MISS ZILPHIA GANT
1
Jim Gant faceva il mercante di bestiame. Comprava cavalli e muli in tre contee limitrofe, e con un aiutante, un ragazzo scemo con un corpaccione sgraziato, li portava per settantacinque miglia fino ai mercati di Memphis.
Caricavano l’attrezzatura da campo su un carro, e a ogni trasferta passavano sotto un tetto soltanto una notte. Questo accadeva verso la fine del viaggio, quando all’imbrunire raggiungevano... il primo segno della mano dell’uomo dopo quasi quindici miglia di giungla fluviale di cipressi e canne, e fossi scavati dall’acqua e pini di seconda crescita... una grande casa di tronchi con le pareti massicce, il tetto a pezzi e senza la minima traccia di agricoltura... né un aratro né un pezzo di terra coltivato... da nessuna parte. Di solito c’erano dei carri davanti alla casa, uno, due, anche una dozzina, e lì accanto, in un recinto di paletti spaccati, i muli scalpitavano masticando la biada, di solito con qualche finimento ancora addosso; il luogo nell’insieme aveva un’aria di caduco e sinistro sfacelo.
Qui Gant si mescolava con altre carovane simili alla sua, o a volte ancora più equivoche, di rudi uomini in tuta da lavoro e con la barba incolta; insieme mangiavano robaccia mal cotta e bevevano un whiskey di mais pallido e pestilenziale, e dormivano sull’assito davanti al fuoco con gli stivali ai piedi e i vestiti infangati. La taverna era tenuta da una donna piuttosto giovane, con lo sguardo freddo e la parola aspra e infrequente. C’era anche un uomo, che si teneva in disparte, piuttosto anziano, con degli occhietti rossi e astuti da porco, e capelli e barba arruffati che nascondevano una faccia debole dandole un’aria feroce. Di solito quest’uomo era ridotto dal bere in uno stato di scontrosa demenza, ma di quando in quando lo si sentiva scambiarsi insulti con la donna, in fondo alla stanza o dietro una porta chiusa, la voce della donna fredda e tranquilla, quella di lui da un basso brontolante al querulo soprano di un bimbo.
Quando aveva venduto le sue bestie Gant tornava a casa, nel villaggio dove abitavano sua moglie e la bambina. Non era neppure un villaggio, poche case a venti miglia dalla ferrovia, in una parte sperduta di una contea sperduta. Mrs. Gant e la bambina, che aveva due anni, vivevano da sole in quella casetta per tutto il tempo che Gant era via, e cioè quasi sempre. Stava a casa forse una settimana su otto. Mrs. Gant non sapeva mai in che giorno o a che ora il marito sarebbe tornato. Spesso capitava fra la mezzanotte e l’alba. Una mattina verso l’alba venne svegliata da qualcuno che davanti alla casa gridava «Ehi! Ehi!» a intervalli regolari. Aprì la finestra e guardò fuori. Era lo scemo.
«Sì?» gli disse. «Che c’è?».
«Ehi!» sbraitò lo scemo.
«Smettila di urlare!» disse Mrs. Gant.
«Dov’è Jim?».
«Jim ha detto di dirle che non torna più a casa» sbraitò lo scemo. «Lui e Mrs. Vinson se ne sono andati via col carro. Jim ha detto di dirle di non aspettarlo più». Mrs. Vinson era la donna della taverna. Lo scemo era in piedi nella luce crescente del giorno mentre Mrs. Gant, con una berretta da notte di cotone bianco, si sporgeva dal davanzale e imprecava contro di lui con la violenza brutale di un uomo. Poi richiuse la finestra con un colpo secco.
«Jim mi deve un dollaro e settantacinque» sbraitò lo scemo. «Ha detto che me li dava lei». Ma la finestra era chiusa, e la casa era di nuovo silenziosa: non si era neanche acceso un lume. Lo scemo però rimase fermo dov’era e continuò a gridare «Ehi! Ehi!» alla muta facciata, finché la porta si aprì e ne uscì Mrs. Gant in camicia da notte e con un fucile, imprecando ancora. Allora lui batté in ritirata e raggiunse la strada, dove si fermò ancora nella luce incerta del mattino, gridando «Ehi! Ehi!» verso la casa muta, finché non si stancò e se ne andò via.
Il giorno dopo, appena sorto il sole, Mrs. Gant andò da una vicina con la bambina addormentata avvolta in una trapunta e le chiese di tenergliela. A un altro vicino chiese in prestito un revolver, e si mise in strada. Un carrettiere di passaggio, che era diretto a Jefferson, la prese su, e Mrs. Gant, eretta nel suo malandato soprabito marrone sul sedile che scricchiolava, scomparve lentamente alla vista.
Per tutta la giornata lo scemo continuò a raccontare di quel dollaro e settantacinque che Gant si era fatto dare dicendogli che l’avrebbe rimborsato sua moglie. Arrivò mezzogiorno e l’aveva raccontato a tutti, uno per uno, e arrochito, garrulo e ripetitivo si offriva di raccontarlo di nuovo mentre andavano allo spaccio per parlare della faccenda del revolver. Come un ossesso li inseguiva gesticolando con la sua tuta scolorita, un gran ciuffo di capelli spettinati, lo sguardo delirante e un po’ di bava all’angolo della bocca, e parlava sempre del suo dollaro e settantacinque.
«Jim ha detto di farmeli dare da lei. Ha detto che me li dava».
Ne stava ancora parlando quando, dieci giorni dopo, Mrs. Gant tornò. Restituì il revolver con un secco grazie. Non l’aveva nemmeno pulito, né aveva estratto le due cartucce che erano state sparate... una donna forte, ancora giovane, col viso largo e duro, che era stata avvicinata più d’una volta durante il suo soggiorno in quei sobborghi equivoci di Memphis nei quali, con micidiale intuito femminile e un inesorabile senso del peccato (lei che non era mai stata più in là del capoluogo di contea, che non aveva mai letto una rivista né visto un film), era andata a cercare Gant e la donna con l’abilità di un uomo, con la pertinacia di una parca, con la serena impenetrabilità di una vestale che esce da un tempio violato, e poi era tornata dalla sua bambina, la faccia fredda, casta e sazia.
La sera stessa bussarono alla porta. Era lo scemo.
«Jim ha detto che lei mi dava quel dollaro e sett...».
Mrs. Gant gli diede un pugno, abbattendolo con un colpo solo. Lui rimase sull’assito con le mani un po’ alzate, la bocca che cominciava ad aprirglisi per il terrore e la rabbia. Ma prima che potesse strillare lei si chinò e lo colpì di nuovo, lo tirò su con uno strattone e lo tenne fermo mentre fra le sue urla roche lo picchiava sulla faccia. Poi lo sollevò di peso, lo fece volare dal portico sulla nuda terra, ed entrò in casa, dove le grida avevano svegliato la bambina. Si sedette, la prese in grembo e la cullò, coi tacchi che battevano forte al ritmo delle braccia, e la calmò cantando con una voce più forte e più potente di quella di lei.
Tre mesi dopo vendette la casa ricavandone una buona somma; e se ne andò, portando con sé un vecchio baule malconcio legato con lo spago, il fucile e la trapunta nella quale dormiva la bambina. Si seppe in seguito che aveva comprato una bottega da sarta a Jefferson, il capoluogo della contea.
2
In città si raccontava che lei e sua figlia, Zilphia, erano vissute per ventitré anni in una sola stanza di quattro metri per quattro. Era sul retro della sartoria, separata da un tramezzo, e conteneva un letto, un tavolo, due sedie e una stufa a petrolio. La finestra dava su uno spiazzo vuoto, dove nei giorni di mercato i contadini venivano a legare i cavalli e i muli, e stormi di passeri frullavano in nugoli turbinosi fra lo sterco degli animali e i rifiuti della drogheria lì sotto. La finestra aveva un’inferriata, e dietro questa, durante i sette anni che passarono prima che l’ufficiale sanitario obbligasse Mrs. Gant a mandare Zilphia a scuola, i contadini che legavano o slegavano le bestie vedevano un visino esangue che li osservava o, premuto contro le sbarre, tossiva: un flebile rumore secco che presto svaniva nell’aria, lasciando l’immobile viso bianco come prima, con un qualcosa che faceva pensare a una ghirlanda natalizia su una finestra dimenticata.
«Chi è quella?» chiese un contadino.
«È la ragazzina di Gant. Jim Gant, quello che abitava alla curva del fiume».
«Ah, Jim Gant. Sì, ne ho sentito parlare». Guardarono quel viso. «Eh già, ho proprio idea che la Gant non ne voglia più sapere degli uomini». Guardarono quel viso: «Ma questa è ancora una bambina».
«Secondo me la Gant non vuole correre rischi».
«Non è lei a correre rischi. Il rischio lo corre chi ci prova».
«Già, proprio così».
Questo avveniva prima che Mrs. Gant sorprendesse Zilphia e il ragazzo nel bosco, avvolti in una logora coperta da cavallo. Era il periodo in cui tutte le mattine, e poi di nuovo all’una, si vedevano madre e figlia andare a piedi fino a scuola, e ogni mezzogiorno, e poi nel pomeriggio, tornare nella stanzetta con l’inferriata che dava sullo spiazzo. All’ora della ricreazione del mattino Mrs. Gant chiudeva la bottega, e quando suonava la campana era già all’angolo del cortile della scuola, eretta nel suo vestito informe di un nero opaco, con un grembiale da sarta di tela cerata e il petto festonato da tanti aghi col filo nella cruna: ancora piacente in un suo modo aspro. Zilphia le veniva incontro spedita attraverso il cortile, e si sedevano tutte e due sul muretto accanto alla strada, fianco a fianco e senza parlare, mentre gli altri bambini correvano avanti e indietro alle loro spalle lanciando di tanto in tanto un grido; finché la campana suonava di nuovo, e Zilphia tornava ai suoi libri e Mrs. Gant alla bottega e al cucito che aveva messo da parte.
Si raccontava che era stata una cliente di Mrs. Gant a far andare Zilphia a scuola. Un giorno, nella bottega, cominciò a parlare a Zilphia della scuola; Zilphia aveva nove anni. «Tutti i bambini e le bambine ci vanno. Ti piacerà». La donna dava la schiena alla stanza, e non si accorse che la macchina da cucire si era fermata: vide solo gli occhi di Zilphia svuotarsi di colpo, e un momento dopo riempirsi di terrore. Mrs. Gant le sovrastava.
«Se ne torni a casa sua» disse. Zilphia... Zilphia non si allontanò: parve dissolversi dietro quel suo viso esangue e incancellabile e quegli occhi terrorizzati. La cliente si alzò: Mrs. Gant le stava cacciando fra le braccia un ammasso di stoffa. «Fuori di qui» disse.
La cliente indietreggiò con le mani alzate mentre il vestito incompiuto ricadeva a cascata sul pavimento. Mrs. Gant lo raccolse e glielo ricacciò fra le braccia, le mani contratte in una serie di percosse trattenute. «Fuori dalla mia bottega» disse. «Non si faccia vedere mai più».
Mrs. Gant tornò nella stanza. Zilphia era rannicchiata in un angolo e guardava la porta. Mrs. Gant la prese per un braccio esile e la tirò su. Cominciò a batterla, colpendola con la mano aperta su tutto il corpo; l’esile braccio di Zilphia parve allungarsi come un tubo di gomma mentre la bambina si dibatteva e si torceva in silenzio. «Megere!» imprecava Mrs. Gant. «Megere!». Poi, sempre all’improvviso, si fermò, sedette sul letto e trasse Zilphia a sé. Zilphia fece resistenza. Si mise a piangere e a vomitare, rovesciando gli occhi finché si vide solo il bianco, continuando a urlare fra un conato e l’altro. Mrs. Gant la mise a letto e mandò a chiamare il dottore.
In quel periodo Zilphia era magra come un chiodo, col viso esangue e tormentato e grandi occhi non del tutto sottomessi; andava e tornava da scuola al fianco di sua madre, dietro la piccola maschera tragica del suo viso. Un giorno, quando era al terzo anno, si rifiutò di andare a scuola. Non voleva dire la ragione a Mrs. Gant: che si vergognava di essere sempre vista per strada in compagnia di sua madre. Mrs. Gant non la lasciò interrompere la scuola, e in primavera Zilphia si ammalò di nuovo, di anemia, di nervi, di solitudine e di pura e semplice disperazione.
Stette male per molto tempo. Il dottore disse a Mrs. Gant che aveva bisogno di compagnia, di giocare con i bambini della sua età e all’aria aperta. Un giorno, durante la convalescenza, Mrs. Gant arrivò a casa con una cucina giocattolo. «Ora potrai invitare a casa le amiche, e potrai cucinare» le disse. «Non è più bello che andare a trovarle a casa loro?». Zilphia, non meno bianca del cuscino sul quale poggiava, aveva due occhi che sembravano buchi fatti col pollice in un pezzo di carta assorbente. «Potrai far merenda con le tue amiche tutti i giorni» disse Mrs. Gant. «Io cucirò i vestitini per tutte le bambole».
Zilphia si mise a piangere. Piangeva con la testa sul cuscino, le braccia distese lungo i fianchi. Mrs. Gant prese la cucina e la riportò al negozio, facendosi restituire i soldi.
La convalescenza durò molto a lungo. Zilphia aveva ancora crisi di pianto improvvise. Quando fu di nuovo in piedi Mrs. Gant le chiese quali delle sue amiche voleva andare a trovare. Zilphia ne nominò tre o quattro. Quel pomeriggio Mrs. Gant chiuse la bottega. La videro in tre diverse parti della città, mentre guardava le case. Fermava i passanti: «Chi abita qui?» domandava. Glielo dicevano. «Quanti sono in famiglia?». Il passante la guardava fisso, e lei sosteneva lo sguardo: una donna forte, ancora piacente. «Hanno dei figli maschi?».
Il giorno seguente diede a Zilphia il permesso di far visita a una di quelle ragazze. Certi giorni Zilphia, uscendo da scuola, andava dall’amica e si mettevano a giocare nel granaio, o in casa se faceva cattivo tempo. A una certa ora compariva al cancello Mrs. Gant, con uno scialle nero e il cappello, e madre e figlia tornavano nella stanza con l’inferriata che dava sullo spiazzo. E ogni pomeriggio... dietro il granaio c’era un breve tratto di terreno da pascolo, che digradava verso un fossato dove crescevano dei cedri nani... fra questi cedri Mrs. Gant sedeva su una cassetta di legno, da quando finiva la scuola finché per Zilphia era l’ora di tornare a casa, e allora nascondeva la cassetta e faceva il giro passando dalla strada accanto, per presentarsi al cancello e aspettare che Zilphia uscisse. Non sorvegliava il granaio, né, d’inverno, la casa: restava semplicemente seduta lì... una donna che in dodici anni aveva preso a poco a poco l’aspetto di un uomo, finché ora, a quarant’anni, aveva una lieve ombra di baffi agli angoli della bocca... con la pazienza senza tempo della sua educazione campagnola e la sua fredda e implacabile paranoia, nella buona stagione o con lo scialle stretto intorno al corpo per difendersi dalla pioggia e dal freddo.
Quando Zilphia ebbe tredici anni Mrs. Gant cominciò a esaminare il suo corpo una volta al mese. La faceva spogliare nuda e stare in piedi davanti a lei, rattrappita per la paura, mentre la luce crudele entrava fra le sbarre e il grigio inverno avanzava sullo spiazzo. Dopo una di queste visite... era primavera... raccontò a Zilphia cosa aveva fatto suo padre e cosa aveva fatto lei. Era seduta sul letto, mentre Zilphia tutta rattrappita si rivestiva in fretta, e le raccontò ogni cosa con voce fredda e piana, usando parole da uomo mentre il corpo magro di Zilphia rimpiccioliva, come ripiegandosi su se stesso, come sotto l’impatto di quelle parole. Poi la voce tacque. Mrs. Gant sedeva sul letto dritta e immobile, i folli occhi gelidi vacui come quelli di una statua; e a Zilphia, in piedi davanti a lei, con la bocca un po’ aperta, venne in mente una roccia o una montagna dalla quale un torrente straripato all’improvviso si sia rovesciato fragorosamente a valle.
Vissero poi in una sorta di armistizio. Per giorni dormirono nello stesso letto e mangiarono lo stesso cibo in assoluto silenzio; seduta alla macchina da cucire, senza nemmeno alzare la testa Mrs. Gant sentiva i passi di Zilphia che traversavano la stanza e cessavano oltre le scale e sulla strada. Eppure ogni tanto chiudeva la sartoria, e con lo scialle attorno alle spalle andava nelle strade e nei vicoli meno frequentati alla periferia della città, e dopo un po’ trovava Zilphia che camminava veloce e senza meta. Allora tornavano insieme a casa senza dire una parola. Un pomeriggio, Zilphia e il ragazzo erano distesi sotto la coperta, in un fosso tra i boschi ai margini della città, a un tiro di schioppo dalla strada maestra. Lo facevano da circa un mese: stavano sdraiati fianco a fianco, presi dai medesimi, vaghi, magnetici spasimi della pubertà, rigidi, con gli occhi chiusi, senza nemmeno parlare. Quando Zilphia aprì gli occhi vide il viso capovolto di Mrs. Gant che la guardava e il suo corpo scorciato contro il cielo.
«Alzati» disse Mrs. Gant. Zilphia la guardava in silenzio. «Alzati, cagna» disse Mrs. Gant.
Il giorno dopo Zilphia smise di andare a scuola. Con indosso un grembiale da sarta di tela cerata, si mise su una sedia presso la finestra che dava sulla piazza; accanto a lei la macchina di Mrs. Gant ronzava senza mai fermarsi. La finestra non aveva inferriata. Guardando fuori Zilphia vedeva i ragazzi coi quali era andata a scuola cominciare a formare inevitabili coppie ed entrare e uscire dalla sua vista, alcuni per raggiungere la casa del pastore o la chiesa; un anno fece l’abito da sposa per la ragazza che un tempo andava a trovare; quattro anni dopo i vestitini per sua figlia. Zilphia restò seduta vicino a quella finestra per dodici anni.
3
In città tutti parlavano dell’innamorato di Miss Zilphia, con divertimento e pena e, qualche volta, con preoccupazione. «Si approfitterà di lei» dicevano. «Non bisognerebbe permetterlo. Una persona come lei... Certo non le rilascerebbero una licenza, anche se...». Zilphia era una donna linda, con una pettinatura linda. Aveva la pelle del colore del sedano, ed era rotondetta e un po’ flaccida; gli occhiali davano al viso un’aria smarrita e ascetica, e ingrandivano le iridi opache. Finché aveva un ago in mano, e non si sentiva osservata, i suoi movimenti erano sciolti e sicuri; ma per la strada, con addosso il cappello e i vestiti che le faceva sua madre, avevano la vaga, indefinibile incertezza dei miopi.
«Ma non penserai davvero che lei... naturalmente sua madre è pazza, ma Zilphia... povera ragazza...».
«È un’indecenza! Un imbianchino, un vagabondo. Qualcuno dovrebbe proteggerla. Come faccia sua madre a essere così cieca, io non riesco proprio...».
Era un giovane con i capelli neri e gli occhi color cenere di legna. Un giorno Mrs. Gant scoprì che stava pitturando da due giorni la finestra presso la sedia di Zilphia, e mandò Zilphia nella stanza sul retro, che adesso serviva da camerino: da due anni abitavano in una casetta di legno, desolata come l’illustrazione di un calendario, in una stradina nascosta. E quando l’imbianchino entrò a dipingere le pareti, Mrs. Gant chiuse la bottega e andò a casa con Zilphia. Per otto giorni Zilphia fece una vacanza, la prima in dodici anni.
Privata del suo ago e del lento lavorio meccanico delle dita, Zilphia cominciò ad aver male agli occhi e a non dormire bene. Si svegliava bruscamente da sogni in cui il pittore faceva cose mostruose col secchio e il pennello. In sogno aveva gli occhi gialli anziché grigi e non smetteva di masticare, mentre il mento svaniva dietro la bava sfocata; una notte Zilphia si svegliò perché stava dicendo ad alta voce: «Ma ha la barba!». Ogni tanto sognava il secchio e il pennello da soli: erano vivi, e compivano per conto proprio azioni dal significato mostruoso e rituale.
Dopo otto giorni Mrs. Gant si ammalò: l’ozio l’aveva ridotta a letto. Una sera venne il dottore. La mattina seguente Mrs. Gant si alzò, si vestì, chiuse Zilphia in casa e andò in città. Zilphia rimase a guardare dalla finestra la figura della madre avvolta nello scialle nero percorrere pian piano e con fatica la via, fermandosi ogni tanto per appoggiarsi allo steccato. Tornò un’ora dopo con una vettura a nolo, chiuse la porta e portò la chiave a letto con sé.
Per tre giorni e tre notti Zilphia sedette accanto al letto in cui quella donna scarna e mascolina... i baffi erano diventati più folti e leggermente brizzolati... giaceva rigida, le coperte tirate fino al mento e gli occhi chiusi. Per questo Zilphia non riusciva a capire se sua madre dormiva. A volte lo capiva dal respiro, e allora cercava con cura infinita tra le lenzuola dove fossero le chiavi. Il terzo giorno le trovò. Si vestì e uscì di casa.
L’interno della bottega era finito a metà, e puzzava di trementina. Aprì la finestra e vi portò accanto la sua vecchia sedia. Quando finalmente sentì i passi di lui sulle scale si accorse che si era messa a cucire, senza ricordare quale capo di vestiario fosse, né quando l’avesse cominciato. Con l’ago in mano alzò la testa per guardarlo, battendo un poco le palpebre dietro gli occhiali finché lui non glieli tolse.
«Io lo sapevo che appena ti levavi gli occhiali...» disse. «Non ho mai smesso di cercarti, mai. E quando lei è entrata e io stavo lavorando l’ho sentita per un bel pezzo sulle scale, fare uno scalino alla volta e poi fermarsi, finché è arrivata sulla porta, si reggeva alla porta e sudava come una negra. E anche dopo che è svenuta non ha mollato, non ha voluto restare svenuta, era lì stesa sul pavimento, tutta sudata, che tirava fuori i soldi dalla borsa e li contava, e mi ha detto che dovevo essere fuori città prima di sera». Era in piedi accanto alla sedia, gli occhiali fra le mani. Zilphia osservò l’orlo nerastro della pittura sotto le unghie e sentì il suo odore di trementina. «Ma io ti tiro fuori di qui. Quella vecchia! Quella vecchia terribile! Va a finire che ti ammazza. Ora lo so che è matta. Ho sentito cosa dicono: quello che ti ha fatto. Ho chiesto in giro. Quando mi hanno detto dove abitavi sono passato davanti alla casa, e la sentivo che mi guardava. Sentivo che mi guardava dalla finestra. Non si nascondeva: stava solo lì a guardarmi, e aspettava. Una sera sono entrato nel cortile. Dopo mezzanotte. La casa era al buio, ma io sentivo che guardava il buio dov’ero io, e aspettava. Mi fissava come quel giorno che era svenuta ma non voleva svenire finché io non avevo lasciato la città. Era lì stesa sul pavimento, tutta sudata, con gli occhi chiusi, e mi diceva di lasciare il lavoro così com’era e di lasciare la città prima di notte. Ma io ti tiro fuori di qui. Stasera. Subito. Basta così, mai più». Era in piedi accanto a lei. Il crepuscolo si infittiva; l’ultimo frullo di passeri svolazzò sulla piazza e si nascose fra le robinie attorno al tribunale. «Per tutto il tempo che ti guardavo continuavo a pensare che portavi gli occhiali, perché ho sempre detto che non volevo una donna con gli occhiali. Poi un giorno mi hai guardato, e allora tutt’a un tratto ti ho visto senza occhiali. Era come se gli occhiali erano spariti, e io sapevo che appena ti vedevo una volta senza, poi non mi importava più niente se li portavi o no...». Si sposarono dal giudice di pace, in tribunale. Ma poi Zilphia cominciò a tergiversare.
«No,» disse lui «non capisci? Se ritorni adesso, se corri il rischio che lei ti veda adesso...».
«Devo andare» disse Zilphia.
«Ha mai fatto qualcosa per te? Le devi forse qualcosa? Quella vecchia terribile. Non capisci? Se corriamo il rischio di andarci... Via, Zilphy, tu ora appartieni a me. L’hai detto al giudice, che farai come dico io, Zilphy. Ora che ce ne siamo andati, se ritorniamo...».
«Devo andare. È mia madre. Devo andare».
Era ormai il tramonto quando aprirono il cancelletto e si avviarono verso la casa. Zilphia rallentò il passo: la sua mano fredda tremava in quella di lui. «Non mi lasciare!» disse. «Non mi lasciare!».
«Io non ti lascerò se tu non mi lascerai. Ma non dovremmo... Su, siamo ancora in tempo. Io non ho paura per me. È per te, Zilphy...». Guardarono verso la casa. Mrs. Gant, tutta vestita, col cappello e lo scialle nero, era sulla porta col fucile in mano.
«Zilphy!» disse Mrs. Gant.
«Non andare!» disse lui. «Zilphy!».
«Dico a te, Zilphy» disse Mrs. Gant senza alzare la voce.
«Zilphy,» disse lui «se entri in quella casa... Zilphy!».
Zilphia fece qualche passo e salì i gradini con dei movimenti rigidi. Sembrava rimpicciolita, come crollata dal di dentro, più bassa, d’un tratto goffa.
«Entra in casa» disse Mrs. Gant senza voltare la testa. Zilphia varcò la soglia. «Entra» disse Mrs. Gant. «Chiudi la porta». Zilphia entrò e si girò per chiudere la porta. Vide quattro o cinque persone che si erano fermate a guardare lungo lo steccato. «Chiudila» disse Mrs. Gant. Zilphia chiuse la porta con cura, armeggiando un poco con la maniglia. La casa era silenziosa; nell’angusta anticamera le ombre del crepuscolo incombevano come un branco di elefanti immobili. Zilphia sentiva il proprio cuore battere debolmente, ma nessun altro suono, non un suono da quella porta che aveva chiuso in faccia a suo marito. E quella faccia non la vide mai più.
Per due giorni e due notti lui rimase nascosto, senza toccare cibo, in una casa abbandonata dall’altra parte della strada. Mrs. Gant chiuse la porta a chiave, ma invece di tornare a letto si sedette, tutta vestita meno il grembiale di tela cerata e gli aghi, su una sedia accanto alla finestra, reggendo con la mano il fucile appoggiato a terra. Restò lì per tre giorni, rigida, eretta, con gli occhi chiusi, sudando lentamente. Il terzo giorno l’imbianchino uscì dalla casa abbandonata e lasciò la città. Quella notte Mrs. Gant morì sulla sua sedia, eretta e tutta vestita.
4
Per i primi sei mesi Zilphia credette che lui, saputa la notizia, sarebbe venuto a prenderla. Aveva calcolato il giorno in cui sarebbero scaduti. «Tornerà prima» si era detta. «Dovrà tornare prima, perché io gli sono fedele»; ora che era libera non osava neppure pensare al perché dovesse aspettarlo. Per questa ragione lasciò la bottega finita a metà, così come lui l’aveva lasciata, come simbolo di fedeltà. «Ti sono stata fedele» diceva.
I sei mesi scaddero. Zilphia vide arrivare e passare quel giorno con molta calma. «Adesso» disse «è finita. Grazie a Dio. Grazie a Dio». Si rese conto di quanto fosse stato terribile attendere e credere, dover credere. Non c’era niente che ne valesse la pena. «Niente» disse, piangendo in silenzio nel buio, e sentendosi tranquilla e triste, come una bambina che fa un finto funerale a una bambola: «Niente».
Fece completare la pittura delle stanze. In principio l’odore della trementina era terribile per lei; le sembrava che cancellasse il tempo così come aveva cancellato venticinque anni di macchie sulle pareti. Le pareva che la sua vita si allungasse come gomma; da un certo momento in poi le parve che le sue mani si prolungassero in un’altra mano, che puntava gli spilli, provava gli abiti alle clienti. Così poteva pensare in pace, perché dietro l’innocuo rituale delle sue dita Zilphia Gant e suo marito erano come due bambole, furiose e tragiche ma morte stecchite.
La sartoria andava bene. Nel giro di un anno si era messa in società con un’altra sarta, ma continuava a vivere da sola in quella stessa casa. Si abbonò a tre o quattro giornali, pensando che un giorno o l’altro poteva imbattersi nel suo nome. Dopo un po’ cominciò a mettere messaggi, guardinghi ma significativi, sulle pagine degli annunci personali, alludendo a episodi che solo lui avrebbe potuto riconoscere. Prese a leggere tutte le partecipazioni di matrimonio, mettendo il proprio nome alla sposa, e il nome di lui allo sposo. Poi si spogliava e andava a letto.
Doveva fare attenzione, se voleva addormentarsi. Faceva molta più attenzione a addormentarsi che non a vestirsi. Ma anche così, ogni tanto commetteva un errore. Allora restava distesa nel buio, mentre il lauroceraso davanti alla finestra riempiva il silenzio col suo debole sentore di trementina, e cominciava a ondeggiare leggermente da una parte all’altra come una risacca che monta. Pensava a Gesù Cristo, sussurrando «Maria c’è riuscita anche senza un uomo. C’è riuscita!»; oppure, presa da una furia di eccitazione, le mani strette a pugno lungo i fianchi, le coperte scagliate lontano e le cosce spalancate che si agitavano in aria, violava più e più volte la sua inestirpabile verginità con fantasmi generativi evocati dalle tenebre ancestrali: «Io concepirò! Io riuscirò a concepire da sola!».
Una sera aprì il giornale e cominciò a leggere l’annuncio di un matrimonio celebrato in uno Stato vicino. Come al solito sostituì i nomi, e aveva già voltato la pagina quando si accorse di sentire un odore di trementina. Allora si rese conto che sostituire il nome dello sposo era stato inutile.
Ritagliò l’annuncio. Il giorno seguente andò a Memphis e vi rimase due giorni. Una settimana più tardi cominciò a ricevere tutte le settimane delle lettere che recavano come mittente il nome di un’agenzia investigativa. Aveva smesso di leggere i giornali; gli abbonamenti scaddero. Tutte le notti sognava l’imbianchino. Ora lui le voltava la schiena: solo dai gomiti poteva leggere i movimenti familiari di secchio e pennello. E nel sogno c’era qualcuno davanti a lui, qualcuno che lei non riusciva a vedere perché era nascosto da quella schiena, che più che schiena di uomo era schiena di capro.
Diventò pingue, di una pinguedine flaccida e nei posti sbagliati. Gli occhi, dietro le lenti cerchiate di corno, erano leggermente sporgenti, di un torbido verde oliva. La sua socia diceva che dal punto di vista igienico non era eccessivamente scrupolosa. La gente la chiamava Miss Zilphia: il matrimonio, quel sensazionale avvenimento di tre giorni, non veniva mai menzionato. Quando, ogni settimana, andava a ritirare le lettere da Memphis all’ufficio postale, il direttore la prendeva in giro sul suo innamorato di città, e anche in questo c’era più compassione che ipocrisia. Dopo un altro anno entrambe si erano attenuate.
Grazie a quelle lettere lei sapeva come vivevano. Sapeva più cose su ciascuno dei due di quante ne sapesse l’altro. Sapeva dei loro litigi e ne esultava; sapeva delle riconciliazioni, e provava una disperazione rabbiosa e impotente. A volte, la notte, diventava uno di loro; entrava a turno nei loro corpi, crocifissa nuovamente dalla sua ubiquità, e partecipe di estasi tanto più laceranti in quanto vicarie, e trascendenti la realtà della carne.
Una sera ricevette la lettera che la informava che la moglie era incinta. La mattina dopo svegliò una vicina precipitandosi fuori di casa, in camicia da notte, gridando. Fecero venire il dottore, e quando stette meglio disse che aveva scambiato il veleno per i topi per polvere dentifricia. Il direttore dell’ufficio postale raccontò al dottore delle lettere, e i due ripresero a guardarla con interesse e compassione curiosa. «Un’altra volta!» dissero, anche se le lettere continuavano ad arrivare. «Che infamia! Povera ragazza!».
Quando si fu riavuta sembrava più bella. Era dimagrita, gli occhi erano più limpidi, e per un certo periodo di notte dormì tranquilla. Dalle lettere sapeva la data del parto, e quel giorno andò all’ospedale. Sebbene si fosse completamente rimessa, per qualche tempo non sognò più, ma le tornò l’abitudine che aveva preso a dodici anni, di svegliarsi nel sonno perché piangeva, e quasi ogni notte restava distesa nel buio e nel profumo del lauroceraso, piangendo in silenzio e disperatamente fra sonno e dormiveglia. Quanto deve durare? si chiedeva immobile al buio nel morente fruscio di trementina, prosciugata, a furia di lacrime, perfino della disperazione: quanto?
Durò per molto tempo. Scomparve dalla città per tre anni, poi ritornò. Dieci anni dopo ricominciò a sognare. A quel tempo andava e veniva da scuola due volte al giorno con la mano della figlia nella sua: per strada appariva composta e sicura di sé, e affrontava la città con uno sguardo pacato e tranquillo. Ma la notte, secondo la vecchia abitudine, si svegliava ancora per il suo stesso pianto, e restava a occhi spalancati dopo un sonno nel quale, ormai da qualche tempo, sognava dei negri. «Mi sta per succedere qualcosa» diceva ad alta voce nell’oscurità silenziosa e nel profumo. E qualcosa le successe davvero: un giorno, ecco, era successo, e da allora non sognò quasi più niente, o solo di cose da mangiare.
5
Arrivò finalmente la lettera che annunciava la nascita di una figlia e la morte della madre. Allegato alla lettera c’era un ritaglio di giornale. Il marito era rimasto ucciso da un’automobile mentre attraversava la strada per entrare nell’ospedale.
Il giorno seguente Zilphia partì. La sua socia disse che sarebbe stata via un anno e forse più, per rimettersi dalla malattia. Le lettere dell’innamorato di città non arrivarono più.
Restò lontana per tre anni. Quando tornò vestiva a lutto, portava al dito una semplice vera d’oro, e aveva con sé una bambina. La bambina aveva gli occhi color cenere di legna e i capelli neri. Zilphia parlò discretamente del suo secondo matrimonio e della morte del marito, e dopo qualche tempo l’interesse della gente scemò.
Riaprì la casa, ma preparò una stanza per la bambina anche nel retro del negozio. La finestra aveva l’inferriata, e quindi non doveva preoccuparsi. «È una bella stanza, molto gradevole» diceva. «Be’, ci sono cresciuta anch’io». La sartoria andava bene. Le clienti non si stancavano mai di vezzeggiare la piccola Zilphia.
La chiamavano ancora Miss Zilphia Gant. «Non si riesce proprio, chissà perché, a pensare a lei come a una moglie. Se non fosse per la bambina...». E non era più per condiscendenza o compassione. Sembrava più bella: il nero le donava. Era di nuovo pingue nei posti sbagliati, ma per la gente della nostra città a una donna che abbia adempiuto ai suoi doveri si perdona questo e altro.
Aveva quarantadue anni. «È grassa come una pernice» dicevano in città. «Ma le dona; le dona davvero».
«Per forza lo sono, da come mangio di gusto» diceva lei fermandosi a chiacchierare con la gente mentre andava o tornava da scuola con la mano della piccola Zilphia nella sua. Il soprabito si apriva svolazzando nel vento, rivelando il grembiale da sarta di tela cerata nera, il luccichio dritto e sottile degli aghi appuntati sul seno nero e i festoni dei fili che ne pendevano in un impalpabile disordine.