«Fossi in voi, capitano,
non ascolterei nemmeno una parola di quello che dice mio padre»,
affermò Saffron, raggiungendoli e concedendosi il breve piacere di
abbracciare l’alta, solida e confortante figura paterna. «Sa
benissimo che, quando questa guerra orrenda finirà, assumerò io il
controllo di ogni cosa.»
«Fossi in te non ne
sarei così sicuro, signorina», ribatté Leon, fingendosi seccato.
Poi la strinse forte e la baciò sulla testa, proprio come faceva
quando era bambina.
Lei provò la stessa
sensazione di allora, come se un muro la proteggesse da qualsiasi
male il mondo potesse scagliare contro di loro, come se niente
potesse andare storto.
A quel punto Jamie
Randolph scese la scaletta su un lato del ponte di comando ed entrò
ad annunciare: «Stanno arrivando. Stuka con una scorta di caccia
Messerschmitt. Credo ci saranno addosso fra un paio di minuti.
Meglio dare l’allarme».
McAloon fece suonare due
volte la sirena e in tutta la nave gli uomini scattarono in azione.
Giù nella sala motori le turbine vennero portate ancor più oltre i
limiti per spremerne fino all’ultimo briciolo di velocità: più
procedevano spediti e più sarebbero stati difficili da
colpire.
Gli uomini assegnati
alle mitragliatrici presero posizione, così come chi aveva le
conoscenze necessarie per eseguire riparazioni d’emergenza. Leon
aveva preso la precauzione di reclutare per il viaggio il miglior
ufficiale medico dell’azienda, che era pronto in infermeria con un
paio di inservienti. Il silenzio calò sul piroscafo mentre gli
uomini si rifugiavano nei propri pensieri, nei propri timori, nel
proprio amore per tutti i cari che avevano lasciato a casa e
rischiavano di non rivedere mai più.
E poi, simili allo
scoppio di un temporale, i primi Stuka planarono verso la nave e la
battaglia ebbe inizio.
Saffron aveva sentito più volte il grido degli
Stuka in picchiata, nei cinegiornali. Era il suono del Blitzkrieg, il suono dei nazisti che schiacciavano
chiunque si trovasse sul loro cammino. Ma nulla l’aveva preparata
per il volume e l’aggressione quasi fisica di quello strillo da
banshee che si faceva sempre più acuto
e stentoreo, echeggiando sul ponte di comando. I primi tre aerei si
lanciarono in picchiata sulla loro preda, l’urlo del motore che
diventò quasi isterico appena prima che i velivoli sganciassero le
loro bombe, una dopo l’altra, a intervalli di pochi secondi,
tornando poi in assetto orizzontale e cabrando.
Durante i primissimi
minuti fu una battaglia che lei udì, più che vedere. Il frenetico
crepitare delle mitragliatrici Vickers che tentavano disperatamente
di respingere gli assalitori, poi il ruggito dei caccia tedeschi e
il martellare delle loro mitragliatrici mentre si lanciavano
all’attacco cercando di ridurre al silenzio quelle della
Star of Khartoum in modo che gli Stuka potessero finire la preda a loro
piacimento, il boato della voce del capitano McAloon mentre
ordinava di far procedere la nave a zigzag, affinché fosse più
difficile da colpire per i caccia.
La manovra funzionò. Le
prime tre bombe mancarono il bersaglio, provocando enormi geyser
che si abbatterono come onde anomale sui ponti della
Star, senza però
provocare gravi danni. Ma se ne registrarono comunque: le squadre
antincendio spensero le fiamme provocate da uno dei proiettili
incendiari dei Messerschmitt nella tuga di poppa, sopra la quale
era stata montata la batteria posteriore. L’incendio andava spento,
o avrebbero dovuto abbandonare le mitragliatrici.
Poi ricomparve Randolph,
con il viso terreo per lo shock e il dolore: il braccio sinistro
gli penzolava insanguinato e inerte lungo il fianco. «Tre dei miei
uomini sono a terra. Una delle batterie è fuori uso. Le
mitragliatrici funzionano, solo che non c’è nessuno a manovrarle.
Può darmi qualcuno, capitano?»
McAloon non mostrò
nemmeno di averlo sentito. Molto probabilmente non l’aveva fatto:
la cacofonia della battaglia era assordante e governare la nave
richiedeva tutta la concentrazione del capitano.
Ma Saffron lo sentì. «Lo
faremo noi!» gridò. Guardò il padre. «Forza, andiamo!»
Lui ebbe un attimo di
esitazione, come se volesse consigliarle di rimanere al riparo, ma
poi annuì e la seguì fuori.
«Le mitragliatrici
sparano a coppie, un mitragliere per ognuna!» urlò Randolph mentre
li accompagnava su per la scala, reggendosi alla ringhiera con la
mano sana. «Non preoccupatevi per le munizioni, si caricano da
sole. Ci sono due volantini, uno fa ruotare il supporto e l’altro
controlla l’elevazione delle mitragliatrici. Capirete subito come
funziona.»
Salendo dietro di lui,
Saffron si rimise gli occhiali scuri, sapendo che era un gesto
frivolo ma pure che il bagliore del sole di mezzogiorno sarebbe
stato accecante. Arrivarono al ponte superiore. Solo due ore prima
le era sembrato un posto incantevole e arioso, ma in quel momento
si sentì completamente esposta, senza nulla a proteggerla dai
proiettili e dalle bombe mentre lo attraversava di corsa, seguendo
Randolph fino alla batteria abbandonata. Accanto alla base delle
mitragliatrici c’era un morto, mentre un altro era appoggiato al
caricatore a forma di tamburo contenente le munizioni. Saffron
riconobbe un marinaio che aveva scherzato con il capitano McAloon
prima della battaglia. Gli era rimasto solo metà cranio e la
materia cerebrale gocciolava lungo quanto restava del suo viso e
sopra il caricatore.
Randolph si sforzò di
farsi sentire mentre un Messerschmitt sorvolava la prua puntando
verso le mitragliatrici piazzate là. «Dovrete
spostarli!»
Leon prese il secondo,
trascinandolo via, mentre lei afferrò sotto le ascelle l’altro,
facendosi spazio per andarsi a mettere dietro le
mitragliatrici.
Il 109 che aveva appena
attaccato la prua a volo radente tornò per un secondo passaggio. I
serventi alle Vickers laggiù erano riusciti a sopravvivere al primo
attacco e stavano ancora sparando quando il pilota scese nuovamente
in picchiata, talmente basso sull’acqua da sparare in orizzontale
mentre loro facevano altrettanto, come duellanti che si affrontino
con le mitragliatrici invece che con la pistola. Poi uno dei
mitraglieri venne centrato: il corpo sussultò per una serie di
colpi in rapidissima successione che lo scaraventarono
all’indietro, e la sezione posteriore del giubbotto di salvataggio
si disintegrò in una poltiglia sanguinolenta mentre i proiettili lo
attraversavano. Indietreggiò di un passo, poi di un secondo e
infine di un terzo prima di cadere, le gambe che si piegavano sotto
di lui, le braccia spalancate, gli occhi spenti che guardavano il
caccia tedesco, la cui ombra sorvolò fulminea il suo
cadavere.
«Prova il volantino!»
gridò Leon.
Saffron lo prese. Era
largo una trentina di centimetri, montato in orizzontale sopra una
barra di metallo, con un’impugnatura verticale che lei poteva
afferrare. La ruotò in senso orario e vide le canne delle
mitragliatrici puntare verso l’alto, la girò in senso antiorario e
tornarono giù.
«Tocca a me!» esclamò
Leon, e provò l’identico mezzo di controllo. Ogni Vickers era
dotata di un mirino parallelo, con un oculare e una lente rotonda.
I cavetti del sistema di puntamento si intrecciavano una sessantina
di centimetri più indietro. «Pronta a fare un
tentativo?»
Lei annuì.
«Bene. La prua è a ore
dodici. Sinistra è ore nove, destra tre e poppa sei.
Okay?»
«Sì!»
Sopra di loro, gli Stuka
giravano in tondo, aspettando che i caccia portassero a termine il
loro compito. Un altro 109 si lanciò all’attacco, deciso a dare il
colpo di grazia alla batteria prodiera, raggiungendola dalla
direzione opposta a quella dell’aereo precedente.
E le mitragliatrici di
prua erano puntate dalla parte sbagliata. Saffron e Leon se ne
accorsero nello stesso istante, mentre l’unico servente
sopravvissuto correva a occupare la posizione del compagno morto,
ruotando freneticamente il volantino abbandonato per rivolgere le
armi verso il caccia in arrivo.
Ma non si stava muovendo
abbastanza in fretta.
«Ore tre, basso!» urlò
Leon.
Cominciò a ruotare il
volantino con più energia e rapidità possibili, ma le
mitragliatrici si muovevano con lentezza straziante. Saffron girò
la sua in senso antiorario, facendola abbassare fino a quando il
puntatore non si trovò circa sei metri più su del ponte
prodiero.
Il 109 si stava
lanciando verso la Star of
Khartoum, sempre più
vicino.
«Aspetta!» gridò
Leon.
L’aereo sfrecciava sopra
le onde, le sue mitragliatrici che sparavano.
«Aspetta!»
L’uomo accanto alle
Vickers si gettò sul ponte mentre i proiettili rimbalzavano attorno
a lui e sui parapetti.
L’aereo era così vicino
che Saffron vedeva il casco di pelle e gli occhialoni del pilota
nell’abitacolo.
«Fuoco!»
Il crepitare delle
quattro mitragliatrici martellò sui padiglioni auricolari di
Saffron, ma poi, in un batter d’occhio, il caccia li oltrepassò,
volando a bassa quota per un paio di secondi prima di cabrare, per
poi inclinarsi in virata e prepararsi a tornare verso di
loro.
«Mantieni
quell’elevazione, non lo abbiamo mancato di molto. Io le preparo
per il prossimo tentativo», disse Leon, mentre riposizionava le
mitragliatrici.
Mentre loro erano
occupati a prua, un altro apparecchio aveva attaccato la poppa.
Sentirono un’improvvisa esplosione dietro di loro. Saffron si voltò
per scoprire che l’intera sezione poppiera era in fiamme; non
riusciva a scorgere la tuga a causa del fumo, ma poi vide una
figura sbucare da quell’inferno, camminando in qualche modo a
mezz’aria. Si rese conto che doveva trovarsi sopra la copertura
della tuga, quindi era uno dei mitraglieri, ed era avvolto dalle
fiamme, una torcia umana, e agitava le braccia e si dava manate sul
corpo nel vano tentativo di spegnerle. Incespicò e cadde a terra,
poi le lingue di fuoco lo avvilupparono nel loro abbraccio
incandescente.
«Saffron!
Saffron!»
Lei sentì la voce del
padre come se provenisse da un’enorme distanza. Voltandosi, vide il
109 che si avvicinava per un nuovo attacco. Il mitragliere a prua
era raggomitolato sull’assito del ponte, le braccia strette intorno
alla testa, i nervi a pezzi.
Saffron se ne dimenticò.
Guardò nel mirino, immaginando di essere impegnata in una battuta
di caccia e che il Messerschmitt fosse in realtà un fagiano o
un’anatra: uccidere quell’uccello metallico non sarebbe stato più
difficile che ucciderne uno vero.
Leon pensava la stessa
cosa. Avendo girato le mitragliatrici verso il caccia, progettava
di riportarle indietro, anticipando la rotta del 109: la velocità
dell’aereo lo avrebbe portato all’interno del campo visivo del
mirino, e il movimento delle Vickers avrebbe fatto sì che la
gragnola di proiettili da mezzo pollice descrivesse un arco più
ampio, come i pallini di un fucile, aumentando le probabilità che
alcuni di essi colpissero il bersaglio.
Il 109 si fece sempre
più vicino.
Loro aspettarono di
nuovo.
Quando ritenne che fosse
il momento giusto, senza aspettare un ordine preciso, Saffron
sparò.
Gerhard rimase davvero impressionato. I primi
tre Stuka avevano attaccato aspettandosi un lavoretto facile, ma
gli inglesi lo avevano reso più arduo del previsto. La Star of Khartoum era sorprendentemente veloce e
agile, si muoveva più come una nave da guerra che come un normale
piroscafo mercantile e aveva denti affilati, con quelle batterie di
mitragliatrici. Così i 109 si erano messi all’opera, sapendo di
dover agire in fretta per neutralizzarle, perché ogni pochi secondi
persi per attaccare il bersaglio costavano agli Stuka un chilometro
di autonomia.
Schrumpp era stato il
primo a lanciarsi contro le mitragliatrici di prua e le aveva quasi
distrutte. Il privilegio di dare il colpo di grazia spettava a
Gerhard, che durante il primo volo radente bersagliò l’area intorno
alle Vickers e costrinse l’unico servente rimasto a tuffarsi sul
ponte lasciando la sua postazione. Il passo successivo era ficcare
alcuni proietti del cannoncino da 20mm montato nel muso del caccia
dentro le mitragliatrici stesse, mettendole fuori uso e magari
facendone esplodere anche le munizioni.
Tirò la cloche e cabrò,
fece una virata, raggiunse l’apice dell’arco che descriveva nel
cielo e sfrecciò di nuovo giù, sentendosi schiacciare contro il
sedile dalla pressione della picchiata, prima di riprendere
l’assetto orizzontale per lanciarsi nuovamente verso la nave. Puntò
il muso dell’aereo direttamente contro le Vickers a prua e fece
fuoco con il cannoncino e con le mitragliatrici delle ali, vedendo
i proiettili traccianti dirigersi verso il bersaglio e poi l’intera
batteria di fronte a lui sussultare sotto l’impatto dei colpi. Gli
stavano sparando contro dal ponte superiore della nave, alla sua
destra. Guardò da quella parte e notò una figura dietro un nido di
mitragliatrici; avrebbe dovuto essere un uomo, ma per una frazione
di secondo lui vide capelli scuri, occhiali scuri, una donna... un
fantasma.
Poi il suo aereo venne
colpito.
Gerhard percepì
l’impatto dei proiettili che gli frantumavano le ali.
Ogni altro pensiero
svanì mentre si concentrava sull’immediato presente. Prima domanda:
era incolume? Abbassò lo sguardo e non vide sangue. Tutti i suoi
arti funzionavano. Era illeso.
Ormai aveva oltrepassato
la nave, riprendendo quota, e i comandi sembravano a posto, ma poi
sentì nell’orecchio la voce di Schrumpp: «Vai a fuoco, Meerbach! Il
tuo serbatoio supplementare di destra!»
Guardò l’ala e vide le
lingue di fuoco sul serbatoio. Non ebbe esitazioni: doveva
sbarazzarsene prima che le fiamme si propagassero sull’ala.
Premette il pulsante di sgancio, ma senza risultato. Lo premette di
nuovo. Il serbatoio rimase dov’era, con il fuoco sempre più diffuso
che rischiava di farlo esplodere.
A un tratto la paura gli
artigliò le viscere. Non stava volando abbastanza in alto per
potersi lanciare con il paracadute, ma se l’aereo colpiva l’acqua
era spacciato. E all’improvviso la sua indifferenza verso la morte,
la sua perdita di interesse per la vita scomparvero. Il suo innato
istinto di sopravvivenza rifiutava di lasciarsi soffocare. Gerhard
voleva assolutamente vivere, ma quel maledetto serbatoio rifiutava
di sganciarsi.
In un ultimo tentativo
disperato iniziò ad azionare flap a casaccio, scrollando su e giù
prima un’ala e poi l’altra. Adesso vedeva le fiamme correre lungo
il bordo della destra. Lanciò il 109 in ogni possibile acrobazia a
cui riuscisse a pensare, virando da sinistra a destra e poi
cabrando praticamente in verticale, pregando che la forza di
gravità strappasse il serbatoio dal suo alloggiamento, continuando
a far oscillare le ali mentre si innalzava nel cielo.
La velocità di salita
diminuì mentre il propulsore perdeva a ritmo costante la propria
battaglia con la forza di gravità. Aveva quasi raggiunto la
velocità di stallo ma non smise di salire, costringendo il caccia a
inerpicarsi faticosamente. Il serbatoio poteva esplodere o l’aereo
entrare in stallo da un momento all’altro, ed entrambe le opzioni
lo avrebbero ucciso.
Non devo morire. Mi
rifiuto di morire!
Eppure stava per
accadere.
Ma poi sentì il 109
sussultare e alleggerirsi di colpo quando finalmente il serbatoio
si sganciò, e fu quello a precipitare nell’Egeo mentre lui si
lanciava in una picchiata controllata, facendo in modo che il vento
spegnesse le ultime ostinate lingue di fiamma prima che il caccia
riacquistasse l’assetto orizzontale.
Adesso però c’era un
problema: circa il venti per cento del carburante rimasto era
appena scomparso negli abissi marini.
«Tutto a posto?» gli
chiese Rolf.
«Credo di sì. Sembra che
non ci siano danni ai comandi e il motore funziona perfettamente.
Il mio unico problema è il carburante.»
«Allora non sprecarne
nemmeno una goccia. Torna verso casa. Con calma. E buona
fortuna.»
«No, è tutto a posto,
voglio portare a termine il lavoro», affermò Gerhard, e virò
inclinandosi per girare in tondo sopra la nave colpita. In base ai
suoi calcoli aveva abbastanza carburante per percorrere trecento
chilometri.
La base, tuttavia, ne
distava quasi quattrocento.
La sua unica speranza
era iniziare subito il viaggio di ritorno, eppure qualcosa dentro
di lui – lo stesso istinto che pochi minuti prima aveva preteso che
sopravvivesse – lo sollecitava a restare. Era una follia, avrebbe
dovuto andarsene. Eppure rimase. Persino quando i Messerschmitt
completarono i loro voli di attacco e poi virarono verso la
terraferma greca, e l’ultimo Stuka sganciò le sue bombe, Gerhard
restò sopra la Star of Khartoum
fumante e ormai in procinto di
affondare.
«Beccato!» Saffron sorrise, esultante, quando
vide le fiamme erompere dal caccia tedesco che le sfrecciava
accanto. Osservò i disperati tentativi del pilota di sbarazzarsi
del serbatoio che poteva annientarlo da un momento all’altro, e ne
seguì la cabrata mentre continuava a scrollare freneticamente le
ali. Quando alla fine il serbatoio piombò in mare si sentì
ingiustamente defraudata del meritato successo, e quando vide il
pilota cominciare a girare in tondo sopra la nave, come uno
spettatore in attesa di vedere la fine della partita, fu assalita
da una furia feroce, impotente.
Ma ormai non c’era più
il tempo per pensarci. Gli altri 109 arrivavano da ogni direzione,
puntando verso il ponte su cui si trovavano lei e il padre,
tentando di metterli fuori combattimento proprio come avevano fatto
con le mitragliatrici a poppa e a prua. Altre due batterie erano
fuori uso, un altro uomo ucciso e tre feriti. Saffron sentì il
ronzio simile a una zanzara rabbiosa dei proiettili che le
fischiavano intorno e il frastuono quando colpivano il legno e il
metallo, ma lei e il padre rimasero miracolosamente
illesi.
Poi i caccia scomparvero
su nel cielo, e per un attimo si udirono solo il rombo dei motori
della nave, il mare contro lo scafo, le grida dei feriti e le urla
degli uomini ancora impegnati nel tentativo di domare l’incendio
nella tuga.
Lei si chiese se fosse
finita.
E poi udì la risposta
nel gemito del primo Stuka. Alzò gli occhi e lo vide tuffarsi in
picchiata, un artefatto moderno e insieme primitivo: uno
pterodattilo d’acciaio che voleva ucciderli, strillando di gioia
davanti alla prospettiva della morte di Saffron.
Leon fece ruotare le
mitragliatrici per fronteggiare il mostro e lei le portò alla
massima elevazione, dopodiché spararono una lunga raffica, ma senza
riuscire a colpire il bersaglio. Un secondo Stuka uscì dalla
formazione, e poi un terzo, ed era evidente che stavano tutti per
lanciarsi all’attacco. Lei capì che alcuni di essi avrebbero anche
potuto mancare la nave, e magari un paio sarebbero stati colpiti,
ma uno l’avrebbe sicuramente centrata. Non si poteva fare altro che
continuare a sparare, reagendo all’attacco quando la prima bomba
mancò il bersaglio, e anche la seconda.
La terza, invece, non
sbagliò. Saffron vide la tondeggiante sagoma nera cadere dallo
Stuka puntando verso il ponte di poppa. Lo colpì e scomparve sotto
l’assito.
Ma non
esplose.
Il sollievo fu così
intenso da essere quasi sfiancante, ma poi un altro Stuka si lanciò
in picchiata e il timore e l’adrenalina rinvigorirono Saffron, che
sparò ed ebbe l’impressione di vedere i proiettili penetrare
nell’apparecchio. L’abitacolo andò in frantumi e il motore prese
fuoco, ma la sirena gemeva ancora e lo Stuka continuava a
scendere.
E puntava direttamente
verso il ponte superiore.
Lei si lanciò verso la
scaletta ma non si prese il disturbo di scenderla, saltando verso
il minuscolo settore di ponte alla base dei gradini, accanto a
quello di comando. Mentre i suoi piedi toccavano l’assito e lei
incespicava e cadeva, lo Stuka si abbatté sulla Star of Khartoum e il mondo
parve esplodere intorno a loro.
Lo scoppio mandò in
frantumi le finestre del ponte di comando. Se lei non fosse stata a
terra, sarebbe stata uccisa da un migliaio di cocci di vetro
affilati come rasoi. Per un attimo perse i sensi e quando li
riacquistò scoprì che la Star
era in fiamme. Impiegò qualche secondo per
capire cos’era successo: lo Stuka aveva colpito il ponte superiore
all’estremità opposta a quella in cui si trovava lei. Era quindi
rimasta al riparo da quasi tutta la violenza della deflagrazione.
Non appena se ne rese conto, pensò al padre.
Salì sull’intelaiatura
contorta e deformata della scala e, una volta in cima, si trovò di
fronte uno spettacolo di totale devastazione. Il fumaiolo al centro
del ponte era stato quasi completamente distrutto, ne rimaneva solo
un moncone dai contorni frastagliati che sputava fumo nero e
oleoso. I resti dello Stuka erano conficcati nel muro laterale
della tuga principale, la coda stranamente ancora intatta che ne
spuntava obliqua. Tre delle piattaforme delle mitragliatrici erano
sparse sul ponte, la quarta era scomparsa.
Ma dov’era suo
padre?
Saffron si guardò
intorno, tentando di distinguere qualcosa in mezzo al fumo
soffocante, poi lo vide bocconi sul ponte mentre tentava di
avanzare strisciando, cercando un appiglio con una gamba e
trascinando l’altra, inerte. Dietro di lui, sull’assito, a malapena
visibile attraverso il fumo, c’era una lucida scia di sangue
scarlatto.
Alzò gli occhi. Aveva il
viso terreo mentre cercava di puntellarsi su un gomito. Allungò una
mano verso di lei e, muovendo soltanto le labbra, disse:
«Saffy!»
Lei si coprì il naso per
proteggersi almeno in parte dal fumo e corse dal padre che era
stramazzato sul ponte, supino e quasi privo di conoscenza, un
colorito malsano in volto e la fronte imperlata di sudore, i denti
stretti e i lineamenti contorti dalla sofferenza. Saffron scoprì
quale fosse la fonte dell’atroce dolore: la gamba destra dei
pantaloni era strappata, la carne sottostante a brandelli come se
un animale selvaggio l’avesse dilaniata con denti e artigli
cremisi, e dal centro dell’orrenda ferita spuntava l’osso del
femore, spezzato, scheggiato e dai bordi frastagliati.
Sentì la bile salirle in
gola e le lacrime riempirle gli occhi. No! Non puoi mostrarti
debole! Non ora! si disse. Si chinò su Leon e sussurrò: «Non
preoccuparti, papà, ci sono qua io». Lo afferrò per le ascelle e,
dando la schiena alla scala, cominciò a trascinarlo.
Le due estremità
dell’osso rotto sfregavano l’una contro l’altra e lui non riusciva
a impedirsi di urlare di dolore. Saffron si impose di non udire il
suo strazio, limitandosi a tirare con più energia.
La Star of
Khartoum era ferita a morte, ma gli Stuka avevano ricevuto
l’ordine di distruggerla. Altri due aerei si lanciarono in
picchiata. Uno mancò il bersaglio a causa del fumo denso, ma
l’altro lo centrò, quasi nello stesso punto della bomba inesplosa,
che scoppiò e diede il colpo di grazia alla nave.
La Star affondava lentamente.
Il suo destino era ormai segnato e gli Stuka avevano superato il
limite di sicurezza del consumo di carburante. Il comandante ordinò
di tornare alla base e loro obbedirono, accompagnati dai fedeli
caccia di scorta. La seconda bomba aveva ucciso chiunque si
trovasse a poppa e provocato danni irreparabili anche in sala
motori. Sulla nave c’erano pochissimi sopravvissuti, ma l’uomo
accanto alla mitragliatrice prodiera era uscito incolume da
quell’inferno, proprio come Saffron, e, quando la vide sul ponte
superiore che cercava di trascinare in salvo il padre, la aiutò a
portarlo giù per la scala e fino al ponte con le scialuppe di
salvataggio. Un altro paio di sopravvissuti, fra cui il medico di
bordo, stavano cercando di calarne in acqua almeno una prima che
la Star of Khartoum
colasse a picco.
Vi riuscirono giusto per
un soffio e si allontanarono di una cinquantina di metri, remando,
prima che la nave si spezzasse in due e affondasse.
Il medico fece tutto il
possibile per curare Leon. Prima di correre verso le scialuppe
aveva preso la sua borsa, presumendo di doversi occupare degli
eventuali sopravvissuti, e riuscì almeno a versare del
disinfettante sulla ferita aperta e somministrargli abbastanza
morfina per alleviarne leggermente le sofferenze.
A un certo punto Saffron
sentì il ronzio di un motore aereo. In mezzo a tutta la baraonda e
il chiasso non si era resa conto che c’era ancora un caccia
tedesco, quello da lei colpito, che girava in tondo sopra di loro.
«Cosa fa?» chiese senza rivolgersi a nessuno in
particolare.
Il medico alzò gli
occhi, vide il 109 e borbottò: «Maledetto avvoltoio». Agitò il
pugno chiuso e gridò una sequela di violente imprecazioni verso il
cielo. «Vi chiedo scusa», disse poi a Saffron, tornando a essere
l’uomo garbato di sempre. «Non serve assolutamente a nulla, ma mi
fa sentire meglio.»
L’altro sopravvissuto,
Bowyer, il mitragliere che parlando con Randolph si era detto molto
colpito da Saffron, dichiarò: «Credo che quel bastardo vi abbia
sentito. Attenti, viene verso di noi».
Cosa ci faccio qui? Perché sto sprecando
carburante?
Ormai la scarica di
adrenalina del combattimento si era esaurita e Gerhard sentì
riaffiorare il tetro e deprimente senso di vuoto. Ripensò alla
visione di poco prima, all’illusione di vedere una donna laddove
non poteva esserci. Il cervello gli giocava brutti scherzi, il fato
si faceva beffe di lui. Sentì una collera acre e vendicativa
colmare lentamente il vuoto dentro di lui. Voleva prendersela con
qualsiasi bersaglio riuscisse a trovare, in modo che qualcun altro
soffrisse come lui.
Diede inizio a una
virata che portò il suo aereo intorno alla patetica scialuppa di
salvataggio che ospitava i pochi sopravvissuti. Mentre si lanciava
in picchiata, recuperando l’assetto orizzontale solo a pochi metri
di distanza dal mare, sapeva di tradire ogni suo principio, ogni
briciolo di rettitudine e onore rimastogli, di diventare uguale al
fratello e a tutti i bastardi crudeli che si trovavano come lui
nella legione dei dannati. E non gli importava.
La scialuppa sfrecciava
verso di lui, sempre più vicina. Gerhard vide le persone a bordo
agitare penosamente i pugni chiusi. Un’unica rapida raffica avrebbe
spazzato via quella minuscola imbarcazione e tutti i suoi
passeggeri. Posò il dito sul grilletto.
Poi rivide il fantasma.
Capelli neri, occhiali scuri.
Il suo primo istinto fu
di sparare e continuare a farlo fino a eliminare per sempre il
fantasma dalla sua immaginazione.
Ma dopo un millesimo di
secondo qualcosa lo esortò a non farlo. Gerhard sfrecciò sopra la
scialuppa senza sparare, salì in alto nel cielo, fece un giro della
morte e si tuffò nuovamente in picchiata, tornando da dove era
venuto.
«Avanti, bastardo nazista! Se vuoi ucciderci
siamo qua! Fai pure!»
La voce di Bowyer era
quasi isterica per la disperazione. Il pilota li stava prendendo in
giro, stuzzicandoli. Avrebbe potuto ucciderli in qualsiasi momento,
quindi perché non lo faceva?
«Eccolo che torna»,
disse Saffron. Messa di fronte alla prospettiva di una morte certa,
era pervasa da una calma inattesa quanto misericordiosa. Sarebbe
andato tutto bene. Avrebbe ritrovato Gerhard in un luogo in cui non
c’erano guerre a tenerli separati, e tutto si sarebbe
sistemato.
Tenne lo sguardo fisso
sul caccia e si alzò per accoglierlo, immobile, offrendosi come
vittima sacrificale.
Il fantasma era lei! pensò Gerhard. Sapeva che
era impossibile, eppure l’alta figura che si stagliava sulla
scialuppa, scuotendo la testa per far ondeggiare i capelli e
guardando dritto verso di lui, era Saffron. Ne era assolutamente
certo. È ancora viva! Mio Dio, è vero, è viva.
Rallentò fino a
rasentare la velocità di stallo e poi spinse indietro la calotta
dell’abitacolo, sentendo il vento sferzargli il volto come l’alito
stesso della vita. Mentre passava sopra la scialuppa salutò con la
mano e sarebbe stato pronto a giurare di aver visto Saffron
sorridere.
Dopo un attimo aveva già
superato l’imbarcazione e ormai non poteva effettuare un altro
passaggio: la situazione del carburante, critica già prima che lui
decidesse di rimanere sopra la nave, era adesso
disastrosa.
Non gli importava.
Saffron Courteney era ancora viva. Amore e speranza tornarono di
colpo a riempirgli il cuore. Cosa importava se il suo 109 non aveva
più carburante? Lui non aveva nemmeno bisogno di un aereo, poteva
benissimo tornare in Grecia da solo, sulle ali della
felicità.
«Buon Dio», disse il medico. «Che gesto
incredibile. Credete che il pilota volesse complimentarsi con noi
perché abbiamo combattuto valorosamente?»
«I tedeschi non fanno
cose del genere, Doc», replicò Bowyer. «Non è affatto nel loro
stile. Secondo me voleva piuttosto prenderci in giro, a meno
che...» Un sorriso malizioso e impudente gli balenò sul volto.
«Be’, se non vi dispiace sentirvelo dire,
signorina...»
Saffron non lo udì
nemmeno: stava ancora cercando di dare una spiegazione a quanto
aveva visto – o pensato di vedere – nell’abitacolo del caccia. Non
sapeva se gridare di gioia oppure piangere amare lacrime per gli
innumerevoli scherzi crudeli del destino.
«Signorina?»
Lei si costrinse a
riportare l’attenzione sulle persone che aveva intorno. «Cosa
c’è?»
«Stavo dicendo che
eravate un vero spettacolo. Sembravate una stella del cinema o
qualcosa del genere... Immagino che il nostro tedesco vi abbia dato
un’occhiata e abbia pensato che nemmeno lui poteva sparare a una
ragazza del genere. Insomma, che spreco, eh?»
«Bisognerebbe davvero
essere crudeli per sparare a sangue freddo a una ragazza
disarmata», concordò il medico.
Saffron non disse nulla.
Pensò che non era affatto disarmata, almeno non nel momento
cruciale. Ho colpito l’aereo con le mie mitragliatrici, e se era
quello di Gerhard... Lo era, ne sono sicura, altrimenti perché mi
avrebbe salutata? Oddio, ho rischiato di ucciderlo. E non avrei mai
scoperto cosa avevo fatto o quanto ci fossi andata vicina. E se lo
avessi ucciso...
Poi scoppiò in lacrime,
e il medico le cinse le spalle con un braccio. «Su, su, mia cara, è
tutto a posto. Siamo reduci da un’orrenda esperienza e voi vi siete
comportata in maniera esemplare, ma ormai è finita. Presto verremo
tratti in salvo, ne sono sicuro. Andrà tutto bene,
vedrete.»
Era tardo pomeriggio quando una motosilurante
della Royal Navy, inviata da Creta in risposta al messaggio del
capitano McAloon, riuscì finalmente a trovarli. Mentre Leon veniva
issato a bordo, il medico prese da parte Saffron per sussurrarle:
«Vostro padre è ferito molto gravemente. Se non sorgono infezioni
dovrebbe sopravvivere, ma non è detto che possa riprendere a
camminare».
Lei non rispose, troppo
stremata dalla battaglia e dagli avvenimenti successivi. Un
marinaio la aiutò a salire sulla motosilurante dove le offrirono
una tazza di tè, la classica panacea britannica per qualsiasi
catastrofe. Mentre la bevanda operava la sua magia, Saffron aprì la
borsa. Con tutte le precauzioni prese e l’inferno attraverso cui
era passata, i suoi beni accuratamente incartati e spalmati di
grasso non erano stati toccati nemmeno da una goccia d’acqua.
Estrasse una delle sue preziose foto di Gerhard e vi si chinò sopra
per poterla guardare senza farsi vedere. Era magnifico pensare che
lui fosse ancora vivo.
Ma poi scosse il capo e
mise via il suo insignificante tesoro, mentre rammentava a se
stessa tutto quello che era andato perduto.
Il fiore all’occhiello
della flotta della Courteney Trading era affondato. Molte brave
persone avevano perso la vita, e per niente. L’oro della Grecia era
finito in fondo al mare, a centinaia di metri sotto di loro, e
nessuno l’avrebbe mai più ritrovato.
Gerhard rimase senza carburante a una decina
di chilometri a nord di Atene, a un centinaio dalla sua base, ma
aveva operato una salita lenta e costante fino a settemila metri di
quota. Quando il motore si spense, lasciò che l’aereo si librasse
semplicemente nell’aria, rammentando i suoi primi voli in aliante
sopra la Baviera, assaporando la quiete e il silenzio dopo il
clamore della battaglia, lasciando che la sua mente si beasse
dell’immagine di Saffron, così fiera e coraggiosa e bella mentre
guardava la morte dritta negli occhi, senza rendersi conto che in
realtà stava guardando l’amore.
Mein Gott!
Se avessi premuto quel grilletto... Ma non
l’ho fatto, ed è l’unica cosa importante.
Si sentiva tranquillo
quando l’inesorabile discesa ebbe inizio. Gli serviva solo un
tratto di strada relativamente dritto, persino un campo
pianeggiante, benché non ve ne fossero molti nella sassosa e
montagnosa campagna ellenica. Studiavano cartine della Grecia da
settimane, mentre venivano ragguagliati in vista di una missione
dopo l’altra, e lui sapeva che una strada di grande comunicazione
correva parallela alla costa. Guardò giù e, come previsto, eccola
là, con il tipo di rettilineo che gli serviva.
Il Messerschmitt scese
fin sopra una colonna di camion e uomini in movimento, passò a volo
radente sull’ultima coppia di veicoli, sfiorandoli, e atterrò su un
tratto d’asfalto deserto per poi fermarsi duecento metri più in là,
in diagonale sulla carreggiata.
Gerhard uscì
dall’abitacolo, si slacciò il giubbotto di salvataggio, si tolse il
foulard di seta che portava al collo ed estrasse un pacchetto di
sigarette dalla giacca. Aveva scoperto che fumare era una
componente ineludibile della guerra, come il cibo scadente e le
pallottole.
Vide avvicinarsi un
gruppo di uomini e armamenti. Un’auto di servizio scoperta si
staccò dalla colonna per sfrecciare verso di lui e far scendere un
ufficiale con le spalline da Oberst,
colonnello.
Scivolò giù dall’aereo,
gettò la sigaretta e scattò sull’attenti.
«Cosa diavolo credi di
fare?» gli chiese il colonnello.
«Ero in missione,
Herr Oberst. Il mio aereo è stato colpito e ho perso parecchio
carburante. Non potevo tornare alla base, così sono atterrato
qui.»
«Be’, stai bloccando la
strada. Devo portare un’intera divisione fino alle porte di Atene
prima di sera, quindi ti ordino di spostare il tuo
apparecchio.»
«Mi rincresce
profondamente, signore, ma non sono in grado di farlo. Come ho
appena spiegato, sono rimasto senza carburante. Nel caso se ne
trovi un po’, e se i vostri uomini indietreggiano appena, dovrei
riuscire a decollare senza troppi problemi.»
«Indietreggiare? Non
l’abbiamo fatto per gli inglesi, perché diavolo dovremmo ritirarci
per te?»
«In alternativa,
signore, il terreno su entrambi i lati della strada è piuttosto
piatto, quindi i vostri veicoli corazzati e i camion dovrebbero
riuscire a girare facilmente intorno al mio aereo.»
«Spero che questa tua
missione sia valsa la pena», affermò l’alto ufficiale in tono
burbero.
«Oh, sì, signore»,
rispose lui mentre un sorriso trionfante gli balenava sul volto.
«Abbiamo affondato una nave inglese che trasportava un carico di
enorme importanza strategica. La missione è stata ordinata
dal Reichsmarschall
Göring in persona, che sarà molto soddisfatto
del suo successo.»
Il colonnello colse il
messaggio: quel pilota impudente, con i simboli degli aerei
abbattuti dipinti sulla fiancata dell’apparecchio e la Croce di
ferro al collo, godeva della protezione dello stesso
Göring.
«Dirò al mio operatore
radio di ordinare che portino qui del carburante il prima
possibile. Mi aspetto che tu decolli non appena avrai fatto
rifornimento.»
«Certo, Herr
Oberst, lo farò
con gioia.»
Ma fino ad allora
rimarrò seduto sul mio aereo, fumerò le mie sigarette e penserò
alla ragazza che amo.
Tutto sommato, era stato
uno dei giorni migliori del suo servizio in guerra.
Le visite ai degenti nell’ospedale egiziano
erano strettamente regolamentate. Durante le due settimane seguite
al rientro di Leon da Creta, Harriet aveva tentato di trascorrere
al suo capezzale ogni minuto che poteva, ma era anche consapevole
di dover preparare la casa per il suo ritorno. Il chirurgo che lo
aveva operato alla gamba era ormai sicuro di avergliela salvata, ma
ci sarebbero voluti diversi mesi prima che Leon potesse anche solo
pensare di camminare, e persino a quel punto sussisteva il rischio
che si ritrovasse su una sedia a rotelle. In ogni caso lei doveva
facilitargli il compito di muoversi per casa, e doveva farlo prima
che il marito venisse dimesso, perché temeva che fosse troppo
orgoglioso per ammettere di avere bisogno di aiuto, quando
finalmente fosse tornato.
Fu così che una mattina
Harriet si ritrovò a casa invece che in ospedale, a parlare con un
architetto di come sostituire i gradini con delle rampe e
aggiungere dei corrimano per aiutare Leon a camminare almeno nei
primi giorni, quando ancora non si era ambientato.
Saffron aveva preso il
suo posto al capezzale del padre quando sentì bussare alla porta.
«Devo andare a vedere chi è?»
Leon annuì.
Lei andò ad aprire e si
trovò davanti un ragazzo con gli occhiali e l’uniforme da capitano
dell’esercito, che aveva al massimo tre o quattro anni più di
lei.
«Oh», disse lui, nel
vedere una bellissima ragazza con un abito estivo di cotone che lo
guardava con limpidi occhi azzurri.
«Posso aiutarvi?» chiese
Saffron, dato che l’ufficiale sembrava incapace di aggiungere
altro.
«Ah, sì, certo,
naturalmente... Mi chiamo Carstairs, intelligence militare. Potrei
scambiare due parole con Mr Courteney? Mi è stato chiesto di
riferirgli alcune informazioni.»
«In tal caso si
accomodi, capitano Carstairs.»
L’uomo entrò nella
stanza e si fermò accanto al letto mentre lei chiudeva la porta.
«Scusatemi, Mr Courteney, ma quanto devo comunicarvi è piuttosto
riservato. Riguarda l’affondamento della Star of Khartoum ed è solo
per le vostre orecchie, per così dire.»
«Posso farvi una
domanda, Carstairs?» si informò Leon.
«Certo,
signore.»
«Siete mai stato in
azione? Non mi riferisco solo al servizio durante una campagna e
nel quartier generale, sto parlando della roba difficile, della
prima linea, dove le persone vengono uccise.»
«No, signore, non posso
dire di averlo fatto. Sono più un tipo da scrivania, mi occupo di
analisi delle informazioni segrete.»
«Avete analizzato un
quotidiano, ultimamente?»
«Mi spiace ma non riesco
a seguirvi.»
«Bene, sulla stampa del
Cairo sono apparsi alcuni articoli sulle gesta di mia figlia a
bordo della Star of Khartoum
mentre combatteva contro la Luftwaffe. Dicono
che meriti una medaglia. Quindi se avete qualcosa da dire su quel
viaggio potete dirla anche a lei, oppure non dirla affatto. Sono
stato chiaro?»
«Chiarissimo, signore.
Potrei chiedervi, Miss Courteney, se posso contare sulla vostra
totale discrezione?»
«Naturalmente.»
«Benissimo, allora. Il
mio messaggio è questo. Forse sapevate che il carico a bordo
della Star of Khartoum
era... Come posso definirlo? Insolitamente
prezioso, diciamo.»
«Sì, lo
sapevo.»
«E presumo che la
consapevolezza che tale carico è andato perduto abbia accentuato
lo... sgomento che potreste aver provato per la perdita della
vostra nave e di così tanti membri del suo equipaggio. E per la
vostra ferita, naturalmente.»
«Infatti.»
«Potreste persino
esservi chiesto, di conseguenza, se ne sia valsa davvero la pena»,
sottolineò Carstairs, e il silenzio che seguì confermò la
fondatezza della sua ipotesi. Si schiarì la gola prima di
aggiungere: «Quanto ho da dire potrebbe, spero, garantirvi che in
realtà avete fornito allo sforzo bellico un contributo assai più
cospicuo di quanto crediate. Vedete, il fatto è che il carico che
pensavate si trovasse sulla Star of
Khartoum era in realtà... ehm,
altrove».
«Cosa volete dire?»
chiese Saffron.
«Voglio dire che la
vostra nave era un’esca. Il vero carico si trovava a bordo di
un’altra e ha ormai raggiunto, fino all’ultimo grammo, la sua
destinazione finale.»
«Ma questo peggiora le
cose, invece di migliorarle. Tutti quegli uomini sono stati
sacrificati invano!»
«No», la corresse il
padre, «significa che la Star
è stata messa a repentaglio, e alla fine
affondata, per consentire all’oro di arrivare a destinazione. È
valsa la pena di intraprendere quella missione. La mia unica
domanda per voi, Carstairs, è come facevate a sapere che i tedeschi
avrebbero abboccato all’amo.»
«Bene, abbiamo lasciato
alcuni indizi per loro, per esempio tutti i camion incolonnati
davanti alla Banca di Grecia, dove chiunque poteva vederli. In
realtà il trasferimento è stato effettuato diverse sere prima, in
maniera ben più discreta. Inoltre, cosa forse ancora più
importante, avevamo motivo di credere che potesse verificarsi una
fuga di notizie sul nostro versante, qui al Cairo oppure nel porto
di Alessandria, o persino sulla nave stessa.»
«Volete dire che fra noi
c’è una spia?» chiese Leon.
«Qualcosa del genere,
sì.»
«Uno dei
nostri?»
«Forse, oppure qualcun
altro con un motivo per appoggiare la causa nazista. Ci sono una
miriade di nazionalisti, ebrei e musulmani, che vogliono vederci
andare via, e il nemico del loro nemico è loro amico.»
«Ebrei che sostengono
Hitler?» domandò Saffron. «Non sembra molto probabile. Sono stata
in Grecia, capitano, e so com’è la vita per gli ebrei
là.»
«Ma non per gli ebrei
qui, Miss Courteney. La maggior parte di loro è molto cordiale con
noi, ma ci sono alcuni sionisti che ci vogliono fuori dall’intera
regione, in particolare dalla Palestina ma anche dall’Egitto.
Certo, odiano i musulmani radicali persino più di quanto odino noi,
e il sentimento è reciproco: se e quando noi ce ne andremo,
cominceranno a massacrarsi a vicenda. Ma per il momento noi siamo
il loro comune nemico.»
«Bene, vi auguro buona
fortuna nella ricerca del vostro uomo, Carstairs», disse Leon. «Se
posso fare qualcosa non avete che da chiederlo. Potete contare
sulla mia completa collaborazione.»
«Grazie, sono davvero
lieto di sentirvelo dire. Buona giornata, Mr Courteney. Vi auguro
una pronta guarigione.»
«Lasciate che vi
accompagni, capitano», disse Saffron, poi lo seguì fino alla porta
e lo guardò uscire in corridoio.
Un inserviente egiziano
puliva il pavimento di linoleum, ma lei non gli badò e tornò dal
padre.
Leon era stanco. Non aveva energie da
sprecare, quindi andò direttamente al punto. «Credo che la spia sia
tuo zio Francis. Era al corrente della spedizione e, anche se non
gli ho detto esplicitamente cosa avremmo caricato sulla nave, ne
sapeva abbastanza per poter fornire a qualcun altro i mezzi per
scoprire i particolari.»
«Lo credi davvero capace
di una cosa simile?»
«Vorrei tanto poterti
rispondere di no, ma la verità è che lo credo abbastanza pieno di
rancore e rabbia per tradire la propria famiglia e il proprio
Paese. E sappiamo tutti cosa pensa del fascismo, non ne ha mai
fatto segreto.»
«Ma quale motivo ha per
essere tanto furioso? Hai salvato la compagnia e gli hai fatto
guadagnare un sacco di soldi.»
«Ai suoi occhi è quasi
un’aggravante, temo. Quando qualcuno assume quel tipo di mentalità
smette di vedere le cose in maniera obiettiva. E se tu fai qualcosa
di lodevole che lo arricchisce, lui ti detesta ancora di più. Frank
ha bisogno che io sia il cattivo nella sua fantasia distorta, e se
io non interpreto quel ruolo è costretto a inventarsi altri motivi
per cui lo sto truffando.»
«Che modo orribile di
vivere.»
«Senz’altro, ma una
volta che una persona finisce impantanata in quelle sabbie mobili è
quasi impossibile tirarla fuori, a meno che non voglia davvero
cambiare atteggiamento. Nel frattempo noi abbiamo un altro
problema: non solo sospetto che Frank sia la spia, ma mi chiedo
anche se Carstairs non mi stesse dicendo velatamente che i suoi
sanno che si tratta di lui.»
«A cosa sarebbe servito
dirtelo? Cosa possiamo fare al riguardo?»
«Vorrei tanto saperlo.
Se fossi ancora tutto intero andrei ad affrontarlo apertamente e
gli farei sputare la verità a forza di pugni, se
necessario.»
«E poi? Non faremmo
certo una gran figura – come famiglia o come azienda – se si
scoprisse che uno dei fratelli Courteney è una spia dei
nazisti.»
«Nessuno la farebbe.
Immagino che potrei dargli la possibilità di scegliere: o accetta
di andare in esilio in un posto come il Marocco o la Spagna – un
Paese neutrale dove non può causare problemi –, oppure lo consegno
alle autorità e lascio che lo processino per tradimento. È un reato
punito con l’impiccagione, in fondo, e credo che persino Frank
sarebbe disposto a rigare dritto pur di salvarsi la
pelle.»
«Ma non puoi farlo, non
al momento, comunque.»
«Non ricordarmelo, ti
prego.»
«Magari potrei pensarci
io, oppure Harriet. Altrimenti cosa ne dici di zio Dorian o della
nonna? Li ascolterebbe?»
«Non possiamo
coinvolgerli senza spiegare come mai ci trovavamo ad Atene, cosa
che è meglio evitare. Se solo avessi già recuperato le forze, giuro
che troverei l’autobus più vicino e ci spingerei sotto il mio caro
fratello.»
«È una fortuna che tu
non possa farlo. Ora riposati. L’importante è che tu ti rimetta in
sesto. Nella peggiore delle ipotesi, se lo zio Francis viene
smascherato come spia e lo scandalo rovina la Courteney Trading,
avrai ancora Lusima e Harriet e me, e staremo tutti
benissimo.»
«Sì, è vero, ma cosa mi
dici di Dorian, della nonna e delle mie sorelle?»
«Possono venire tutti a
vivere a Lusima. Lo spazio non ci manca di certo.»
«Mia cara Saffron»,
disse Leon, stringendole forte la mano, «sei davvero una figlia
bellissima, gentile e splendida.»
«E tu sei molto buono,
ma ora questa figlia deve essere molto severa con te. Più tardi
passerà a trovarti Harriet, ma fino ad allora devi riposarti un
po’.» Gli diede un bacio sulla fronte, lo salutò e uscì dalla
stanza.
L’addetto alle pulizie
era scomparso, benché il linoleum ancora sporco e asciutto
dimostrasse che non aveva concluso il lavoro. Se fosse Harriet a
gestire questo posto, non oserebbero mai comportarsi così, pensò
Saffron, sorridendo mentre si dirigeva all’uscita.
Non appena lei era rientrata nella stanza del
padre dopo aver salutato il capitano Carstairs, l’uomo che stava
pulendo il pavimento del corridoio aveva preso spazzolone e secchio
per poi dirigersi speditamente verso le scale. Due minuti più tardi
era sbucato dall’uscita per il personale dell’ospedale e si era
incamminato verso la Città Vecchia. Aveva alcune notizie importanti
per Hasan al-Banna e prima gliele avesse riferite, meglio sarebbe
stato.
Dopo due ore, un
messaggio passato attraverso una postazione d’ascolto degli Afrika
Korps era diretto verso Berlino.
Quando Saffron tornò a casa, Harriet le chiese
come stava il padre.
«L’ho trovato abbastanza
in forma, ma era stanco e così gli ho consigliato di riposarsi
prima della tua visita.»
«Ha
obbedito?»
«Sì, in realtà. Credo
che fosse ben disposto nei miei confronti. Mi ha definito una
figlia bellissima, gentile e splendida, è stato davvero
buono.»
«Be’, lo sei
davvero.»
«Ti spiace se mi verso
da bere? Avrei voglia di un gin tonic bello fresco.»
«Mia cara ragazza, non
devi chiedermi il permesso, ormai sei un’adulta. Saresti così
gentile da prepararne uno anche a me? E non andarci piano con il
gin!»
Saffron portò il
bicchiere sulla terrazza affacciata sul giardino, con il Nilo che
si stagliava in lontananza. Ripensò a tutto quello che aveva saputo
in ospedale e a cosa aveva detto il padre dello zio Francis. Il
pensiero della morte e della devastazione provocate dal suo
tradimento, oltre a sgomentarla, la riempiva di vergogna: era un
Courteney come lei, e le sue azioni disonoravano l’intera
famiglia.
Forse è giusto che venga
smascherato, forse meritiamo che i nostri nomi vengano trascinati
nel fango insieme al suo, pensò.
Ma lei non aveva fatto
nulla di cui vergognarsi, e nemmeno suo padre. Perché mai avrebbero
dovuto essere accomunati a Francis? E a cosa sarebbe servito
rendere pubblico il suo tradimento? Non avrebbe giovato a nessuno
se non a quanti volevano veder crollare l’Inghilterra e il suo
impero, quindi meno persone sapevano cosa aveva fatto suo zio e
meglio sarebbe stato.
Ma lui non può cavarsela
impunemente, non può!
Sorseggiò il drink
mentre rifletteva sul problema. La risposta le si affacciò alla
mente di colpo, come la soluzione a un’equazione complessa.
Riesaminò il proprio ragionamento per individuare eventuali pecche,
ma non riuscì a trovarne. La risposta era corretta.
E adesso lei sapeva
esattamente cosa andava fatto.
«Il tè alla menta è di vostro gradimento?»
chiese Hasan al-Banna.
«È passabile», rispose
sgarbato Francis Courteney.
«Forse un po’ di
zucchero ne migliorerebbe il gusto.»
«Forse.» Lui sospirò,
impaziente. «Sentite, non sono venuto per cianciare di tè alla
menta e di zucchero. Volevate vedermi e mi piacerebbe sapere come
mai.»
Al-Banna scosse la testa
con aria rammaricata. Allah era onnisciente e saggio, quindi doveva
aver avuto un motivo per introdurre nella sua vita quell’infedele
stupido, villano e ingrato, ma c’erano occasioni in cui era
difficile capire quale potesse essere. Forse Allah vuole solo
mettere alla prova la mia pazienza, pensò. Sì, poteva trattarsi di
quello.
«I nostri comuni amici
non sono contenti. Li avete messi su una falsa pista, a proposito
della Star of
Khartoum.»
«In che senso? Ho detto
loro dove era diretta, quale carico avrebbe avuto a bordo e da dove
sarebbe salpata, e poi loro l’hanno affondata, che era lo scopo.
Sono io quello che dovrebbe essere scontento. Avrebbero dovuto
sbarazzarsi di mio fratello e della sua mocciosetta, invece sono
entrambi ancora vivi. Cos’hanno da dire su questo, eh?
Eh?!»
«Hanno cose ben più
importanti di cui preoccuparsi che della vita o della morte di due
individui insignificanti.»
«Allora cos’è che li
turba?»
«L’oro non si trovava a
bordo.»
«E
dov’era?»
«I nostri amici non lo
sanno, ma se fossi in voi, Mr Courteney, mi premurerei di
scoprirlo. Se poteste informarli di dove si trova in realtà,
potrebbero sentirsi meno inclini a sospettare che li abbiate sviati
di proposito.»
«Non ho fatto nulla del
genere! Ho riferito tutto quello che sapevo, quello che mi aveva
detto mio fratello. Se qualcuno li ha sviati è stato lui, non
io.»
«Ne dubito sinceramente.
Non ci sono prove che suggeriscano che vostro fratello sia legato
all’intelligence inglese. Credo sia stato ingannato lui per primo e
che lo abbiano usato come esca. Vi ha informato perché voleva
convincervi della necessità di mandare la Star of Khartoum in Grecia.
La vera domanda è se l’intelligence inglese sapeva che voi avreste
passato le informazioni a noi. Se sì, siete ormai compromesso e la
vostra posizione si è fatta... Mmm...» Hasan cercò il termine più
adatto. «Vulnerabile, sì. Siete molto vulnerabile.»
«Volete dire che mi
uccideranno?» chiese Francis, terreo. Un rivolo di sudore gli colò
lungo la tempia. «Ma non ho fatto niente di male. Non è
giusto!»
«Soltanto gli inglesi
sono tanto sciocchi da credere che la vita dovrebbe essere giusta.
Comunque, la situazione è perfettamente logica. Avete causato
un’enorme quantità di problemi ai nostri amici, e per niente. Ora
siete in debito con loro. Se riuscite a scoprire dove gli inglesi
hanno portato le riserve auree della Grecia e a dimostrare che le
vostre informazioni sono esatte, non ci saranno conseguenze. Se
invece non ci riuscite...» Si strinse nelle spalle. «Allah è
giusto. Riceverete ciò che meritate.»
Francis era sul punto di
piangere per la paura, la rabbia e la furibonda autocommiserazione.
Aveva fatto tutto il possibile per favorire la causa e trasmesso
informazioni che riteneva vere e di importanza vitale. Come poteva
sapere che Leon gli aveva mentito? Perché gli aveva mentito,
sviandolo di proposito, ne era sicuro.
Mentre tornava a casa si
fermò allo Sporting Club per un paio di whisky e poi, alticcio,
andò a piedi fino al suo appartamento, in un elegante nuovo isolato
fra il club e il fiume. Aprì la porta, gettò giacca e cappello sul
divano e andò a versarsi un altro drink.
Si accigliò sentendo
suonare il campanello. «Chi diamine sarà a quest’ora?» Avvertì una
fitta di timore quando un pensiero gli si affacciò alla mente. Quei
maledetti tedeschi hanno mandato qualcuno a farmi
fuori?
No, impossibile. Lo
avevano avvisato di cosa poteva succedere ma gli avevano dato una
chance di rimediare. Finché lo credevano in grado di scoprire la
vera ubicazione dell’oro, era più utile da vivo che da
morto.
Trasse un bel respiro,
soprattutto per riacquistare un minimo di sobrietà, e aprì la
porta. Cosa diavolo ci fai qui, maledizione? pensò, quando
riconobbe la visitatrice.
«Ciao, zio Francis», disse Saffron. «Non mi
fai entrare?»
«Oh, immagino di non
avere scelta. Accomodati, allora.»
Lei varcò la soglia,
notando la piega amareggiata della bocca dell’uomo mentre gli
passava accanto. La porta d’ingresso si apriva su un ampio atrio
arredato lussuosamente, con pavimento di piastrelle di marmo, carta
da parati di un intenso rosso orientale e, accostata al muro, una
moderna consolle laccata di nero con sopra uno specchio coordinato.
Lui la accompagnò fino al salotto attiguo, la cui parete in fondo
era costituita quasi interamente da portefinestre che davano su un
balcone da cui si godeva di una vista spettacolare sul Nilo e la
Città Vecchia.
«Il tuo appartamento è
davvero magnifico, zio», affermò lei. «Mi sono chiesta spesso come
fosse. Quando ti ci sei trasferito?»
«Nell’estate del ’39,
subito prima che scoppiasse il finimondo. La mia solita iella: se
avessi aspettato altri tre mesi avrei potuto comprarlo a metà
prezzo, forse addirittura a un quarto.»
«Non è fantastico il
modo in cui il successo della compagnia ha migliorato la vita di
tutti? Lo studio di Dorian ad Alessandria è favoloso.»
«Ho fatto la mia parte,
sai, non è stato solo merito di tuo padre.»
«Oh, lo so. Tu hai
portato tutti gli affari con i tedeschi. Un vero peccato che siano
dovuti finire. Non potresti offrirmi un drink?»
«Oh, sì, certo. Perdona
la mia maleducazione», farfugliò lui. «Non ricevo molti ospiti, a
dire il vero. Anzi, quasi nessuno. Dopo un po’ dimentichi come si
comporta un bravo padrone di casa, se ci perdi la mano. Bevi?
Alcol, intendo.»
«Sì, certo.» Saffron
ridacchiò. «Sono abbastanza grande, sai, ho quasi ventidue
anni.»
«Sul serio? Buon Dio, il
tempo vola. Allora, cosa prendi?»
Per un attimo lei
intravide fugacemente l’uomo che Francis Courteney era stato un
tempo, e che avrebbe potuto ancora essere, se non avesse scelto di
vivere nell’amarezza invece che nella speranza, ingigantendo i
torti subiti e dimenticando le gentilezze ricevute, sospettando
delle motivazioni altrui invece di confidare nel loro buon
cuore.
«Potresti prepararmi un
Martini?»
«Non vedo perché no.
Personalmente preferisco il whisky.»
Saffron prese posto su
una poltrona e posò la borsetta aperta sul cuscino accanto a sé,
mentre lo zio le preparava un cocktail fresco e forte, con giusto
una punta di vermouth. «Mmm, è perfetto», gli disse. «Dovresti
aprire un bar tutto tuo, chiamarlo Courteney’s Bar and
Grill.»
Lui si era seduto. Il
suo bicchiere, riempito mentre preparava il Martini alla nipote,
era già vuoto.
«Ehi, zio, ti serve un
rabbocco. Non alzarti, ci penso io.»
Lei gli prese il
bicchiere e, raggiunto il mobiletto dei liquori, glielo riempì e
poi lo posò sul tavolino accanto alla poltrona di Francis, di
fianco a una lampada in marmo a forma di colonna classica. Si
avvicinò alle portefinestre, ne aprì una e rimase lì, appoggiata
allo stipite. «Un panorama mozzafiato», disse. «Mi fa pensare a
quella canzone...» Canticchiò le prime battute di
You Belong to Me. «See the pyramids along
the Nile...» Avanti, alzati da quella
poltrona! pensò, mentre tentava di rammentare il secondo verso.
Bisogna che tu sia in piedi! «Vieni a vedere, zio, sta passando uno
dei barconi-ristorante. Ci sono delle persone che ballano sul
ponte. Ascolta! Senti la musica?»
Lui scolò il whisky e si
alzò barcollando. «Li vedo passare di continuo, ma se proprio
insisti...»
Saffron aspettò di
averlo accanto, quasi vicino come avrebbe potuto essere un amante,
prima di chiedere: «Allora, zio Francis, perché ci hai tradito con
i tedeschi?»
«Non ho fatto nulla del genere!» protestò lui.
Si accorse di essere ubriaco. Non riusciva a riflettere
lucidamente, non riusciva a trovare il modo di uscire dalla fossa
che si era scavato da solo e che sembrava diventare sempre più
profonda.
«Sì, invece!» disse
bruscamente lei. Aveva rinunciato al ruolo della dolce nipotina, e
nella sua voce c’era una nota inesorabile, aggressiva. «Hai detto
loro che tuo fratello sarebbe salpato dal Pireo... Tuo fratello!
L’uomo che ti ha salvato dalla bancarotta! L’uomo i cui soldi ti
hanno permesso di comprare questa assurda sottospecie di bar di
pessimo gusto, dove vivi in totale solitudine, senza che nessuno
passi mai a trovarti!»
«Ho guadagnato io i
soldi con cui ho comprato questo posto! Io! Non lui!»
«Se ci sei riuscito, è
solo perché ti sei venduto ai nazisti. Ammettilo, lavori per loro.
Li hai informati di dov’era diretta la Star of Khartoum, vero?» Per
enfatizzare le proprie parole gli affondò nel petto un’unghia
smaltata di rosso. «Hai detto loro che avrebbe trasportato l’oro
greco, vero?» Lo colpì di nuovo con l’unghia, più
forte.
«Smettila!»
«Oh, non ti piace quando
una ragazza ti mette in imbarazzo? Be’, non mi importa cosa ti
piace o no. Mio padre, tuo fratello, giace in un letto d’ospedale
con la gamba spappolata e potrebbe non camminare mai più... per
colpa tua.»
Accidenti, mi ha colpito
di nuovo! pensò Francis. «Ti ho detto di piantarla!» gridò,
infuriandosi. Fece un passo verso di lei, con aria minacciosa,
aspettandosi di vederla indietreggiare.
Saffron non si mosse.
«Non mi fai paura. Sono stata in guerra, combattendo come tu non
hai mai fatto. Mi hanno proposta per la George Medal, sai, per
l’estremo coraggio dimostrato sotto il fuoco nemico. Continuavano a
lanciarsi contro di noi, i tedeschi sembravano sapere esattamente
dove ci trovavamo, sono riusciti a individuare la
Star of Khartoum fra tutte le altre navi che fuggivano dalla Grecia
cercando di tornare ad Alessandria. E tutto questo...»
Tac! «... a
causa...» Tac! «... tua.»
Lui le spinse via la
mano.
Saffron lo schiaffeggiò
con forza, tanto che Francis girò la testa di scatto, intontito,
mentre barcollava all’indietro per la violenza del
colpo.
Oddio! L’ho colpito troppo forte? si chiese,
vedendolo stordito, disorientato. No, avanti, non puoi gettare la
spugna proprio adesso! Non devi!
E poi la rabbia di
Francis fece breccia nel torpore, la scarica di adrenalina gli
affinò i processi mentali e gli restituì un pizzico di energia.
«Questa te la faccio pagare, puttanella!» Le si avventò contro a
pugni stretti, cercando di colpirle il viso, spingendola verso il
centro della stanza.
Lei alzò le braccia per
ripararsi la testa e trasalì mentre i pugni la
colpivano.
«Sì!» urlò Francis,
intervallando i colpi con le parole. «Ho raccontato tutto ai
tedeschi! Vi volevo morti! Tutti e due!» Poi, senza preavviso,
sferrò un forte pugno sotto i gomiti sollevati di Saffron,
colpendola al plesso solare.
Lei boccheggiò, senza
fiato, e abbassò la guardia mentre si sforzava disperatamente di
respirare.
«Ti voglio morta!» gridò
di nuovo Francis, e la colpì in viso, spaccandole il labbro e il
naso.
Lei gridò di dolore
mentre il sangue le zampillava da narici e bocca. Barcollò
indietro, urtò il divano e vi cadde sopra, finendo accanto alla sua
borsa.
Alzò gli occhi e vide
Francis che le si avvicinava. I drink bevuti gli rendevano il passo
malfermo, ma la cosa le fu di ben poca consolazione, perché lo vide
afferrare la lampada da tavolo accanto alla poltrona su cui si era
seduto all’inizio. Mentre lei indietreggiava spasmodicamente sul
divano, tirando con sé la borsa, lui strappò il filo dalla presa
elettrica, tolse il paralume e ghermì la lampada appena sotto la
lampadina, brandendola come una mazza di marmo, la spessa base
quadrata che fungeva da sommità.
Era fuori di sé per la
rabbia e farneticava in maniera incomprensibile mentre avanzava
verso il divano. Saffron infilò la mano destra nella borsa
aperta.
Lui sollevò la lampada
sopra la testa e si torse, per incanalare tutta la sua energia nel
colpo con cui le avrebbe sfondato il cranio.
Fu a quel punto che
Saffron sfilò la mano destra dalla borsa, la unì alla sinistra, le
sollevò entrambe e – mentre lui sgranava gli occhi, orripilato –
sparò a Francis Courteney dritto in mezzo agli occhi con la pistola
che impugnava.
Saffron trasse un bel respiro e si guardò
intorno. Si aspettava di dover allestire una scena conforme alla
versione dei fatti che intendeva fornire, ma lo zio Francis aveva
interpretato senza volerlo la sua parte in maniera così perfetta da
rendere superflua qualsiasi simulazione. L’impatto del proiettile
sparato a distanza ravvicinata lo aveva scagliato all’indietro e
lui aveva lasciato cadere la lampada, che però era rimasta accanto
al suo corpo, il che avrebbe confermato il resoconto di Saffron.
Nel frattempo lei sanguinava ancora a causa del pugno ricevuto in
pieno volto. Si passò la lingua sui denti, controllando con cautela
se qualcuno traballava, ma sembrava tutto a posto. Quando si portò
un fazzoletto al volto, scoprì che il naso era contuso e
sanguinante, ma non rotto. Fu un vero sollievo. Un naso malconcio
conferiva a un uomo un certo fascino, ma non donava affatto a una
ragazza.
Una volta sicura che
fosse tutto a posto, telefonò alla polizia. Si chiese se doveva
fingersi in preda al panico e all’isteria, ma poi decise
altrimenti: era nota per la capacità di mantenere i nervi saldi
davanti al pericolo. Avrebbe dovuto sembrare turbata dall’accaduto,
ma nessuno si sarebbe stupito che fosse lucida e controllata.
«Vorrei denunciare una morte violenta», disse, quando le passarono
l’ufficiale di turno, che era inglese. La polizia in Egitto operava
come in tutto l’impero, ossia con agenti indigeni sottoposti al
comando britannico. «Si tratta di mio zio. Abbiamo avuto un
alterco. Lui era molto ubriaco e ha perso la calma. È stato
terribile... mi ha aggredita e... e mi ha dato un pugno in faccia,
poi ha cercato di uccidermi con una lampada di marmo e io, io...
be’, gli ho sparato. Credo che sia morto.»
«Rimanete dove siete,
signorina, arriveremo subito. Non toccate né spostate niente. Dov’è
il corpo?»
«In
salotto.»
«Allora vi consiglio di
aspettarci in cucina. Vi esorto a non lasciare la casa, altrimenti
sarò costretto a emettere un mandato d’arresto nei vostri
confronti, e non vogliamo certo una cosa del genere,
vero?»
Saffron fece quanto le
avevano chiesto. Si aspettava che un vicino venisse a bussare per
capire cosa fosse successo, ma l’isolato era stato costruito per
tutelare l’intimità dei suoi abitanti, quindi i muri erano spessi.
Inoltre era stato sparato un solo colpo. Chiunque l’avesse udito
avrebbe potuto benissimo non capire la natura del rumore,
preferendo aspettare di vedere se ne sentiva altri, prima di
prendere iniziative. Quindi, quando bussarono alla porta, fu la
polizia a farlo. Saffron, che prima di andare ad aprire si era
guardata allo specchio, era stata stupita ma anche contenta di
scoprire che il suo viso dolorante aveva un aspetto persino
peggiore del previsto.
Erano in quattro: un
detective in borghese, due agenti in uniforme e un
fotografo.
«Sono il sergente Ralph
Riley», spiegò l’uomo in borghese. «Potreste darmi il vostro nome e
indirizzo, signorina?»
Lei lo fece e gli mostrò
un documento d’identità.
Il sergente Riley ordinò
ai due agenti di mettersi di guardia davanti all’ingresso e
prendere il nome di qualsiasi vicino curioso che venisse a dare
un’occhiata. Pregò Saffron di sedersi al tavolo della cucina e
aspettare per qualche minuto, poi lui e il fotografo andarono in
salotto a esaminare la scena del crimine.
Una decina di minuti più
tardi il sergente ricomparve, le si sedette di fronte e le chiese
di raccontargli cos’era successo.
«Sono venuta a vedere se
riuscivo a convincere lo zio Francis a far visita a mio padre, che
si trova in ospedale. Io e papà eravamo su una nave affondata
nell’Egeo e lui è stato gravemente ferito, ed era terribile che il
suo stesso fratello non fosse mai andato a trovarlo. Ebbene, mio
zio si è infuriato. Credo ce l’avesse con mio padre a causa di un
imprecisato accordo d’affari, pur avendone tratto enormi benefici
economici. E credo che fosse anche piuttosto ubriaco. Mentre ero
qui ha svuotato due grossi bicchieri di whisky, e ho avuto
l’impressione che avesse già bevuto parecchio prima che
arrivassi.»
Riley alzò gli occhi dal
suo taccuino. «Aspettate, mi sono appena reso conto... Mi sembrava
che il vostro nome mi suonasse familiare... Saffron Courteney, ma
certo! Parlavano di voi sui giornali. Siete stata proposta per una
medaglia.» Dal suo tono di voce si sarebbe detto che fosse sul
punto di chiederle un autografo, aggiungendovi una dedica a sua
moglie.
«Esatto.»
«Be’, non avrei mai...
Siete proprio caduta dalla padella nella brace, vero?»
«Presumo di
sì.»
«Dunque, la scena del
crimine non sembra lasciare adito a dubbi. È chiaro che avete
ricevuto un colpo in pieno viso. Al termine della nostra
chiacchierata chiederò al fotografo di scattarvi qualche foto a
conferma. E, a meno che non ci fosse una terza persona di cui non
ci avete parlato...»
«No, eravamo soli. Mio
zio non ha domestici che abitino qui e riceveva pochissime
visite.»
«Sono sicuro che i
vicini potranno confermare la veridicità di queste affermazioni, ma
sembra che vostro zio vi abbia colpita: ha degli schizzi di sangue
sulla mano destra e sul polsino della giacca. E immagino che
troveremo le sue impronte sulla lampada che voleva usare come arma
contro di voi, a quanto dite. C’è soltanto un particolare che mi
lascia perplesso, Miss Courteney.» Il sergente la guardò, senza
alcuna traccia di ammirazione entusiasta. «Perché mai una ragazza
fa visita a suo zio con una Beretta 418 nella borsa?»
«Perché la porto sempre
con me, sergente.»
«Come mai?»
«Forza dell’abitudine,
suppongo. Ho fatto da autista per il maggior generale Wilson, e
dovevo accompagnarlo fino al campo di battaglia. Noi ragazze
dell’MTC siamo dei civili, ovvio, quindi non siamo armate, ma mio
padre era convinto che dovessi disporre di un mezzo per difendermi,
in caso di problemi, e il generale Wilson... be’, in realtà non
dovrei dirvelo perché non voglio metterlo nei
pasticci...»
«Fossi in voi non mi
preoccuperei, signorina. In fondo, è un generale.»
«Bene: ha promesso di
chiudere un occhio se gli avessi dimostrato di saper maneggiare una
pistola, cosa che ho fatto. Sono cresciuta in Kenya, quindi so
sparare molto bene. Ha anche insistito perché tenessi nascosta la
pistola, quindi mio padre mi ha preso una Beretta perché era
abbastanza piccola da tenerla nella borsa, e da allora non me ne
separo mai.»
«Avevate già avuto
motivo di usarla? In preda alla rabbia, intendo...»
«Sì. Durante
l’Operazione Compass, all’inizio di quest’anno, ci siamo imbattuti
in una pattuglia italiana e sono stata costretta a fare fuoco per
tirarci fuori dai guai.»
«Avevate già sparato a
un uomo, signorina?»
Saffron sentì la sua
compostezza incrinarsi di colpo, e stavolta non stava affatto
fingendo. Si morse il labbro inferiore e poi disse: «Sì... Ecco
come mai sapevo cosa fare... ma... ma è orribile dover sparare a un
altro essere umano... e lui era mio zio, un familiare...» Cominciò
a piangere e prese dalla borsetta il fazzoletto macchiato di
sangue.
«Mi dispiace, Miss
Courteney, ma avrò bisogno di quel fazzoletto. Come prova», disse
Riley. Si alzò per andare a prendere uno strofinaccio appeso
davanti alla cucina economica. «Ecco, tenete.»
«Grazie. Mi sono appena
resa conto... di cosa è successo. Mio zio non era un uomo
gradevole, sergente, ma non avrei mai voluto... non avrei mai
voluto tutto questo.»
«Ne sono sicuro. Chiedo
solo al fotografo di scattarvi una foto, dopodiché uno dei miei
uomini vi accompagnerà a casa. Devo pregarvi di non lasciare il
Cairo. State per caso aspettando l’ordine di andare
altrove?»
«No, sono in
licenza.»
«Allora passatela qui,
se non vi dispiace, finché non mi farò sentire di
nuovo.»
Il giorno dopo, Leon chiese a Harriet di
assumere il miglior penalista del Cairo, Joseph Azerad, perché si
occupasse del caso di Saffron.
«Non temete, Mr
Courteney, mi assicurerò che non vi sia nessun caso di cui
occuparsi», gli disse Azerad. Era già stato informato da Leon
dell’ammirazione di Francis per Oswald Mosley, e chiamò subito il
capo della polizia del Cairo per sottolineare senza mezzi termini
che sarebbe stato un vero oltraggio se una ragazza così coraggiosa,
che aveva servito valorosamente il proprio Paese e il cui viso
recava chiare tracce dei pugni di un bruto, fosse incolpata di
quello che era stato senza dubbio un atto di
autodifesa.
Telefonò inoltre ad
alcuni suoi contatti nella redazione della Gazette e del
Mail per
informarli che la bellissima ed eroica Saffron Courteney era stata
costretta a difendersi dall’aggressione dello zio, noto
simpatizzante fascista. Spiegò al giornalista della
Gazette che, se
fosse andato allo Sporting Club, avrebbe trovato parecchie persone
disposte a confermare che Francis Courteney era da lungo tempo un
sostenitore di Mosley, e diede al cronista del Mail l’indirizzo del medico
che avrebbe esaminato le ferite di Saffron e l’ora
dell’appuntamento.
Saffron, che era stata
avvisata in anticipo, guardò verso l’obiettivo mentre alzava una
mano, come per proteggersi dall’invadenza della macchina
fotografica. Il viso le si era notevolmente gonfiato da quando la
polizia l’aveva fotografata ed era ormai coperto di lividi dai
colori accesi. Nessuno che vedesse le fotografie avrebbe potuto
dubitare del fatto che fosse stata percossa, e un’altra serie di
ecchimosi sugli avambracci dimostrava che aveva cercato di
difendersi dall’attacco dello zio.
Prima che la giornata
finisse, fu chiaro che Francis aveva impugnato la lampada a mo’ di
mazza, confermando così la testimonianza di Saffron, mentre
l’angolazione con cui il proiettile calibro .418 gli era penetrato
nel cranio supportava l’affermazione che lei si fosse trovata stesa
sul divano, impotente, e gli avesse sparato mentre le si
avvicinava.
Prima della fine della
settimana venne dichiarato il non luogo a procedere e Saffron
ricevette un telegramma di Jumbo.
SAPUTO DI EVENTI AL CAIRO STOP CREDO VI SERVA
CAMBIAMENTO D’ARIA STOP VENITE A GERUSALEMME STOP È UN ORDINE
WILSON
Mentre Saffron faceva le valigie, Mr Brown
leggeva un dettagliato resoconto dell’incidente, e quando arrivò
all’ultimo paragrafo capì di dover prendere un aereo per il
Cairo.
Ci vollero diverse
settimane per organizzare il viaggio, ma alla fine riuscì a
procurarsi una cuccetta su un bombardiere Liberator della RAF che
trasportava due alti ufficiali appena trasferiti sul fronte
nordafricano. Il pilota sorvolò la baia di Biscaglia e il
Portogallo prima di atterrare a Gibilterra. Il giorno dopo puntò
verso sud, passando sopra il Marocco prima di virare a est sopra il
Sahara, a sud della zona di guerra nel deserto occidentale, per poi
raggiungere il Nilo, che usò come guida per risalire fino al
Cairo.
Quando sbarcò, Mr Brown
si concesse un giorno di riposo, perché il viaggio era stato lungo,
pericoloso e sfiancante. Poi andò nella sede diplomatica britannica
per svolgere alcune discrete indagini. Scoperto ciò che gli
serviva, salì su un treno che lo portò a El Kantara, nell’Egitto
nordorientale, e successivamente su un convoglio di vagoni letto
che lo condusse fino a Haifa, sulla costa mediterranea della
Palestina. Una volta là, cambiò treno per l’ultima volta, puntando
verso Gerusalemme.
Si era davvero preso
parecchio disturbo e stava per scoprire se ne fosse valsa la
pena.
Il quartier generale dell’esercito inglese
occupava un’ala del magnifico King David Hotel di
Gerusalemme.
«È molto semplice,
Courteney», annunciò Jumbo, poco dopo l’arrivo di Saffron, e
l’accompagnò davanti alla cartina del Mediterraneo orientale e del
Medio Oriente. «Ecco qui il Cairo. Non ho certo bisogno di dirvelo,
vero? E appena più a est c’è il canale di Suez, ossia la porta per
l’India, l’Estremo Oriente e l’Australasia. Se mai dovessimo
perdere il controllo del canale, sarebbe la fine dell’impero.
Rommel avanza lungo la strada costiera verso il Cairo da ovest, e
sta arrivando un po’ troppo vicino, per i nostri gusti. I tedeschi
hanno occupato la Grecia e Creta, il che significa che sono a un
solo passo dal Mediterraneo orientale, visto che potrebbero andare
da Creta ad Alessandria.»
«Ma non riuscirebbero
mai a far passare una forza d’invasione oltre la Royal Navy, vero,
signore?»
«Non avete tutti i
torti, cara la mia ragazza, ma guardate qui.» Indicò con il suo
frustino da ufficiale i territori del Libano e della Siria, appena
più a nord di dove si trovavano loro, in Palestina. «Dopo l’ultima
guerra, abbiamo assunto il controllo di Palestina e Cisgiordania e
i francesi hanno messo le loro luride zampe su Siria e Libano.
Adesso quei territori sono sottoposti al controllo di
Vichy.»
«E il governo di Vichy è
solidale con i tedeschi.»
«Quindi...» la sollecitò
Jumbo, proprio come uno dei docenti a Oxford che la guidavano lungo
un’argomentazione accademica.
«Posso farvi una
domanda, signore?»
«Certo.»
«Quali forze hanno nella
regione i francesi di Vichy?»
«Circa quarantamila
soldati francesi, libanesi e siriani, quasi cento carri armati,
trecento aerei e una modesta forza navale, ossia un paio di
cacciatorpedinieri e tre sottomarini. Questo cosa vi
dice?»
Saffron si avvicinò alla
cartina, la osservò per alcuni secondi e poi disse: «Se si
sentissero audaci, i tedeschi potrebbero far sbarcare degli uomini
a Sidone, qui, a sud di Beirut. Oppure, se volessero tenersi
lontani dalla nostra flotta, potrebbero salire ancora più a nord,
vicino al confine turco. In entrambi i casi sbarcherebbero su suolo
amico e si unirebbero alle forze di Vichy, dopodiché potrebbero
dirigersi a est, verso i giacimenti petroliferi di Iraq e Iran,
oppure puntare a sud, e in tal caso, se riuscissero a superare lo
sbarramento delle nostre truppe qui in Palestina, avanzerebbero
verso il Cairo e il canale, e ci attaccherebbero con un movimento a
tenaglia, loro dal nord e Rommel da ovest».
«Avete studiato a
Oxford, vero?»
«Sì,
signore.»
«Mai considerato
l’ipotesi di frequentare l’accademia militare, invece? Buon Dio,
vorrei tanto che i giovanotti sotto il mio comando avessero anche
solo la metà del vostro acume in fatto di strategia militare. Posso
chiedervi cosa fareste al mio posto?»
«Sì, signore.
Attaccherei con la massima rapidità e la massima forza possibili,
prima che i tedeschi abbiano l’occasione di fare la loro
mossa.»
«È proprio ciò che mi
hanno ordinato di fare. La chiamano ’Operazione Exporter’.
Colpiremo i francesi con un misto di soldati britannici, indiani e
australiani. E persino con le forze francesi libere.»
«Sono disposti a
combattere contro i loro compatrioti?»
«A quanto pare non
vedono l’ora di menare le mani. Li odiano ancora di più perché sono
dei voltagabbana. Comunque li colpiremo da tutte le direzioni,
marciando su Beirut e Damasco, oltre a impadronirci di tutti i
principali oleodotti e porti. Io gestirò tutto da qui,
naturalmente, ma mi conoscete: mi piace vedere cosa succede in
prima linea, quindi ci sarà parecchio sfrecciare avanti e indietro.
Pensate di potercela fare?»
«Certo, signore. Non
vedo l’ora.»
«Questo sì che è lo
spirito giusto! E posso garantirvi una cosa, Courteney: stavolta
vinceremo.»
Wilson mantenne la parola. I disastri greci
furono seguiti da una serie di trionfi nel Levante. Ci volle poco
più di un mese per stanare i francesi di Vichy, eliminando intanto
la maggior parte dei loro aerei e delle loro navi. Il 12 luglio,
Saffron si trovava nell’antico porto dei crociati di San Giovanni
d’Acri, dove Jumbo era impegnato nei negoziati con il suo omologo
francese, il generale Henri Dentz, e un branco di pomposi ma inetti
burocrati di Vichy nella mensa ufficiali della caserma Sidney
Smith. Prima delle dieci di sera raggiunsero l’accordo per un
cessate il fuoco, e un altro giorno e mezzo di trattative portò
alla firma di un trattato che assegnava agli inglesi il completo
controllo di tutti i territori francesi in Siria e Libano. Il
trattato dell’armistizio recava la data del 14 luglio, giorno della
presa della Bastiglia e festa nazionale in Francia, ma non fu un
giorno di patriottismo e orgoglio, bensì di resa totale.
Una simile campagna
alleata aveva sconfitto i ribelli nazionalisti in Iraq,
assicurandosi così i giacimenti petroliferi del Paese, e si
progettava di fare altrettanto in Iran. Un’enorme striscia del
Medio Oriente era ormai saldamente in mano agli Alleati. Nel
deserto si era giunti a una sorta di stallo. Il generale Wavell non
era riuscito a ricacciare Rommel e soccorrere Tobruk assediata,
pertanto era stato rimosso dall’incarico. Ma per Rommel era arduo
avanzare: le sue linee di comunicazione erano ridotte male, e le
forniture di carburante, cibo e acqua dovevano affrontare un lungo
e pericoloso viaggio nel deserto per raggiungere il suo
esercito.
Ma tutto ciò era ormai
diventato secondario: era iniziato un nuovo conflitto, che faceva
sembrare una semplice scaramuccia qualsiasi altra campagna bellica
organizzata fino a quel momento. Hitler aveva rinnegato il proprio
trattato di pace con Stalin per impegnare l’intera potenza della
sua macchina bellica contro l’Unione Sovietica. Era l’Operazione
Barbarossa, la più imponente della storia.
La carneficina sul
fronte orientale era iniziata.
«Sai, Meerbach, credo che potresti aver
ragione, dopotutto», affermò Schrumpp durante una tranquilla e
luminosa serata estiva. «Persino io comincio a stancarmi di
uccidere i russi nei loro aerei decrepiti. Mi fa quasi rimpiangere
i tempi degli Spitfire e degli Hurricane: abbattere uno di quelli
sì che dava soddisfazione.»
Erano davanti all’enorme
tenda che fungeva da mensa ufficiali, montata accanto a un campo di
aviazione in mezzo agli sconfinati campi di frumento
ucraini.
Gerhard sorrise. «Ci
sono ancora speranze di trasformarti in un
gentiluomo!»
La squadriglia aveva
interrotto le operazioni, per quel giorno, ma udirono il ronzio di
motori aerei proveniente da sud-ovest.
«Non può essere uno dei
nostri. Dal rumore si direbbe un Tante Ju.»
«Allora dev’essere
importante», ribatté Gerhard.
Soltanto gli ufficiali
di più alto livello e i funzionari del partito venivano trasportati
sul fronte dagli aerei di linea Junkers Ju 52, requisiti dalla
Wehrmacht per il servizio bellico.
«Pensi che dovremmo
sforzarci di assumere un aspetto un po’ più da ufficiali tedeschi?»
chiese Schrumpp, passandosi una mano sul mento non
rasato.
«Fossi in te non me ne
preoccuperei, probabilmente non sono qui per noi.»
Il trimotore atterrò e
rullò fino a fermarsi. Una Mercedes di servizio scoperta sbucò
all’improvviso da dietro la torre di controllo – o da ciò che ne
restava, dopo che i russi in ritirata avevano cercato di
distruggerla – e sfrecciò sull’erba riarsa per raggiungere i nuovi
arrivati.
«Ecco qua», disse
Schrumpp, quando il portello della fusoliera si aprì e un membro
dell’equipaggio vi piazzò sotto una scaletta a pioli. Due uomini
scesero dall’aereo, uno in uniforme e l’altro in completo elegante
e cravatta, con una ventiquattrore.
«Cosa ci fa qui un
SS-Brigadeführer?» si chiese Gerhard.
L’altro si strinse nelle
spalle. «Molto strano. In Francia o Grecia non li si vedeva quasi
mai, mentre adesso l’intero Paese brulica di questi tizi. Ne stavo
giusto parlando l’altro giorno con Rolf, che dice che esiste un
nuovo tipo di unità di SS. Le chiamano unità operative e ci seguono
ovunque.»
«E qual è il loro
compito?»
«Non ne ho idea, ma
trattandosi delle SS dev’essere legato agli ebrei. Forse sono qui
per progettare le nuove patrie di cui parlano continuamente.
Insomma, è quello il piano, giusto? Spedire via dal Reich i giudei
e scaricarli tutti qui. Come se non avessimo già abbastanza da fare
con la conquista della Russia senza doverci preoccupare anche di
loro. Ach, al diavolo! Vieni, vecchio mio, andiamo a cercarci
un’altra birra...»
Gerhard tornò nella
tenda, distraendosi mentre l’amico prendeva i drink, gli passava un
bicchiere e cominciava a parlare con altri piloti. Lui trasaliva
ogni volta che sentiva Schrumpp o un altro compagno di squadriglia
menzionare i «giudei» o gli «sporchi ebrei», ma alla veneranda età
di trent’anni era un veterano, rispetto alla maggior parte di loro.
Erano ingozzati di propaganda nazista sin da scolaretti, non
conoscevano altro. Comunque Schrumpp aveva ragione, quella campagna
era diversa dalle altre.
Quando avevano invaso la
Francia nessuno aveva insinuato che i francesi fossero una razza
inferiore, sarebbe stato assurdo, ma sin dal primo momento in cui
erano stati informati del vero scopo dell’Operazione Barbarossa la
campagna era stata presentata come una guerra fra razze: i nobili
ariani tedeschi contro gli slavi e gli ebrei subumani. Le pellicole
propagandistiche erano colme di immagini di uomini brutti, con il
naso adunco e l’aria subdola, che incarnavano ogni stereotipo
dell’ebreo malvagio, infido, implicato in incessanti complotti. E
benché le parole non venissero mai pronunciate ad alta voce, il
tono di tutto il linguaggio del partito era inconfondibilmente
distruttivo: quelle erano persone che non dovevano solo essere
sconfitte o persino ridotte in schiavitù, ma
annientate.
Gerhard non riusciva
nemmeno lontanamente a capire cosa significasse. Come si poteva
spazzare via dalla faccia della Terra un’intera razza? Era
inconcepibile. Ma non sopportava di vivere in un mondo in cui
simili idee potevano essere espresse come principi guida di una
nazione, né riusciva a capire come lui e Saffron avrebbero mai
potuto ricongiungersi o vivere insieme in modo pacifico in un mondo
del genere. Naturalmente non si poteva fraternizzare con il nemico
in tempo di guerra, era normale, ma aveva l’impressione che in caso
di vittoria nazista i popoli sconfitti sarebbero sempre stati
considerati nemici da umiliare, sfruttare e rendere schiavi. Non
era certo previsto che li si amasse, e men che meno che li si
sposasse.
Quindi cosa devo fare?
si chiedeva.
Si era sempre detto che
non combatteva per Hitler, bensì per la Germania. Non c’era nulla
di disonorevole nel servire il proprio Paese, il suo Paese. Ma
esisteva ancora una distinzione fra il nazismo e la Germania? E, in
caso contrario, cosa doveva fare un uomo retto, in nome di
Dio?
Saffron era sdraiata accanto alla piscina del
King David Hotel, sfoggiando un bikini bianco, leggendo
Rebecca, la prima moglie e sorseggiando
birra da un bicchiere infilato in un secchiello del ghiaccio, per
mantenerla bella fredda. La birra le stava facendo venire sonno,
così posò il libro sulle piastrelle accanto alla sdraio e si mise
comoda. Era il suo primo giorno di licenza dopo settimane di
frenetica attività e un sonnellino pomeridiano le sembrava il
massimo del lusso.
Stava giusto per
assopirsi, quando sentì una voce familiare. «Salve, Saffron. Non è
certo come Oxford a novembre, vero?»
Si mise a sedere, scosse
energicamente la testa per svegliarsi e si riparò gli occhi dalla
luce per vedere in faccia il suo interlocutore. «Buon pomeriggio,
Mr Brown. Spero non abbiate fatto tutta questa strada solo per
vedere me.»
Lui fece uno dei suoi
sorrisetti enigmatici. «Posso?» Si accomodò sul bordo della sdraio
accanto alla sua e la guardò con la sua solita sconcertante
schiettezza. Il suo sguardo non aveva nulla di viscido o
minaccioso, ma la mise comunque a disagio.
«Prego», disse lei,
cercando di mantenersi lucida.
Mr Brown appariva lindo
e azzimato come al solito. Aveva sostituito il completo scuro di
lana che indossava solitamente in Inghilterra con uno di lino
grigio chiaro, ma portava colletto rigido e cravatta a dispetto del
caldo. Si rimise in testa il panama che si era tolto per salutarla
e rimase lì senza parlare, con aria soddisfatta.
Lei si guardò intorno.
Il suo leggero caftano di cotone era per terra, dietro la borsa.
«Vi dispiace se mi infilo qualcosa addosso?»
«Prego, fate pure»,
replicò Brown, continuando a fissarla.
«Vi dispiace distogliere
lo sguardo?»
«Certo, che
villano.»
Saffron prese il
caftano, comprato in uno dei banchi del mercato del Cairo preferiti
di sua nonna, e se lo fece passare sopra la testa, poi infilò la
mano nella borsa, trovò il portacipria e si osservò nello
specchietto. Sistemò alcune ciocche ribelli nel foulard che portava
intorno alla testa e si mise il rossetto: era un tocco di pittura
di guerra, per prepararsi alla battaglia verbale.
Mr Brown, nel frattempo,
aveva notato un cameriere. «Portatemi un tè, per favore. Lapsang
Souchong se lo avete, altrimenti un Earl Grey. Niente latte né
zucchero, ma gradirei qualche fettina di limone. Grazie.» Si
rivolse di nuovo a Saffron. «Ho saputo di vostro zio. Davvero
impressionante.»
«In che
senso?»
«Be’, sapevo che
possedevate un’indubbia forza mentale da utilizzare, dopo il debito
addestramento, per questo genere di lavoro. E avete dimostrato in
due diverse occasioni una mirabile audacia e un notevole
autocontrollo in battaglia. Tuttavia non vi credevo capace di
pianificare e mettere in atto impunemente un omicidio a sangue
freddo con una simile efficienza, e tutto da sola.»
«Non si è trattato di
omicidio, ma di autodifesa. Sono stata aggredita», replicò Saffron
con la massima calma, pur sentendo accelerare il battito cardiaco
alla semplice menzione del termine «omicidio».
«Vedete, ciò dimostra
che ho ragione. Vi ho appena accusata di un grave crimine e voi mi
guardate dritto negli occhi, tranquilla come non mai, e negate di
averlo commesso.»
«Non mi è piaciuto
ucciderlo, sapete.»
«Lo spero ardentemente,
perché altrimenti sareste una psicopatica e non vorrei mai una cosa
del genere. Gli psicopatici sono inaffidabili, antepongono sempre i
propri desideri al dovere. Ma ora basta con la psicologia
spicciola. Ci avete fatto un enorme favore. Sapevamo da tempo che
vostro zio vantava parecchie amicizie indesiderabili. Già prima
della guerra la cosa era a malapena sopportabile, ma dopo l’inizio
delle ostilità... Vostro zio era un vero e proprio traditore e
siamo convinti che abbia fatto assassinare lui vostro zio
David.»
«Pensavo l’avessero
ucciso dei rapinatori.»
«Oppure hanno fatto in
modo che la sua morte sembrasse la conseguenza di una rapina. In
ogni caso, come avrete senza dubbio capito, non potevamo permettere
che il caro zio Francis venisse smascherato pubblicamente, quindi
rimaneva soltanto un modo di risolvere la questione, e voi avete
scelto quello.»
«Mio padre non lo sa»,
dichiarò Saffron, stupita di come fosse facile parlare con Mr Brown
del suo terribile atto. «Ha creduto alla mia storia e preferirei
che la situazione restasse invariata.»
«Naturalmente... Ma, a
proposito di vostro padre, vi ha mai parlato di me?»
«Oh, sì, mi ha detto che
avete trasformato mia madre in una spia e poi mi ha spiegato cosa è
stata costretta a fare lei.»
«Mmm...» Mr Brown ci
pensò su, poi si illuminò. «Ah! È arrivato il tè,
magnifico!»
Il cameriere avvicinò un
tavolino, vi posò sopra la teiera e stava per versare, quando lui
alzò una mano.
«No, grazie, preferisco
farlo da solo.»
L’uomo si accigliò.
Saffron gli disse qualche parola in arabo, accompagnata da gesti
che chiarirono il concetto. «Ah, benissimo», disse il cameriere,
poi si allontanò.
Mr Brown si diede da
fare con il tè, poi, senza guardarla, chiese: «Quali lingue
parlate?»
«Parlo lo swahili e il
masai, e ho un’infarinatura di afrikaans e arabo, anche se
quest’ultimo non lo so né leggere né scrivere. Quanto alle lingue
non africane, in tedesco potrei leggere un giornale e sostenere una
conversazione, ma non certo passare per madrelingua.»
«Non ancora. Ma vostra
madre c’è riuscita.»
«Volete che faccia la
stessa cosa che ha fatto lei? È per questo che siete venuto? Perché
non ne ho la minima intenzione.»
«Non ho mai pensato il
contrario. Sono venuto a proposito di un tipo di attività ben
diverso.» Sorseggiò il tè con aria pensierosa, concentrandosi sulle
proprie papille gustative. Emise un breve mugolio di compiaciuta
approvazione e poi continuò: «Circa un anno fa, Mr Dalton, ministro
dell’Economia bellica, ha autorizzato la formazione del cosiddetto
Comitato Tecnico Congiunto, un nome che si poteva inserire nelle
richieste di fondi o scrivere sulle porte dell’ufficio senza che
desse nell’occhio».
«Perché suona molto
noioso.»
«Infatti. Ma alcuni dei
suoi sempre più numerosi membri gli attribuiscono una denominazione
più accurata, chiamandolo Ministry of Ungentlemanly Warfare, ossia
un ’ministero della guerra sporca’.»
Lei rise. «Così suona
molto più divertente.»
«Sono lieto che lo
pensiate. Ora lasciate che vi dica la verità sull’esercito privato
di Mr Dalton. Il suo vero nome è Esecutivo Operazioni Speciali e ha
lo scopo di infiltrare agenti nell’Europa occupata perché fungano
da collegamento con gruppi di resistenza locali, organizzino reti
spionistiche, effettuino ricognizioni sulle posizioni e operazioni
nemiche, eseguano atti di sabotaggio e, in pochi casi particolari,
uccidano uomini malvagi la cui morte salverà una miriade di vite
innocenti.»
«E voi credete che sarei
adatta a quel compito.»
«Ne sono sicuro. Le
missioni affidate agli agenti di quell’unità saranno estremamente
rischiose. Le probabilità di essere catturati, torturati dalla
Gestapo e poi spediti in un campo di concentramento, o
semplicemente fucilati, saranno così alte da rasentare la certezza.
Il mio compito, quindi, è reclutare alcuni dei ragazzi e delle
ragazze più dotati dal punto di vista intellettuale e fisico che
vanti la nostra nazione, così che li si possa addestrare a dare la
vita per il Paese. Lo faccio perché so che le missioni di cui si
incaricheranno saranno della massima importanza. Le loro vite non
saranno sprecate né il loro sacrificio inutile.»
«State cercando di
appellarvi al mio idealismo? Non sono sicura di possederne
molto.»
«No, mi sto appellando
alla vostra correttezza. Vi ritengo corretta, Miss
Courteney.»
«Mi viene in mente
almeno una persona che non sarebbe d’accordo con voi.» Lo disse con
disinvoltura venata di amarezza, non aspettandosi certo di essere
capita. Sottovalutava Mr Brown.
«Vi riferite a Fräulein
von Schöndorf?»
Saffron capì subito cosa
intendesse. «Come fate a saperlo? Com’è possibile che lo
sappiate?»
«Potete anche non
crederci, ma mi trovavo a un ricevimento nuziale quando ho sentito
parlare di cosa avete combinato a St. Moritz. Due sciocchine
spettegolavano su di voi e sull’uomo che ho poi scoperto essere
Gerhard von Meerbach.»
«E ora volete usarlo
contro di me?»
«È un modo ben poco
clemente di definire la situazione, ma resta il fatto che avete
avuto – e sospetto abbiate tuttora – una relazione con il rampollo
di una delle grandi dinastie industriali tedesche, il cui fratello
è un alto ufficiale delle Schutzstaffel naziste, le
SS.»
«Sono al corrente
dell’attuale grado di Konrad von Meerbach e delle sue idee
politiche. E sono sicura che sappiate che potreste rendermi la vita
molto difficile, Mr Brown. Quindi sospetto che siate venuto qui
pensando che, se non riuscivate a convincermi con le buone a
prendere parte a questa vostra faccenda dell’Ungentlemanly Warfare,
avreste potuto usare il ricatto. Ma arrivate tardi, non potete
usare Gerhard von Meerbach come arma contro di me. È
morto.»
Ah! Vi ho colto di sorpresa, vero? pensò
Saffron.
Doveva ammettere che
anche lei era stupita. Non aveva mai pensato di utilizzare la falsa
notizia della morte di Gerhard come una mossa tattica, ma poi si
era resa conto che, se Gerhard era morto, Brown non poteva usarlo
contro di lei. Prese la sua borsa. «Avevamo trovato il modo di
comunicare, grazie a un metodo elaborato e tortuoso che richiedeva
secoli, ma funzionava. Ecco come l’ho scoperto...» Gli passò il
telegramma. «Vedete, è morto. Abbiamo passato alcuni giorni insieme
in Svizzera all’inizio del ’39 e qualche altro giorno a Parigi a
Pasqua. Non abbiamo fatto niente di male, ci amavamo perdutamente
e, se non fosse scoppiata questa guerra orrenda e abominevole, ci
saremmo sposati. Ma adesso lui è morto, quindi è tutto
finito. Kaputt.»
«Miss Courteney, mi
rincresce terribilmente.»
«Non ne avete motivo.
Non mi avete ricattata e di certo non avete ucciso voi Gerhard.
Ora, riguardo all’offerta di lavoro che stavate per farmi...
accetto. Voglio rendermi utile, proprio come ha fatto mia madre
durante l’ultimo conflitto. Sono molto grata al generale Wilson per
avermi permesso di fargli da autista, ma so di poter fare di più.
Credo di averlo dimostrato anche a voi.»
«Sicuramente.»
«In tal caso
consideratemi dei vostri. Ho soltanto una richiesta.»
«Ditemi.»
«Prima di firmare sulla
linea tratteggiata, vorrei tornare a casa, in Kenya. Se devo
rischiare la pelle, prima devo parlare con una
persona.»
Di ritorno da una missione, Gerhard sorvolava
Kiev, passando sopra il Dnepr a un’altitudine di non più di
trecento metri e scendendo a velocità costante, mentre si
avvicinava con i compagni alla base aerea russa abbandonata che era
la loro nuova casa.
Qualcosa attirò il suo
sguardo mentre sfrecciava sopra una zona di terreno aperto ai
margini della città. Sarebbe stato pronto a giurare di avere visto
una lunga fila di donne, tutte completamente nude, fiancheggiate da
uomini in uniforme, e poi un lungo fossato con qualcosa sul fondo.
Era una catasta di corpi? Impossibile, vero?
Una volta atterrato,
chiese a un paio di altri piloti se avessero visto
qualcosa.
«Io no, amico», rispose
Willi Kempen. «Forse era legato all’unità operativa delle SS che è
arrivata qualche giorno fa. Ho saputo che avevano affisso dei
manifesti che ordinavano a tutti i giudei di radunarsi nei pressi
del cimitero alle otto di stamattina, portando denaro, documenti,
indumenti pesanti. Si direbbe che stiano per mandarli da qualche
parte.»
«Un paio di giorni fa ho
sentito un maggiore dell’esercito discutere con uno di quei
bastardi delle SS», raccontò Schrumpp.
«Ehi, Bertie, bada a
come parli! Non sai che il fratello dell’aristocratico capitano
della nostra squadriglia fa parte delle SS?»
«Verissimo», confermò
Gerhard, «ma è anche un autentico bastardo.»
Quando le risate si
spensero, Schrumpp tornò alla sua storia. «Quindi questo maggiore
stava dicendo: ’Chi farà tutto il lavoro se uccidete i miei ebrei?
Ho bisogno di falegnami che riparino i carri e di meccanici per i
miei camion. Come faccio a rifornire i miei ragazzi su al fronte se
non riesco a riparare i dannati camion?’»
«E cosa ha risposto
l’uomo delle SS?» chiese Gerhard.
«Ha detto che se ne
infischiava altamente di carri e camion. La sua unità aveva
l’ordine di eliminare fino all’ultimo giudeo presente a Kiev e
quello era quanto. ’Se la cosa non ti piace, manda una lettera di
reclamo al Reichsführer
Himmler’, ha detto, testuali
parole.»
Più tardi, quello stesso
pomeriggio, Gerhard esaminò le cartine della zona. L’area che aveva
sorvolato era indicata come Babij Jar. Prese mentalmente nota della
sua posizione esatta rispetto al campo di aviazione, poi andò a
chiedere a Rolf il permesso di effettuare un rapido volo di prova.
«Voglio solo controllare i flap sulla mia ala destra. Stamattina i
comandi sembravano un po’ rigidi. Se c’è un problema, posso farlo
sistemare in tempo per la missione di domani.»
«Perché darsi tanto
disturbo? Potresti volare anche senza flap e i russi non
riuscirebbero comunque ad abbatterti!»
Lui non
replicò.
«Oh, d’accordo, fai
pure, ma cerca di sbrigarti. Non possiamo sprecare carburante senza
motivo.»
Gerhard decollò. Si
esibì in qualche acrobazia a beneficio di chiunque guardasse da
terra, non per fare sfoggio di bravura ma solo perché era ciò che
avrebbe fatto se fosse stato davvero impegnato a testare la
funzionalità dell’aereo. Si lanciò in un’ultima picchiata e poi
riprese l’assetto orizzontale a un centinaio di metri dal suolo,
rallentò fino a procedere a poco più di centottanta chilometri
orari, la velocità minima, per avere una perfetta visuale su quanto
stava succedendo sotto di lui. Si rese conto che il fossato visto
in precedenza faceva parte di un burrone naturale. Era pieno zeppo
di cadaveri, a quanto pareva ebrei, ormai così numerosi da
traboccare quasi. Vide uomini e donne nude che venivano condotti
fin sul bordo della trincea e disposti in una lunga fila, poi vide
gli uomini delle SS – uno per ogni ebreo – puntare loro la pistola
alla testa, sparare e farli volare nel burrone sotto la spinta del
proiettile che gli si conficcava nel cranio.
Sorvolò la zona tre
volte. Durante l’ultimo passaggio scrollò leggermente le ali
dell’areo, come se volesse congratularsi con gli assassini
sottostanti per l’ottimo lavoro che stavano facendo nello
sterminare gli ebrei ucraini. Poi tornò alla base.
«I flap sono a posto,
signore?» chiese il meccanico, quando lui scese con fatica
dall’abitacolo.
Gerhard annuì, riuscì a
malapena a rispondere. «Perfetti», disse, e si costrinse a fare un
sorrisetto tirato, amaro. Tornò nella caserma in cui era
alloggiato, andò subito in bagno e vomitò nel lavandino. Una volta
svuotato lo stomaco, si sciacquò la bocca e raggiunse la mensa
ufficiali, dove bevve fino a ubriacarsi in maniera mesta ma
determinata, restando seduto da solo e cacciando con un gesto gli
altri piloti.
Lo lasciarono stare.
Parecchi uomini avevano motivo di stordirsi con l’alcol,
ultimamente. Erano cose che succedevano, e nessuno li stimava meno
per quello. Così Gerhard svuotò la bottiglia e intanto si rese
conto che quanto aveva visto a Babij Jar, benché stesse succedendo
lontano dal Reich, lontano dagli occhi del suo popolo, era la vera
faccia dell’impero nazista, l’autentica fede che un giorno sarebbe
stata praticata con venerazione nell’enorme e incredibile edificio
su cui lui aveva sgobbato così a lungo. Quella era l’oscurità
nell’anima di Hitler portata alla luce, sguinzagliata contro il
mondo.
Izzy si sbagliava: non
esisteva più nessuna distinzione fra nazismo e Germania. Era
impossibile per chiunque fosse dotato di coscienza sostenere che
stava combattendo per l’onore e l’orgoglio della Germania, perché
ormai quest’ultima apparteneva a Hitler. Il Führer aveva
trionfalmente dimostrato di avere ragione: erano tutti suoi
schiavi, i soldati e il popolo, e lui poteva farne ciò che
voleva.
La mattina dopo rimase
fermo sulla pista con il suo aereo, in attesa di decollare in
missione, pregando che le pillole che prendevano tutti per restare
svegli facessero effetto prima che si addormentasse sul quadro dei
comandi. Quella notte non aveva chiuso occhio, e nel buio aveva
preso una decisione: Preferirei morire piuttosto che vivere nel
mondo di Adolf Hitler. E non può esserci nessuna speranza per me,
per Saffron o per il nostro amore finché lui è vivo, quindi devo
dedicarmi al tentativo di annientare lui e tutte le sue coorti.
D’ora in poi sarà questo lo scopo principale della mia
vita.
Stava spuntando il sole
e nulla era cambiato. Gerhard von Meerbach aveva giurato di
dedicare la propria vita allo sforzo di liberare la Germania, e il
mondo, dalla letale morsa del nazismo. Non aveva idea di come farlo
o di chi sarebbero stati i suoi alleati, sapeva solo che andava
fatto. E con quel tetro pensiero in mente rullò sulla pista, puntò
il muso del Messerschmitt verso est e decollò, sfrecciando verso i
primi raggi dorati del sole che sorgeva.
Saffron era in cammino sin dall’alba.
Osservava la montagna che sbucava dall’oscurità con la colossale
scarpata della Rift Valley alle spalle, scintillava della luce
dorata dell’alba e poi appariva in tutta la sua imponenza quando la
foschia che ne ammantava la vetta si fu diradata. Il carburante era
così razionato che non sarebbe potuta andare fin lì in auto dalla
residenza dei Courteney, e volare era fuori questione, ma era
felice di avere camminato per un giorno fino a otto chilometri
dalla montagna e di avere trascorso la notte sotto le stelle. A
ogni passo, a ogni boccata di aria del Kenya si sentiva più a casa.
Per le prime ore aveva attraversato terreni agricoli e piantagioni,
fermandosi ogni tanto a parlare con i braccianti. Aveva
riacquistato in un attimo la padronanza dello swahili e del masai,
e ricordava il nome e il viso delle persone che incontrava. Molti
erano uomini e donne che conosceva sin da bambina e che la
accolsero come una figlia tornata dopo molto tempo, mentre Manyoro
rimaneva in disparte, sorridendo come un padre orgoglioso per
l’ottima impressione che lei faceva.
Saffron adorava i larghi
sorrisi, la risata pronta e le forti emozioni che incontrava lungo
la strada, la splendida cordialità africana così diversa dal
carattere insulso, riservato e cupo di molti inglesi. Non la
infastidiva nemmeno che tutte le donne anziane le chiedessero se
aveva un marito e, in tal caso, quanti figli gli aveva dato.
Rimanevano sconvolte scoprendo che era ancora sola e senza figli.
Spiegò più volte che le sarebbe piaciuto averne ma che c’era una
guerra in corso ed era troppo impegnata a servire il suo Paese per
sposarsi e fare figli.
A quel punto Manyoro
scuoteva il capo per manifestare il proprio sconcerto misto a
tristezza, e concordava con tutte le sagge donne masai: non c’era
davvero limite alla stupidità delle ragazze ostinate. Ma prometteva
che avrebbe fatto un bel discorsetto alla nipote, per rammentarle
quali fossero i suoi veri doveri.
Aveva insistito lui per
accompagnarla. «Sei la figlia di mio fratello, mia regina, e stai
per andare da mia madre. È naturale che io venga con te per
proteggerti. Nessun uomo e nessun animale oserebbero mai
disturbarti mentre cammino al tuo fianco.»
Saffron era felice di
godere della compagnia di Manyoro. Era fiera della propria
indipendenza, sapeva di essere in grado di combattere e di prendere
decisioni difficili convivendo con le conseguenze, ma le piaceva
comunque sentirsi protetta e sicura in compagnia di una figura
paterna che adorava, e il cui amore per lei era tiepido e
confortante come un falò in una fredda giornata
invernale.
Sapeva inoltre che, per
quanto sugli atti di proprietà di Lusima ci fosse il nome di Leon
Courteney, e per quanto gli introiti delle sue aziende agricole
finissero nel suo conto in banca, in realtà era Manyoro il re di
tutto ciò che controllava. Veniva salutato dal personale della
tenuta e dalle rispettive famiglie con il profondo rispetto dovuto
a un sovrano, e rispondeva con il contegno regale di qualcuno che
amava la sua gente ma ne era comunque il capo.
Non era tuttavia un
sovrano del tutto soddisfatto. «Ci credi che ho offerto i miei
servigi ai King’s African Rifles e sono stato respinto, con la
motivazione che sono troppo vecchio? Ah! Guardami, forse non sono
ancora un possente guerriero?»
«Sei davvero il più
possente dei guerrieri, zio Manyoro», confermò Saffron. Era vero:
era ancora fiero e prestante, pur sfiorando ormai almeno la
settantina. «È scandaloso che questi sciocchi ti abbiano dato le
spalle, ma in fondo mio padre non ha mai fatto segreto del suo
disprezzo verso gli alti ufficiali del suo reggimento, come tu ben
sai.»
Manyoro annuì.
«Verissimo. E aveva motivo di avercela con loro, perché erano
sciacalli bugiardi che lo hanno tradito con menzogne e
ingiustizia.»
«Quindi non dovresti
prenderla sul personale. Quegli uomini non ti meritano. E comunque
la tua gente ne soffrirebbe, se tu andassi in guerra. Hanno bisogno
di te, e noi abbiamo bisogno degli alimenti che coltivano e della
carne del bestiame che allevano. Credimi, zio, la mia gente ha
fame. Vengono attaccati su tutti i fronti, hanno bisogno di tutto
quello che potete dare loro. Quindi tu e tutta la tua gente della
tenuta di Lusima rendete un enorme servizio al re e
all’impero.»
«Vedo che dici la
verità, mia regina, e ti ringrazio per questo. So che adesso tua
madre ti guarda dall’alto e ha il cuore colmo di orgoglio, nel
vedere che la figlia è diventata una donna così splendida e
coraggiosa. E so che mia madre si colmerà di gioia nel rivederti,
perché sei come una nipote per lei.»
Mentre il sole saliva
verso lo zenit, Saffron risalì il sentiero montano con Manyoro,
attraversando la bassa striscia di nubi oltre la quale la secca
vegetazione della savana, l’erba e le acacie lasciavano il posto
alle lussureggianti foreste montane sempre annaffiate da nebbie e
pioggia. A mano a mano che si avvicinavano alla cima, percepiva la
gioia che sgorgava da Manyoro come limpida acqua sorgiva fra rocce
di basalto nero: si avvicinavano al suo luogo natale, la sua casa
più autentica.
Superarono l’ultimo
tratto di salita, il più ripido, e si ritrovarono sul plateau.
Adesso le grida di gioia erano tutte per Manyoro. I bimbi gli
sgambettarono intorno e lui li salutò tutti per nome. Erano i suoi
pronipoti e lo colmava di orgoglio vederli così numerosi, sani e
ben nutriti. Saffron era già stata lì, quando l’avevano presentata
a Mama Lusima: era prima ancora che andasse alla Roedean, quindi
non poteva aver avuto più di undici o dodici anni. Era stata troppo
giovane per capire fino in fondo l’importanza dell’occasione o
apprezzare l’anziana signora.
Quella volta, però, era
adulta, e provò un timore reverenziale quando Manyoro la condusse
attraverso gli alberi fino al luogo ombreggiato dove sua madre
amava passare le giornate, assisa sullo scranno ricavato dal ceppo
di un albero colossale.
Mama Lusima era così
anziana che sembrava essersi spinta oltre qualsiasi incarnazione
terrena della vecchiaia. Non si alzò per accogliere la visitatrice,
ma le porse una mano e piegò la testa di lato per poter essere
baciata sulla guancia. Con la massima delicatezza possibile,
Saffron le posò le labbra sulla pelle tiepida, asciutta e sottile
come il più impalpabile dei veli. Le ossa della mano di Lusima
parevano così leggere e delicate nelle forti mani della ragazza che
lei temette di spezzarle se avesse fatto pressione. Benché le
membra fossero ancora ben dritte e la struttura ossea del viso
conservasse la sua squisita eleganza, la donna sembrava più eterea
che fisica, più simile a una regina in una fiaba africana che a una
semplice mortale.
Quando Manyoro se ne
andò con discrezione, lasciandole sole, Lusima sorrise e si spostò
per farle posto sullo scranno. «Vieni a sederti accanto a me,
bambina mia.»
Saffron obbedì. Non aprì
bocca: l’intuito le disse che era preferibile lasciar condurre la
conversazione a Lusima. Si lasciò esaminare dagli occhi scuri che
non avevano perso nulla della loro perspicacia, finché l’anziana
donna non sorrise e disse: «Sei una figlia degna dei tuoi genitori.
Hai la bellezza e il coraggio di tua madre, e la forza e lo spirito
combattivo di tuo padre. Mi piacerebbe molto conoscere colui che
tanto ami, dev’essere un uomo davvero eccezionale».
Grazie alle storie
raccontate dal padre sul suo primo incontro con Lusima, Saffron
sapeva che la donna vantava la sconcertante capacità di sapere
tutto già prima che l’interlocutore pronunciasse una sola parola,
ma non riuscì comunque a impedirsi di boccheggiare. «Come... come
fai a saperlo?»
L’altra scoppiò a
ridere. «Ho il potere di vedere cose che altri non possono vedere,
ma non ho avuto bisogno che mi dicessero che sei innamorata. E
nessun uomo potrebbe conquistare l’amore di una giovane leonessa
come te se non ne fosse davvero degno.»
«Grazie, Mama», ribatté
Saffron, parlando con la formalità che secondo lei meritava una
creatura così venerabile. «Sei tanto gentile quanto saggia. Sono
sicura di non meritare complimenti tanto generosi. E naturalmente
hai ragione, sono innamorata, e lui è un uomo buono, forte e
bello.»
«E sa anche darti
piacere, vero?»
Lei si ritrovò ad
arrossire come una scolaretta. «Sì», rispose, sforzandosi di non
ridacchiare. «Come un leone.»
«Ma adesso siete stati
separati dalla guerra, e vi ritrovate a battervi su schieramenti
opposti mentre la tua tribù lotta contro la sua.»
«Sì, e non so cosa fare.
Sento che dovrei servire il mio Paese, ma non voglio morire... Non
perché abbia paura, è solo che voglio sopravvivere per lui. Quindi
sono combattuta.»
Lusima scosse il capo.
«No, non sei combattuta. La tua testa sarà anche piena di idee
contrastanti, ma la tua anima sa cosa deve fare. E, ancora una
volta, non ho bisogno di una trance né della divinazione per
vederlo. È ovvio. Devi dimostrarti adatta al tuo uomo, proprio come
lui è adatto a te. Ma come potresti essere degna di lui se
scegliessi la via della codardia? Rammenta, bambina, che il leone è
il cacciatore del branco. Anche tu sei una cacciatrice. È questa la
tua natura e non devi rinnegarla. Ora dammi di nuovo la mano.» Le
carezzò la pelle fra le nocche e il polso. «Non lo faccio da
diversi anni», mormorò. «Sapevo di avere la forza necessaria solo
per un unico viaggio finale e che avrei capito quando fosse
arrivato il momento...»
«Ma, Mama...» protestò
Saffron.
«Ssst, bambina. Sei la
luce nella vita di mio figlio M’Bogo. Lo faccio per entrambi...»
Lusima chiuse gli occhi e tacque. Il silenzio si prolungò per
quella che parve un’eternità, poi i suoi occhi si spalancarono,
rovesciati, tanto che se ne vedeva soltanto il bianco. Quando
iniziò la divinazione, si dondolò avanti e indietro come se si
stesse muovendo a un ritmo sovrannaturale, e quando parlò non lo
fece con la sua voce, ma con un tono sommesso, aspro e monocorde
che sembrava più maschile che femminile. «Camminerai accanto alla
morte, ma vivrai... Vedo te, ma non riesco a vedere il leone. Si
trova là ma non può essere riconosciuto. Lo cercherai ma lo
troverai solo quando avrai smesso di cercare, e se lo vedrai non lo
riconoscerai, perché sarà senza nome e sconosciuto, e se i tuoi
occhi si poseranno sul suo viso non lo vedranno, perché non
sapranno che è il suo. E se è vivo sarà come se fosse morto.
Eppure... eppure... devi continuare a cercare, perché, se sarà
salvato, lo sarà solo da te.» La voce che non era quella di Mama
Lusima si zittì, il corpo della donna tornò inerte e poi, come se
si destasse da un sogno, lei si scrollò, batté varie volte le
palpebre, posò lo sguardo su Saffron e sorrise. «Ora sai tutto
quello che è dato sapere, bambina mia.»
«Non la rivedrò più, non in questa vita,
almeno», disse Manyoro, mentre lui e Saffron scendevano lungo il
sentiero di montagna.
«No, non è giusto»,
replicò lei. Non sopportava l’idea di avere accelerato il trapasso
di Lusima.
«Non è questione di
giusto o sbagliato. È la vita, che termina quando deve terminare.
Mama voleva farti sapere che quello che è successo oggi era
destinato a succedere. Non se ne andrà perché tu sei venuta:
piuttosto ha vissuto fino al tuo arrivo.»
Lei annuì, accorgendosi
che le parole di Manyoro le sembravano vere, persino inevitabili,
in un modo che non avrebbe saputo spiegare fino in
fondo.
«Spero che tu abbia
appreso quello che avevi bisogno di sapere.»
«Sì. Ho saputo che io e
il mio amore siamo fatti l’uno per l’altra. So che siamo destinati
a stare insieme. So che il suo destino può realizzarsi solo se lo
aiuto. E lo farò, Manyoro, te lo giuro... Lo farò.»