IMPRONTE NELLA GIUNGLA
Non c’è posto in tutta la Malesia più affascinante di Tanah Merah. Dà sul mare e le sue spiagge sono orlate di casuarine. Gli uffici governativi si trovano ancora nella vecchia Raad Huis costruita dagli olandesi quando queste terre erano loro; in cima alla collina ci sono le rovine grigie del forte grazie al quale i portoghesi mantennero il dominio sugli indigeni riottosi. Tanah Merah ha una sua storia: nelle ampie case labirintiche dei mercanti cinesi, con le loro logge affacciate sul mare dove al fresco della sera si gode la brezza salmastra, abitano famiglie giunte qui tre secoli fa. Molti hanno scordato la lingua nativa e comunicano tra loro in malese e in un inglese pidgin. L’immaginazione qui indugia volentieri, anche perché in genere, negli Stati malesi federati, il passato non si spinge oltre la memoria dei padri.
Tanah Merah è stata a lungo il mercato più frenetico di questa parte d’Oriente e quando i velieri e le giunche solcavano ancora i mari della Cina il suo porto era gremito di imbarcazioni. Ma ora è morta. Ha l’aria triste e romantica di tutti quei posti che, importanti un tempo, vivono nel ricordo dell’antico splendore. È un paesino sonnolento, e gli stranieri che ci arrivano perdono presto la vitalità originaria e finiscono per far proprie le abitudini dimesse e letargiche del luogo. Le impennate nella produzione della gomma non le recano alcuna prosperità, e i conseguenti crolli ne affrettano il declino.
Il quartiere europeo è molto silenzioso. È ordinato e pulito. Le case dei bianchi – impiegati governativi e agenti delle compagnie –, piacevoli bungalow ariosi all’ombra di grandi cassie, danno su un immenso padang, verdissimo e ben tenuto come i prati delle cattedrali; e di fatto in quest’angolo di Tanah Merah c’è qualcosa di quieto e recluso che ricorda il recinto di Canterbury.
Il club, un edificio spazioso ma fatiscente, si affaccia sul mare; ha un’aria negletta, e quando ci entri ti sembra di essere capitato in un posto chiuso per restauri, come se approfittando avventatamente di una porta aperta fossi finito dove non sei desiderato. La mattina puoi trovarci un paio di piantatori arrivati dalle tenute per concludere un affare, seduti a bere un gin sling prima di rimet tersi in strada; nel tardo pomeriggio una o due signore che sfogliano con aria furtiva vecchi numeri della «Illustrated London News». Di sera alcuni uomini ciondolano attorno al biliardo, guardando le partite e bevendo suka. Ma di mercoledì il club è un po’ più animato: nella grande sala al primo piano viene sistemato il grammofono e la gente arriva da tutta la regione per ballare. Talvolta ci sono più di una dozzina di coppie, e si riesce perfino a organizzare due tavoli di bridge.
Fu in una di queste occasioni che incontrai i Cartwright. Ero ospite di un tale di nome Gaze, il capo della polizia. Gaze mi raggiunse nella sala da biliardo e mi chiese se volevo fare il quarto a bridge. I Cartwright erano piantatori, venivano a Tanah Merah ogni mercoledì perché la figlia si svagasse un po’. Erano persone molto in gamba, disse Gaze, tranquille e discrete, e giocavano bene a bridge. Lo seguii nella sala da gioco e me li presentò. Erano già seduti, e Mrs Cartwright stava mescolando le carte. Osservare il modo competente con cui lo faceva mi ispirò fiducia. Prendeva metà mazzo in ciascuna mano – grandi mani forti –, infilava con destrezza gli angoli di una metà in quelli dell’altra e poi con un gesto preciso le mischiava con uno schiocco. Sembrava un gioco di prestigio. I giocatori di carte sanno bene che per riuscirci con tanta perfezione ci vuole una pratica continua, che chi le sa mischiare in quel modo nutre per le carte un amore particolare.
«Vi spiace se io e mio marito giochiamo insieme?» chiese Mrs Cartwright. «Non ci divertiamo a spillarci quattrini a vicenda».
«Non c’è alcun problema».
Tagliammo il mazzo e Gaze ed io ci sedemmo.
Mrs Cartwright pescò un asso e toccò a lei distribuire; mentre lo faceva, rapida e precisa, chiacchierava di questioni locali con Gaze. Ma mi ero accorto che mi stava osservando. Aveva tutta l’aria di essere scaltra, ma di indole buona.
Era sulla cinquantina (anche se in Oriente, dove la gente invecchia anzitempo, è difficile indovinarne l’età), e i capelli bianchi erano molto trasandati; con un impaziente gesto della mano continuava a gettare indietro un lungo ciuffo che tornava a caderle sulla fronte. Ti veniva da chiederti perché non si risparmiasse tanto fastidio con un paio di forcine. Aveva grandi occhi azzurri, ma slavati e un po’ stanchi; il viso era rugoso e smorto; credo fosse la bocca a conferirle quell’espressione ironica, caustica ma tollerante che mi parve così caratteristica. Capivi subito di aver di fronte una donna che aveva le idee chiare e nessuna paura di esprimerle. Era una giocatrice ciarliera (cosa che alcuni criticano aspramente, ma che non mi disturba affatto; non vedo perché ci si debba comportare al tavolo da gioco come a un funerale), e fu presto palese il suo talento naturale per il motteggio, piacevolmente acido, ma così spassoso che bisognava essere uno sciocco per prendersela a male. Di tanto in tanto faceva un commento talmente sarcastico che occorreva molto senso dell’umorismo per riuscire a riderne, ma era senz’altro pronta a incassare tanto quanto a punzecchiare. La sua grande bocca sottile si allargava in un sorriso e le brillavano gli occhi quando avevi la fortuna di risponderle per le rime e il tavolo rideva di lei.
La trovai una persona molto gradevole. Mi piaceva la sua franchezza, mi piaceva la sua prontezza di spirito, mi piaceva la sua aria schietta. Mai incontrata una donna che badasse così poco al proprio aspetto. Non solo i capelli erano trasandati, tutto in lei era sciatto; portava una blusa di seta accollata, ma per il caldo aveva aperto i primi bottoni mettendo in mostra un collo smunto e vizzo; la blusa era spiegazzata e poco pulita, poiché fumava innumerevoli sigarette e si copriva di cenere. Quando si alzò un momento a parlare con qualcuno, vidi che la gonna azzurra era tutta sfilacciata ai bordi e avrebbe avuto bisogno di una bella spazzolata, e che portava delle scarpacce a tacco basso. Ma andava bene così. Tutto quel che indossava si intonava perfettamente al suo carattere.
E giocare a bridge con lei era un piacere. Aveva un gioco velocissimo, senza mai un’esitazione; all’esperienza combinava un talento naturale. Il gioco di Gaze le era familiare, ma io ero un estraneo e ci mise un attimo a prendermi le misure. Il gioco di squadra con il marito era ammirevole; lui era cauto e giudizioso, lei, conoscendolo bene, sapeva essere avventata con sicurezza e brillante con prudenza. Gaze, con sconsiderato ottimismo, contava che gli avversari non approfittassero dei suoi errori, e coi Cartwright non avevamo nessuna speranza. Perdemmo un rubber dopo l’altro, senza poter fare altro che sorridere come se la cosa ci facesse piacere.
«Io non so cos’hanno queste carte» finì per lamentarsi Gaze. «Riusciamo a perdere anche quando abbiamo in mano tutto il mazzo».
«Di certo non ha niente a che fare col vostro modo di giocare,» rispose Mrs Cartwright, fissandolo dritto con i suoi occhi azzurro pallido «dev’essere sfortuna bella e buona. Tuttavia, se nell’ultima mano tu non avessi confuso cuori e quadri, avresti potuto salvare la partita».
Gaze si mise a illustrare nel dettaglio come si era prodotta la disgrazia che ci era costata così cara, ma Mrs Cartwright, con gesto agile, dispose le carte a ventaglio perché pescassimo. Cartwright guardò l’ora.
«Questo sarà l’ultimo, cara» disse.
«Oh, davvero?». Lei diede un’occhiata all’orologio e chiamò un giovane che stava attraversando la sala. «Mr Bullen, se va di sopra può dire a Olive che tra qualche minuto ce ne andiamo?». Si rivolse a me. «Ci vuole una buona mezz’ora per tornare alla tenuta e il povero Theo si deve alzare all’alba».
«Oh, be’, veniamo solo una volta a settimana,» disse Cartwright «e per Olive è l’unica occasione di spassarsela un po’».
Cartwright mi parve vecchio e stanco. Era di media statura, con una pelata lucida, ispidi baffetti grigi e occhiali dalla montatura d’oro. Portava dei pantaloni di tela bianchi e una cravatta bianca e nera. Era piuttosto ben vestito; palesemente prestava molta più attenzione al vestiario di quanto non facesse la moglie. Parlava poco, ma si vedeva che apprezzava l’umorismo caustico della consorte, e a volte le rispondeva felicemente a tono. Erano senz’altro ottimi amici. Faceva piacere osservare un affetto così saldo e tollerante fra persone ormai anziane che devono aver vissuto insieme per tanti anni.
Ci vollero solo due mani per finire il rubber, e avevamo appena ordinato l’ultimo gin bitter quando arrivò Olive.
«È vero che ve ne volete già andare, mammina?» domandò.
Mrs Cartwright guardò la figlia con tenerezza.
«Sì, cara. Sono quasi le otto e mezza. Non ceneremo prima delle dieci».
«Ma al diavolo la cena» esclamò Olive allegramente.
«Lasciamole fare un ultimo ballo prima di andare» propose Cartwright.
«Neanche mezzo. Hai bisogno di riposare come si deve».
Cartwright guardò Olive con un sorriso.
«Se tua madre ha deciso così, mia cara, tanto vale arrenderci senza tante storie».
«È una donna risoluta» disse Olive, carezzando affettuosamente la guancia rugosa della madre.
Mrs Cartwright le diede un buffetto sulla mano e la baciò.
Olive non era molto carina, ma aveva un’aria decisamente simpatica. Avrà avuto diciannove o vent’anni, e mostrava ancora la pienezza di forme tipica di quell’età; con gli anni si sarebbe fatta più sottile e attraente. Non c’era traccia della determinazione che conferiva tanto carattere al viso della madre, aveva preso piuttosto dal padre; aveva i suoi occhi scuri, il naso leggermente aquilino, e l’espressione mite e arrendevole. Ma era il ritratto della salute, guance rosse e occhi brillanti. Possedeva una vitalità che lui aveva perso da tempo. Sembrava proprio la tipica inglesina, gioiosa, con un ottimo carattere e una gran voglia di divertirsi.
Dopo averli salutati, io e Gaze ci incamminammo verso casa sua.
«Cosa ne pensa dei Cartwright?» mi domandò.
«Oh, mi sono piaciuti. Devono essere un bene raro in un posto come questo».
«Sì, e sarebbe bello vederli più spesso. Ma conducono una vita molto appartata».
«Dev’essere noioso per la ragazza. Mentre i genitori sembrano assolutamente soddisfatti di starsene tra di loro».
«Sì, è un matrimonio riuscito».
«Olive è tutta suo padre, non trova?».
Gaze mi guardò di sottecchi.
«Cartwright non è suo padre. Mrs Cartwright era vedova quando lui l’ha sposata. Olive è nata quattro mesi dopo la morte del padre».
«Ma pensa!».
Cercai di caricare l’esclamazione di tutta la sorpresa, l’interesse e la curiosità possibili. Ma Gaze non aggiunse più nulla e camminammo fino a casa in silenzio. Il boy ci aspettava sulla porta, e dopo un ultimo gin pahit ci sedemmo a tavola.
Gaze sulle prime era ciarliero. Le restrizioni sull’esportazione della gomma avevano fatto crescere in modo considerevole il contrabbando, ed era suo dovere tenere a freno questa piaga. Quel giorno avevano catturato due giunche e lui gongolava per il successo. I magazzini erano pieni di gomma confiscata che di lì a poco sarebbe stata data solennemente alle fiamme. A un certo punto però si zittì e terminammo di mangiare senza più dire una parola. I boy servirono il caffè e il brandy, e accendemmo i cheroot. Gaze si allungò sulla sedia; fissava un po’ me e un po’ il suo brandy con aria pensosa. I boy erano usciti ed eravamo soli.
«Conosco Mrs Cartwright da più di vent’anni» disse poi, lentamente. «Da giovane non era affatto male, trascurata, sì, ma in modo quasi attraente. Era sposata con un uomo di nome Bronson. Reggie Bronson. Un piantatore. Gestiva una piantagione su a Selantan, e io ero distaccato ad Alor Lipis; non era grande com’è adesso, l’intera comunità contava al massimo venti persone, ma c’era un piccolo club niente male, e posso proprio dire che ce la spassavamo un mondo. La prima volta che incontrai Mrs Bronson la ricordo come fosse ieri. A quei tempi non c’erano macchine, e i Bronson erano arrivati in bicicletta. Non aveva l’aria decisa che ha ora. Era molto più sottile, gli occhi erano di uno splendido azzurro, aveva un bel colorito e una gran massa di capelli scuri. Se si fosse curata un po’ di più, sarebbe stata uno schianto. Ma anche così era la più bella donna della zona».
Cercai di farmi un’idea di come potesse essere stata Mrs Cartwright - a quel tempo Mrs Bronson – partendo dal suo aspetto attuale e dalla descrizione non molto dettagliata di Gaze. In quella donna ben in carne, che sedeva pesantemente al tavolo da bridge, cercai di riconoscere una giovane snella dai movimenti vivaci e dai gesti aggraziati. Ora il mento era spigoloso e il naso pronunciato, ma sono tratti che la morbidezza della gioventù sa mascherare: doveva essere affascinante con la pelle bianca e rosa e gli abbondanti capelli bruni scompigliati. Allora avrà portato una lunga gonna, un corsetto e un cappello a falde larghe. O le donne in Malesia indossavano ancora quei caschi coloniali che si vedono nelle vecchie riviste illustrate?
«Non l’ho più vista per... uff, per quasi vent’anni» proseguì Gaze. «Sapevo che viveva negli Stati malesi federati, ma quando presi servizio qui fui estremamente sorpreso di ritrovarmela al club, proprio come a Selantan tanto tempo prima. Certo, ora ha i suoi anni ed è cambiata parecchio. Vederla con una figlia grande mi fece una certa impressione, mi resi conto di come passa il tempo; l’ultima volta che l’avevo vista ero un giovanotto e adesso, santa pazienza, sono a un paio d’anni dalla pensione. Un brutto colpo, sa».
Gaze, un ghigno dolente su quella sua brutta faccia, mi guardò con vaga indignazione, come se in qualche modo io avessi potuto ostacolare la marcia frettolosa degli anni che premono gli uni sugli altri.
«Non che io sia un lattante» risposi.
«Lei non ha trascorso tutta la vita in Oriente. Ti invecchia prima del tempo. Qui uno a cinquant’anni è anziano, e a cinquantacinque è da buttare».
Ma non avevo nessuna intenzione di lasciarlo disquisire sulla vecchiaia.
«La riconobbe quando la rincontrò?» chiesi.
«Be’, sì e no. Mi parve subito familiare, ma non capii chi fosse. Pensai a una conoscenza occasionale, magari incrociata su una nave quando andavo in congedo. Ma appena aprì bocca la riconobbi al volo. Riconobbi il pungente luccichio degli occhi e il tono brusco della voce. In quella voce c’era qualcosa che diceva: sei un po’ fesso, ragazzo mio, ma non sei cattivo e, mano sul cuore, mi sei simpatico».
«Ne dice di cose, il suono di quella voce» sorrisi.
«Mi venne incontro e mi strinse la mano. “Come sta, maggiore Gaze? Si ricorda di me?” mi disse.
«“Ma certo che mi ricordo”.
«“Ne è passata di acqua sotto i ponti dall’ultima volta che ci siamo visti. E nessuno dei due è più giovane come allora. Hai già incrociato Theo?”.
«Lì per lì non capii a chi si riferisse. Devo aver avuto un’aria un po’ stupida perché fece un sorrisino, quel suo sorrisino beffardo che conoscevo bene, e mi aggiornò.
«“Sai, io e Theo ci siamo sposati. Mi è sembrata la cosa migliore da fare. Io ero sola e lui ci teneva tanto”.
«“Ma certo, me l’avevano detto” risposi. “Spero siate felici insieme”.
«“Oh, sì. È un tale tesoro... Sarà qui a minuti. Sarà così contento di vederti”.
«In realtà, pensavo di essere l’ultimo uomo al mondo che Theo avrebbe voluto incontrare. E lo stesso valeva per lei. Ma le donne sono fatte a modo loro».
«Perché secondo lei Mrs Cartwright non la voleva vedere?» domandai.
«Ci arriverò più tardi» disse Gaze. «Poi ci raggiunse anche Theo. Non so perché lo chiamo Theo; l’ho sempre chiamato Cartwright, e ho sempre pensato a lui come Cartwright. Rivederlo fu un vero shock. Lo sa anche lei com’è adesso; io mi ricordavo un giovanotto ricciuto, fresco e ben vestito. Era sempre azzimato, era atletico e si prendeva cura di sé, gli piaceva tenersi in esercizio. Ora che ci ripenso, non era per niente brutto, non un tipo piazzato, ma con una certa grazia, sa, longilineo. Quando scorsi quel vecchio occhialuto, curvo, pelato e cadaverico non credetti ai miei occhi; non l’avrei mai riconosciuto. Ma comunque sembrò contento di rivedermi, e interessato a me; poco effusivo, però schivo lo era sempre stato e non mi aspettavo altrimenti.
«“Sei sorpreso di ritrovarci qui?” mi chiese.
«“Be’, non avevo la minima idea di dove foste finiti”.
«“Noi i tuoi spostamenti li abbiamo più o meno seguiti. Ogni tanto leggevamo il tuo nome sul giornale. Uno di questi giorni devi venire a farci visita alla tenuta. Siamo lì da anni ormai, e suppongo che ci staremo finché rincasiamo per davvero. Sei mai tornato ad Alor Lipis?”.
«“No, mai” risposi.
«“Era un bel posticino. Mi dicono che adesso si è ingrandito. Non ci sono più tornato neanch’io”.
«“Non è certo legato a dei bei ricordi, per noi” disse Mrs Cartwright.
«Gli chiesi se volevano qualcosa da bere e chiamammo il boy. Avrà notato che Mrs Cartwright non disdegna un bicchierino; non voglio dire che si ubriachi o niente del genere, ma i suoi stangah li manda giù come un uomo. Non potevo non osservarli con una certa curiosità. Sembravano perfettamente felici; mi sembrò di capire che non se la passavano male, e anzi più tardi scoprii che erano piuttosto agiati. Possedevano una gran bella macchina, e quando uscivano non si facevano mancare niente. Avevano uno splendido rapporto. Fa sempre piacere incontrare due persone sposate da parecchi anni che preferiscono palesemente la compagnia reciproca a quella di qualsiasi altro. È un matrimonio senz’altro riuscito. E sono entrambi molto attaccati a Olive, sono fieri di lei. Specialmente Theo».
«Sebbene sia solo la sua figliastra?» chiesi.
«Sebbene sia solo la sua figliastra rispose Gaze. «Ci si sarebbe aspettati che prendesse il suo nome. Invece no. Lo chiama papà, certo, è l’unico papà che ha conosciuto, ma le sue lettere le firma Olive Bronson».
«E Bronson, che tipo era?».
«Bronson? Era un omaccione con un cuore d’oro, la voce profonda e una risata tonante, un pezzo d’uomo, e un grande atleta. Non aveva niente di particolare, ma era l’onestà fatta persona. Aveva un faccione paonazzo e i capelli rossi. Ora che ci ripenso, non ho mai visto nessuno sudare tanto. Quell’uomo grondava acqua come una fontana; quando giocavamo a tennis si portava sempre un asciugamano in campo».
«Non sembra un insieme molto attraente».
«Ma no, era un bell’uomo. Sempre in forma. Ci teneva. Non aveva molto da dire, se non sui rubber e i game, del tennis intendo, e il golf e la caccia; dubito che leggesse anche solo un libro all’anno. Era il tipico rampollo di scuola privata. Avrà avuto trentacinque anni quando l’ho conosciuto, ma aveva la testa di un diciottenne. Ha mai fatto caso a quante sono le persone che, una volta arrivate qui in Oriente, sembrano smettere di crescere?».
Ci avevo fatto caso eccome. Una delle cose che più sconcerta il viaggiatore è vedere dei robusti signori di mezza età, ormai quasi calvi, che parlano e si comportano come adolescenti. Ti viene da chiederti se passato il Canale di Suez le idee hanno smesso di attraversargli il cervello. Sebbene sposati e padri di famiglia, e forse a capo di una grossa azienda, continuano a guardare la vita dal punto di vista di un liceale.
«Ma non era sciocco» proseguì Gaze. «Il suo lavoro lo conosceva a menadito. La sua tenuta era la meglio amministrata della regione, e sapeva come gestire i braccianti. Era davvero un bravo tipo, e se pure ti dava un po’ sui nervi non potevi non volergli bene. Era generoso coi soldi, e sempre pronto a dare una mano a chiunque. E fu proprio per questo che a un certo punto Cartwright comparve sulla scena».
«Bronson e la moglie andavano d’accordo?».
«Credo proprio di sì. Anzi, ne sono certo. Lui così gioviale e lei allegra e vivace. Lei parlava fuori dai denti, sa. Se vuole fa morire dal ridere ancora adesso, ma in genere nello scherzo c’è sempre nascosto un pungiglione; quando era giovane e sposata con Bronson, era divertimento allo stato puro. Era gioiosa e le piaceva spassarsela. Non teneva mai a freno la lingua, ma faceva parte del suo carattere, mi spiego? Era così aperta e schietta che non ti importava quante te ne dicesse. Sembravano davvero felici insieme.
«La loro tenuta era a circa cinque miglia da Alor Lipis. Avevano un calesse e arrivavano ogni sera verso le cinque. Certo, la comunità era piccola e prevalentemente maschile. In tutto c’erano forse sei donne. I Bronson erano una benedizione del cielo. Appena arrivavano, l’atmosfera si animava; abbiamo trascorso dei bei momenti in quel piccolo club. Da allora ho pensato spesso a loro, e alla fine credo di non essermi mai divertito tanto come in quel periodo. Vent’anni fa, tra le sei e le otto e mezza, da Aden a Yokohama non c’era un posto più vivace del piccolo club di Alor Lipis.
«Una sera Mrs Bronson ci disse che aspettavano una visita, e qualche giorno dopo arrivarono con Cartwright. Era un vecchio amico di Bronson, erano stati a scuola insieme a Marlborough, o un posto di quelli, ed erano arrivati in Oriente con la stessa nave. Poi il mercato della gomma era entrato in crisi e un sacco di gente aveva perso l’impiego. Cartwright era uno di quelli. Era rimasto senza lavoro per quasi un anno, e di mezzi propri non ne aveva; allora i piantatori erano pagati ancora peggio di adesso, e uno doveva essere più che fortunato per riuscire a mettere da parte qualche soldo per i tempi grami. Cartwright era andato a Singapore. Sa, vanno tutti lì, quando c’è un crollo. Ed è dura, l’ho visto con i miei occhi; ho visto piantatori che dormivano per strada perché non avevano neanche di che pagarsi un tetto per la notte. Li ho visti fermare dei perfetti sconosciuti all’uscita dello Europe e chiedergli un dollaro per mangiare. E dubito che Cartwright fosse messo molto meglio.
«Alla fine scrisse a Bronson e gli chiese se non potesse fare qualcosa per lui. Bronson gli rispose di andare a stare da loro finché le cose non miglioravano, almeno non si sarebbe dovuto preoccupare del vitto e dell’alloggio; Cartwright colse l’occasione al volo, ma Bronson dovette perfino inviargli il denaro per il treno. Cartwright arrivò ad Alor Lipis senza un soldo. Bronson invece aveva del suo, due o trecento sterline all’anno, credo, e anche se gli avevano ridotto lo stipendio non aveva perso il posto, quindi se la passava meglio di tanti altri piantatori. Quando Cartwright arrivò, Mrs Bronson gli disse di considerarsi a casa sua e di trattenersi quanto gli pareva».
«Molto gentile da parte sua, no?».
«Molto».
Gaze si accese un altro cheroot e si riempì il bicchiere. C’era una gran pace, e a parte l’occasionale gracidio dei chik-chak il silenzio era assoluto. Sembrava che fossimo totalmente soli nella notte tropicale, sa il cielo a che distanza dalla prima abitazione umana. Gaze rimase zitto così a lungo che alla fine fui costretto a dire qualcosa.
«Che tipo di uomo era Cartwright a quel tempo?» domandai. «Giovane, certo, e mi ha già detto che era piacente; ma come persona?».
«Mah, a dirle la verità, non gli feci mai troppo caso. Era un tipo gradevole e senza pretese. Ora è molto calmo, come di certo avrà notato; bene, non era molto vivace neppure allora. Del tutto innocuo. Gli piaceva leggere, e suonava il piano mica male. Non dava mai fastidio, non era mai di intralcio, ma non gli badavi mai veramente. Ballava bene, e questo alle donne non dispiaceva, ma era anche accettabile a biliardo e non male a tennis. Si inserì nella nostra piccola routine in modo naturale. Con ciò non voglio dire che la gente stravedesse per lui, ma andava d’accordo con tutti. Ovviamente ci dispiaceva per la sua situazione, come sempre quando uno è in difficoltà, ma non potevamo farci niente e così, be’, lo accettammo fra noi e ci scordammo che non era lì da sempre. Arrivava ogni sera insieme ai Bronson, si pagava da bere come tutti gli altri, suppongo che Bronson gli avesse prestato qualcosa per le spese quotidiane. Era sempre molto educato. Rimango sul vago perché non mi ha lasciato nessuna impressione particolare; in Oriente si incontra talmente tanta gente, e lui sembrava essere un tipo qualunque. Fece di tutto per trovare un impiego, ma senza fortuna; il fatto è che di lavoro non ce n’era, e a volte sembrava che questo lo deprimesse. Rimase coi Bronson per oltre un anno. Ricordo che una volta mi disse:
«“Del resto, non posso vivere con loro per sempre. Sono d’una bontà infinita con me, ma c’è un limite a tutto”.
«“Secondo me i Bronson sono molto felici di averti qui” gli avevo risposto. “Una piantagione non è un posto molto animato, e se è per il mangiare e il bere, che tu ci sia o meno non fa molta differenza”».
Gaze si interruppe di nuovo e mi guardò con una sorta di esitazione.
«Cosa c’è?» chiesi.
«Le sto raccontando questa storia molto male» disse. «Vado blaterando e blaterando. Non sono mica un romanziere, io, sono un poliziotto, e le sto descrivendo i fatti così come li vidi allora; e dal mio punto di vista, tutte le circostanze sono importanti; voglio dire, importanti per capire che tipo di gente era».
«Ma certo. Spari pure».
«Mi ricordo che qualcuno, una donna, forse la moglie del dottore, aveva chiesto a Mrs Bronson se non le pesava mai di avere un estraneo per casa. Sa, in posti come Alor Lipis non c’è molto di cui parlare, e se non si parlasse dei propri vicini non rimarrebbe niente del tutto.
«“Oh, no” aveva risposto. “Theo non è di nessun disturbo”. Si era voltata verso il marito, che stava lì accanto intento ad asciugarsi la faccia. “Ci fa piacere averlo con noi, non è vero?”.
«“È un tipo a posto” aveva detto Bronson.
«“Come passa le sue giornate?”.
«“Non saprei” aveva detto Mrs Bronson. “Qualche volta gira per la piantagione con Reggie, va un po’ a caccia. Parla con me”.
«“È sempre contento se può rendersi utile” aveva aggiunto Bronson. “L’altro giorno mi sentivo la febbre e lui si è occupato del mio lavoro mentre io me ne sono stato a letto felice e beato”».
«I Bronson non avevano figli?» domandai.
«No» rispose Gaze. «Non so perché, potevano certamente permetterselo».
Gaze si allungò sulla sedia. Si tolse gli occhiali e strofinò le lenti; erano molto spesse e gli deformavano orrendamente gli occhi. Senza occhiali non era così sgradevole. Il chik-chak sul soffitto emise il suo verso stranamente umano. Era come il ghigno di un bambino idiota.
«Bronson fu ucciso» disse Gaze di colpo.
«Ucciso?».
«Sì, assassinato. Non dimenticherò mai quella notte. Avevamo giocato a tennis, Mrs Bronson, la moglie del dottore, Theo Cartwright e io; poi eravamo passati al bridge. Cartwright non era entrato in partita e quando ci sedemmo al tavolo Mrs Bronson gli disse: “Bada, Theo, se giocherai a bridge nel modo schifoso in cui hai giocato a tennis, resteremo in maniche di camicia”.
«Avevamo appena finito i nostri drink che lei chiamò il boy e ordinò un altro giro.
«“Butta giù questo,” gli disse “e non dichiarare se non hai in mano gli onori e una sequenza completa”.
«Bronson non si era visto; era andato a Kabulong in bicicletta a ritirare i soldi per pagare i suoi coolie, e sarebbe dovuto passare dal club al ritorno. La tenuta dei Bronson era più vicina ad Alor Lipis che a Kabulong, ma Kabulong era una piazza commerciale più importante e Bronson aveva la sua banca lì.
«“Reggie può subentrare quando arriva” disse Mrs Bronson.
«“È in ritardo, non vi sembra?” fece la moglie del dottore.
«“Eccome. Aveva detto che non ce l’avrebbe fatta per il tennis, ma che il bridge non se lo sarebbe perso. Ho come il sospetto che invece di tornare direttamente si sia fermato al club di Kabulong e in questo momento chissà cosa si sta bevendo, il ruffiano”.
«“Oh, be’, può farsene parecchi prima che gli facciano effetto” risi io.
«“Ma sta ingrassando, sai. Dovrà iniziare a starci attento”.
«Nella sala da gioco c’eravamo solo noi, ma sentivamo la gente che parlava e rideva nella sala da biliardo. Erano tutti sull’allegro. Natale si avvicinava e ci si lasciava un po’ andare. La sera di Natale ci sarebbe stata una festa danzante.
«In seguito mi ricordai che quando ci eravamo seduti la moglie del dottore aveva chiesto a Mrs Bronson se non fosse stanca.
«“Per niente” aveva risposto lei. “Perché dovrei esserlo?”.
«Sul momento non capii perché fosse arrossita.
«“Temevo che il tennis ti avesse affaticata”.
«“Ma no” aveva risposto Mrs Bronson, un tantino brusca, mi era sembrato, come se volesse tagliar corto; ma non capendo a cosa si riferissero mi tornò in mente solo più tardi.
«Dopo due o tre rubber, Bronson ancora non si era visto.
«“Ma cosa gli sarà successo?” aveva detto sua moglie. “Non riesco a capire perché tardi tanto”.
«In genere Cartwright era sempre piuttosto silenzioso, ma quella sera non aveva neppure aperto bocca. Immaginai che fosse stanco e gli domandai cosa avesse fatto.
«“Niente di speciale” rispose. “Dopo mangiato sono uscito a sparare ai piccioni”.
«“E come ti è andata?” chiesi.
«“Mah, ne ho presi mezza dozzina. Erano molto paurosi”.
«Ma poi aggiunse: “Se Reggie ha fatto tardi, avrà pensato che non valesse la pena di venire fin qui. Si sarà fatto un bagno e rientrando lo troveremo addormentato in poltrona”.
«“Non è una pedalata da niente, da Kabulong” disse la moglie del dottore.
«“Ma lui non segue la strada” aveva spiegato Mrs Bronson. “Passa per la scorciatoia nella giungla”.
«“E ci riesce, in bicicletta?” chiesi.
«“Certo, è un ottimo sentiero. Si risparmiano almeno tre chilometri”.
«Avevamo appena iniziato un nuovo rubber quando il cameriere venne a dirci che fuori c’era un sergente di polizia che voleva parlarmi.
«“Cosa vuole?” gli domandai.
«Il cameriere disse che non lo sapeva, ma che con lui c’erano due coolie.
«“All’inferno” dissi. “Se la vedrà brutta se mi disturba per niente”.
«Dissi al cameriere che sarei uscito, finii la mano e mi alzai.
«“Ci metto un minuto” dissi, e chiesi a Cartwright di distribuire le carte al posto mio.
«Trovai il sergente e due malesi che mi aspettavano sulle scale. Gli chiesi cosa diavolo volesse. Può immaginarsi la mia costernazione quando mi disse che i malesi avevano trovato un morto sul sentiero di Kabulong. Pensai subito a Bronson.
«“Un morto?” esclamai.
«“Sì. Gli hanno sparato alla testa. È un bianco coi capelli rossi”.
«A quel punto fui certo che si trattasse di Reggie Bronson, e di fatto uno dei due malesi menzionò la sua tenuta e disse che l’aveva riconosciuto, era lui. Ero sconvolto. E lì accanto c’era Mrs Bronson che aspettava impaziente che tornassi per guardare le mie carte e fare la mia dichiarazione. Per un istante, davvero non seppi che fare. Ero completamente perso, non volevo infliggerle un colpo così terribile e inatteso senza prepararla in alcun modo, ma non riuscivo a pensare a niente. Dissi al sergente e ai coolie di aspettarmi e rientrai al club. Mi feci forza. Quando entrai nella sala Mrs Bronson disse: “Sei stato via un pezzo”. Poi si accorse della mia espressione. “Qualcosa non va?”. La vidi stringere i pugni e impallidire, proprio come se avesse avuto un cattivo presagio.
«“È successa una disgrazia” dissi, con una voce così roca che mi spaventai da solo. “Un incidente. Tuo marito è ferito”.
«Lei emise un rantolo prolungato, non era un grido, piuttosto lo strano rumore di un pezzo di seta lacerato.
«“Ferito?”.
«Balzò in piedi e con gli occhi che le uscivano dalle orbite fissò Cartwright. Lui era costernato; si afflosciò sulla sedia pallido come un morto.
«“Ferito grave, molto grave, temo” aggiunsi.
«Sapevo che dovevo dirle la verità, e che dovevo dirgliela lì, ma non ce la facevo a dirgliela subito.
«“È...” - le labbra le tremavano e non riusciva quasi a formulare le parole. “È... cosciente?”.
«Per un attimo la guardai senza rispondere. Avrei dato mille sterline pur di non doverlo fare.
«“No, temo di no”.
«Lei mi scrutò come se volesse leggermi direttamente nel cervello.
«“È morto?”.
«Mi decisi a dirla tutta.
«“Sì. Era già morto quando l’hanno trovato”.
«Lei si lasciò cadere sulla sedia e scoppiò a piangere.
«“Oh, Dio” sussurrava. “Oh, Dio”.
«La moglie del dottore le si mise accanto e l’abbracciò. Mrs Bronson, il viso fra le mani, piangeva istericamente dondolandosi avanti e indietro. Cartwright, livido in volto e con la bocca aperta, sedeva immobile e la fissava. Sembrava si fosse fatto di pietra.
«“Oh, cara, cara” diceva la moglie del dottore. “Forza, devi cercare di farti forza”. Poi rivolta a me: “Portale un bicchier d’acqua e chiama Harry”.
«Harry era suo marito, stava giocando a biliardo. Andai a dirgli quel che era successo.
«“Un bicchier d’acqua un corno” disse. “Ci vuole una bella sorsata di brandy”.
«Le portammo il brandy e la obbligammo a berlo; gradualmente la violenza delle sue emozioni scemò. Dopo qualche minuto la moglie del dottore riuscì a portarla in bagno a lavarsi la faccia. Intanto mi ero deciso sul da farsi. Cartwright era di ben poco aiuto, era a pezzi, ma si poteva ben capire che per lui fosse un colpo terribile, dopotutto Bronson era il suo migliore amico, e aveva fatto di tutto per lui.
«“Mi sa che un goccio di brandy farà bene anche a te, vecchio mio” gli dissi.
«Si sforzò di reagire.
«“Sono sconvolto, sai...” disse. “Io... non...”. Si interruppe, come se la sua mente si fosse proiettata altrove; era ancora pallido da far paura; tirò fuori un pacchetto di sigarette e cercò di accendere un fiammifero, ma le mani gli tremavano tanto che quasi non ci riuscì.
«“Sì, mi ci vuole un brandy”.
«“Boy!” gridai, e poi a Cartwright: “Allora, ce la fai ad accompagnare Mrs Bronson a casa?”.
«“Sì, certo” rispose.
«“Ottimo. Il dottore ed io andremo coi coolie e qualche agente a vedere il corpo”.
«“Lo riporterete al bungalow?” chiese.
«“Credo sia meglio portarlo direttamente all’obitorio” mi anticipò il dottore. “Dovrò fare l’autopsia”.
«Mrs Bronson ritornò al tavolo; era impressionante come fosse riuscita a calmarsi in così poco tempo. Le dissi cosa intendevo fare. La moglie del dottore, brava donna, si offerse di accompagnarla e di passare la notte al bungalow, ma lei si oppose. Disse che non ce n’era bisogno, e quando la moglie del dottore insistette - sa come certa gente vuole imporre la propria gentilezza alle persone in difficoltà - poco ci mancò che le rispondesse male.
«“No e poi no, ho bisogno di starmene sola” disse. “Devo stare sola. E poi c’è Theo”.
«Montarono sul calesse, Theo prese le redini e si misero in strada. Dopo un po’ ci avviammo anche noi, il dottore ed io, seguiti dal sergente e dai coolie. Avevo inviato il mio seis alla centrale, con l’ordine di mandare due agenti sul luogo del delitto. Ben presto superammo Mrs Bronson e Cartwright.
«“Tutto a posto?” gridai.
«“Sì” rispose lui.
«Per un bel tratto io e il dottore rimanemmo in silenzio; eravamo entrambi parecchio turbati. E io ero anche preoccupato. In un modo o nell’altro avrei dovuto scovare gli assassini, e prevedevo che sarebbe stata dura.
«“Crede sia stata una rapina?” mi chiese il dottore.
«Neanche mi avesse letto nel pensiero.
«“Non vedo altra spiegazione” risposi. “Sapevano che era andato a Kabulong a ritirare il denaro per i salari, e lo hanno aspettato sulla via del ritorno. Certo non avrebbe dovuto attraversare la giungla da solo, quando era risaputo che portava con sé dei mazzi di banconote”.
«“L’ha fatto per anni” disse il dottore. “E non è l’unico”.
«“Lo so. Quel che mi preoccupa è come faremo ad acciuffare l’assassino”.
«“E se in qualche modo c’entrassero i due coolie che dicono di averlo trovato?”.
«“No. Non ne avrebbero il coraggio. Forse un paio di cinesi potrebbero escogitare un piano simile, ma non dei malesi. Troppo paurosi. È chiaro che li terremo d’occhio. Se avessero soldi da buttare non ci metteremmo molto a scoprirlo”.
«“È un colpo terribile per Mrs Bronson” disse il dottore. “Lo sarebbe stato in ogni caso, ma ora che aspetta un bambino...”.
«“Non lo sapevo” lo interruppi.
«“No, per qualche ragione l’ha voluto tenere segreto. Mi è parso un comportamento strano”.
«Fu allora che mi ricordai dello scambio tra Mrs Bronson e la moglie del dottore, e compresi come mai quella cara signora si preoccupasse.
«“È strano che sia rimasta incinta dopo tanti anni di matrimonio”.
«“È una cosa che capita. Ma lei non se lo aspettava di certo. Quando venne da me e le dissi di cosa si trattava, prima svenne, poi scoppiò a piangere. E io che mi immaginavo che avrebbe fatto salti di gioia! Mi disse che a Bronson i bambini non piacevano e che già solo la notizia l’avrebbe indisposto, quindi mi fece promettere di non dire niente finché non avesse avuto modo di rivelarglielo a poco a poco”.
«Ci pensai un po’ su.
«“Lui era un tipo così allegro e caloroso che ti saresti aspettato che desiderasse dei bambini con tutto il cuore”.
«“Eh, be’, non si può mai dire. C’è gente egoista che preferisce evitarsi il fastidio”.
«“E come l’ha presa quando lei gliel’ha detto? Magari era contento”.
«“Non so nemmeno se gliel’abbia detto, alla fine. Certo non avrebbe potuto aspettare ancora a lungo; se non vado errato, dovrebbe essere al quinto mese”.
«“Povero diavolo” dissi. “Sai, sono convinto che la notizia l’avrebbe reso felice”.
«Proseguimmo in silenzio fino a dove la scorciatoia per Kabulong si biforca dalla strada. Qui ci fermammo ad aspettare il mio calesse, con a bordo il sergente e i due malesi. Per far luce ci portammo appresso i fanali anteriori. Lasciai il seis del dottore a guardia dei cavalli, e gli dissi di riferire agli agenti che ci avrebbero trovati lungo il sentiero. I coolie fecero strada con le lampade. Il sentiero era abbastanza largo, poteva passarci anche un carretto; prima che si costruisse la strada era la via principale tra Alor Lipis e Kabulong. Era battuto e ci si camminava bene. Qui e là, dove la superficie era sabbiosa, si vedevano chiaramente i solchi lasciati dalla bicicletta di Bronson nel viaggio di andata.
«Camminammo per una ventina minuti, in fila indiana, poi di colpo i coolie si fermarono con un grido. La scena era apparsa così all’improvviso che, sebbene sapessero cosa li aspettava, avevano avuto un soprassalto. Lì, in mezzo al sentiero, illuminato fiocamente dalle nostre luci, c’era Bronson; era caduto sopra la bicicletta e giaceva riverso come una massa informe. Ero troppo sconvolto per parlare, e credo che lo fosse anche il dottore. Ma mentre noi stavamo lì in silenzio, il frastuono della giungla era assordante; le maledette cicale e le rane toro facevano un baccano da risvegliare i morti. Anche in condizioni normali, il rumore della giungla di sera ha qualcosa di arcano; forse perché è l’ora in cui ti aspetti la quiete e fa uno strano effetto quell’incessante e invisibile tumulto che ti batte sui nervi, ti circonda e ti avviluppa. Ma quella volta, mi creda, era spaventoso. Quel poveraccio era lì, morto, e tutto attorno a lui la concitata vita della giungla continuava il suo corso indifferente e feroce.
«Lui giaceva a faccia in giù. Il sergente e i coolie mi guardavano come se aspettassero un ordine. Ero giovane, allora, e devo aver avuto paura. Anche se non lo vedevo in viso ero certo che si trattasse di Bronson, ma sapevo che avrei dovuto per lo meno voltare il corpo per accertarmene. Tutti noi abbiamo le nostre debolezze; be’, io non ho mai sopportato di toccare i cadaveri. Mi è capitato spesso, ormai, e tuttavia mi faceva senso.
«“Ma sì che è Bronson” dissi.
«Il dottore - meno male che era lì con me - si chinò e gli girò la testa. Il sergente puntò la luce sul viso morto.
«“Sant’Iddio, gli hanno sparato via mezza faccia” esclamai.
«“Sì”.
«Il dottore si rialzò e si pulì le mani sulle foglie di un arbusto.
«“È morto?” domandai.
«“Eh sì. Dev’essere morto sul colpo. Chiunque l’abbia fatto, deve avergli sparato da molto vicino”.
«“Da quanto credi che sia morto?”.
«“Non saprei di preciso. Qualche ora”.
«“Sarà passato di qui verso le cinque, suppongo, se voleva essere al club per un rubber alle sei”.
«“Non c’è traccia di lotta” disse il dottore.
«“Non può esserci stata lotta. Gli hanno sparato mentre andava in bicicletta”.
«Osservai quel corpo. Non potevo evitare di pensare che poche ore prima Bronson, chiassoso, col suo vocione, sprizzava vita da ogni poro.
«“Non dimenticarti che aveva con sé la paga dei suoi coolie” disse il dottore.
«“Certo, è meglio perquisirlo”.
«“Lo voltiamo?”.
«“Aspetta. Diamo prima un’occhiata al terreno”.
«Presi la lampada e ispezionai la scena con cura. Lì dov’era caduto, il sentiero sabbioso era calpestato e confuso; c’erano le nostre impronte e quelle dei coolie che l’avevano trovato. Mi allontanai di due o tre passi finché distinsi chiaramente i solchi dritti delle ruote. Li seguii fino al punto dov’era caduto, anzi appena un po’ prima, e sui due lati vidi le impronte nette dei suoi stivali pesanti. Doveva essersi fermato piantando i piedi in terra, poi era ripartito e prima di cadere aveva sbandato.
«“Adesso possiamo perquisirlo”.
«Il dottore e il sergente lo voltarono e uno dei coolie spostò la bicicletta. Immaginavo che i soldi fossero in parte banconote e in parte monete d’argento. Le monete normalmente stavano in una sacca attaccata alla bici, e bastò uno sguardo per vedere che non c’erano più. Le banconote, invece, un mazzo ragguardevole, le metteva in un portafoglio. Lo tastai per bene, ma non trovai niente; allora frugai nelle tasche, ma, a parte un paio di monetine in quella destra, erano vuote.
«“Non portava sempre un orologio?” chiese il dottore.
«“Sì, certo”.
«Mi ricordavo che infilava la catenella nell’asola del bavero, e l’orologio, qualche sigillo e un paio di altre cose nel taschino. Ma orologio e catenella erano scomparsi.
«“Be’, la situazione sembra chiara” dissi.
«Era stato assalito da ladri che sapevano che aveva i soldi con sé. Dopo averlo ucciso l’avevano ripulito di tutto. Ripensai alle impronte che indicavano che si era fermato un momento e vidi esattamente come si era svolta la scena: uno di loro l’aveva fermato con un pretesto qualsiasi, poi, quando stava per ripartire, l’altro era saltato fuori dalla giungla alle sue spalle e gli aveva scaricato una doppietta in testa.
«“Ora sta a me acciuffarli,” dissi al dottore “e sai cosa, mi farebbe un immenso piacere vederli penzolare dalla forca”.
«Ci fu un’inchiesta. La moglie venne a testimoniare, ma non ci disse nulla che non sapessimo già. Bronson era uscito di casa verso le undici con l’idea di fare uno spuntino a Kabulong e di essere di ritorno tra le cinque e le sei. Le aveva detto di non aspettarlo, che avrebbe solo messo i soldi in cassaforte per poi raggiungerla al club. Cartwright confermò la deposizione: aveva pranzato da solo con Mrs Bronson e dopo aver fumato una sigaretta era uscito con il fucile a sparare ai piccioni. Era tornato verso le cinque, si era fatto un bagno e si era vestito per il tennis. Era andato a caccia non lontano da dove era stato ucciso Bronson, ma non aveva sentito lo sparo. Il che era più che normale, con le cicale, le rane, e tutti gli altri rumori della giungla; avrebbe dovuto essere molto vicino per udire qualcosa. Inoltre, con tutta probabilità, al momento della rapina Cartwright era già rincasato. Ricostruimmo gli spostamenti di Bronson. Aveva mangiato al club, aveva ritirato i soldi appena prima della chiusura della banca, era tornato al club per un ultimo drink, e poi aveva inforcato la bicicletta. Aveva attraversato il fiume sul traghetto; il barcaiolo si ricordava bene di averlo visto, ed era sicuro che nessun altro passeggero avesse una bici con sé. Quindi gli assassini non l’avevano seguito, ma lo aspettavano lungo il sentiero. Lui si era tenuto sulla strada principale per tre chilometri, poi aveva preso la scorciatoia che lo portava al suo bungalow.
«L’impressione era che gli assassini conoscessero le sue abitudini, e ovviamente i sospetti ricaddero subito sui coolie della sua piantagione. Indagammo su ognuno di loro, e meticolosamente, ma non c’era uno straccio di indizio che li collegasse al crimine. Anzi, quasi tutti avevano un alibi, e anche gli altri, per una ragione o per l’altra, mi sembravano da scagionare. Tra i cinesi di Alor Lipis c’era qualche individuo losco, e li feci tenere sotto controllo. Ma non mi dava l’aria di essere un lavoro da cinesi; loro avrebbero usato una pistola, non la doppietta. Ad ogni modo, non trovai niente neanche lì. Quindi offrimmo una ricompensa di mille dollari a chi ci forniva un indizio che portasse all’arresto degli assassini. Pensavo ci fosse parecchia gente che avrebbe reso volentieri un servizio alla comunità, soprattutto se allo stesso tempo si intascava un bel gruzzolo. Ma sapevo anche che un informatore non vuole correre rischi, e non avrebbe fiatato finché non si fosse sentito al sicuro; così mi armai di pazienza. La ricompensa aveva risvegliato l’interesse dei miei agenti, ed ero certo che avrebbero fatto il possibile per arrestare i criminali. In una situazione come questa, potevano fare ben più di quanto potessi fare io.
«Ma stranamente non accadde nulla; la ricompensa non tentò nessuno. Ampliai il raggio d’azione. Lungo la strada c’erano due o tre kampong, e mi chiesi se gli assassini non si trovassero lì; andai a trovare i capi del villaggio, ma non mi furono di nessun aiuto. Non che non volessero, è che proprio non sapevano niente. Parlai con le teste calde, ma non c’era modo di collegarli al crimine. Non avevo uno straccio di indizio.
«“Bene, ragazzi,” dicevo tra me e me, di ritorno ad Alor Lipis “non c’è fretta; diamo tempo al tempo”.
«I furfanti si erano portati via una bella somma, ma i soldi non servono, se non li spendi. Conoscevo l’indole degli indigeni, e sapevo che quel malloppo sarebbe stato una tentazione costante. I malesi sono una razza spendacciona, hanno il vizio del gioco, e lo stesso vale per i cinesi; prima o poi qualcuno avrebbe cominciato a sperperare soldi, e allora gli avrei chiesto da dove venivano. Ero sicuro che con poche domande ben calibrate gli avrei messo una paura del diavolo, e poi, se giocavo bene le mie carte, sarei riuscito a ottenere una confessione completa senza troppi problemi.
«Per il momento l’unica era attendere che le acque si calmassero, e che gli assassini credessero che la questione era ormai dimenticata. La fregola di spendere quel denaro sporco sarebbe diventata sempre più insopportabile, e alla fine avrebbero ceduto. Io mi sarei occupato delle mie cose, ma ero deciso a non abbassare mai la guardia; un giorno o l’altro, il momento sarebbe arrivato.
«Cartwright accompagnò Mrs Bronson a Singapore. La compagnia per la quale lavorava Bronson gli chiese se voleva prendere il suo posto ma lui, comprensibilmente, rispose che non se la sentiva; quindi assunsero un altro e offrirono a Cartwright il posto vacante di quest’ultimo, che gestiva la piantagione dove Cartwright vive adesso. Vi si trasferì subito. Quattro mesi dopo, a Singapore, nacque Olive, e di lì a qualche mese, a poco più di un anno dalla morte di Bronson, Cartwright e Mrs Bronson si sposarono. Sulle prime fui sorpreso; ma pensandoci un po’ dovetti ammettere che era più che naturale. Dopo la disgrazia la Bronson si era affidata totalmente a Cartwright, che per lei si era davvero fatto in quattro; doveva sentirsi sola, persa, e aveva potuto fare affidamento completo su di lui. Gli sarà stata alquanto grata per la sua gentilezza. E immagino che Cartwright, dal canto suo, la compatisse; era una situazione terribile per una donna, non aveva neanche un posto dove andare, e tutto quello che avevano passato insieme doveva aver creato tra loro un forte legame. Avevano tutti i motivi per sposarsi, e probabilmente fu la cosa migliore per entrambi.
«Sembrava che gli assassini di Bronson, invece, non li avremmo mai presi, perché il mio piano non funzionò; in tutto il distretto mai nessuno si mise a spendere più di quanto potesse giustificare, e se qualcuno aveva sepolto quel malloppo sotto le assi del pavimento, allora dava prova di un autocontrollo sovrumano. Dopo un anno, malgrado tutta la buona volontà, la questione fu dimenticata. Chi poteva essere così prudente da non far saltar fuori neanche qualche soldino dopo tanto tempo? Stentavo a crederci. Iniziai a pensare che Bronson fosse stato ucciso da un paio di cinesi vagabondi che se l’erano subito svignata, a Singapore per esempio, dove le probabilità di acciuffarli erano minime. Alla fine mi arresi. Se ci pensa, in genere le rapine sono i casi più difficili da risolvere, perché non c’è modo di rintracciare il colpevole, e se lo si incastra è solo perché è stato avventato. Non è come i delitti passionali, o le vendette, dove puoi risalire a chi aveva un movente.
«Ma non vale la pena di amareggiarsi all’infinito per i propri demeriti, e cercai di scordarmi quella storia ricorrendo al buon senso. La sconfitta non piace a nessuno, io ero stato sconfitto e dovevo fare buon viso a cattiva sorte. Poi acciuffammo un cinese che tentava di impegnare l’orologio del povero Bronson.
«Le avevo detto che orologio e catenella erano spariti, e la Bronson ce l’aveva descritto accuratamente. Era un half-hunter Benson, con la catenella d’oro, tre o quattro sigilli e un astuccetto d’argento. Il tipo dell’agenzia di pegni era sveglio e quando il cinese gli portò l’orologio lo riconobbe al volo. Lo tenne lì ad aspettare con un pretesto qualsiasi e intanto chiamò un poliziotto che accorse, lo arrestò e lo portò subito da me. Lo accolsi come un fratello perduto da tempo. Non sono mai stato così contento di vedere qualcuno in vita mia. Sa, io non ce l’ho coi criminali; in genere mi dispiace per loro perché giocano una partita in cui l’avversario ha in mano tutti gli assi e tutti i re; ma quando ne acciuffo uno provo un piccolo fremito di soddisfazione, come quando ti riesce una finezza a bridge. Finalmente il mistero stava per essere svelato, poiché se il cinese non aveva commesso il crimine, potevamo star certi che attraverso di lui saremmo risaliti agli assassini. Gli feci un sorriso smagliante.
«Gli domandai di spiegarmi come fosse venuto in possesso dell’orologio. Rispose che l’aveva acquistato da un tizio che non conosceva. Poco convincente. Gli spiegai brevemente la situazione, e che sarebbe stato condannato per omicidio. Volevo spaventarlo e riuscii nell’intento. Allora disse che l’aveva trovato.
«“Trovato?” dissi. “Ma pensa un po’. E dove?”.
«La sua risposta mi lasciò interdetto. Disse che l’aveva trovato nella giungla. Gli risi in faccia e gli chiesi se secondo lui lasciare gli orologi nella giungla era un’usanza diffusa; poi disse che camminando per il sentiero che va da Kabulong ad Alor Lipis si era spinto nella giungla e a un certo punto aveva visto qualcosa che luccicava, ed era l’orologio. Certo era strano. Perché mai avrebbe dovuto dire che l’aveva trovato proprio lì? O era sincero, o estremamente astuto. Gli chiesi dov’erano la catenella e i sigilli, e me li mostrò subito. Gli avevo messo paura ed era pallido e tremante; era un mingherlino con le gambe storte, avrei dovuto essere un fesso per pensare di trovarmi di fronte all’assassino. Ma l’aria spaventata mi faceva pensare che stesse comunque nascondendo qualcosa.
«Gli chiesi quando aveva trovato l’orologio.
«“Ieri” rispose.
«Gli chiesi cosa faceva sulla scorciatoia tra Kabulong e Alor Lipis. Disse che per un po’ aveva lavorato a Singapore; in seguito era andato a Kabulong perché suo padre era malato, e poi era venuto ad Alor Lipis sempre per lavoro. Un amico del padre, un falegname, gli aveva offerto un impiego. Mi diede il nome di entrambi i datori di lavoro. Quanto diceva era plausibile, e così facilmente verificabile che avrebbe avuto poco senso mentire. Pensai che, se aveva davvero trovato l’orologio nella giungla, questo vi era rimasto per più di un anno, e dunque doveva essere in pessime condizioni; cercai di aprirlo ma non ci riuscii. Anche il prestatore su pegno era venuto alla stazione di polizia, era nella stanza accanto che aspettava; per mia fortuna si intendeva di orologi. Lo mandai a chiamare e gli chiesi di dare un’occhiata. Quando lo aprì emise un lieve fischio: gli ingranaggi erano tutti arrugginiti.
«“Questo orologio no bene” disse scuotendo la testa. “No funziona mai più”.
«Gli chiesi cosa poteva averlo ridotto così, e senza saper niente di tutta la storia disse che doveva essere rimasto a lungo esposto all’umido. Per minare il morale del prigioniero, lo feci rinchiudere in cella e mandai a chiamare il suo datore di lavoro. Inviai un telegramma a Kabulong e uno a Singapore. Nell’attesa, cercai di fare due più due. Mi veniva da credere alla storia del cinese; il suo spavento poteva dipendere dal semplice senso di colpa per aver cercato di vendere un oggetto trovato. Anche chi è perfettamente innocente può innervosirsi quando è nelle mani della polizia; per qualche ragione coi poliziotti la gente non si sente mai a proprio agio. Ma se aveva davvero trovato l’orologio dove diceva, qualcuno doveva avercelo gettato. Ora, questo è a dir poco inusuale. Anche se gli assassini avessero reputato pericoloso rivenderlo, avrebbero potuto fondere l’oro, cosa che qualsiasi indigeno sa fare. E la catenella era così comune da essere irrintracciabile – qui ogni gioielliere vende catenelle simili. C’era la possibilità che l’orologio fosse caduto durante la fuga nella giungla, e che nella fretta avessero avuto paura di tornare indietro. Ma non mi sembrava molto plausibile: i malesi sono abituati a portare oggetti avvolti nei sarong, e i cinesi hanno vesti con le tasche. Inoltre, una volta nella giungla, non c’era più fretta; probabilmente era lì che avevano diviso la refurtiva.
«Quando l’uomo che avevo mandato a chiamare arrivò, confermò la versione del prigioniero; dopo un’ora ricevetti la risposta da Kabulong. La polizia era stata dal padre, che aveva detto che il ragazzo era andato ad Alor Lipis a lavorare come falegname. Finora sembrava avesse detto la verità. Lo convocai di nuovo e gli dissi che saremmo andati dove diceva di aver trovato l’orologio perché mi mostrasse il punto esatto. Lo ammanettai a un poliziotto - anche se non ce n’era bisogno, il poveraccio tremava come una foglia – e mi portai appresso un altro paio di agenti. Camminammo lungo il sentiero; il cinese si fermò a meno di cinque metri dal luogo in cui era stato ucciso Bronson.
«“Qui” disse.
«Si inoltrò nella giungla e noi lo seguimmo. Dopo una decina di metri indicò una fessura tra due massi e disse che l’aveva trovato lì. Era un caso se l’aveva scorto, e se non mentiva sembrava proprio che qualcuno avesse voluto nasconderlo».
Gaze si interruppe e mi lanciò un’occhiata assorta.
«Lei cosa avrebbe pensato a quel punto?» mi chiese.
«Non saprei» risposi.
«Bene, le dirò cosa ho pensato io. Se lì c’era l’orologio, poteva esserci anche il denaro. Certo, cercare l’ago nel pagliaio è un gioco da salotto al paragone, ma non mi restava altro da fare. Liberai anche il cinese; avevo bisogno di tutto l’aiuto disponibile. Lui, i miei tre uomini e io partimmo separatamente dalla strada; setacciammo il sentiero per cinquanta metri per il lungo, e cento metri per il largo. Frugammo tra le foglie secche e nei buchi degli alberi, ci infilammo nei cespugli e sollevammo i sassi. Sapevo che era un’impresa folle, che avevamo una probabilità su mille di riuscire; puntavo sul fatto che chi ha appena commesso un omicidio è sconvolto, e se deve nascondere qualcosa lo fa in fretta; sceglie il primo nascondiglio che si trova davanti. Con l’orologio aveva fatto così. Per questo limitai la ricerca a un’area circoscritta.
«Cercammo a lungo. Iniziavo a essere stanco e contrariato. Sudavamo come maiali. Avevo una sete infernale e non una goccia da bere. Alla fine decisi che, almeno per quel giorno, dovevamo arrenderci all’evidenza, era troppo difficile; quando all’improvviso il cinese – occhio di lince – emise un suono gutturale. Si accovacciò e, da sotto una radice tutta ritorta, tirò fuori una cosa ammuffita e puzzolente. Era un portafoglio, esposto alle intemperie per un anno, smangiato da formiche, coleotteri e Dio sa cosa, lercio, zuppo, ma nondimeno un portafoglio: quello di Bronson. Al suo interno c’erano gli informi rimasugli, fetidi e consunti, delle banconote di Singapore che aveva ritirato dalla banca di Kabulong. Mancavano solo le monete d’argento ed ero certo che fossero nascoste da qualche parte lì in giro, ma lì potevano restare. Avevo già scoperto una cosa molto importante: chi aveva ucciso Bronson non ci aveva ricavato il becco di un quattrino.
«Si ricorda delle impronte lasciate da Bronson, quando presumibilmente si era fermato a parlare con qualcuno? Bronson era un tipo massiccio e le impronte erano molto marcate. Non aveva appoggiato i piedi sulla sabbia per un attimo, ma doveva essersi fermato per qualche minuto. Io mi ero immaginato che si fosse intrattenuto con un malese o un cinese, ma più ci pensavo meno la cosa mi convinceva. Perché diavolo avrebbe dovuto farlo? Bronson voleva tornarsene a casa e, per quanto fosse gioviale, non si perdeva certo in smancerie con gli indigeni. Li trattava come il padrone tratta i suoi servi. Da sempre quelle impronte mi avevano lasciato perplesso. E ora la verità mi folgorò: chiunque avesse ucciso Bronson non l’aveva fatto per derubarlo, e se lui si era fermato per parlare con qualcuno poteva solo trattarsi di un amico. Finalmente avevo scoperto l’assassino».
Considero i gialli un tipo di letteratura alquanto ingegnosa e divertente, e mi è sempre spiaciuto di non avere le doti necessarie per scriverne; però ne ho letti parecchi, e mi compiaccio del fatto che solo in pochi casi non ho risolto il mistero prima che mi venisse svelato. Così, era da un po’ che avevo capito dove Gaze sarebbe andato a parare, eppure confesso che quando infine lo disse provai un certo turbamento.
«Aveva incontrato Cartwright. Cartwright era lì a sparare ai piccioni. Bronson si era fermato a chiedergli com’era andata, e quando era ripartito l’altro gli aveva puntato la doppietta alla nuca e gli aveva sparato. Poi gli aveva preso i soldi e l’orologio, di modo che sembrasse una rapina, li aveva nascosti frettolosamente nella giungla, aveva camminato sul bordo del sentiero finché aveva raggiunto la strada, era rientrato al bungalow, si era cambiato per il tennis, e aveva accompagnato la Bronson al club.
«Mi ricordai di come aveva giocato male a tennis e di come era sbiancato quando sulle prime, nel tentativo di addolcire la pillola, avevo detto che Bronson non era morto ma ferito. Se fosse stato solo ferito, avrebbe potuto parlare. Santo cielo, se la sarà vista brutta in quel momento. Il padre del bambino era Cartwright. Lei l’ha vista con i suoi occhi, Olive. Il dottore aveva detto che Mrs Bronson aveva preso male la notizia della gravidanza e gli aveva fatto promettere di non dire niente a Bronson. Perché? Perché Bronson sapeva di non poter avere figli».
«Secondo lei Mrs Bronson era al corrente di cosa aveva fatto Cartwright?».
«Certo. Se ripenso al suo comportamento quella sera al club, non ho alcun dubbio. Era sconvolta, ma non perché Bronson era morto, bensì perché avevo detto che era soltanto ferito. E se era scoppiata a piangere quando le avevo detto che l’avevano trovato morto, era per il sollievo. La conosco bene quella donna. Pensi al suo mento squadrato e mi dica se non ha un’audacia diabolica. Ha una volontà di ferro. È lei che ha spinto Cartwright a farlo. Ha pianificato ogni dettaglio e previsto ogni mossa. Lui era totalmente succube; lo è tuttora».
«Ma mi sta dicendo che né lei né nessun altro avevate mai sospettato che tra loro due ci fosse qualcosa?».
«Mai. Mai».
«Se erano innamorati e sapevano che lei aspettava un bambino, perché non se la sono semplicemente svignata?».
«E come avrebbero fatto? I soldi erano di Bronson, né lei né Cartwright avevano il becco di un quattrino. Lui era disoccupato, e crede che qualcuno l’avrebbe più assunto, dopo aver combinato una cosa del genere? Bronson l’ha praticamente salvato dalla strada, e lui gli soffia la moglie. Non avevano alternative. Non potevano permettersi di lasciar trapelare la verità, l’unica soluzione era togliere di mezzo Bronson, ed è quello che han fatto».
«Avrebbero potuto affidarsi alla sua misericordia».
«Immagino si vergognassero troppo. Lui era stato così buono con loro, era davvero un brav’uomo, non avevano il coraggio di dirgli la verità. Hanno preferito ucciderlo».
Ci fu un momento di silenzio. Stavo riflettendo sulle parole di Gaze.
«Be’, e a quel punto lei cos’ha fatto?».
«Niente. Cosa potevo fare? Che prove avevo in mano? I soldi li poteva aver nascosti qualcuno che non aveva più avuto il fegato di tornare a prenderli. L’assassino poteva essersi accontentato delle monete d’argento. Le impronte? Bronson poteva essersi fermato ad accendere una sigaretta, oppure sul sentiero c’era un tronco e aveva aspettato che dei coolie che passavano di lì lo spostassero. Chi poteva provare che il bambino che una donna rispettabile come Mrs Bronson aspettava da cinque mesi prima della sua morte non fosse suo figlio? Nessuna giuria avrebbe condannato Cartwright. Io mi morsi la lingua, e l’omicidio di Bronson venne dimenticato».
«Dubito che l’abbiano dimenticato i Cartwright» suggerii.
«Non mi stupirebbe. La memoria umana è incredibilmente corta e, se vuole il mio parere professionale, il rimorso non tormenta chi l’ha fatta franca».
Pensai nuovamente alla coppia che avevo conosciuto quel pomeriggio, l’anziano pelato e mingherlino coi suoi occhiali d’oro, e la donna trascurata dai capelli bianchi, il fare diretto, e il sorriso cortesemente caustico. Era quasi impossibile immaginarsi che in un passato lontano fossero stati mossi da una passione così violenta – perché solo questa poteva spiegare il loro comportamento – da vedere solo una via d’uscita, un omicidio crudele, a sangue freddo.
«Non si sente un po’ a disagio in loro compagnia?» chiesi a Gaze. «Non voglio fare il moralista, ma non posso pensare che siano delle brave persone».
«È qui che si sbaglia. Sono delle bravissime persone; senz’altro le persone più piacevoli qui in giro. Mrs Cartwright è una donna in gamba ed estremamente spiritosa. Prevenire il crimine e arrestare i colpevoli è il mio lavoro, ma ho incontrato troppi criminali in vita mia per poter pensare che siano peggiori di noi. Le circostanze possono portare una persona più che rispettabile a commettere un crimine, e se viene scoperta viene punita; ma non per questo smette di essere una persona rispettabile. Certo, la società la punisce perché ha infranto le sue leggi, ed è giusto, ma non sempre le azioni permettono di giudicare un uomo. Se lei fosse un poliziotto di vecchia data come me, saprebbe che non è quel che uno fa che conta, è quello che uno è. Per fortuna il poliziotto non deve occuparsi dei pensieri, ma solo delle azioni; altrimenti sarebbe tutta un’altra storia, e assai più complessa».
Gaze appoggiò il suo cheroot sul posacenere e mi guardò di sottecchi con un sorriso sardonico ma gradevole.
«Le dirò una cosa, c’è un lavoro che davvero non vorrei mai fare» disse.
«E quale sarebbe?» chiesi.
«Quello di Dio, nel giorno del giudizio rispose. «Nossignore!».