi i rapporti con i compagni di classe e con l’istituzione scolastica in generale devono essere obbligatoriamente recuperati per non restare indietro ed evitare insuccessi e bocciature. Ma alla conclusione di questo percorso, mettiamo di qualche mese o nella peggiore delle ipotesi di qualche anno, la vittima di bullismo rientra nella società come persona nuova, come una persona che si porta dietro una nuova identità sociale, più complessa.
Il bullismo non violento fisicamente può essere inteso come l’equivalente di un rito di passaggio necessario per alcuni ragazzini? I bulli nascono bulli perché il bullismo fa parte del loro «habitus»?
Zygmunt Bauman:
L’eminente sociologo e storico sociale ebreo tedesco, naturalizzato inglese, Norbert Elias coniò nel 1939 il concetto di «processo di civilizzazione», inteso non tanto come un’eliminazione dalla vita umana dell’aggressività, della coercizione brutale e della violenza (idea che probabilmente egli considerava meramente utopistica), quanto come – mi sia consentita l’espressione – uno «spazzarle tutte e tre sotto il tappeto»: rimuoverle dalla vista delle «persone civili», dai luoghi che è probabile esse frequentino, o fin troppo spesso anche solo di cui possano avere notizia, per trasferirle a «persone inferiori», a tutti gli effetti escluse dalla «società civile». Gli sforzi per conseguire tale effetto furono mirati all’eliminazione di comportamenti riconosciuti, valutati e condannati come barbari, rozzi, grezzi, scortesi, maleducati, sgarbati, impertinenti, ineleganti, sguaiati, villani, sconvenienti o volgari, e nel complesso grossolani e inadatti a essere usati da «persone civili», nonché degradanti e screditanti, se da loro usati. Lo studio di Elias fu pubblicato alla vigilia della più barbara esplosione di violenza dell’intera storia della specie umana, ma all’epoca in cui fu scritto il fenomeno del «bullismo» era quasi totalmente sconosciuto, o perlomeno non aveva ancora un nome. Quando, negli ultimi decenni, la violenza è tornata prepotentemente alla ribalta, e il linguaggio volgare si è insinuato nell’elegante discorso salottiero e proprio della scena pubblica, numerosi discepoli e seguaci di Elias hanno annunciato l’avvento di un «processo di decivilizzazione» e si sono industriati, facendo i salti mortali, a spiegare questo improvviso, inatteso capovolgimento della condizione umana, ma con scarso e insoddisfacente – poco convincente – risultato.
Voci più radicali si sono spinte ancora oltre: richiamandosi allo Spengler de Il tramonto dell’Occidente (Der Untergang des Abendlandes nell’originale tedesco, dove Untergang andrebbe forse reso più fedelmente con «caduta»), hanno suggerito che ciò che sta attualmente accadendo alla civiltà occidentale non è che un’ennesima ripetizione del modello che ogni civiltà, passata e futura, deve seguire nella propria storia. Avvalendosi delle sue peculiari metafore botaniche, Spengler presentava quel modello come una successione di primavera, con la sua creatività audace, perché naïf (molto più tardi George Steiner avrebbe suggerito che il privilegio di Voltaire, Diderot e Rousseau era consistito nella loro ignoranza, nel non sapere ciò che noi, ahimè, sappiamo); estate, con la sua maturazione di fiori e frutti; autunno, con il loro avvizzimento e caduta; e infine inverno, contraddistinto dal congelarsi e rapprendersi dello spirito creativo in esangue manierismo privo di creatività. Per quanto riguarda l’Occidente, il passaggio dalla civiltà (spirituale) alla civilizzazione (mondana, materiale, concreta, pratica) si verificò intorno al 1800: «In tali termini si distingue l’esistenza euro-occidentale di prima e dopo il diciannovesimo secolo, la vita in una pienezza e in una naturalezza, la cui forma nasce e si sviluppa dall’interno, in un unico slancio grandioso che dall’infanzia del gotico va fino a Goethe e a Napoleone; e quella vita tarda [autunnale], artificiale, senza radici, delle nostre grandi città, le cui forme sono tracciate dall’intelletto. […] L’uomo di una civiltà vive rivolto verso l’interno, quello di una civilizzazione vive rivolto verso l’esterno, nello spazio fra corpi e ‘fatti’».a
C’è dunque una scelta, che può e deve essere compiuta, tra proposte interpretative che discendono dalle altezze sofisticate, sublimi, e nelle loro intenzioni universalistiche della Geschichtsphilosophie, la filosofia della storia. In questa nostra conversazione, comunque, ci interessiamo di fattori più terra terra, prosaici, mondani e in larga misura localizzati, che animano e forgiano gli attuali sviluppi della nostra cultura, della nostra mentalità e dei nostri modelli comportamentali.
Thomas Leoncini:
E nella nostra modernità dove pensi stia andando lo sviluppo culturale?
Zygmunt Bauman:
Lo sviluppo che tu qui suggerisci di seguire è il ritorno della violenza, della coercizione e dell’oppressione nella risoluzione dei conflitti, a scapito del dialogo e del dibattito finalizzati alla reciproca comprensione e alla rinegoziazione del modus co-vivendi. Ritengo che in questo sviluppo un ruolo importante sia stato, sia e continuerà a essere svolto nel prossimo futuro dalla nuova tecnologia della comunicazione mediata; non come sua causa, ma come sua cruciale condizione agevolante.
Thomas Leoncini:
La prima testimonianza è di Michele, ormai trentenne: «Ho ancora gli incubi la notte, avevo dodici anni, ero molto timido e solitario. Tre dei miei compagni di classe mi hanno chiuso in bagno e hanno cominciato a picchiarmi, prima con le mani, poi con le scope e qualsiasi oggetto fosse presente nella stanza. Cinque minuti interminabili, umilianti e dolorosi. Uno di loro, mentre gli altri due mi picchiavano, si slacciò i pantaloni e mi pisciò addosso. Ancora oggi mi viene da piangere quando penso a quel giorno, e non solo per l’umiliazione immediata, ma per il fatto che il giorno dopo con mio padre ho denunciato l’accaduto al preside dell’istituto. Lui però mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha detto che queste cose succedono, che purtroppo i ragazzini di oggi sono così, ma questi fenomeni sono passeggeri, quindi nulla di cui preoccuparsi perché tutto sarebbe andato meglio già nei giorni successivi (uno dei tre era il figlio di un noto medico, molto ricco, della mia città). Ovviamente gli atti di bullismo nei miei confronti non cessarono e la situazione proseguì per tutto l’anno scolastico». Michele ci racconta di una spada a doppio taglio del bullismo, la stessa lama che incide e scende in profondità provocando il primo dolore e poi, non sazia, procura un nuovo dolore quando si ritrae, quando scompare dalla carne. Il preside della scuola (che non capisce cosa prova Michele) si trasforma a sua volta in un responsabile dell’esclusione sociale del ragazzo. Tu hai mai subito atti di bullismo?
Zygmunt Bauman:
Sì, eccome. In modo costante, quotidiano. Durante tutti gli anni di scuola a Poznanń, in Polonia, finché fuggii dalla mia città natale allo scoppio della guerra insieme agli altri due ragazzi ebrei della mia scuola. Ovviamente, all’epoca non sapevo ancora nulla di sociologia, ma ricordo di aver capito benissimo che essere vittima di bullismo era una questione di esclusione. Non sei come noi, non sei dei nostri, non hai diritto di partecipare ai nostri giochi, non giochiamo con te, se ti ostini a voler prendere parte alla nostra vita non stupirti se ti buschi botte, calci, offese, umiliazioni, mortificazioni.
Molto più tardi, quando iniziai a leggere libri di sociologia e imparai a pensare da sociologo, capii che l’esclusione di tre ragazzi ebrei in una scuola che contava parecchie centinaia di alunni era stata per i nostri persecutori l’altra faccia della medaglia della loro identificazione del sé. Un po’ più tardi ancora seguii il suggerimento del romanziere Edward Morgan Forster, Only connect: «Basta solo connettere»;b mi resi conto che designare un nemico e dimostrarne a tutti i costi l’inferiorità era l’inseparabile altra faccia della medaglia dell’identificazione del sé. Non ci sarebbe un «noi», senza un «loro». Ma fortunatamente, per rendere reale il nostro desiderio di comunità, apprezzamento e aiuto reciproco, ci sono «loro» – ed ecco che di conseguenza c’eravamo, dovevamo per forza esserci «noi» a manifestare il loro essere comunità, di nome e di fatto, e senza mai stancarci di ricordarlo a noi stessi e di dimostrarlo-riaffermarlo, provandolo agli altri intorno. A tutti gli effetti, l’idea di «noi» non avrebbe senso, se non abbinata a quella di «loro».
E questa regola, temo, non promette bene per il sogno di un mondo libero dal bullismo.
Thomas Leoncini:
Parli quindi di esclusione. Nella seconda testimonianza, infatti, è proprio il sentimento di esclusione che emerge con prepotenza.
Laura ha quindici anni e, a differenza di Michele, oggi non è ancora uscita dal problema del bullismo, come racconta lei stessa: «Non voglio andare a scuola perché i miei compagni mi fanno sentire diversa. Vorrei essere come loro, ma loro non me lo permettono. Se mi vesto come loro ridono di me, se mi impegno a imitare quello che fanno, poi mi disprezzano. I miei compagni dicono che sono una perdente, che non potrò mai avere amici o un fidanzato. E io comincio a credere che abbiano ragione. Non so quale sia il motivo per cui mi odiano così tanto, ma so che mi fa sentire troppo male (questo sopravvivere emarginata). Penso spesso al suicidio come soluzione al mio dolore».
Sembra che il bullismo del maschio differisca da quello femminile per molti aspetti. Per esempio, nella maggior parte dei casi, tra maschi viene utilizzata la violenza fisica, mentre tra femmine vince di gran lunga quella verbale e spesso silenziosa, ma marginalizzante.
Secondo gli ultimi dati dell’NCES, il National Center for Education Statistics,c uno studente americano su cinque è vittima di bullismo e, come indicano diversi studi internazionali, uno dei principali «moventi» dell’accanimento contro uno studente è la sua reale o presunta omosessualità, ma gli studi dicono anche altro: i ragazzi gay e le ragazze lesbiche hanno il triplo della probabilità di suicidarsi rispetto agli altri.
Di questo rischio parlava espressamente già qualche anno fa anche lo United States Department of Health and Human Services (HHS) di Washington, ossia il dipartimento della Salute e dei servizi umani.d Cosa ne pensi di tutto questo?
Zygmunt Bauman:
Personalmente non prenderei troppo sul serio le motivazioni che avanzano i bulli, maschi o femmine che siano, per spiegare il loro bullismo e la scelta delle loro vittime. Le motivazioni vanno e vengono, sull’onda delle mode del momento, ma il disagio esistenziale resta, e importunamente esige di essere alleviato, sfogando la pressione accumulata e prevenendone un ulteriore accumulo. Il bisogno di bullismo, e soprattutto di suoi oggetti e moventi, esiste da sempre e non finirà mai. In tempi remoti, a giustificazione del disagio esistenziale e della conseguente aggressività, si incolpava la possessione demoniaca, in altri tempi un matrimonio infelice o l’anorgasmia, in altri ancora lo sfruttamento sessuale da parte dei genitori, attualmente molestie sessuali subite nell’infanzia da parte di insegnanti, sacerdoti e il bisogno di celebrità; ora a essere colpevoli sono gli omosessuali. Ma hai dimenticato di menzionare i migranti, che attualmente lasciano di gran lunga indietro qualunque altro candidato…
Thomas Leoncini:
I migranti, caro Zygmunt, hai ragione. Un’altra nitida attualità. Molto più di duecento anni fa Immanuel Kant fece una banalissima osservazione che ho sentito menzionare più volte anche da te: si chiese che conseguenze potesse avere, in pratica, la forma sferica della terra. La più evidente di tutte, per noi nativi terrestri, è che abitiamo sulla superficie di tale sfera. Ma proviamo a immaginare cosa possa significare «spostarsi», «muoversi» da un punto all’altro di una sfera. Significa innanzitutto «accorciare» sempre di più le distanze con gli altri. Sì, perché muoversi lungo una sfera altro non è che ridurre in realtà quella distanza con il prossimo che inizialmente, con lo spostamento, si era tentato di allargare. E lo stesso Kant prosegue l’osservazione constatando che prima o poi (ma lo scrisse più di due secoli fa quindi potremmo definirci immersi sia nel «prima» sia nel «poi») finiranno gli spazi vuoti dove potranno avventurarsi quelli di noi che trovano troppo scomodi o stretti i luoghi già popolati dai propri simili. Ciò che si constata da queste osservazioni è che sia logico accettare l’imposizione stessa che ci fa la Natura, considerando l’ospitalità come indispensabile pilastro fondante della modernità.
Conversando del tema di cui parlavamo poco fa, il bullismo, mi è venuta in mente la vicenda di Kitty Genovese; è più di una storia sull’indifferenza, è un esempio utilizzato molto spesso in psicologia sociale per ricordare come l’essere umano tenda a spostare sulla responsabilità sociale collettiva la sua responsabilità personale, dimenticando che invece nella sua vita quotidiana è la forte individualità a invaderlo e a gestire i suoi rapporti sociali. Kitty Genovese era una donna di New York che fu accoltellata a morte vicino a casa sua, nel quartiere di Kew Gardens, distretto del Queens. Era il 1964, e il giorno successivo The New York Times dedicò lo strillo più importante della prima pagina a questo testo: «Trentasette persone hanno assistito a un omicidio senza chiamare la polizia».
La conclusione in soldoni? Eccola: un unico testimone che assiste a un evento tragico, e si accorge di essere solo, ha più probabilità di intervenire in soccorso piuttosto che un individuo che si rende conto di essere insieme ad altri, a una presenza collettiva di simili.
Senza entrare nel merito della storia e delle polemiche nate successivamente (poiché il fratello di Kitty Genovese ha cercato la verità e ha scoperto diverse incongruenze fra il lavoro della stampa e la realtà), il messaggio è chiaro: il pluralismo sembra spesso creare una modifica, seppur momentanea, una trasformazione dell’individualità, un’individualità più leggera. E il risultato finale non cambia: una povera ragazza massacrata in mezzo alla strada da un pazzo e tutti i cittadini che (probabilmente) guardavano la scena da dietro le loro tende; nessuno uscì di casa, nessuno la prima mezz’ora chiamò la polizia, nonostante gli urli della vittima. Luci accese dunque, e figure in controluce che fra loro si osservano da dietro i vetri spalmano la responsabilità ad agire (anche tu stai guardando, non solo io, perché tocca a me e non a te?) e inevitabilmente diminuiscono l’impatto personale che motiva allo start dell’aiuto. Quel giorno del 1964 fa parte dei tuoi ricordi più forti?
Zygmunt Bauman:
Io l’ho vissuto intensamente, il caso di Kitty Genovese, attraverso lo choc che riverberava dall’opinione pubblica illuminata di quei tempi – ben oltre l’ambiente accademico, costretto a rivedere più di una delle sue teorie, tacite o esplicite. Se non ricordo male, fu durante il dibattito che ne seguì, e che proseguì insolitamente a lungo, dato il panico morale suscitato, che sentii parlare per la prima volta del concetto di «spettatore»: le persone che vedono compiere il male ma distolgono lo sguardo e non fanno nulla per fermarlo.
Quel concetto mi colpì subito, forse come la categoria di gran lunga più importante tra quelle assenti dagli studi sul genocidio, e che reclamava di esservi assolutamente inserita.
Mi ci vollero vent’anni, tuttavia, per renderle la giustizia che meritava nell’ambito del mio personale tentativo di decifrare il mistero dell’Olocausto condotto all’apice della civiltà moderna. (Ricordiamo che la Genovese fu assassinata nel 1964, alle soglie di quella che venne percepita come una rivoluzione culturale che avrebbe rivalutato tutti i valori, come gli anni Sessanta sarebbero ben presto stati rubricati negli annali della storia culturale, e l’opinione pubblica colta trovò un altro argomento su cui focalizzare la propria attenzione; come ebbe a dire una volta, causticamente e solo in parte ironicamente, lo psicologo Gordon Allport, noi che lavoriamo nel campo delle scienze umane non risolviamo mai problemi, ci limitiamo a occuparcene sino alla noia… Ciò che Allport si dimenticò di dire, però, è che non tutti i problemi hanno una soluzione; molti non l’hanno, e omicidi gratuiti come quello della Genovese appartengono a tale categoria. I poliziotti che, come vediamo nei film polizieschi, cercano in primo luogo un movente, hanno un compito impossibile da svolgere, e così pure i pubblici ministeri, le giurie, i giudici.)
Ma retrospettivamente, con il senno di poi, possiamo dire che il caso Genovese mise in luce anche un altro fenomeno, destinato ad acquisire negli anni seguenti sempre più fosca importanza e sempre maggiore urgenza di inquadramento concettuale: quello del «male casuale» o «disinteressato». Al processo, l’assassino, Winston Moseley, rivelò alla giuria di aver scelto come vittima una donna anziché un uomo semplicemente perché le donne «erano più facili da assalire e non reagivano».
Il cinismo e l’assenza di scopo del male «casuale» o «gratuito» sfuggono alla comprensione e alle spiegazioni «razionali», di «causa-effetto», che nella nostra mentalità di moderni il male deve possedere. Questa in particolare, delle sue qualità, costituisce la tematica centrale dei film del grande regista e sceneggiatore austriaco Michael Haneke, uno dei più sensibili e profondi esploratori e cronisti di questa varietà inquietante, sconvolgente del male. Luisa Zielinski, intervistandolo per the Paris Review (Inverno 2014), così ne riassume l’opera cinematografica: «La sua cinepresa ignora i cliché pulp e torture porn hollywoodiani per mettere a fuoco invece quelle crudeltà quotidiane nei cui confronti il pubblico non è ancora anestetizzato: i meschini atti di bullismo, l’incapacità di ascolto, le ossessioni classiste e di privilegio sociale».e Ma già nel maggio 2001 Peter Bradshaw, il critico cinematografico del quotidiano The Guardian, sosteneva che Storie di Haneke è «un film abbagliante, intransigente, impossibile da definire». Ma questo, direi io, perché i modi e i mezzi dell’essere nel mondo dei suoi personaggi, che Haneke deliberatamente (e prudentemente!) mette in scena senza commenti né spiegazioni, sono esattamente così: «impossibili da definire». Un messaggio che torna puntualmente in tutti i film del regista austriaco, ed è recentemente ribadito dalla figlia di una donna dall’interminabile, straziante declino fisico, appena soffocata dal marito, con il suo silenzio lungo alcuni minuti nell’ultima scena del film Amour… Nella povertà dei miei mezzi, neanche lontanamente paragonabili all’abilità di Haneke nell’esprimere l’inesprimibile, dire l’indicibile, articolare il non-articolabile e rendere intelligibile ciò che non lo è, e avvalendomi della straordinaria sensibilità del mio compianto collega e caro amico Leonidas Donskis, ho affrontato insieme a lui quello stesso mistero nei nostri due libri Liquid Evil (Male liquido) e Moral Blindness (Cecità morale).
Gli eventi nuovi, insoliti, ancora non-notati (e tantomeno mentalmente ed emotivamente assimilati) tendono a scioccare semplicemente in quanto tali. Eventi simili, se ripetuti, moltiplicati, quotidianamente rivisti o riascoltati, tendono a venire spogliati della loro capacità di scioccare. Per quanto sconcertanti e orripilanti siano potuti risultare la prima volta che li si è visti o ascoltati, attraverso la monotonia della loro ripetizione vengono «normalizzati», resi «ordinari», cose che sono così per loro stessa natura; in altre parole, vengono banalizzati (trivialised), e la funzione delle banalità (trivia) è divertire e intrattenere, non scioccare.
Nel 2011 Anders Behring Breivik commise due stragi: una mirata a colpire il governo e vittime casuali tra la popolazione civile, l’altra contro gli ospiti di un campo estivo organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese (Auf). Breivik aveva preventivamente spiegato i suoi crimini in un manifesto pubblicato online che tuonava contro l’Islam e il femminismo, colpevoli, a suo dire, di stare congiuntamente «generando un suicidio culturale europeo». Scrisse anche che il movente principale del suo folle gesto era «pubblicizzare il suo manifesto». Potremmo dire che Breivik qui faceva leva sull’attuale senso comune: più scandalosa e di cattivo gusto è la pubblicità, maggior audience televisiva, vendite di giornali o profitti al botteghino è in grado di generare. Ciò che colpisce un lettore attento, tuttavia, è la totale assenza di un nesso logico tra ragione ed effetto: l’Islam e il femminismo da un lato e le vittime casuali di una strage dall’altro.
Ci stiamo quietamente adattando a questo stato di cose illogico, anzi, del tutto inconcepibile. Breivik è tutt’altro che un unico, eccezionale errore della natura o un mostro solitario senza pari né epigoni: la categoria di cui è membro è nota per reclutare sempre nuovi membri tramite il meccanismo conosciuto come «emulazione». Guardate per esempio ciò che accade nei campus, nelle scuole e negli eventi pubblici americani, guardate gli atti terroristici o comunque violenti incessantemente mandati in onda in tv, date una scorsa alla programmazione dei cinema della vostra città, o alle liste dei bestseller degli ultimi mesi, per vedere quanto siamo quotidianamente esposti allo spettacolo di una violenza casuale, gratuita, immotivata: violenza per la violenza, senza altro scopo. Il male è stato veramente e pienamente banalizzato, e ciò che più conta, tra le conseguenze, è che noi siamo stati o saremo presto resi insensibili alla sua presenza e alle sue manifestazioni. Fare il male non richiede più motivazioni. Il male, bullismo incluso, non si è forse già considerevolmente spostato dalla classe delle azioni finalizzate a uno scopo (cioè a loro modo sensate) all’ambito di un piacevole passatempo e intrattenimento (per un numero crescente di «spettatori»)?
a. O. Spengler, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, tr. di J. Evola, Guanda, Parma 1991, pp. 528-529.
b. È l’epigrafe del romanzo Casa Howard. (N.d.T.)
c. Si tratta dell’ente federale per la raccolta e l’analisi dei dati relativi alla formazione negli Stati Uniti e in altre nazioni. L’NCES è parte dell’Istituto di Scienze della Formazione, all’interno del dipartimento statunitense della Pubblica istruzione. Questo ente adempie un mandato del Congresso per raccogliere, confrontare, analizzare e riportare statistiche complete sulla condizione dell’istruzione americana, conduce e pubblica relazioni e riferisce sulle attività di educazione a livello internazionale. I dati aggiornati dello studio sul bullismo qui citato sono stati pubblicati a fine dicembre 2016 e sono consultabili online al seguente link: https://nces.ed.gov/pubsearch/pubsinfo.asp?pubid=2017015
d. È il il dicastero del governo federale che si occupa della salute dei cittadini americani. Tra i suoi compiti vi sono quelli di gestire la sanità pubblica, vigilare su quella privata, svolgere attività di prevenzione delle malattie, controllare la salubrità degli alimenti e la composizione dei medicinali.
e. L’intervista è consultabile sul sito della testata online al link https://www.theparisreview.org/interviews/6354/michael-haneke-the-art-of-screenwriting-no-5-michael-haneke.