«Fossi in voi, capitano, non ascolterei nemmeno una parola di quello che dice mio padre», affermò Saffron, raggiungendoli e concedendosi il breve piacere di abbracciare l’alta, solida e confortante figura paterna. «Sa benissimo che, quando questa guerra orrenda finirà, assumerò io il controllo di ogni cosa.»
«Fossi in te non ne sarei così sicuro, signorina», ribatté Leon, fingendosi seccato. Poi la strinse forte e la baciò sulla testa, proprio come faceva quando era bambina.
Lei provò la stessa sensazione di allora, come se un muro la proteggesse da qualsiasi male il mondo potesse scagliare contro di loro, come se niente potesse andare storto.
A quel punto Jamie Randolph scese la scaletta su un lato del ponte di comando ed entrò ad annunciare: «Stanno arrivando. Stuka con una scorta di caccia Messerschmitt. Credo ci saranno addosso fra un paio di minuti. Meglio dare l’allarme».
McAloon fece suonare due volte la sirena e in tutta la nave gli uomini scattarono in azione. Giù nella sala motori le turbine vennero portate ancor più oltre i limiti per spremerne fino all’ultimo briciolo di velocità: più procedevano spediti e più sarebbero stati difficili da colpire.
Gli uomini assegnati alle mitragliatrici presero posizione, così come chi aveva le conoscenze necessarie per eseguire riparazioni d’emergenza. Leon aveva preso la precauzione di reclutare per il viaggio il miglior ufficiale medico dell’azienda, che era pronto in infermeria con un paio di inservienti. Il silenzio calò sul piroscafo mentre gli uomini si rifugiavano nei propri pensieri, nei propri timori, nel proprio amore per tutti i cari che avevano lasciato a casa e rischiavano di non rivedere mai più.
E poi, simili allo scoppio di un temporale, i primi Stuka planarono verso la nave e la battaglia ebbe inizio.
Saffron aveva sentito più volte il grido degli Stuka in picchiata, nei cinegiornali. Era il suono del Blitzkrieg, il suono dei nazisti che schiacciavano chiunque si trovasse sul loro cammino. Ma nulla l’aveva preparata per il volume e l’aggressione quasi fisica di quello strillo da banshee che si faceva sempre più acuto e stentoreo, echeggiando sul ponte di comando. I primi tre aerei si lanciarono in picchiata sulla loro preda, l’urlo del motore che diventò quasi isterico appena prima che i velivoli sganciassero le loro bombe, una dopo l’altra, a intervalli di pochi secondi, tornando poi in assetto orizzontale e cabrando.
Durante i primissimi minuti fu una battaglia che lei udì, più che vedere. Il frenetico crepitare delle mitragliatrici Vickers che tentavano disperatamente di respingere gli assalitori, poi il ruggito dei caccia tedeschi e il martellare delle loro mitragliatrici mentre si lanciavano all’attacco cercando di ridurre al silenzio quelle della Star of Khartoum in modo che gli Stuka potessero finire la preda a loro piacimento, il boato della voce del capitano McAloon mentre ordinava di far procedere la nave a zigzag, affinché fosse più difficile da colpire per i caccia.
La manovra funzionò. Le prime tre bombe mancarono il bersaglio, provocando enormi geyser che si abbatterono come onde anomale sui ponti della Star, senza però provocare gravi danni. Ma se ne registrarono comunque: le squadre antincendio spensero le fiamme provocate da uno dei proiettili incendiari dei Messerschmitt nella tuga di poppa, sopra la quale era stata montata la batteria posteriore. L’incendio andava spento, o avrebbero dovuto abbandonare le mitragliatrici.
Poi ricomparve Randolph, con il viso terreo per lo shock e il dolore: il braccio sinistro gli penzolava insanguinato e inerte lungo il fianco. «Tre dei miei uomini sono a terra. Una delle batterie è fuori uso. Le mitragliatrici funzionano, solo che non c’è nessuno a manovrarle. Può darmi qualcuno, capitano?»
McAloon non mostrò nemmeno di averlo sentito. Molto probabilmente non l’aveva fatto: la cacofonia della battaglia era assordante e governare la nave richiedeva tutta la concentrazione del capitano.
Ma Saffron lo sentì. «Lo faremo noi!» gridò. Guardò il padre. «Forza, andiamo!»
Lui ebbe un attimo di esitazione, come se volesse consigliarle di rimanere al riparo, ma poi annuì e la seguì fuori.
«Le mitragliatrici sparano a coppie, un mitragliere per ognuna!» urlò Randolph mentre li accompagnava su per la scala, reggendosi alla ringhiera con la mano sana. «Non preoccupatevi per le munizioni, si caricano da sole. Ci sono due volantini, uno fa ruotare il supporto e l’altro controlla l’elevazione delle mitragliatrici. Capirete subito come funziona.»
Salendo dietro di lui, Saffron si rimise gli occhiali scuri, sapendo che era un gesto frivolo ma pure che il bagliore del sole di mezzogiorno sarebbe stato accecante. Arrivarono al ponte superiore. Solo due ore prima le era sembrato un posto incantevole e arioso, ma in quel momento si sentì completamente esposta, senza nulla a proteggerla dai proiettili e dalle bombe mentre lo attraversava di corsa, seguendo Randolph fino alla batteria abbandonata. Accanto alla base delle mitragliatrici c’era un morto, mentre un altro era appoggiato al caricatore a forma di tamburo contenente le munizioni. Saffron riconobbe un marinaio che aveva scherzato con il capitano McAloon prima della battaglia. Gli era rimasto solo metà cranio e la materia cerebrale gocciolava lungo quanto restava del suo viso e sopra il caricatore.
Randolph si sforzò di farsi sentire mentre un Messerschmitt sorvolava la prua puntando verso le mitragliatrici piazzate là. «Dovrete spostarli!»
Leon prese il secondo, trascinandolo via, mentre lei afferrò sotto le ascelle l’altro, facendosi spazio per andarsi a mettere dietro le mitragliatrici.
Il 109 che aveva appena attaccato la prua a volo radente tornò per un secondo passaggio. I serventi alle Vickers laggiù erano riusciti a sopravvivere al primo attacco e stavano ancora sparando quando il pilota scese nuovamente in picchiata, talmente basso sull’acqua da sparare in orizzontale mentre loro facevano altrettanto, come duellanti che si affrontino con le mitragliatrici invece che con la pistola. Poi uno dei mitraglieri venne centrato: il corpo sussultò per una serie di colpi in rapidissima successione che lo scaraventarono all’indietro, e la sezione posteriore del giubbotto di salvataggio si disintegrò in una poltiglia sanguinolenta mentre i proiettili lo attraversavano. Indietreggiò di un passo, poi di un secondo e infine di un terzo prima di cadere, le gambe che si piegavano sotto di lui, le braccia spalancate, gli occhi spenti che guardavano il caccia tedesco, la cui ombra sorvolò fulminea il suo cadavere.
«Prova il volantino!» gridò Leon.
Saffron lo prese. Era largo una trentina di centimetri, montato in orizzontale sopra una barra di metallo, con un’impugnatura verticale che lei poteva afferrare. La ruotò in senso orario e vide le canne delle mitragliatrici puntare verso l’alto, la girò in senso antiorario e tornarono giù.
«Tocca a me!» esclamò Leon, e provò l’identico mezzo di controllo. Ogni Vickers era dotata di un mirino parallelo, con un oculare e una lente rotonda. I cavetti del sistema di puntamento si intrecciavano una sessantina di centimetri più indietro. «Pronta a fare un tentativo?»
Lei annuì.
«Bene. La prua è a ore dodici. Sinistra è ore nove, destra tre e poppa sei. Okay?»
«Sì!»
Sopra di loro, gli Stuka giravano in tondo, aspettando che i caccia portassero a termine il loro compito. Un altro 109 si lanciò all’attacco, deciso a dare il colpo di grazia alla batteria prodiera, raggiungendola dalla direzione opposta a quella dell’aereo precedente.
E le mitragliatrici di prua erano puntate dalla parte sbagliata. Saffron e Leon se ne accorsero nello stesso istante, mentre l’unico servente sopravvissuto correva a occupare la posizione del compagno morto, ruotando freneticamente il volantino abbandonato per rivolgere le armi verso il caccia in arrivo.
Ma non si stava muovendo abbastanza in fretta.
«Ore tre, basso!» urlò Leon.
Cominciò a ruotare il volantino con più energia e rapidità possibili, ma le mitragliatrici si muovevano con lentezza straziante. Saffron girò la sua in senso antiorario, facendola abbassare fino a quando il puntatore non si trovò circa sei metri più su del ponte prodiero.
Il 109 si stava lanciando verso la Star of Khartoum, sempre più vicino.
«Aspetta!» gridò Leon.
L’aereo sfrecciava sopra le onde, le sue mitragliatrici che sparavano.
«Aspetta!»
L’uomo accanto alle Vickers si gettò sul ponte mentre i proiettili rimbalzavano attorno a lui e sui parapetti.
L’aereo era così vicino che Saffron vedeva il casco di pelle e gli occhialoni del pilota nell’abitacolo.
«Fuoco!»
Il crepitare delle quattro mitragliatrici martellò sui padiglioni auricolari di Saffron, ma poi, in un batter d’occhio, il caccia li oltrepassò, volando a bassa quota per un paio di secondi prima di cabrare, per poi inclinarsi in virata e prepararsi a tornare verso di loro.
«Mantieni quell’elevazione, non lo abbiamo mancato di molto. Io le preparo per il prossimo tentativo», disse Leon, mentre riposizionava le mitragliatrici.
Mentre loro erano occupati a prua, un altro apparecchio aveva attaccato la poppa. Sentirono un’improvvisa esplosione dietro di loro. Saffron si voltò per scoprire che l’intera sezione poppiera era in fiamme; non riusciva a scorgere la tuga a causa del fumo, ma poi vide una figura sbucare da quell’inferno, camminando in qualche modo a mezz’aria. Si rese conto che doveva trovarsi sopra la copertura della tuga, quindi era uno dei mitraglieri, ed era avvolto dalle fiamme, una torcia umana, e agitava le braccia e si dava manate sul corpo nel vano tentativo di spegnerle. Incespicò e cadde a terra, poi le lingue di fuoco lo avvilupparono nel loro abbraccio incandescente.
«Saffron! Saffron!»
Lei sentì la voce del padre come se provenisse da un’enorme distanza. Voltandosi, vide il 109 che si avvicinava per un nuovo attacco. Il mitragliere a prua era raggomitolato sull’assito del ponte, le braccia strette intorno alla testa, i nervi a pezzi.
Saffron se ne dimenticò. Guardò nel mirino, immaginando di essere impegnata in una battuta di caccia e che il Messerschmitt fosse in realtà un fagiano o un’anatra: uccidere quell’uccello metallico non sarebbe stato più difficile che ucciderne uno vero.
Leon pensava la stessa cosa. Avendo girato le mitragliatrici verso il caccia, progettava di riportarle indietro, anticipando la rotta del 109: la velocità dell’aereo lo avrebbe portato all’interno del campo visivo del mirino, e il movimento delle Vickers avrebbe fatto sì che la gragnola di proiettili da mezzo pollice descrivesse un arco più ampio, come i pallini di un fucile, aumentando le probabilità che alcuni di essi colpissero il bersaglio.
Il 109 si fece sempre più vicino.
Loro aspettarono di nuovo.
Quando ritenne che fosse il momento giusto, senza aspettare un ordine preciso, Saffron sparò.
Gerhard rimase davvero impressionato. I primi tre Stuka avevano attaccato aspettandosi un lavoretto facile, ma gli inglesi lo avevano reso più arduo del previsto. La Star of Khartoum era sorprendentemente veloce e agile, si muoveva più come una nave da guerra che come un normale piroscafo mercantile e aveva denti affilati, con quelle batterie di mitragliatrici. Così i 109 si erano messi all’opera, sapendo di dover agire in fretta per neutralizzarle, perché ogni pochi secondi persi per attaccare il bersaglio costavano agli Stuka un chilometro di autonomia.
Schrumpp era stato il primo a lanciarsi contro le mitragliatrici di prua e le aveva quasi distrutte. Il privilegio di dare il colpo di grazia spettava a Gerhard, che durante il primo volo radente bersagliò l’area intorno alle Vickers e costrinse l’unico servente rimasto a tuffarsi sul ponte lasciando la sua postazione. Il passo successivo era ficcare alcuni proietti del cannoncino da 20mm montato nel muso del caccia dentro le mitragliatrici stesse, mettendole fuori uso e magari facendone esplodere anche le munizioni.
Tirò la cloche e cabrò, fece una virata, raggiunse l’apice dell’arco che descriveva nel cielo e sfrecciò di nuovo giù, sentendosi schiacciare contro il sedile dalla pressione della picchiata, prima di riprendere l’assetto orizzontale per lanciarsi nuovamente verso la nave. Puntò il muso dell’aereo direttamente contro le Vickers a prua e fece fuoco con il cannoncino e con le mitragliatrici delle ali, vedendo i proiettili traccianti dirigersi verso il bersaglio e poi l’intera batteria di fronte a lui sussultare sotto l’impatto dei colpi. Gli stavano sparando contro dal ponte superiore della nave, alla sua destra. Guardò da quella parte e notò una figura dietro un nido di mitragliatrici; avrebbe dovuto essere un uomo, ma per una frazione di secondo lui vide capelli scuri, occhiali scuri, una donna... un fantasma.
Poi il suo aereo venne colpito.
Gerhard percepì l’impatto dei proiettili che gli frantumavano le ali.
Ogni altro pensiero svanì mentre si concentrava sull’immediato presente. Prima domanda: era incolume? Abbassò lo sguardo e non vide sangue. Tutti i suoi arti funzionavano. Era illeso.
Ormai aveva oltrepassato la nave, riprendendo quota, e i comandi sembravano a posto, ma poi sentì nell’orecchio la voce di Schrumpp: «Vai a fuoco, Meerbach! Il tuo serbatoio supplementare di destra!»
Guardò l’ala e vide le lingue di fuoco sul serbatoio. Non ebbe esitazioni: doveva sbarazzarsene prima che le fiamme si propagassero sull’ala. Premette il pulsante di sgancio, ma senza risultato. Lo premette di nuovo. Il serbatoio rimase dov’era, con il fuoco sempre più diffuso che rischiava di farlo esplodere.
A un tratto la paura gli artigliò le viscere. Non stava volando abbastanza in alto per potersi lanciare con il paracadute, ma se l’aereo colpiva l’acqua era spacciato. E all’improvviso la sua indifferenza verso la morte, la sua perdita di interesse per la vita scomparvero. Il suo innato istinto di sopravvivenza rifiutava di lasciarsi soffocare. Gerhard voleva assolutamente vivere, ma quel maledetto serbatoio rifiutava di sganciarsi.
In un ultimo tentativo disperato iniziò ad azionare flap a casaccio, scrollando su e giù prima un’ala e poi l’altra. Adesso vedeva le fiamme correre lungo il bordo della destra. Lanciò il 109 in ogni possibile acrobazia a cui riuscisse a pensare, virando da sinistra a destra e poi cabrando praticamente in verticale, pregando che la forza di gravità strappasse il serbatoio dal suo alloggiamento, continuando a far oscillare le ali mentre si innalzava nel cielo.
La velocità di salita diminuì mentre il propulsore perdeva a ritmo costante la propria battaglia con la forza di gravità. Aveva quasi raggiunto la velocità di stallo ma non smise di salire, costringendo il caccia a inerpicarsi faticosamente. Il serbatoio poteva esplodere o l’aereo entrare in stallo da un momento all’altro, ed entrambe le opzioni lo avrebbero ucciso.
Non devo morire. Mi rifiuto di morire!
Eppure stava per accadere.
Ma poi sentì il 109 sussultare e alleggerirsi di colpo quando finalmente il serbatoio si sganciò, e fu quello a precipitare nell’Egeo mentre lui si lanciava in una picchiata controllata, facendo in modo che il vento spegnesse le ultime ostinate lingue di fiamma prima che il caccia riacquistasse l’assetto orizzontale.
Adesso però c’era un problema: circa il venti per cento del carburante rimasto era appena scomparso negli abissi marini.
«Tutto a posto?» gli chiese Rolf.
«Credo di sì. Sembra che non ci siano danni ai comandi e il motore funziona perfettamente. Il mio unico problema è il carburante.»
«Allora non sprecarne nemmeno una goccia. Torna verso casa. Con calma. E buona fortuna.»
«No, è tutto a posto, voglio portare a termine il lavoro», affermò Gerhard, e virò inclinandosi per girare in tondo sopra la nave colpita. In base ai suoi calcoli aveva abbastanza carburante per percorrere trecento chilometri.
La base, tuttavia, ne distava quasi quattrocento.
La sua unica speranza era iniziare subito il viaggio di ritorno, eppure qualcosa dentro di lui – lo stesso istinto che pochi minuti prima aveva preteso che sopravvivesse – lo sollecitava a restare. Era una follia, avrebbe dovuto andarsene. Eppure rimase. Persino quando i Messerschmitt completarono i loro voli di attacco e poi virarono verso la terraferma greca, e l’ultimo Stuka sganciò le sue bombe, Gerhard restò sopra la Star of Khartoum fumante e ormai in procinto di affondare.
«Beccato!» Saffron sorrise, esultante, quando vide le fiamme erompere dal caccia tedesco che le sfrecciava accanto. Osservò i disperati tentativi del pilota di sbarazzarsi del serbatoio che poteva annientarlo da un momento all’altro, e ne seguì la cabrata mentre continuava a scrollare freneticamente le ali. Quando alla fine il serbatoio piombò in mare si sentì ingiustamente defraudata del meritato successo, e quando vide il pilota cominciare a girare in tondo sopra la nave, come uno spettatore in attesa di vedere la fine della partita, fu assalita da una furia feroce, impotente.
Ma ormai non c’era più il tempo per pensarci. Gli altri 109 arrivavano da ogni direzione, puntando verso il ponte su cui si trovavano lei e il padre, tentando di metterli fuori combattimento proprio come avevano fatto con le mitragliatrici a poppa e a prua. Altre due batterie erano fuori uso, un altro uomo ucciso e tre feriti. Saffron sentì il ronzio simile a una zanzara rabbiosa dei proiettili che le fischiavano intorno e il frastuono quando colpivano il legno e il metallo, ma lei e il padre rimasero miracolosamente illesi.
Poi i caccia scomparvero su nel cielo, e per un attimo si udirono solo il rombo dei motori della nave, il mare contro lo scafo, le grida dei feriti e le urla degli uomini ancora impegnati nel tentativo di domare l’incendio nella tuga.
Lei si chiese se fosse finita.
E poi udì la risposta nel gemito del primo Stuka. Alzò gli occhi e lo vide tuffarsi in picchiata, un artefatto moderno e insieme primitivo: uno pterodattilo d’acciaio che voleva ucciderli, strillando di gioia davanti alla prospettiva della morte di Saffron.
Leon fece ruotare le mitragliatrici per fronteggiare il mostro e lei le portò alla massima elevazione, dopodiché spararono una lunga raffica, ma senza riuscire a colpire il bersaglio. Un secondo Stuka uscì dalla formazione, e poi un terzo, ed era evidente che stavano tutti per lanciarsi all’attacco. Lei capì che alcuni di essi avrebbero anche potuto mancare la nave, e magari un paio sarebbero stati colpiti, ma uno l’avrebbe sicuramente centrata. Non si poteva fare altro che continuare a sparare, reagendo all’attacco quando la prima bomba mancò il bersaglio, e anche la seconda.
La terza, invece, non sbagliò. Saffron vide la tondeggiante sagoma nera cadere dallo Stuka puntando verso il ponte di poppa. Lo colpì e scomparve sotto l’assito.
Ma non esplose.
Il sollievo fu così intenso da essere quasi sfiancante, ma poi un altro Stuka si lanciò in picchiata e il timore e l’adrenalina rinvigorirono Saffron, che sparò ed ebbe l’impressione di vedere i proiettili penetrare nell’apparecchio. L’abitacolo andò in frantumi e il motore prese fuoco, ma la sirena gemeva ancora e lo Stuka continuava a scendere.
E puntava direttamente verso il ponte superiore.
Lei si lanciò verso la scaletta ma non si prese il disturbo di scenderla, saltando verso il minuscolo settore di ponte alla base dei gradini, accanto a quello di comando. Mentre i suoi piedi toccavano l’assito e lei incespicava e cadeva, lo Stuka si abbatté sulla Star of Khartoum e il mondo parve esplodere intorno a loro.
Lo scoppio mandò in frantumi le finestre del ponte di comando. Se lei non fosse stata a terra, sarebbe stata uccisa da un migliaio di cocci di vetro affilati come rasoi. Per un attimo perse i sensi e quando li riacquistò scoprì che la Star era in fiamme. Impiegò qualche secondo per capire cos’era successo: lo Stuka aveva colpito il ponte superiore all’estremità opposta a quella in cui si trovava lei. Era quindi rimasta al riparo da quasi tutta la violenza della deflagrazione. Non appena se ne rese conto, pensò al padre.
Salì sull’intelaiatura contorta e deformata della scala e, una volta in cima, si trovò di fronte uno spettacolo di totale devastazione. Il fumaiolo al centro del ponte era stato quasi completamente distrutto, ne rimaneva solo un moncone dai contorni frastagliati che sputava fumo nero e oleoso. I resti dello Stuka erano conficcati nel muro laterale della tuga principale, la coda stranamente ancora intatta che ne spuntava obliqua. Tre delle piattaforme delle mitragliatrici erano sparse sul ponte, la quarta era scomparsa.
Ma dov’era suo padre?
Saffron si guardò intorno, tentando di distinguere qualcosa in mezzo al fumo soffocante, poi lo vide bocconi sul ponte mentre tentava di avanzare strisciando, cercando un appiglio con una gamba e trascinando l’altra, inerte. Dietro di lui, sull’assito, a malapena visibile attraverso il fumo, c’era una lucida scia di sangue scarlatto.
Alzò gli occhi. Aveva il viso terreo mentre cercava di puntellarsi su un gomito. Allungò una mano verso di lei e, muovendo soltanto le labbra, disse: «Saffy!»
Lei si coprì il naso per proteggersi almeno in parte dal fumo e corse dal padre che era stramazzato sul ponte, supino e quasi privo di conoscenza, un colorito malsano in volto e la fronte imperlata di sudore, i denti stretti e i lineamenti contorti dalla sofferenza. Saffron scoprì quale fosse la fonte dell’atroce dolore: la gamba destra dei pantaloni era strappata, la carne sottostante a brandelli come se un animale selvaggio l’avesse dilaniata con denti e artigli cremisi, e dal centro dell’orrenda ferita spuntava l’osso del femore, spezzato, scheggiato e dai bordi frastagliati.
Sentì la bile salirle in gola e le lacrime riempirle gli occhi. No! Non puoi mostrarti debole! Non ora! si disse. Si chinò su Leon e sussurrò: «Non preoccuparti, papà, ci sono qua io». Lo afferrò per le ascelle e, dando la schiena alla scala, cominciò a trascinarlo.
Le due estremità dell’osso rotto sfregavano l’una contro l’altra e lui non riusciva a impedirsi di urlare di dolore. Saffron si impose di non udire il suo strazio, limitandosi a tirare con più energia.
La Star of Khartoum era ferita a morte, ma gli Stuka avevano ricevuto l’ordine di distruggerla. Altri due aerei si lanciarono in picchiata. Uno mancò il bersaglio a causa del fumo denso, ma l’altro lo centrò, quasi nello stesso punto della bomba inesplosa, che scoppiò e diede il colpo di grazia alla nave.
La Star affondava lentamente. Il suo destino era ormai segnato e gli Stuka avevano superato il limite di sicurezza del consumo di carburante. Il comandante ordinò di tornare alla base e loro obbedirono, accompagnati dai fedeli caccia di scorta. La seconda bomba aveva ucciso chiunque si trovasse a poppa e provocato danni irreparabili anche in sala motori. Sulla nave c’erano pochissimi sopravvissuti, ma l’uomo accanto alla mitragliatrice prodiera era uscito incolume da quell’inferno, proprio come Saffron, e, quando la vide sul ponte superiore che cercava di trascinare in salvo il padre, la aiutò a portarlo giù per la scala e fino al ponte con le scialuppe di salvataggio. Un altro paio di sopravvissuti, fra cui il medico di bordo, stavano cercando di calarne in acqua almeno una prima che la Star of Khartoum colasse a picco.
Vi riuscirono giusto per un soffio e si allontanarono di una cinquantina di metri, remando, prima che la nave si spezzasse in due e affondasse.
Il medico fece tutto il possibile per curare Leon. Prima di correre verso le scialuppe aveva preso la sua borsa, presumendo di doversi occupare degli eventuali sopravvissuti, e riuscì almeno a versare del disinfettante sulla ferita aperta e somministrargli abbastanza morfina per alleviarne leggermente le sofferenze.
A un certo punto Saffron sentì il ronzio di un motore aereo. In mezzo a tutta la baraonda e il chiasso non si era resa conto che c’era ancora un caccia tedesco, quello da lei colpito, che girava in tondo sopra di loro. «Cosa fa?» chiese senza rivolgersi a nessuno in particolare.
Il medico alzò gli occhi, vide il 109 e borbottò: «Maledetto avvoltoio». Agitò il pugno chiuso e gridò una sequela di violente imprecazioni verso il cielo. «Vi chiedo scusa», disse poi a Saffron, tornando a essere l’uomo garbato di sempre. «Non serve assolutamente a nulla, ma mi fa sentire meglio.»
L’altro sopravvissuto, Bowyer, il mitragliere che parlando con Randolph si era detto molto colpito da Saffron, dichiarò: «Credo che quel bastardo vi abbia sentito. Attenti, viene verso di noi».
Cosa ci faccio qui? Perché sto sprecando carburante?
Ormai la scarica di adrenalina del combattimento si era esaurita e Gerhard sentì riaffiorare il tetro e deprimente senso di vuoto. Ripensò alla visione di poco prima, all’illusione di vedere una donna laddove non poteva esserci. Il cervello gli giocava brutti scherzi, il fato si faceva beffe di lui. Sentì una collera acre e vendicativa colmare lentamente il vuoto dentro di lui. Voleva prendersela con qualsiasi bersaglio riuscisse a trovare, in modo che qualcun altro soffrisse come lui.
Diede inizio a una virata che portò il suo aereo intorno alla patetica scialuppa di salvataggio che ospitava i pochi sopravvissuti. Mentre si lanciava in picchiata, recuperando l’assetto orizzontale solo a pochi metri di distanza dal mare, sapeva di tradire ogni suo principio, ogni briciolo di rettitudine e onore rimastogli, di diventare uguale al fratello e a tutti i bastardi crudeli che si trovavano come lui nella legione dei dannati. E non gli importava.
La scialuppa sfrecciava verso di lui, sempre più vicina. Gerhard vide le persone a bordo agitare penosamente i pugni chiusi. Un’unica rapida raffica avrebbe spazzato via quella minuscola imbarcazione e tutti i suoi passeggeri. Posò il dito sul grilletto.
Poi rivide il fantasma. Capelli neri, occhiali scuri.
Il suo primo istinto fu di sparare e continuare a farlo fino a eliminare per sempre il fantasma dalla sua immaginazione.
Ma dopo un millesimo di secondo qualcosa lo esortò a non farlo. Gerhard sfrecciò sopra la scialuppa senza sparare, salì in alto nel cielo, fece un giro della morte e si tuffò nuovamente in picchiata, tornando da dove era venuto.
«Avanti, bastardo nazista! Se vuoi ucciderci siamo qua! Fai pure!»
La voce di Bowyer era quasi isterica per la disperazione. Il pilota li stava prendendo in giro, stuzzicandoli. Avrebbe potuto ucciderli in qualsiasi momento, quindi perché non lo faceva?
«Eccolo che torna», disse Saffron. Messa di fronte alla prospettiva di una morte certa, era pervasa da una calma inattesa quanto misericordiosa. Sarebbe andato tutto bene. Avrebbe ritrovato Gerhard in un luogo in cui non c’erano guerre a tenerli separati, e tutto si sarebbe sistemato.
Tenne lo sguardo fisso sul caccia e si alzò per accoglierlo, immobile, offrendosi come vittima sacrificale.
Il fantasma era lei! pensò Gerhard. Sapeva che era impossibile, eppure l’alta figura che si stagliava sulla scialuppa, scuotendo la testa per far ondeggiare i capelli e guardando dritto verso di lui, era Saffron. Ne era assolutamente certo. È ancora viva! Mio Dio, è vero, è viva.
Rallentò fino a rasentare la velocità di stallo e poi spinse indietro la calotta dell’abitacolo, sentendo il vento sferzargli il volto come l’alito stesso della vita. Mentre passava sopra la scialuppa salutò con la mano e sarebbe stato pronto a giurare di aver visto Saffron sorridere.
Dopo un attimo aveva già superato l’imbarcazione e ormai non poteva effettuare un altro passaggio: la situazione del carburante, critica già prima che lui decidesse di rimanere sopra la nave, era adesso disastrosa.
Non gli importava. Saffron Courteney era ancora viva. Amore e speranza tornarono di colpo a riempirgli il cuore. Cosa importava se il suo 109 non aveva più carburante? Lui non aveva nemmeno bisogno di un aereo, poteva benissimo tornare in Grecia da solo, sulle ali della felicità.
«Buon Dio», disse il medico. «Che gesto incredibile. Credete che il pilota volesse complimentarsi con noi perché abbiamo combattuto valorosamente?»
«I tedeschi non fanno cose del genere, Doc», replicò Bowyer. «Non è affatto nel loro stile. Secondo me voleva piuttosto prenderci in giro, a meno che...» Un sorriso malizioso e impudente gli balenò sul volto. «Be’, se non vi dispiace sentirvelo dire, signorina...»
Saffron non lo udì nemmeno: stava ancora cercando di dare una spiegazione a quanto aveva visto – o pensato di vedere – nell’abitacolo del caccia. Non sapeva se gridare di gioia oppure piangere amare lacrime per gli innumerevoli scherzi crudeli del destino.
«Signorina?»
Lei si costrinse a riportare l’attenzione sulle persone che aveva intorno. «Cosa c’è?»
«Stavo dicendo che eravate un vero spettacolo. Sembravate una stella del cinema o qualcosa del genere... Immagino che il nostro tedesco vi abbia dato un’occhiata e abbia pensato che nemmeno lui poteva sparare a una ragazza del genere. Insomma, che spreco, eh?»
«Bisognerebbe davvero essere crudeli per sparare a sangue freddo a una ragazza disarmata», concordò il medico.
Saffron non disse nulla. Pensò che non era affatto disarmata, almeno non nel momento cruciale. Ho colpito l’aereo con le mie mitragliatrici, e se era quello di Gerhard... Lo era, ne sono sicura, altrimenti perché mi avrebbe salutata? Oddio, ho rischiato di ucciderlo. E non avrei mai scoperto cosa avevo fatto o quanto ci fossi andata vicina. E se lo avessi ucciso...
Poi scoppiò in lacrime, e il medico le cinse le spalle con un braccio. «Su, su, mia cara, è tutto a posto. Siamo reduci da un’orrenda esperienza e voi vi siete comportata in maniera esemplare, ma ormai è finita. Presto verremo tratti in salvo, ne sono sicuro. Andrà tutto bene, vedrete.»
Era tardo pomeriggio quando una motosilurante della Royal Navy, inviata da Creta in risposta al messaggio del capitano McAloon, riuscì finalmente a trovarli. Mentre Leon veniva issato a bordo, il medico prese da parte Saffron per sussurrarle: «Vostro padre è ferito molto gravemente. Se non sorgono infezioni dovrebbe sopravvivere, ma non è detto che possa riprendere a camminare».
Lei non rispose, troppo stremata dalla battaglia e dagli avvenimenti successivi. Un marinaio la aiutò a salire sulla motosilurante dove le offrirono una tazza di tè, la classica panacea britannica per qualsiasi catastrofe. Mentre la bevanda operava la sua magia, Saffron aprì la borsa. Con tutte le precauzioni prese e l’inferno attraverso cui era passata, i suoi beni accuratamente incartati e spalmati di grasso non erano stati toccati nemmeno da una goccia d’acqua. Estrasse una delle sue preziose foto di Gerhard e vi si chinò sopra per poterla guardare senza farsi vedere. Era magnifico pensare che lui fosse ancora vivo.
Ma poi scosse il capo e mise via il suo insignificante tesoro, mentre rammentava a se stessa tutto quello che era andato perduto.
Il fiore all’occhiello della flotta della Courteney Trading era affondato. Molte brave persone avevano perso la vita, e per niente. L’oro della Grecia era finito in fondo al mare, a centinaia di metri sotto di loro, e nessuno l’avrebbe mai più ritrovato.
Gerhard rimase senza carburante a una decina di chilometri a nord di Atene, a un centinaio dalla sua base, ma aveva operato una salita lenta e costante fino a settemila metri di quota. Quando il motore si spense, lasciò che l’aereo si librasse semplicemente nell’aria, rammentando i suoi primi voli in aliante sopra la Baviera, assaporando la quiete e il silenzio dopo il clamore della battaglia, lasciando che la sua mente si beasse dell’immagine di Saffron, così fiera e coraggiosa e bella mentre guardava la morte dritta negli occhi, senza rendersi conto che in realtà stava guardando l’amore.
Mein Gott! Se avessi premuto quel grilletto... Ma non l’ho fatto, ed è l’unica cosa importante.
Si sentiva tranquillo quando l’inesorabile discesa ebbe inizio. Gli serviva solo un tratto di strada relativamente dritto, persino un campo pianeggiante, benché non ve ne fossero molti nella sassosa e montagnosa campagna ellenica. Studiavano cartine della Grecia da settimane, mentre venivano ragguagliati in vista di una missione dopo l’altra, e lui sapeva che una strada di grande comunicazione correva parallela alla costa. Guardò giù e, come previsto, eccola là, con il tipo di rettilineo che gli serviva.
Il Messerschmitt scese fin sopra una colonna di camion e uomini in movimento, passò a volo radente sull’ultima coppia di veicoli, sfiorandoli, e atterrò su un tratto d’asfalto deserto per poi fermarsi duecento metri più in là, in diagonale sulla carreggiata.
Gerhard uscì dall’abitacolo, si slacciò il giubbotto di salvataggio, si tolse il foulard di seta che portava al collo ed estrasse un pacchetto di sigarette dalla giacca. Aveva scoperto che fumare era una componente ineludibile della guerra, come il cibo scadente e le pallottole.
Vide avvicinarsi un gruppo di uomini e armamenti. Un’auto di servizio scoperta si staccò dalla colonna per sfrecciare verso di lui e far scendere un ufficiale con le spalline da Oberst, colonnello.
Scivolò giù dall’aereo, gettò la sigaretta e scattò sull’attenti.
«Cosa diavolo credi di fare?» gli chiese il colonnello.
«Ero in missione, Herr Oberst. Il mio aereo è stato colpito e ho perso parecchio carburante. Non potevo tornare alla base, così sono atterrato qui.»
«Be’, stai bloccando la strada. Devo portare un’intera divisione fino alle porte di Atene prima di sera, quindi ti ordino di spostare il tuo apparecchio.»
«Mi rincresce profondamente, signore, ma non sono in grado di farlo. Come ho appena spiegato, sono rimasto senza carburante. Nel caso se ne trovi un po’, e se i vostri uomini indietreggiano appena, dovrei riuscire a decollare senza troppi problemi.»
«Indietreggiare? Non l’abbiamo fatto per gli inglesi, perché diavolo dovremmo ritirarci per te?»
«In alternativa, signore, il terreno su entrambi i lati della strada è piuttosto piatto, quindi i vostri veicoli corazzati e i camion dovrebbero riuscire a girare facilmente intorno al mio aereo.»
«Spero che questa tua missione sia valsa la pena», affermò l’alto ufficiale in tono burbero.
«Oh, sì, signore», rispose lui mentre un sorriso trionfante gli balenava sul volto. «Abbiamo affondato una nave inglese che trasportava un carico di enorme importanza strategica. La missione è stata ordinata dal Reichsmarschall Göring in persona, che sarà molto soddisfatto del suo successo.»
Il colonnello colse il messaggio: quel pilota impudente, con i simboli degli aerei abbattuti dipinti sulla fiancata dell’apparecchio e la Croce di ferro al collo, godeva della protezione dello stesso Göring.
«Dirò al mio operatore radio di ordinare che portino qui del carburante il prima possibile. Mi aspetto che tu decolli non appena avrai fatto rifornimento.»
«Certo, Herr Oberst, lo farò con gioia.»
Ma fino ad allora rimarrò seduto sul mio aereo, fumerò le mie sigarette e penserò alla ragazza che amo.
Tutto sommato, era stato uno dei giorni migliori del suo servizio in guerra.
Le visite ai degenti nell’ospedale egiziano erano strettamente regolamentate. Durante le due settimane seguite al rientro di Leon da Creta, Harriet aveva tentato di trascorrere al suo capezzale ogni minuto che poteva, ma era anche consapevole di dover preparare la casa per il suo ritorno. Il chirurgo che lo aveva operato alla gamba era ormai sicuro di avergliela salvata, ma ci sarebbero voluti diversi mesi prima che Leon potesse anche solo pensare di camminare, e persino a quel punto sussisteva il rischio che si ritrovasse su una sedia a rotelle. In ogni caso lei doveva facilitargli il compito di muoversi per casa, e doveva farlo prima che il marito venisse dimesso, perché temeva che fosse troppo orgoglioso per ammettere di avere bisogno di aiuto, quando finalmente fosse tornato.
Fu così che una mattina Harriet si ritrovò a casa invece che in ospedale, a parlare con un architetto di come sostituire i gradini con delle rampe e aggiungere dei corrimano per aiutare Leon a camminare almeno nei primi giorni, quando ancora non si era ambientato.
Saffron aveva preso il suo posto al capezzale del padre quando sentì bussare alla porta. «Devo andare a vedere chi è?»
Leon annuì.
Lei andò ad aprire e si trovò davanti un ragazzo con gli occhiali e l’uniforme da capitano dell’esercito, che aveva al massimo tre o quattro anni più di lei.
«Oh», disse lui, nel vedere una bellissima ragazza con un abito estivo di cotone che lo guardava con limpidi occhi azzurri.
«Posso aiutarvi?» chiese Saffron, dato che l’ufficiale sembrava incapace di aggiungere altro.
«Ah, sì, certo, naturalmente... Mi chiamo Carstairs, intelligence militare. Potrei scambiare due parole con Mr Courteney? Mi è stato chiesto di riferirgli alcune informazioni.»
«In tal caso si accomodi, capitano Carstairs.»
L’uomo entrò nella stanza e si fermò accanto al letto mentre lei chiudeva la porta. «Scusatemi, Mr Courteney, ma quanto devo comunicarvi è piuttosto riservato. Riguarda l’affondamento della Star of Khartoum ed è solo per le vostre orecchie, per così dire.»
«Posso farvi una domanda, Carstairs?» si informò Leon.
«Certo, signore.»
«Siete mai stato in azione? Non mi riferisco solo al servizio durante una campagna e nel quartier generale, sto parlando della roba difficile, della prima linea, dove le persone vengono uccise.»
«No, signore, non posso dire di averlo fatto. Sono più un tipo da scrivania, mi occupo di analisi delle informazioni segrete.»
«Avete analizzato un quotidiano, ultimamente?»
«Mi spiace ma non riesco a seguirvi.»
«Bene, sulla stampa del Cairo sono apparsi alcuni articoli sulle gesta di mia figlia a bordo della Star of Khartoum mentre combatteva contro la Luftwaffe. Dicono che meriti una medaglia. Quindi se avete qualcosa da dire su quel viaggio potete dirla anche a lei, oppure non dirla affatto. Sono stato chiaro?»
«Chiarissimo, signore. Potrei chiedervi, Miss Courteney, se posso contare sulla vostra totale discrezione?»
«Naturalmente.»
«Benissimo, allora. Il mio messaggio è questo. Forse sapevate che il carico a bordo della Star of Khartoum era... Come posso definirlo? Insolitamente prezioso, diciamo.»
«Sì, lo sapevo.»
«E presumo che la consapevolezza che tale carico è andato perduto abbia accentuato lo... sgomento che potreste aver provato per la perdita della vostra nave e di così tanti membri del suo equipaggio. E per la vostra ferita, naturalmente.»
«Infatti.»
«Potreste persino esservi chiesto, di conseguenza, se ne sia valsa davvero la pena», sottolineò Carstairs, e il silenzio che seguì confermò la fondatezza della sua ipotesi. Si schiarì la gola prima di aggiungere: «Quanto ho da dire potrebbe, spero, garantirvi che in realtà avete fornito allo sforzo bellico un contributo assai più cospicuo di quanto crediate. Vedete, il fatto è che il carico che pensavate si trovasse sulla Star of Khartoum era in realtà... ehm, altrove».
«Cosa volete dire?» chiese Saffron.
«Voglio dire che la vostra nave era un’esca. Il vero carico si trovava a bordo di un’altra e ha ormai raggiunto, fino all’ultimo grammo, la sua destinazione finale.»
«Ma questo peggiora le cose, invece di migliorarle. Tutti quegli uomini sono stati sacrificati invano!»
«No», la corresse il padre, «significa che la Star è stata messa a repentaglio, e alla fine affondata, per consentire all’oro di arrivare a destinazione. È valsa la pena di intraprendere quella missione. La mia unica domanda per voi, Carstairs, è come facevate a sapere che i tedeschi avrebbero abboccato all’amo.»
«Bene, abbiamo lasciato alcuni indizi per loro, per esempio tutti i camion incolonnati davanti alla Banca di Grecia, dove chiunque poteva vederli. In realtà il trasferimento è stato effettuato diverse sere prima, in maniera ben più discreta. Inoltre, cosa forse ancora più importante, avevamo motivo di credere che potesse verificarsi una fuga di notizie sul nostro versante, qui al Cairo oppure nel porto di Alessandria, o persino sulla nave stessa.»
«Volete dire che fra noi c’è una spia?» chiese Leon.
«Qualcosa del genere, sì.»
«Uno dei nostri?»
«Forse, oppure qualcun altro con un motivo per appoggiare la causa nazista. Ci sono una miriade di nazionalisti, ebrei e musulmani, che vogliono vederci andare via, e il nemico del loro nemico è loro amico.»
«Ebrei che sostengono Hitler?» domandò Saffron. «Non sembra molto probabile. Sono stata in Grecia, capitano, e so com’è la vita per gli ebrei là.»
«Ma non per gli ebrei qui, Miss Courteney. La maggior parte di loro è molto cordiale con noi, ma ci sono alcuni sionisti che ci vogliono fuori dall’intera regione, in particolare dalla Palestina ma anche dall’Egitto. Certo, odiano i musulmani radicali persino più di quanto odino noi, e il sentimento è reciproco: se e quando noi ce ne andremo, cominceranno a massacrarsi a vicenda. Ma per il momento noi siamo il loro comune nemico.»
«Bene, vi auguro buona fortuna nella ricerca del vostro uomo, Carstairs», disse Leon. «Se posso fare qualcosa non avete che da chiederlo. Potete contare sulla mia completa collaborazione.»
«Grazie, sono davvero lieto di sentirvelo dire. Buona giornata, Mr Courteney. Vi auguro una pronta guarigione.»
«Lasciate che vi accompagni, capitano», disse Saffron, poi lo seguì fino alla porta e lo guardò uscire in corridoio.
Un inserviente egiziano puliva il pavimento di linoleum, ma lei non gli badò e tornò dal padre.
Leon era stanco. Non aveva energie da sprecare, quindi andò direttamente al punto. «Credo che la spia sia tuo zio Francis. Era al corrente della spedizione e, anche se non gli ho detto esplicitamente cosa avremmo caricato sulla nave, ne sapeva abbastanza per poter fornire a qualcun altro i mezzi per scoprire i particolari.»
«Lo credi davvero capace di una cosa simile?»
«Vorrei tanto poterti rispondere di no, ma la verità è che lo credo abbastanza pieno di rancore e rabbia per tradire la propria famiglia e il proprio Paese. E sappiamo tutti cosa pensa del fascismo, non ne ha mai fatto segreto.»
«Ma quale motivo ha per essere tanto furioso? Hai salvato la compagnia e gli hai fatto guadagnare un sacco di soldi.»
«Ai suoi occhi è quasi un’aggravante, temo. Quando qualcuno assume quel tipo di mentalità smette di vedere le cose in maniera obiettiva. E se tu fai qualcosa di lodevole che lo arricchisce, lui ti detesta ancora di più. Frank ha bisogno che io sia il cattivo nella sua fantasia distorta, e se io non interpreto quel ruolo è costretto a inventarsi altri motivi per cui lo sto truffando.»
«Che modo orribile di vivere.»
«Senz’altro, ma una volta che una persona finisce impantanata in quelle sabbie mobili è quasi impossibile tirarla fuori, a meno che non voglia davvero cambiare atteggiamento. Nel frattempo noi abbiamo un altro problema: non solo sospetto che Frank sia la spia, ma mi chiedo anche se Carstairs non mi stesse dicendo velatamente che i suoi sanno che si tratta di lui.»
«A cosa sarebbe servito dirtelo? Cosa possiamo fare al riguardo?»
«Vorrei tanto saperlo. Se fossi ancora tutto intero andrei ad affrontarlo apertamente e gli farei sputare la verità a forza di pugni, se necessario.»
«E poi? Non faremmo certo una gran figura – come famiglia o come azienda – se si scoprisse che uno dei fratelli Courteney è una spia dei nazisti.»
«Nessuno la farebbe. Immagino che potrei dargli la possibilità di scegliere: o accetta di andare in esilio in un posto come il Marocco o la Spagna – un Paese neutrale dove non può causare problemi –, oppure lo consegno alle autorità e lascio che lo processino per tradimento. È un reato punito con l’impiccagione, in fondo, e credo che persino Frank sarebbe disposto a rigare dritto pur di salvarsi la pelle.»
«Ma non puoi farlo, non al momento, comunque.»
«Non ricordarmelo, ti prego.»
«Magari potrei pensarci io, oppure Harriet. Altrimenti cosa ne dici di zio Dorian o della nonna? Li ascolterebbe?»
«Non possiamo coinvolgerli senza spiegare come mai ci trovavamo ad Atene, cosa che è meglio evitare. Se solo avessi già recuperato le forze, giuro che troverei l’autobus più vicino e ci spingerei sotto il mio caro fratello.»
«È una fortuna che tu non possa farlo. Ora riposati. L’importante è che tu ti rimetta in sesto. Nella peggiore delle ipotesi, se lo zio Francis viene smascherato come spia e lo scandalo rovina la Courteney Trading, avrai ancora Lusima e Harriet e me, e staremo tutti benissimo.»
«Sì, è vero, ma cosa mi dici di Dorian, della nonna e delle mie sorelle?»
«Possono venire tutti a vivere a Lusima. Lo spazio non ci manca di certo.»
«Mia cara Saffron», disse Leon, stringendole forte la mano, «sei davvero una figlia bellissima, gentile e splendida.»
«E tu sei molto buono, ma ora questa figlia deve essere molto severa con te. Più tardi passerà a trovarti Harriet, ma fino ad allora devi riposarti un po’.» Gli diede un bacio sulla fronte, lo salutò e uscì dalla stanza.
L’addetto alle pulizie era scomparso, benché il linoleum ancora sporco e asciutto dimostrasse che non aveva concluso il lavoro. Se fosse Harriet a gestire questo posto, non oserebbero mai comportarsi così, pensò Saffron, sorridendo mentre si dirigeva all’uscita.
Non appena lei era rientrata nella stanza del padre dopo aver salutato il capitano Carstairs, l’uomo che stava pulendo il pavimento del corridoio aveva preso spazzolone e secchio per poi dirigersi speditamente verso le scale. Due minuti più tardi era sbucato dall’uscita per il personale dell’ospedale e si era incamminato verso la Città Vecchia. Aveva alcune notizie importanti per Hasan al-Banna e prima gliele avesse riferite, meglio sarebbe stato.
Dopo due ore, un messaggio passato attraverso una postazione d’ascolto degli Afrika Korps era diretto verso Berlino.
Quando Saffron tornò a casa, Harriet le chiese come stava il padre.
«L’ho trovato abbastanza in forma, ma era stanco e così gli ho consigliato di riposarsi prima della tua visita.»
«Ha obbedito?»
«Sì, in realtà. Credo che fosse ben disposto nei miei confronti. Mi ha definito una figlia bellissima, gentile e splendida, è stato davvero buono.»
«Be’, lo sei davvero.»
«Ti spiace se mi verso da bere? Avrei voglia di un gin tonic bello fresco.»
«Mia cara ragazza, non devi chiedermi il permesso, ormai sei un’adulta. Saresti così gentile da prepararne uno anche a me? E non andarci piano con il gin!»
Saffron portò il bicchiere sulla terrazza affacciata sul giardino, con il Nilo che si stagliava in lontananza. Ripensò a tutto quello che aveva saputo in ospedale e a cosa aveva detto il padre dello zio Francis. Il pensiero della morte e della devastazione provocate dal suo tradimento, oltre a sgomentarla, la riempiva di vergogna: era un Courteney come lei, e le sue azioni disonoravano l’intera famiglia.
Forse è giusto che venga smascherato, forse meritiamo che i nostri nomi vengano trascinati nel fango insieme al suo, pensò.
Ma lei non aveva fatto nulla di cui vergognarsi, e nemmeno suo padre. Perché mai avrebbero dovuto essere accomunati a Francis? E a cosa sarebbe servito rendere pubblico il suo tradimento? Non avrebbe giovato a nessuno se non a quanti volevano veder crollare l’Inghilterra e il suo impero, quindi meno persone sapevano cosa aveva fatto suo zio e meglio sarebbe stato.
Ma lui non può cavarsela impunemente, non può!
Sorseggiò il drink mentre rifletteva sul problema. La risposta le si affacciò alla mente di colpo, come la soluzione a un’equazione complessa. Riesaminò il proprio ragionamento per individuare eventuali pecche, ma non riuscì a trovarne. La risposta era corretta.
E adesso lei sapeva esattamente cosa andava fatto.
«Il tè alla menta è di vostro gradimento?» chiese Hasan al-Banna.
«È passabile», rispose sgarbato Francis Courteney.
«Forse un po’ di zucchero ne migliorerebbe il gusto.»
«Forse.» Lui sospirò, impaziente. «Sentite, non sono venuto per cianciare di tè alla menta e di zucchero. Volevate vedermi e mi piacerebbe sapere come mai.»
Al-Banna scosse la testa con aria rammaricata. Allah era onnisciente e saggio, quindi doveva aver avuto un motivo per introdurre nella sua vita quell’infedele stupido, villano e ingrato, ma c’erano occasioni in cui era difficile capire quale potesse essere. Forse Allah vuole solo mettere alla prova la mia pazienza, pensò. Sì, poteva trattarsi di quello.
«I nostri comuni amici non sono contenti. Li avete messi su una falsa pista, a proposito della Star of Khartoum
«In che senso? Ho detto loro dove era diretta, quale carico avrebbe avuto a bordo e da dove sarebbe salpata, e poi loro l’hanno affondata, che era lo scopo. Sono io quello che dovrebbe essere scontento. Avrebbero dovuto sbarazzarsi di mio fratello e della sua mocciosetta, invece sono entrambi ancora vivi. Cos’hanno da dire su questo, eh? Eh?!»
«Hanno cose ben più importanti di cui preoccuparsi che della vita o della morte di due individui insignificanti.»
«Allora cos’è che li turba?»
«L’oro non si trovava a bordo.»
«E dov’era?»
«I nostri amici non lo sanno, ma se fossi in voi, Mr Courteney, mi premurerei di scoprirlo. Se poteste informarli di dove si trova in realtà, potrebbero sentirsi meno inclini a sospettare che li abbiate sviati di proposito.»
«Non ho fatto nulla del genere! Ho riferito tutto quello che sapevo, quello che mi aveva detto mio fratello. Se qualcuno li ha sviati è stato lui, non io.»
«Ne dubito sinceramente. Non ci sono prove che suggeriscano che vostro fratello sia legato all’intelligence inglese. Credo sia stato ingannato lui per primo e che lo abbiano usato come esca. Vi ha informato perché voleva convincervi della necessità di mandare la Star of Khartoum in Grecia. La vera domanda è se l’intelligence inglese sapeva che voi avreste passato le informazioni a noi. Se sì, siete ormai compromesso e la vostra posizione si è fatta... Mmm...» Hasan cercò il termine più adatto. «Vulnerabile, sì. Siete molto vulnerabile.»
«Volete dire che mi uccideranno?» chiese Francis, terreo. Un rivolo di sudore gli colò lungo la tempia. «Ma non ho fatto niente di male. Non è giusto!»
«Soltanto gli inglesi sono tanto sciocchi da credere che la vita dovrebbe essere giusta. Comunque, la situazione è perfettamente logica. Avete causato un’enorme quantità di problemi ai nostri amici, e per niente. Ora siete in debito con loro. Se riuscite a scoprire dove gli inglesi hanno portato le riserve auree della Grecia e a dimostrare che le vostre informazioni sono esatte, non ci saranno conseguenze. Se invece non ci riuscite...» Si strinse nelle spalle. «Allah è giusto. Riceverete ciò che meritate.»
Francis era sul punto di piangere per la paura, la rabbia e la furibonda autocommiserazione. Aveva fatto tutto il possibile per favorire la causa e trasmesso informazioni che riteneva vere e di importanza vitale. Come poteva sapere che Leon gli aveva mentito? Perché gli aveva mentito, sviandolo di proposito, ne era sicuro.
Mentre tornava a casa si fermò allo Sporting Club per un paio di whisky e poi, alticcio, andò a piedi fino al suo appartamento, in un elegante nuovo isolato fra il club e il fiume. Aprì la porta, gettò giacca e cappello sul divano e andò a versarsi un altro drink.
Si accigliò sentendo suonare il campanello. «Chi diamine sarà a quest’ora?» Avvertì una fitta di timore quando un pensiero gli si affacciò alla mente. Quei maledetti tedeschi hanno mandato qualcuno a farmi fuori?
No, impossibile. Lo avevano avvisato di cosa poteva succedere ma gli avevano dato una chance di rimediare. Finché lo credevano in grado di scoprire la vera ubicazione dell’oro, era più utile da vivo che da morto.
Trasse un bel respiro, soprattutto per riacquistare un minimo di sobrietà, e aprì la porta. Cosa diavolo ci fai qui, maledizione? pensò, quando riconobbe la visitatrice.
«Ciao, zio Francis», disse Saffron. «Non mi fai entrare?»
«Oh, immagino di non avere scelta. Accomodati, allora.»
Lei varcò la soglia, notando la piega amareggiata della bocca dell’uomo mentre gli passava accanto. La porta d’ingresso si apriva su un ampio atrio arredato lussuosamente, con pavimento di piastrelle di marmo, carta da parati di un intenso rosso orientale e, accostata al muro, una moderna consolle laccata di nero con sopra uno specchio coordinato. Lui la accompagnò fino al salotto attiguo, la cui parete in fondo era costituita quasi interamente da portefinestre che davano su un balcone da cui si godeva di una vista spettacolare sul Nilo e la Città Vecchia.
«Il tuo appartamento è davvero magnifico, zio», affermò lei. «Mi sono chiesta spesso come fosse. Quando ti ci sei trasferito?»
«Nell’estate del ’39, subito prima che scoppiasse il finimondo. La mia solita iella: se avessi aspettato altri tre mesi avrei potuto comprarlo a metà prezzo, forse addirittura a un quarto.»
«Non è fantastico il modo in cui il successo della compagnia ha migliorato la vita di tutti? Lo studio di Dorian ad Alessandria è favoloso.»
«Ho fatto la mia parte, sai, non è stato solo merito di tuo padre.»
«Oh, lo so. Tu hai portato tutti gli affari con i tedeschi. Un vero peccato che siano dovuti finire. Non potresti offrirmi un drink?»
«Oh, sì, certo. Perdona la mia maleducazione», farfugliò lui. «Non ricevo molti ospiti, a dire il vero. Anzi, quasi nessuno. Dopo un po’ dimentichi come si comporta un bravo padrone di casa, se ci perdi la mano. Bevi? Alcol, intendo.»
«Sì, certo.» Saffron ridacchiò. «Sono abbastanza grande, sai, ho quasi ventidue anni.»
«Sul serio? Buon Dio, il tempo vola. Allora, cosa prendi?»
Per un attimo lei intravide fugacemente l’uomo che Francis Courteney era stato un tempo, e che avrebbe potuto ancora essere, se non avesse scelto di vivere nell’amarezza invece che nella speranza, ingigantendo i torti subiti e dimenticando le gentilezze ricevute, sospettando delle motivazioni altrui invece di confidare nel loro buon cuore.
«Potresti prepararmi un Martini?»
«Non vedo perché no. Personalmente preferisco il whisky.»
Saffron prese posto su una poltrona e posò la borsetta aperta sul cuscino accanto a sé, mentre lo zio le preparava un cocktail fresco e forte, con giusto una punta di vermouth. «Mmm, è perfetto», gli disse. «Dovresti aprire un bar tutto tuo, chiamarlo Courteney’s Bar and Grill.»
Lui si era seduto. Il suo bicchiere, riempito mentre preparava il Martini alla nipote, era già vuoto.
«Ehi, zio, ti serve un rabbocco. Non alzarti, ci penso io.»
Lei gli prese il bicchiere e, raggiunto il mobiletto dei liquori, glielo riempì e poi lo posò sul tavolino accanto alla poltrona di Francis, di fianco a una lampada in marmo a forma di colonna classica. Si avvicinò alle portefinestre, ne aprì una e rimase lì, appoggiata allo stipite. «Un panorama mozzafiato», disse. «Mi fa pensare a quella canzone...» Canticchiò le prime battute di You Belong to Me. «See the pyramids along the Nile...» Avanti, alzati da quella poltrona! pensò, mentre tentava di rammentare il secondo verso. Bisogna che tu sia in piedi! «Vieni a vedere, zio, sta passando uno dei barconi-ristorante. Ci sono delle persone che ballano sul ponte. Ascolta! Senti la musica?»
Lui scolò il whisky e si alzò barcollando. «Li vedo passare di continuo, ma se proprio insisti...»
Saffron aspettò di averlo accanto, quasi vicino come avrebbe potuto essere un amante, prima di chiedere: «Allora, zio Francis, perché ci hai tradito con i tedeschi?»
«Non ho fatto nulla del genere!» protestò lui. Si accorse di essere ubriaco. Non riusciva a riflettere lucidamente, non riusciva a trovare il modo di uscire dalla fossa che si era scavato da solo e che sembrava diventare sempre più profonda.
«Sì, invece!» disse bruscamente lei. Aveva rinunciato al ruolo della dolce nipotina, e nella sua voce c’era una nota inesorabile, aggressiva. «Hai detto loro che tuo fratello sarebbe salpato dal Pireo... Tuo fratello! L’uomo che ti ha salvato dalla bancarotta! L’uomo i cui soldi ti hanno permesso di comprare questa assurda sottospecie di bar di pessimo gusto, dove vivi in totale solitudine, senza che nessuno passi mai a trovarti!»
«Ho guadagnato io i soldi con cui ho comprato questo posto! Io! Non lui!»
«Se ci sei riuscito, è solo perché ti sei venduto ai nazisti. Ammettilo, lavori per loro. Li hai informati di dov’era diretta la Star of Khartoum, vero?» Per enfatizzare le proprie parole gli affondò nel petto un’unghia smaltata di rosso. «Hai detto loro che avrebbe trasportato l’oro greco, vero?» Lo colpì di nuovo con l’unghia, più forte.
«Smettila!»
«Oh, non ti piace quando una ragazza ti mette in imbarazzo? Be’, non mi importa cosa ti piace o no. Mio padre, tuo fratello, giace in un letto d’ospedale con la gamba spappolata e potrebbe non camminare mai più... per colpa tua.»
Accidenti, mi ha colpito di nuovo! pensò Francis. «Ti ho detto di piantarla!» gridò, infuriandosi. Fece un passo verso di lei, con aria minacciosa, aspettandosi di vederla indietreggiare.
Saffron non si mosse. «Non mi fai paura. Sono stata in guerra, combattendo come tu non hai mai fatto. Mi hanno proposta per la George Medal, sai, per l’estremo coraggio dimostrato sotto il fuoco nemico. Continuavano a lanciarsi contro di noi, i tedeschi sembravano sapere esattamente dove ci trovavamo, sono riusciti a individuare la Star of Khartoum fra tutte le altre navi che fuggivano dalla Grecia cercando di tornare ad Alessandria. E tutto questo...» Tac! «... a causa...» Tac! «... tua.»
Lui le spinse via la mano.
Saffron lo schiaffeggiò con forza, tanto che Francis girò la testa di scatto, intontito, mentre barcollava all’indietro per la violenza del colpo.
Oddio! L’ho colpito troppo forte? si chiese, vedendolo stordito, disorientato. No, avanti, non puoi gettare la spugna proprio adesso! Non devi!
E poi la rabbia di Francis fece breccia nel torpore, la scarica di adrenalina gli affinò i processi mentali e gli restituì un pizzico di energia. «Questa te la faccio pagare, puttanella!» Le si avventò contro a pugni stretti, cercando di colpirle il viso, spingendola verso il centro della stanza.
Lei alzò le braccia per ripararsi la testa e trasalì mentre i pugni la colpivano.
«Sì!» urlò Francis, intervallando i colpi con le parole. «Ho raccontato tutto ai tedeschi! Vi volevo morti! Tutti e due!» Poi, senza preavviso, sferrò un forte pugno sotto i gomiti sollevati di Saffron, colpendola al plesso solare.
Lei boccheggiò, senza fiato, e abbassò la guardia mentre si sforzava disperatamente di respirare.
«Ti voglio morta!» gridò di nuovo Francis, e la colpì in viso, spaccandole il labbro e il naso.
Lei gridò di dolore mentre il sangue le zampillava da narici e bocca. Barcollò indietro, urtò il divano e vi cadde sopra, finendo accanto alla sua borsa.
Alzò gli occhi e vide Francis che le si avvicinava. I drink bevuti gli rendevano il passo malfermo, ma la cosa le fu di ben poca consolazione, perché lo vide afferrare la lampada da tavolo accanto alla poltrona su cui si era seduto all’inizio. Mentre lei indietreggiava spasmodicamente sul divano, tirando con sé la borsa, lui strappò il filo dalla presa elettrica, tolse il paralume e ghermì la lampada appena sotto la lampadina, brandendola come una mazza di marmo, la spessa base quadrata che fungeva da sommità.
Era fuori di sé per la rabbia e farneticava in maniera incomprensibile mentre avanzava verso il divano. Saffron infilò la mano destra nella borsa aperta.
Lui sollevò la lampada sopra la testa e si torse, per incanalare tutta la sua energia nel colpo con cui le avrebbe sfondato il cranio.
Fu a quel punto che Saffron sfilò la mano destra dalla borsa, la unì alla sinistra, le sollevò entrambe e – mentre lui sgranava gli occhi, orripilato – sparò a Francis Courteney dritto in mezzo agli occhi con la pistola che impugnava.
Saffron trasse un bel respiro e si guardò intorno. Si aspettava di dover allestire una scena conforme alla versione dei fatti che intendeva fornire, ma lo zio Francis aveva interpretato senza volerlo la sua parte in maniera così perfetta da rendere superflua qualsiasi simulazione. L’impatto del proiettile sparato a distanza ravvicinata lo aveva scagliato all’indietro e lui aveva lasciato cadere la lampada, che però era rimasta accanto al suo corpo, il che avrebbe confermato il resoconto di Saffron. Nel frattempo lei sanguinava ancora a causa del pugno ricevuto in pieno volto. Si passò la lingua sui denti, controllando con cautela se qualcuno traballava, ma sembrava tutto a posto. Quando si portò un fazzoletto al volto, scoprì che il naso era contuso e sanguinante, ma non rotto. Fu un vero sollievo. Un naso malconcio conferiva a un uomo un certo fascino, ma non donava affatto a una ragazza.
Una volta sicura che fosse tutto a posto, telefonò alla polizia. Si chiese se doveva fingersi in preda al panico e all’isteria, ma poi decise altrimenti: era nota per la capacità di mantenere i nervi saldi davanti al pericolo. Avrebbe dovuto sembrare turbata dall’accaduto, ma nessuno si sarebbe stupito che fosse lucida e controllata. «Vorrei denunciare una morte violenta», disse, quando le passarono l’ufficiale di turno, che era inglese. La polizia in Egitto operava come in tutto l’impero, ossia con agenti indigeni sottoposti al comando britannico. «Si tratta di mio zio. Abbiamo avuto un alterco. Lui era molto ubriaco e ha perso la calma. È stato terribile... mi ha aggredita e... e mi ha dato un pugno in faccia, poi ha cercato di uccidermi con una lampada di marmo e io, io... be’, gli ho sparato. Credo che sia morto.»
«Rimanete dove siete, signorina, arriveremo subito. Non toccate né spostate niente. Dov’è il corpo?»
«In salotto.»
«Allora vi consiglio di aspettarci in cucina. Vi esorto a non lasciare la casa, altrimenti sarò costretto a emettere un mandato d’arresto nei vostri confronti, e non vogliamo certo una cosa del genere, vero?»
Saffron fece quanto le avevano chiesto. Si aspettava che un vicino venisse a bussare per capire cosa fosse successo, ma l’isolato era stato costruito per tutelare l’intimità dei suoi abitanti, quindi i muri erano spessi. Inoltre era stato sparato un solo colpo. Chiunque l’avesse udito avrebbe potuto benissimo non capire la natura del rumore, preferendo aspettare di vedere se ne sentiva altri, prima di prendere iniziative. Quindi, quando bussarono alla porta, fu la polizia a farlo. Saffron, che prima di andare ad aprire si era guardata allo specchio, era stata stupita ma anche contenta di scoprire che il suo viso dolorante aveva un aspetto persino peggiore del previsto.
Erano in quattro: un detective in borghese, due agenti in uniforme e un fotografo.
«Sono il sergente Ralph Riley», spiegò l’uomo in borghese. «Potreste darmi il vostro nome e indirizzo, signorina?»
Lei lo fece e gli mostrò un documento d’identità.
Il sergente Riley ordinò ai due agenti di mettersi di guardia davanti all’ingresso e prendere il nome di qualsiasi vicino curioso che venisse a dare un’occhiata. Pregò Saffron di sedersi al tavolo della cucina e aspettare per qualche minuto, poi lui e il fotografo andarono in salotto a esaminare la scena del crimine.
Una decina di minuti più tardi il sergente ricomparve, le si sedette di fronte e le chiese di raccontargli cos’era successo.
«Sono venuta a vedere se riuscivo a convincere lo zio Francis a far visita a mio padre, che si trova in ospedale. Io e papà eravamo su una nave affondata nell’Egeo e lui è stato gravemente ferito, ed era terribile che il suo stesso fratello non fosse mai andato a trovarlo. Ebbene, mio zio si è infuriato. Credo ce l’avesse con mio padre a causa di un imprecisato accordo d’affari, pur avendone tratto enormi benefici economici. E credo che fosse anche piuttosto ubriaco. Mentre ero qui ha svuotato due grossi bicchieri di whisky, e ho avuto l’impressione che avesse già bevuto parecchio prima che arrivassi.»
Riley alzò gli occhi dal suo taccuino. «Aspettate, mi sono appena reso conto... Mi sembrava che il vostro nome mi suonasse familiare... Saffron Courteney, ma certo! Parlavano di voi sui giornali. Siete stata proposta per una medaglia.» Dal suo tono di voce si sarebbe detto che fosse sul punto di chiederle un autografo, aggiungendovi una dedica a sua moglie.
«Esatto.»
«Be’, non avrei mai... Siete proprio caduta dalla padella nella brace, vero?»
«Presumo di sì.»
«Dunque, la scena del crimine non sembra lasciare adito a dubbi. È chiaro che avete ricevuto un colpo in pieno viso. Al termine della nostra chiacchierata chiederò al fotografo di scattarvi qualche foto a conferma. E, a meno che non ci fosse una terza persona di cui non ci avete parlato...»
«No, eravamo soli. Mio zio non ha domestici che abitino qui e riceveva pochissime visite.»
«Sono sicuro che i vicini potranno confermare la veridicità di queste affermazioni, ma sembra che vostro zio vi abbia colpita: ha degli schizzi di sangue sulla mano destra e sul polsino della giacca. E immagino che troveremo le sue impronte sulla lampada che voleva usare come arma contro di voi, a quanto dite. C’è soltanto un particolare che mi lascia perplesso, Miss Courteney.» Il sergente la guardò, senza alcuna traccia di ammirazione entusiasta. «Perché mai una ragazza fa visita a suo zio con una Beretta 418 nella borsa?»
«Perché la porto sempre con me, sergente.»
«Come mai?»
«Forza dell’abitudine, suppongo. Ho fatto da autista per il maggior generale Wilson, e dovevo accompagnarlo fino al campo di battaglia. Noi ragazze dell’MTC siamo dei civili, ovvio, quindi non siamo armate, ma mio padre era convinto che dovessi disporre di un mezzo per difendermi, in caso di problemi, e il generale Wilson... be’, in realtà non dovrei dirvelo perché non voglio metterlo nei pasticci...»
«Fossi in voi non mi preoccuperei, signorina. In fondo, è un generale.»
«Bene: ha promesso di chiudere un occhio se gli avessi dimostrato di saper maneggiare una pistola, cosa che ho fatto. Sono cresciuta in Kenya, quindi so sparare molto bene. Ha anche insistito perché tenessi nascosta la pistola, quindi mio padre mi ha preso una Beretta perché era abbastanza piccola da tenerla nella borsa, e da allora non me ne separo mai.»
«Avevate già avuto motivo di usarla? In preda alla rabbia, intendo...»
«Sì. Durante l’Operazione Compass, all’inizio di quest’anno, ci siamo imbattuti in una pattuglia italiana e sono stata costretta a fare fuoco per tirarci fuori dai guai.»
«Avevate già sparato a un uomo, signorina?»
Saffron sentì la sua compostezza incrinarsi di colpo, e stavolta non stava affatto fingendo. Si morse il labbro inferiore e poi disse: «Sì... Ecco come mai sapevo cosa fare... ma... ma è orribile dover sparare a un altro essere umano... e lui era mio zio, un familiare...» Cominciò a piangere e prese dalla borsetta il fazzoletto macchiato di sangue.
«Mi dispiace, Miss Courteney, ma avrò bisogno di quel fazzoletto. Come prova», disse Riley. Si alzò per andare a prendere uno strofinaccio appeso davanti alla cucina economica. «Ecco, tenete.»
«Grazie. Mi sono appena resa conto... di cosa è successo. Mio zio non era un uomo gradevole, sergente, ma non avrei mai voluto... non avrei mai voluto tutto questo.»
«Ne sono sicuro. Chiedo solo al fotografo di scattarvi una foto, dopodiché uno dei miei uomini vi accompagnerà a casa. Devo pregarvi di non lasciare il Cairo. State per caso aspettando l’ordine di andare altrove?»
«No, sono in licenza.»
«Allora passatela qui, se non vi dispiace, finché non mi farò sentire di nuovo.»
Il giorno dopo, Leon chiese a Harriet di assumere il miglior penalista del Cairo, Joseph Azerad, perché si occupasse del caso di Saffron.
«Non temete, Mr Courteney, mi assicurerò che non vi sia nessun caso di cui occuparsi», gli disse Azerad. Era già stato informato da Leon dell’ammirazione di Francis per Oswald Mosley, e chiamò subito il capo della polizia del Cairo per sottolineare senza mezzi termini che sarebbe stato un vero oltraggio se una ragazza così coraggiosa, che aveva servito valorosamente il proprio Paese e il cui viso recava chiare tracce dei pugni di un bruto, fosse incolpata di quello che era stato senza dubbio un atto di autodifesa.
Telefonò inoltre ad alcuni suoi contatti nella redazione della Gazette e del Mail per informarli che la bellissima ed eroica Saffron Courteney era stata costretta a difendersi dall’aggressione dello zio, noto simpatizzante fascista. Spiegò al giornalista della Gazette che, se fosse andato allo Sporting Club, avrebbe trovato parecchie persone disposte a confermare che Francis Courteney era da lungo tempo un sostenitore di Mosley, e diede al cronista del Mail l’indirizzo del medico che avrebbe esaminato le ferite di Saffron e l’ora dell’appuntamento.
Saffron, che era stata avvisata in anticipo, guardò verso l’obiettivo mentre alzava una mano, come per proteggersi dall’invadenza della macchina fotografica. Il viso le si era notevolmente gonfiato da quando la polizia l’aveva fotografata ed era ormai coperto di lividi dai colori accesi. Nessuno che vedesse le fotografie avrebbe potuto dubitare del fatto che fosse stata percossa, e un’altra serie di ecchimosi sugli avambracci dimostrava che aveva cercato di difendersi dall’attacco dello zio.
Prima che la giornata finisse, fu chiaro che Francis aveva impugnato la lampada a mo’ di mazza, confermando così la testimonianza di Saffron, mentre l’angolazione con cui il proiettile calibro .418 gli era penetrato nel cranio supportava l’affermazione che lei si fosse trovata stesa sul divano, impotente, e gli avesse sparato mentre le si avvicinava.
Prima della fine della settimana venne dichiarato il non luogo a procedere e Saffron ricevette un telegramma di Jumbo.
SAPUTO DI EVENTI AL CAIRO STOP CREDO VI SERVA CAMBIAMENTO D’ARIA STOP VENITE A GERUSALEMME STOP È UN ORDINE WILSON
Mentre Saffron faceva le valigie, Mr Brown leggeva un dettagliato resoconto dell’incidente, e quando arrivò all’ultimo paragrafo capì di dover prendere un aereo per il Cairo.
Ci vollero diverse settimane per organizzare il viaggio, ma alla fine riuscì a procurarsi una cuccetta su un bombardiere Liberator della RAF che trasportava due alti ufficiali appena trasferiti sul fronte nordafricano. Il pilota sorvolò la baia di Biscaglia e il Portogallo prima di atterrare a Gibilterra. Il giorno dopo puntò verso sud, passando sopra il Marocco prima di virare a est sopra il Sahara, a sud della zona di guerra nel deserto occidentale, per poi raggiungere il Nilo, che usò come guida per risalire fino al Cairo.
Quando sbarcò, Mr Brown si concesse un giorno di riposo, perché il viaggio era stato lungo, pericoloso e sfiancante. Poi andò nella sede diplomatica britannica per svolgere alcune discrete indagini. Scoperto ciò che gli serviva, salì su un treno che lo portò a El Kantara, nell’Egitto nordorientale, e successivamente su un convoglio di vagoni letto che lo condusse fino a Haifa, sulla costa mediterranea della Palestina. Una volta là, cambiò treno per l’ultima volta, puntando verso Gerusalemme.
Si era davvero preso parecchio disturbo e stava per scoprire se ne fosse valsa la pena.
Il quartier generale dell’esercito inglese occupava un’ala del magnifico King David Hotel di Gerusalemme.
«È molto semplice, Courteney», annunciò Jumbo, poco dopo l’arrivo di Saffron, e l’accompagnò davanti alla cartina del Mediterraneo orientale e del Medio Oriente. «Ecco qui il Cairo. Non ho certo bisogno di dirvelo, vero? E appena più a est c’è il canale di Suez, ossia la porta per l’India, l’Estremo Oriente e l’Australasia. Se mai dovessimo perdere il controllo del canale, sarebbe la fine dell’impero. Rommel avanza lungo la strada costiera verso il Cairo da ovest, e sta arrivando un po’ troppo vicino, per i nostri gusti. I tedeschi hanno occupato la Grecia e Creta, il che significa che sono a un solo passo dal Mediterraneo orientale, visto che potrebbero andare da Creta ad Alessandria.»
«Ma non riuscirebbero mai a far passare una forza d’invasione oltre la Royal Navy, vero, signore?»
«Non avete tutti i torti, cara la mia ragazza, ma guardate qui.» Indicò con il suo frustino da ufficiale i territori del Libano e della Siria, appena più a nord di dove si trovavano loro, in Palestina. «Dopo l’ultima guerra, abbiamo assunto il controllo di Palestina e Cisgiordania e i francesi hanno messo le loro luride zampe su Siria e Libano. Adesso quei territori sono sottoposti al controllo di Vichy.»
«E il governo di Vichy è solidale con i tedeschi.»
«Quindi...» la sollecitò Jumbo, proprio come uno dei docenti a Oxford che la guidavano lungo un’argomentazione accademica.
«Posso farvi una domanda, signore?»
«Certo.»
«Quali forze hanno nella regione i francesi di Vichy?»
«Circa quarantamila soldati francesi, libanesi e siriani, quasi cento carri armati, trecento aerei e una modesta forza navale, ossia un paio di cacciatorpedinieri e tre sottomarini. Questo cosa vi dice?»
Saffron si avvicinò alla cartina, la osservò per alcuni secondi e poi disse: «Se si sentissero audaci, i tedeschi potrebbero far sbarcare degli uomini a Sidone, qui, a sud di Beirut. Oppure, se volessero tenersi lontani dalla nostra flotta, potrebbero salire ancora più a nord, vicino al confine turco. In entrambi i casi sbarcherebbero su suolo amico e si unirebbero alle forze di Vichy, dopodiché potrebbero dirigersi a est, verso i giacimenti petroliferi di Iraq e Iran, oppure puntare a sud, e in tal caso, se riuscissero a superare lo sbarramento delle nostre truppe qui in Palestina, avanzerebbero verso il Cairo e il canale, e ci attaccherebbero con un movimento a tenaglia, loro dal nord e Rommel da ovest».
«Avete studiato a Oxford, vero?»
«Sì, signore.»
«Mai considerato l’ipotesi di frequentare l’accademia militare, invece? Buon Dio, vorrei tanto che i giovanotti sotto il mio comando avessero anche solo la metà del vostro acume in fatto di strategia militare. Posso chiedervi cosa fareste al mio posto?»
«Sì, signore. Attaccherei con la massima rapidità e la massima forza possibili, prima che i tedeschi abbiano l’occasione di fare la loro mossa.»
«È proprio ciò che mi hanno ordinato di fare. La chiamano ’Operazione Exporter’. Colpiremo i francesi con un misto di soldati britannici, indiani e australiani. E persino con le forze francesi libere.»
«Sono disposti a combattere contro i loro compatrioti?»
«A quanto pare non vedono l’ora di menare le mani. Li odiano ancora di più perché sono dei voltagabbana. Comunque li colpiremo da tutte le direzioni, marciando su Beirut e Damasco, oltre a impadronirci di tutti i principali oleodotti e porti. Io gestirò tutto da qui, naturalmente, ma mi conoscete: mi piace vedere cosa succede in prima linea, quindi ci sarà parecchio sfrecciare avanti e indietro. Pensate di potercela fare?»
«Certo, signore. Non vedo l’ora.»
«Questo sì che è lo spirito giusto! E posso garantirvi una cosa, Courteney: stavolta vinceremo.»
Wilson mantenne la parola. I disastri greci furono seguiti da una serie di trionfi nel Levante. Ci volle poco più di un mese per stanare i francesi di Vichy, eliminando intanto la maggior parte dei loro aerei e delle loro navi. Il 12 luglio, Saffron si trovava nell’antico porto dei crociati di San Giovanni d’Acri, dove Jumbo era impegnato nei negoziati con il suo omologo francese, il generale Henri Dentz, e un branco di pomposi ma inetti burocrati di Vichy nella mensa ufficiali della caserma Sidney Smith. Prima delle dieci di sera raggiunsero l’accordo per un cessate il fuoco, e un altro giorno e mezzo di trattative portò alla firma di un trattato che assegnava agli inglesi il completo controllo di tutti i territori francesi in Siria e Libano. Il trattato dell’armistizio recava la data del 14 luglio, giorno della presa della Bastiglia e festa nazionale in Francia, ma non fu un giorno di patriottismo e orgoglio, bensì di resa totale.
Una simile campagna alleata aveva sconfitto i ribelli nazionalisti in Iraq, assicurandosi così i giacimenti petroliferi del Paese, e si progettava di fare altrettanto in Iran. Un’enorme striscia del Medio Oriente era ormai saldamente in mano agli Alleati. Nel deserto si era giunti a una sorta di stallo. Il generale Wavell non era riuscito a ricacciare Rommel e soccorrere Tobruk assediata, pertanto era stato rimosso dall’incarico. Ma per Rommel era arduo avanzare: le sue linee di comunicazione erano ridotte male, e le forniture di carburante, cibo e acqua dovevano affrontare un lungo e pericoloso viaggio nel deserto per raggiungere il suo esercito.
Ma tutto ciò era ormai diventato secondario: era iniziato un nuovo conflitto, che faceva sembrare una semplice scaramuccia qualsiasi altra campagna bellica organizzata fino a quel momento. Hitler aveva rinnegato il proprio trattato di pace con Stalin per impegnare l’intera potenza della sua macchina bellica contro l’Unione Sovietica. Era l’Operazione Barbarossa, la più imponente della storia.
La carneficina sul fronte orientale era iniziata.
«Sai, Meerbach, credo che potresti aver ragione, dopotutto», affermò Schrumpp durante una tranquilla e luminosa serata estiva. «Persino io comincio a stancarmi di uccidere i russi nei loro aerei decrepiti. Mi fa quasi rimpiangere i tempi degli Spitfire e degli Hurricane: abbattere uno di quelli sì che dava soddisfazione.»
Erano davanti all’enorme tenda che fungeva da mensa ufficiali, montata accanto a un campo di aviazione in mezzo agli sconfinati campi di frumento ucraini.
Gerhard sorrise. «Ci sono ancora speranze di trasformarti in un gentiluomo!»
La squadriglia aveva interrotto le operazioni, per quel giorno, ma udirono il ronzio di motori aerei proveniente da sud-ovest.
«Non può essere uno dei nostri. Dal rumore si direbbe un Tante Ju.»
«Allora dev’essere importante», ribatté Gerhard.
Soltanto gli ufficiali di più alto livello e i funzionari del partito venivano trasportati sul fronte dagli aerei di linea Junkers Ju 52, requisiti dalla Wehrmacht per il servizio bellico.
«Pensi che dovremmo sforzarci di assumere un aspetto un po’ più da ufficiali tedeschi?» chiese Schrumpp, passandosi una mano sul mento non rasato.
«Fossi in te non me ne preoccuperei, probabilmente non sono qui per noi.»
Il trimotore atterrò e rullò fino a fermarsi. Una Mercedes di servizio scoperta sbucò all’improvviso da dietro la torre di controllo – o da ciò che ne restava, dopo che i russi in ritirata avevano cercato di distruggerla – e sfrecciò sull’erba riarsa per raggiungere i nuovi arrivati.
«Ecco qua», disse Schrumpp, quando il portello della fusoliera si aprì e un membro dell’equipaggio vi piazzò sotto una scaletta a pioli. Due uomini scesero dall’aereo, uno in uniforme e l’altro in completo elegante e cravatta, con una ventiquattrore.
«Cosa ci fa qui un SS-Brigadeführer?» si chiese Gerhard.
L’altro si strinse nelle spalle. «Molto strano. In Francia o Grecia non li si vedeva quasi mai, mentre adesso l’intero Paese brulica di questi tizi. Ne stavo giusto parlando l’altro giorno con Rolf, che dice che esiste un nuovo tipo di unità di SS. Le chiamano unità operative e ci seguono ovunque.»
«E qual è il loro compito?»
«Non ne ho idea, ma trattandosi delle SS dev’essere legato agli ebrei. Forse sono qui per progettare le nuove patrie di cui parlano continuamente. Insomma, è quello il piano, giusto? Spedire via dal Reich i giudei e scaricarli tutti qui. Come se non avessimo già abbastanza da fare con la conquista della Russia senza doverci preoccupare anche di loro. Ach, al diavolo! Vieni, vecchio mio, andiamo a cercarci un’altra birra...»
Gerhard tornò nella tenda, distraendosi mentre l’amico prendeva i drink, gli passava un bicchiere e cominciava a parlare con altri piloti. Lui trasaliva ogni volta che sentiva Schrumpp o un altro compagno di squadriglia menzionare i «giudei» o gli «sporchi ebrei», ma alla veneranda età di trent’anni era un veterano, rispetto alla maggior parte di loro. Erano ingozzati di propaganda nazista sin da scolaretti, non conoscevano altro. Comunque Schrumpp aveva ragione, quella campagna era diversa dalle altre.
Quando avevano invaso la Francia nessuno aveva insinuato che i francesi fossero una razza inferiore, sarebbe stato assurdo, ma sin dal primo momento in cui erano stati informati del vero scopo dell’Operazione Barbarossa la campagna era stata presentata come una guerra fra razze: i nobili ariani tedeschi contro gli slavi e gli ebrei subumani. Le pellicole propagandistiche erano colme di immagini di uomini brutti, con il naso adunco e l’aria subdola, che incarnavano ogni stereotipo dell’ebreo malvagio, infido, implicato in incessanti complotti. E benché le parole non venissero mai pronunciate ad alta voce, il tono di tutto il linguaggio del partito era inconfondibilmente distruttivo: quelle erano persone che non dovevano solo essere sconfitte o persino ridotte in schiavitù, ma annientate.
Gerhard non riusciva nemmeno lontanamente a capire cosa significasse. Come si poteva spazzare via dalla faccia della Terra un’intera razza? Era inconcepibile. Ma non sopportava di vivere in un mondo in cui simili idee potevano essere espresse come principi guida di una nazione, né riusciva a capire come lui e Saffron avrebbero mai potuto ricongiungersi o vivere insieme in modo pacifico in un mondo del genere. Naturalmente non si poteva fraternizzare con il nemico in tempo di guerra, era normale, ma aveva l’impressione che in caso di vittoria nazista i popoli sconfitti sarebbero sempre stati considerati nemici da umiliare, sfruttare e rendere schiavi. Non era certo previsto che li si amasse, e men che meno che li si sposasse.
Quindi cosa devo fare? si chiedeva.
Si era sempre detto che non combatteva per Hitler, bensì per la Germania. Non c’era nulla di disonorevole nel servire il proprio Paese, il suo Paese. Ma esisteva ancora una distinzione fra il nazismo e la Germania? E, in caso contrario, cosa doveva fare un uomo retto, in nome di Dio?
Saffron era sdraiata accanto alla piscina del King David Hotel, sfoggiando un bikini bianco, leggendo Rebecca, la prima moglie e sorseggiando birra da un bicchiere infilato in un secchiello del ghiaccio, per mantenerla bella fredda. La birra le stava facendo venire sonno, così posò il libro sulle piastrelle accanto alla sdraio e si mise comoda. Era il suo primo giorno di licenza dopo settimane di frenetica attività e un sonnellino pomeridiano le sembrava il massimo del lusso.
Stava giusto per assopirsi, quando sentì una voce familiare. «Salve, Saffron. Non è certo come Oxford a novembre, vero?»
Si mise a sedere, scosse energicamente la testa per svegliarsi e si riparò gli occhi dalla luce per vedere in faccia il suo interlocutore. «Buon pomeriggio, Mr Brown. Spero non abbiate fatto tutta questa strada solo per vedere me.»
Lui fece uno dei suoi sorrisetti enigmatici. «Posso?» Si accomodò sul bordo della sdraio accanto alla sua e la guardò con la sua solita sconcertante schiettezza. Il suo sguardo non aveva nulla di viscido o minaccioso, ma la mise comunque a disagio.
«Prego», disse lei, cercando di mantenersi lucida.
Mr Brown appariva lindo e azzimato come al solito. Aveva sostituito il completo scuro di lana che indossava solitamente in Inghilterra con uno di lino grigio chiaro, ma portava colletto rigido e cravatta a dispetto del caldo. Si rimise in testa il panama che si era tolto per salutarla e rimase lì senza parlare, con aria soddisfatta.
Lei si guardò intorno. Il suo leggero caftano di cotone era per terra, dietro la borsa. «Vi dispiace se mi infilo qualcosa addosso?»
«Prego, fate pure», replicò Brown, continuando a fissarla.
«Vi dispiace distogliere lo sguardo?»
«Certo, che villano.»
Saffron prese il caftano, comprato in uno dei banchi del mercato del Cairo preferiti di sua nonna, e se lo fece passare sopra la testa, poi infilò la mano nella borsa, trovò il portacipria e si osservò nello specchietto. Sistemò alcune ciocche ribelli nel foulard che portava intorno alla testa e si mise il rossetto: era un tocco di pittura di guerra, per prepararsi alla battaglia verbale.
Mr Brown, nel frattempo, aveva notato un cameriere. «Portatemi un tè, per favore. Lapsang Souchong se lo avete, altrimenti un Earl Grey. Niente latte né zucchero, ma gradirei qualche fettina di limone. Grazie.» Si rivolse di nuovo a Saffron. «Ho saputo di vostro zio. Davvero impressionante.»
«In che senso?»
«Be’, sapevo che possedevate un’indubbia forza mentale da utilizzare, dopo il debito addestramento, per questo genere di lavoro. E avete dimostrato in due diverse occasioni una mirabile audacia e un notevole autocontrollo in battaglia. Tuttavia non vi credevo capace di pianificare e mettere in atto impunemente un omicidio a sangue freddo con una simile efficienza, e tutto da sola.»
«Non si è trattato di omicidio, ma di autodifesa. Sono stata aggredita», replicò Saffron con la massima calma, pur sentendo accelerare il battito cardiaco alla semplice menzione del termine «omicidio».
«Vedete, ciò dimostra che ho ragione. Vi ho appena accusata di un grave crimine e voi mi guardate dritto negli occhi, tranquilla come non mai, e negate di averlo commesso.»
«Non mi è piaciuto ucciderlo, sapete.»
«Lo spero ardentemente, perché altrimenti sareste una psicopatica e non vorrei mai una cosa del genere. Gli psicopatici sono inaffidabili, antepongono sempre i propri desideri al dovere. Ma ora basta con la psicologia spicciola. Ci avete fatto un enorme favore. Sapevamo da tempo che vostro zio vantava parecchie amicizie indesiderabili. Già prima della guerra la cosa era a malapena sopportabile, ma dopo l’inizio delle ostilità... Vostro zio era un vero e proprio traditore e siamo convinti che abbia fatto assassinare lui vostro zio David.»
«Pensavo l’avessero ucciso dei rapinatori.»
«Oppure hanno fatto in modo che la sua morte sembrasse la conseguenza di una rapina. In ogni caso, come avrete senza dubbio capito, non potevamo permettere che il caro zio Francis venisse smascherato pubblicamente, quindi rimaneva soltanto un modo di risolvere la questione, e voi avete scelto quello.»
«Mio padre non lo sa», dichiarò Saffron, stupita di come fosse facile parlare con Mr Brown del suo terribile atto. «Ha creduto alla mia storia e preferirei che la situazione restasse invariata.»
«Naturalmente... Ma, a proposito di vostro padre, vi ha mai parlato di me?»
«Oh, sì, mi ha detto che avete trasformato mia madre in una spia e poi mi ha spiegato cosa è stata costretta a fare lei.»
«Mmm...» Mr Brown ci pensò su, poi si illuminò. «Ah! È arrivato il tè, magnifico!»
Il cameriere avvicinò un tavolino, vi posò sopra la teiera e stava per versare, quando lui alzò una mano.
«No, grazie, preferisco farlo da solo.»
L’uomo si accigliò. Saffron gli disse qualche parola in arabo, accompagnata da gesti che chiarirono il concetto. «Ah, benissimo», disse il cameriere, poi si allontanò.
Mr Brown si diede da fare con il tè, poi, senza guardarla, chiese: «Quali lingue parlate?»
«Parlo lo swahili e il masai, e ho un’infarinatura di afrikaans e arabo, anche se quest’ultimo non lo so né leggere né scrivere. Quanto alle lingue non africane, in tedesco potrei leggere un giornale e sostenere una conversazione, ma non certo passare per madrelingua.»
«Non ancora. Ma vostra madre c’è riuscita.»
«Volete che faccia la stessa cosa che ha fatto lei? È per questo che siete venuto? Perché non ne ho la minima intenzione.»
«Non ho mai pensato il contrario. Sono venuto a proposito di un tipo di attività ben diverso.» Sorseggiò il tè con aria pensierosa, concentrandosi sulle proprie papille gustative. Emise un breve mugolio di compiaciuta approvazione e poi continuò: «Circa un anno fa, Mr Dalton, ministro dell’Economia bellica, ha autorizzato la formazione del cosiddetto Comitato Tecnico Congiunto, un nome che si poteva inserire nelle richieste di fondi o scrivere sulle porte dell’ufficio senza che desse nell’occhio».
«Perché suona molto noioso.»
«Infatti. Ma alcuni dei suoi sempre più numerosi membri gli attribuiscono una denominazione più accurata, chiamandolo Ministry of Ungentlemanly Warfare, ossia un ’ministero della guerra sporca’.»
Lei rise. «Così suona molto più divertente.»
«Sono lieto che lo pensiate. Ora lasciate che vi dica la verità sull’esercito privato di Mr Dalton. Il suo vero nome è Esecutivo Operazioni Speciali e ha lo scopo di infiltrare agenti nell’Europa occupata perché fungano da collegamento con gruppi di resistenza locali, organizzino reti spionistiche, effettuino ricognizioni sulle posizioni e operazioni nemiche, eseguano atti di sabotaggio e, in pochi casi particolari, uccidano uomini malvagi la cui morte salverà una miriade di vite innocenti.»
«E voi credete che sarei adatta a quel compito.»
«Ne sono sicuro. Le missioni affidate agli agenti di quell’unità saranno estremamente rischiose. Le probabilità di essere catturati, torturati dalla Gestapo e poi spediti in un campo di concentramento, o semplicemente fucilati, saranno così alte da rasentare la certezza. Il mio compito, quindi, è reclutare alcuni dei ragazzi e delle ragazze più dotati dal punto di vista intellettuale e fisico che vanti la nostra nazione, così che li si possa addestrare a dare la vita per il Paese. Lo faccio perché so che le missioni di cui si incaricheranno saranno della massima importanza. Le loro vite non saranno sprecate né il loro sacrificio inutile.»
«State cercando di appellarvi al mio idealismo? Non sono sicura di possederne molto.»
«No, mi sto appellando alla vostra correttezza. Vi ritengo corretta, Miss Courteney.»
«Mi viene in mente almeno una persona che non sarebbe d’accordo con voi.» Lo disse con disinvoltura venata di amarezza, non aspettandosi certo di essere capita. Sottovalutava Mr Brown.
«Vi riferite a Fräulein von Schöndorf?»
Saffron capì subito cosa intendesse. «Come fate a saperlo? Com’è possibile che lo sappiate?»
«Potete anche non crederci, ma mi trovavo a un ricevimento nuziale quando ho sentito parlare di cosa avete combinato a St. Moritz. Due sciocchine spettegolavano su di voi e sull’uomo che ho poi scoperto essere Gerhard von Meerbach.»
«E ora volete usarlo contro di me?»
«È un modo ben poco clemente di definire la situazione, ma resta il fatto che avete avuto – e sospetto abbiate tuttora – una relazione con il rampollo di una delle grandi dinastie industriali tedesche, il cui fratello è un alto ufficiale delle Schutzstaffel naziste, le SS.»
«Sono al corrente dell’attuale grado di Konrad von Meerbach e delle sue idee politiche. E sono sicura che sappiate che potreste rendermi la vita molto difficile, Mr Brown. Quindi sospetto che siate venuto qui pensando che, se non riuscivate a convincermi con le buone a prendere parte a questa vostra faccenda dell’Ungentlemanly Warfare, avreste potuto usare il ricatto. Ma arrivate tardi, non potete usare Gerhard von Meerbach come arma contro di me. È morto.»
Ah! Vi ho colto di sorpresa, vero? pensò Saffron.
Doveva ammettere che anche lei era stupita. Non aveva mai pensato di utilizzare la falsa notizia della morte di Gerhard come una mossa tattica, ma poi si era resa conto che, se Gerhard era morto, Brown non poteva usarlo contro di lei. Prese la sua borsa. «Avevamo trovato il modo di comunicare, grazie a un metodo elaborato e tortuoso che richiedeva secoli, ma funzionava. Ecco come l’ho scoperto...» Gli passò il telegramma. «Vedete, è morto. Abbiamo passato alcuni giorni insieme in Svizzera all’inizio del ’39 e qualche altro giorno a Parigi a Pasqua. Non abbiamo fatto niente di male, ci amavamo perdutamente e, se non fosse scoppiata questa guerra orrenda e abominevole, ci saremmo sposati. Ma adesso lui è morto, quindi è tutto finito. Kaputt.»
«Miss Courteney, mi rincresce terribilmente.»
«Non ne avete motivo. Non mi avete ricattata e di certo non avete ucciso voi Gerhard. Ora, riguardo all’offerta di lavoro che stavate per farmi... accetto. Voglio rendermi utile, proprio come ha fatto mia madre durante l’ultimo conflitto. Sono molto grata al generale Wilson per avermi permesso di fargli da autista, ma so di poter fare di più. Credo di averlo dimostrato anche a voi.»
«Sicuramente.»
«In tal caso consideratemi dei vostri. Ho soltanto una richiesta.»
«Ditemi.»
«Prima di firmare sulla linea tratteggiata, vorrei tornare a casa, in Kenya. Se devo rischiare la pelle, prima devo parlare con una persona.»
Di ritorno da una missione, Gerhard sorvolava Kiev, passando sopra il Dnepr a un’altitudine di non più di trecento metri e scendendo a velocità costante, mentre si avvicinava con i compagni alla base aerea russa abbandonata che era la loro nuova casa.
Qualcosa attirò il suo sguardo mentre sfrecciava sopra una zona di terreno aperto ai margini della città. Sarebbe stato pronto a giurare di avere visto una lunga fila di donne, tutte completamente nude, fiancheggiate da uomini in uniforme, e poi un lungo fossato con qualcosa sul fondo. Era una catasta di corpi? Impossibile, vero?
Una volta atterrato, chiese a un paio di altri piloti se avessero visto qualcosa.
«Io no, amico», rispose Willi Kempen. «Forse era legato all’unità operativa delle SS che è arrivata qualche giorno fa. Ho saputo che avevano affisso dei manifesti che ordinavano a tutti i giudei di radunarsi nei pressi del cimitero alle otto di stamattina, portando denaro, documenti, indumenti pesanti. Si direbbe che stiano per mandarli da qualche parte.»
«Un paio di giorni fa ho sentito un maggiore dell’esercito discutere con uno di quei bastardi delle SS», raccontò Schrumpp.
«Ehi, Bertie, bada a come parli! Non sai che il fratello dell’aristocratico capitano della nostra squadriglia fa parte delle SS?»
«Verissimo», confermò Gerhard, «ma è anche un autentico bastardo.»
Quando le risate si spensero, Schrumpp tornò alla sua storia. «Quindi questo maggiore stava dicendo: ’Chi farà tutto il lavoro se uccidete i miei ebrei? Ho bisogno di falegnami che riparino i carri e di meccanici per i miei camion. Come faccio a rifornire i miei ragazzi su al fronte se non riesco a riparare i dannati camion?’»
«E cosa ha risposto l’uomo delle SS?» chiese Gerhard.
«Ha detto che se ne infischiava altamente di carri e camion. La sua unità aveva l’ordine di eliminare fino all’ultimo giudeo presente a Kiev e quello era quanto. ’Se la cosa non ti piace, manda una lettera di reclamo al Reichsführer Himmler’, ha detto, testuali parole.»
Più tardi, quello stesso pomeriggio, Gerhard esaminò le cartine della zona. L’area che aveva sorvolato era indicata come Babij Jar. Prese mentalmente nota della sua posizione esatta rispetto al campo di aviazione, poi andò a chiedere a Rolf il permesso di effettuare un rapido volo di prova. «Voglio solo controllare i flap sulla mia ala destra. Stamattina i comandi sembravano un po’ rigidi. Se c’è un problema, posso farlo sistemare in tempo per la missione di domani.»
«Perché darsi tanto disturbo? Potresti volare anche senza flap e i russi non riuscirebbero comunque ad abbatterti!»
Lui non replicò.
«Oh, d’accordo, fai pure, ma cerca di sbrigarti. Non possiamo sprecare carburante senza motivo.»
Gerhard decollò. Si esibì in qualche acrobazia a beneficio di chiunque guardasse da terra, non per fare sfoggio di bravura ma solo perché era ciò che avrebbe fatto se fosse stato davvero impegnato a testare la funzionalità dell’aereo. Si lanciò in un’ultima picchiata e poi riprese l’assetto orizzontale a un centinaio di metri dal suolo, rallentò fino a procedere a poco più di centottanta chilometri orari, la velocità minima, per avere una perfetta visuale su quanto stava succedendo sotto di lui. Si rese conto che il fossato visto in precedenza faceva parte di un burrone naturale. Era pieno zeppo di cadaveri, a quanto pareva ebrei, ormai così numerosi da traboccare quasi. Vide uomini e donne nude che venivano condotti fin sul bordo della trincea e disposti in una lunga fila, poi vide gli uomini delle SS – uno per ogni ebreo – puntare loro la pistola alla testa, sparare e farli volare nel burrone sotto la spinta del proiettile che gli si conficcava nel cranio.
Sorvolò la zona tre volte. Durante l’ultimo passaggio scrollò leggermente le ali dell’areo, come se volesse congratularsi con gli assassini sottostanti per l’ottimo lavoro che stavano facendo nello sterminare gli ebrei ucraini. Poi tornò alla base.
«I flap sono a posto, signore?» chiese il meccanico, quando lui scese con fatica dall’abitacolo.
Gerhard annuì, riuscì a malapena a rispondere. «Perfetti», disse, e si costrinse a fare un sorrisetto tirato, amaro. Tornò nella caserma in cui era alloggiato, andò subito in bagno e vomitò nel lavandino. Una volta svuotato lo stomaco, si sciacquò la bocca e raggiunse la mensa ufficiali, dove bevve fino a ubriacarsi in maniera mesta ma determinata, restando seduto da solo e cacciando con un gesto gli altri piloti.
Lo lasciarono stare. Parecchi uomini avevano motivo di stordirsi con l’alcol, ultimamente. Erano cose che succedevano, e nessuno li stimava meno per quello. Così Gerhard svuotò la bottiglia e intanto si rese conto che quanto aveva visto a Babij Jar, benché stesse succedendo lontano dal Reich, lontano dagli occhi del suo popolo, era la vera faccia dell’impero nazista, l’autentica fede che un giorno sarebbe stata praticata con venerazione nell’enorme e incredibile edificio su cui lui aveva sgobbato così a lungo. Quella era l’oscurità nell’anima di Hitler portata alla luce, sguinzagliata contro il mondo.
Izzy si sbagliava: non esisteva più nessuna distinzione fra nazismo e Germania. Era impossibile per chiunque fosse dotato di coscienza sostenere che stava combattendo per l’onore e l’orgoglio della Germania, perché ormai quest’ultima apparteneva a Hitler. Il Führer aveva trionfalmente dimostrato di avere ragione: erano tutti suoi schiavi, i soldati e il popolo, e lui poteva farne ciò che voleva.
La mattina dopo rimase fermo sulla pista con il suo aereo, in attesa di decollare in missione, pregando che le pillole che prendevano tutti per restare svegli facessero effetto prima che si addormentasse sul quadro dei comandi. Quella notte non aveva chiuso occhio, e nel buio aveva preso una decisione: Preferirei morire piuttosto che vivere nel mondo di Adolf Hitler. E non può esserci nessuna speranza per me, per Saffron o per il nostro amore finché lui è vivo, quindi devo dedicarmi al tentativo di annientare lui e tutte le sue coorti. D’ora in poi sarà questo lo scopo principale della mia vita.
Stava spuntando il sole e nulla era cambiato. Gerhard von Meerbach aveva giurato di dedicare la propria vita allo sforzo di liberare la Germania, e il mondo, dalla letale morsa del nazismo. Non aveva idea di come farlo o di chi sarebbero stati i suoi alleati, sapeva solo che andava fatto. E con quel tetro pensiero in mente rullò sulla pista, puntò il muso del Messerschmitt verso est e decollò, sfrecciando verso i primi raggi dorati del sole che sorgeva.
Saffron era in cammino sin dall’alba. Osservava la montagna che sbucava dall’oscurità con la colossale scarpata della Rift Valley alle spalle, scintillava della luce dorata dell’alba e poi appariva in tutta la sua imponenza quando la foschia che ne ammantava la vetta si fu diradata. Il carburante era così razionato che non sarebbe potuta andare fin lì in auto dalla residenza dei Courteney, e volare era fuori questione, ma era felice di avere camminato per un giorno fino a otto chilometri dalla montagna e di avere trascorso la notte sotto le stelle. A ogni passo, a ogni boccata di aria del Kenya si sentiva più a casa. Per le prime ore aveva attraversato terreni agricoli e piantagioni, fermandosi ogni tanto a parlare con i braccianti. Aveva riacquistato in un attimo la padronanza dello swahili e del masai, e ricordava il nome e il viso delle persone che incontrava. Molti erano uomini e donne che conosceva sin da bambina e che la accolsero come una figlia tornata dopo molto tempo, mentre Manyoro rimaneva in disparte, sorridendo come un padre orgoglioso per l’ottima impressione che lei faceva.
Saffron adorava i larghi sorrisi, la risata pronta e le forti emozioni che incontrava lungo la strada, la splendida cordialità africana così diversa dal carattere insulso, riservato e cupo di molti inglesi. Non la infastidiva nemmeno che tutte le donne anziane le chiedessero se aveva un marito e, in tal caso, quanti figli gli aveva dato. Rimanevano sconvolte scoprendo che era ancora sola e senza figli. Spiegò più volte che le sarebbe piaciuto averne ma che c’era una guerra in corso ed era troppo impegnata a servire il suo Paese per sposarsi e fare figli.
A quel punto Manyoro scuoteva il capo per manifestare il proprio sconcerto misto a tristezza, e concordava con tutte le sagge donne masai: non c’era davvero limite alla stupidità delle ragazze ostinate. Ma prometteva che avrebbe fatto un bel discorsetto alla nipote, per rammentarle quali fossero i suoi veri doveri.
Aveva insistito lui per accompagnarla. «Sei la figlia di mio fratello, mia regina, e stai per andare da mia madre. È naturale che io venga con te per proteggerti. Nessun uomo e nessun animale oserebbero mai disturbarti mentre cammino al tuo fianco.»
Saffron era felice di godere della compagnia di Manyoro. Era fiera della propria indipendenza, sapeva di essere in grado di combattere e di prendere decisioni difficili convivendo con le conseguenze, ma le piaceva comunque sentirsi protetta e sicura in compagnia di una figura paterna che adorava, e il cui amore per lei era tiepido e confortante come un falò in una fredda giornata invernale.
Sapeva inoltre che, per quanto sugli atti di proprietà di Lusima ci fosse il nome di Leon Courteney, e per quanto gli introiti delle sue aziende agricole finissero nel suo conto in banca, in realtà era Manyoro il re di tutto ciò che controllava. Veniva salutato dal personale della tenuta e dalle rispettive famiglie con il profondo rispetto dovuto a un sovrano, e rispondeva con il contegno regale di qualcuno che amava la sua gente ma ne era comunque il capo.
Non era tuttavia un sovrano del tutto soddisfatto. «Ci credi che ho offerto i miei servigi ai King’s African Rifles e sono stato respinto, con la motivazione che sono troppo vecchio? Ah! Guardami, forse non sono ancora un possente guerriero?»
«Sei davvero il più possente dei guerrieri, zio Manyoro», confermò Saffron. Era vero: era ancora fiero e prestante, pur sfiorando ormai almeno la settantina. «È scandaloso che questi sciocchi ti abbiano dato le spalle, ma in fondo mio padre non ha mai fatto segreto del suo disprezzo verso gli alti ufficiali del suo reggimento, come tu ben sai.»
Manyoro annuì. «Verissimo. E aveva motivo di avercela con loro, perché erano sciacalli bugiardi che lo hanno tradito con menzogne e ingiustizia.»
«Quindi non dovresti prenderla sul personale. Quegli uomini non ti meritano. E comunque la tua gente ne soffrirebbe, se tu andassi in guerra. Hanno bisogno di te, e noi abbiamo bisogno degli alimenti che coltivano e della carne del bestiame che allevano. Credimi, zio, la mia gente ha fame. Vengono attaccati su tutti i fronti, hanno bisogno di tutto quello che potete dare loro. Quindi tu e tutta la tua gente della tenuta di Lusima rendete un enorme servizio al re e all’impero.»
«Vedo che dici la verità, mia regina, e ti ringrazio per questo. So che adesso tua madre ti guarda dall’alto e ha il cuore colmo di orgoglio, nel vedere che la figlia è diventata una donna così splendida e coraggiosa. E so che mia madre si colmerà di gioia nel rivederti, perché sei come una nipote per lei.»
Mentre il sole saliva verso lo zenit, Saffron risalì il sentiero montano con Manyoro, attraversando la bassa striscia di nubi oltre la quale la secca vegetazione della savana, l’erba e le acacie lasciavano il posto alle lussureggianti foreste montane sempre annaffiate da nebbie e pioggia. A mano a mano che si avvicinavano alla cima, percepiva la gioia che sgorgava da Manyoro come limpida acqua sorgiva fra rocce di basalto nero: si avvicinavano al suo luogo natale, la sua casa più autentica.
Superarono l’ultimo tratto di salita, il più ripido, e si ritrovarono sul plateau. Adesso le grida di gioia erano tutte per Manyoro. I bimbi gli sgambettarono intorno e lui li salutò tutti per nome. Erano i suoi pronipoti e lo colmava di orgoglio vederli così numerosi, sani e ben nutriti. Saffron era già stata lì, quando l’avevano presentata a Mama Lusima: era prima ancora che andasse alla Roedean, quindi non poteva aver avuto più di undici o dodici anni. Era stata troppo giovane per capire fino in fondo l’importanza dell’occasione o apprezzare l’anziana signora.
Quella volta, però, era adulta, e provò un timore reverenziale quando Manyoro la condusse attraverso gli alberi fino al luogo ombreggiato dove sua madre amava passare le giornate, assisa sullo scranno ricavato dal ceppo di un albero colossale.
Mama Lusima era così anziana che sembrava essersi spinta oltre qualsiasi incarnazione terrena della vecchiaia. Non si alzò per accogliere la visitatrice, ma le porse una mano e piegò la testa di lato per poter essere baciata sulla guancia. Con la massima delicatezza possibile, Saffron le posò le labbra sulla pelle tiepida, asciutta e sottile come il più impalpabile dei veli. Le ossa della mano di Lusima parevano così leggere e delicate nelle forti mani della ragazza che lei temette di spezzarle se avesse fatto pressione. Benché le membra fossero ancora ben dritte e la struttura ossea del viso conservasse la sua squisita eleganza, la donna sembrava più eterea che fisica, più simile a una regina in una fiaba africana che a una semplice mortale.
Quando Manyoro se ne andò con discrezione, lasciandole sole, Lusima sorrise e si spostò per farle posto sullo scranno. «Vieni a sederti accanto a me, bambina mia.»
Saffron obbedì. Non aprì bocca: l’intuito le disse che era preferibile lasciar condurre la conversazione a Lusima. Si lasciò esaminare dagli occhi scuri che non avevano perso nulla della loro perspicacia, finché l’anziana donna non sorrise e disse: «Sei una figlia degna dei tuoi genitori. Hai la bellezza e il coraggio di tua madre, e la forza e lo spirito combattivo di tuo padre. Mi piacerebbe molto conoscere colui che tanto ami, dev’essere un uomo davvero eccezionale».
Grazie alle storie raccontate dal padre sul suo primo incontro con Lusima, Saffron sapeva che la donna vantava la sconcertante capacità di sapere tutto già prima che l’interlocutore pronunciasse una sola parola, ma non riuscì comunque a impedirsi di boccheggiare. «Come... come fai a saperlo?»
L’altra scoppiò a ridere. «Ho il potere di vedere cose che altri non possono vedere, ma non ho avuto bisogno che mi dicessero che sei innamorata. E nessun uomo potrebbe conquistare l’amore di una giovane leonessa come te se non ne fosse davvero degno.»
«Grazie, Mama», ribatté Saffron, parlando con la formalità che secondo lei meritava una creatura così venerabile. «Sei tanto gentile quanto saggia. Sono sicura di non meritare complimenti tanto generosi. E naturalmente hai ragione, sono innamorata, e lui è un uomo buono, forte e bello.»
«E sa anche darti piacere, vero?»
Lei si ritrovò ad arrossire come una scolaretta. «Sì», rispose, sforzandosi di non ridacchiare. «Come un leone.»
«Ma adesso siete stati separati dalla guerra, e vi ritrovate a battervi su schieramenti opposti mentre la tua tribù lotta contro la sua.»
«Sì, e non so cosa fare. Sento che dovrei servire il mio Paese, ma non voglio morire... Non perché abbia paura, è solo che voglio sopravvivere per lui. Quindi sono combattuta.»
Lusima scosse il capo. «No, non sei combattuta. La tua testa sarà anche piena di idee contrastanti, ma la tua anima sa cosa deve fare. E, ancora una volta, non ho bisogno di una trance né della divinazione per vederlo. È ovvio. Devi dimostrarti adatta al tuo uomo, proprio come lui è adatto a te. Ma come potresti essere degna di lui se scegliessi la via della codardia? Rammenta, bambina, che il leone è il cacciatore del branco. Anche tu sei una cacciatrice. È questa la tua natura e non devi rinnegarla. Ora dammi di nuovo la mano.» Le carezzò la pelle fra le nocche e il polso. «Non lo faccio da diversi anni», mormorò. «Sapevo di avere la forza necessaria solo per un unico viaggio finale e che avrei capito quando fosse arrivato il momento...»
«Ma, Mama...» protestò Saffron.
«Ssst, bambina. Sei la luce nella vita di mio figlio M’Bogo. Lo faccio per entrambi...» Lusima chiuse gli occhi e tacque. Il silenzio si prolungò per quella che parve un’eternità, poi i suoi occhi si spalancarono, rovesciati, tanto che se ne vedeva soltanto il bianco. Quando iniziò la divinazione, si dondolò avanti e indietro come se si stesse muovendo a un ritmo sovrannaturale, e quando parlò non lo fece con la sua voce, ma con un tono sommesso, aspro e monocorde che sembrava più maschile che femminile. «Camminerai accanto alla morte, ma vivrai... Vedo te, ma non riesco a vedere il leone. Si trova là ma non può essere riconosciuto. Lo cercherai ma lo troverai solo quando avrai smesso di cercare, e se lo vedrai non lo riconoscerai, perché sarà senza nome e sconosciuto, e se i tuoi occhi si poseranno sul suo viso non lo vedranno, perché non sapranno che è il suo. E se è vivo sarà come se fosse morto. Eppure... eppure... devi continuare a cercare, perché, se sarà salvato, lo sarà solo da te.» La voce che non era quella di Mama Lusima si zittì, il corpo della donna tornò inerte e poi, come se si destasse da un sogno, lei si scrollò, batté varie volte le palpebre, posò lo sguardo su Saffron e sorrise. «Ora sai tutto quello che è dato sapere, bambina mia.»
«Non la rivedrò più, non in questa vita, almeno», disse Manyoro, mentre lui e Saffron scendevano lungo il sentiero di montagna.
«No, non è giusto», replicò lei. Non sopportava l’idea di avere accelerato il trapasso di Lusima.
«Non è questione di giusto o sbagliato. È la vita, che termina quando deve terminare. Mama voleva farti sapere che quello che è successo oggi era destinato a succedere. Non se ne andrà perché tu sei venuta: piuttosto ha vissuto fino al tuo arrivo.»
Lei annuì, accorgendosi che le parole di Manyoro le sembravano vere, persino inevitabili, in un modo che non avrebbe saputo spiegare fino in fondo.
«Spero che tu abbia appreso quello che avevi bisogno di sapere.»
«Sì. Ho saputo che io e il mio amore siamo fatti l’uno per l’altra. So che siamo destinati a stare insieme. So che il suo destino può realizzarsi solo se lo aiuto. E lo farò, Manyoro, te lo giuro... Lo farò.»