Ho chiesto a Fini e a Berlusconi di commentare l'apertura di D'Alema a una riflessione non scontata. Il ministro degli Esteri mi risponde come fa sempre quando su alcuni aspetti del fascismo ha deciso di non compiere una svolta: "Lasciamo la storia agli storici". Il presidente del Consiglio, invece, è d'accordo con il presidente dei Ds, ma allarga la polemica all'attualità politica: "La risposta di D'Alema mi sorprende perché il partito e la sinistra comunista in genere hanno sempre esaltato l'omicidio di Mussolini e la barbara esposizione del suo cadavere a piazzale Loreto. Meno male che hanno cambiato idea. Ma non mi rassicura sul fatto che comunisti, ex comunisti, postcomunisti, neocomunisti siano davvero cambiati. Il loro costume è sempre lo stesso: riconoscono di aver commesso un errore anche se talvolta non si tratta di errori ma di infamie solo dopo decenni, quando non ne possono fare a meno. Ma intanto continuano a commettere sia errori sia infamie. Un esempio fra i tanti. Per tutti gli anni Novanta hanno linciato Bettino Craxi, fino alla sua morte in esilio. Oggi, pensando di ottenerne vantaggi elettorali, Fassino inserisce Craxi tra i padri del socialismo italiano e aggiunge che, tra Craxi e Berlinguer, aveva torto quest'ultimo e ragione il primo. Peccato che tutto questo sia l'esatto contrario di quello che hanno predicato quando Craxi era ancora un protagonista della politica. Non mi stupirei se, tra dieci o vent'anni, riabilitassero anche Berlusconi".

In ogni caso, bisogna dare atto a D'Alema di una revisione intelligente e coraggiosa di un episodio cruciale della storia italiana.

Mussolini fu ucciso alle 16.10 di sabato 28 aprile. Un'ora e mezzo più tardi venivano fucilati nel cortile del municipio di Dongo altri 15 gerarchi catturati nella colonna di Mussolini. Dinanzi al plotone d'esecuzione, essi si comportarono con dignità. Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla presidenza del Consiglio ed eroe di guerra, chiese a un partigiano di appuntargli la medaglia d'oro. Ma quando pretese d'essere fucilato al petto come pluridecorato, Valerio lo fece girare d'autorità. Al momento della scarica, comunque, Barracu fece in tempo a voltarsi. Fernando Mezzasoma, ministro della Cultura popolare, consegnò a un altro partigiano la fede nuziale perché fosse portata alla moglie. Tutti fecero il saluto romano e gridarono: "Viva l'Italia, viva il Duce!". Valerio si infuriò: "Quale Italia?" chiese. E quelli: "La nostra Italia, non la vostra di traditori" (Alessandro Zanella, L'ora di Dongo).

 

"Macelleria messicana" a piazzale Loreto

Tra i gerarchi presenti in quel cortile, i più noti erano Alessandro Pavolini e Nicola Bombacci.

Pavolini ebbe due vite. Trascorse la prima come gerarca fascista tra i più colti e brillanti. Aveva due lauree, era romanziere di successo, promosse i Littoriali della cultura e il Maggio musicale fiorentino. Passati i quarant'anni, fu travolto dall'amore per l'attrice Doris Duranti, la più procace e famosa del cinema di regime, che si divertiva a farlo aspettare a lungo fuori degli istituti di bellezza. Lo troviamo, così, tra i personaggi più crudeli di Salò. Assunta la guida del Partito fascista repubblicano, costituì anche su pressione dei tedeschi le famigerate Brigate nere e ne prese il comando. Il passaggio della sua Alfa Romeo scoperta, con due militi in maglione nero e berretto in tinta con la testa da morto a fargli da scorta sul predellino, agghiacciava molte zone dell'Italia del Nord. Gli storici hanno sempre trovato incomprensibile come la sua durezza militare potesse convivere con una certa tolleranza ideologica mirata alla costruzione di una cultura di regime (Frank M. Snowden, in Dizionario del fascismo). Immaginò un'impossibile resistenza nel "ridotto della Valtellina" e coinvolse Mussolini nel suo tragico disegno.

Bombacci detto il "Lenin di Romagna" era nato politicamente come socialista massimalista e quando, nel 1921, con la scissione di Livorno, venne fondato il Partito comunista d'Italia, vi aderì subito, diventandone deputato. Fu espulso dal Pci nel 1927 per la sua ambiguità: era comunista, ma gli piaceva Mussolini. O, almeno, quello che sembrava il socialismo del Mussolini fascista. In questo senso, la nascita della Repubblica sociale era un ritorno alle origini e Bombacci si presentò puntuale all'appuntamento, offrendo al Duce una stesura del nuovo "manifesto del fascismo". Che il Duce accettò. Al momento della fucilazione, Bombacci gridò: "Viva l'Italia! Viva il socialismo!". E Pavolini, il più freddo del gruppo: "Viva l'Italia, viva il fascismo!".

I corpi del Duce, di Garetta e dei fucilati di Dongo si dettero un macabro appuntamento ad Azzano (Corno), i cadaveri della coppia raggiunsero gli altri su un camion agli ordini di Audisio e proseguirono insieme per Milano, dove furono appesi a testa in giù al distributore di benzina che aveva ospitato un anno prima i cadaveri di 15 partigiani vittime delle Brigate nere. Ecco il crudo racconto di Carlo Mazzantini nel libro autobiografico L'ultimo repubblichino: "Tornare a Milano sul tavolato di un camion che, strada facendo, andava sgocciolando sangue e altra porcheria, ammucchiati gli uni sugli altri... E finire, dopo essere stati spisciati e sputacchiati e presi a calci in faccia, appesi per i piedi al trave della pompa di benzina di piazzale Loreto ... C'era anche lei, la Garetta, fedele fino alla morte e al ludibrio di quella esposizione, lei che non c'entrava un cazzo, con una spilla da balia che le reggeva la veste in mezzo alle cosce, offerta da un candido frate per coprirle le pudende, non avendo avuto nemmeno il tempo di infilarsi le mutande per la fretta dei prodi che venivano a fare giustizia in nome del popolo italiano, ma non per impedire a una signora della Milano bene di esclamare: "Però due belle gambette aveva!". Dice che Ferruccio Parri, un galantuomo, stile antico, anima bella, idealista, abbia bollato inorridito quella scena conclusiva come una "macelleria messicana"" ("Fummo molto turbati da quella macabra esposizione" mi disse poi Andreotti. "Giuseppe Spataro {uno dei fondatori della De], in particolare, deplorò tanta ferocia.")

All'appuntamento arrivò anche Achille Starace. Fu fucilato il 29 aprile 1945 in piazzale Loreto, ai piedi del macabro palcoscenico dove erano esposti il Duce, Claretta e gli altri arrestati di Dongo. Era stato il grande coreografo del regime, ma era caduto in disgrazia ben prima del 25 luglio 1943. Arrestato una prima volta da Badoglio alla caduta del regime, si era rifiutato di aderire alla Rsi e, per questo, Pavolini e Buffarini Guidi lo misero di nuovo in prigione dal novembre 1943 all'aprile '44. Da allora Starace visse da sbandato. Le due case romane gli erano state requisite come profitti di regime e lui passò da un alberghetto a un alloggio di fortuna. L'unica abitudine che non perse mai, in ricordo dei bei tempi dei Littoriali e dei lanci nei cerchi di fuoco, fu il jogging quotidiano. Correva per le vie di

Vincitori e vinti

Milano anche il 28 aprile 1945, in una tuta blu ormai logora, come se non fosse accaduto niente. A chi lo apostrofò chiedendogli: "Dove vai, Starace?", rispose con un disarmante: "A prendere un caffè". Arrestato dai partigiani della Garibaldi, condannato a morte da un tribunale del popolo, secondo il suo biografo Roberto Festorazzi (Starace) avrebbe chiesto ai carcerieri di risparmiarlo, essendo stato egli stesso vittima di Salò. L'ultima carta fu: "Posso entrare nel Pci per formare le nuove generazioni?". (A fascisti meno illustri l'operazione andò meglio.) Dinanzi al plotone d'esecuzione si comportò con dignità e morì gridando "Viva il Duce", salutando romanamente il cadavere appeso per i piedi che gli penzolava davanti.

Quello stesso 28 aprile, a Vimercate, i partigiani giustiziarono Roberto Farinacci, il fascista più amico dei nazisti (insieme con Giovanni Preziosi, l'implacabile teorico delle leggi razziali). Lo presero prima che sconfinasse in Svizzera. Chiese di essere fucilato al petto, come decorato al valore. Lo misero di schiena. Prima della raffica si voltò e allora il plotone sparò in aria. Ripeterono l'operazione e, nel momento cruciale, Farinacci si voltò di nuovo gridando "Viva l'Italia!". Preziosi era morto il 26 aprile a Milano. Terrorizzato dalla prospettiva di una vendetta ebraica, si gettò con la moglie dalla finestra del quinto piano di un elegante stabile di corso Venezia, dove aveva trovato rifugio.

Chiedo a Massimo D'Alema se non sia arrivato il momento di parificare pur limitandoci alle intenzioni soggettive lo slancio di tanti giovani che presero le armi per liberare il paese dall'invasore e quello di tanti giovani che le presero per opporsi a ciò che in buona fede consideravano il tradimento del patto con la Germania. "La buona fede è fuori discussione. Al di là della pietà per chi è morto e il riconoscimento della buona fede di chi ha dato la vita per una causa, non c'è dubbio che una delle due fazioni stesse dalla parte sbagliata. Se avesse prevalso, le conseguenze sarebbero state aberranti. Non possiamo dimenticarlo e metterci una pietra sopra. La Repubblica di Salò è stata l'alleato italiano del nazismo. Dall'altra parte c'erano forze che pur con i loro errori hanno costruito la democrazia italiana."

 

Foibe, la pulizia etnica del maresciallo Tito

Nelle foibe solo perché italiani

All'ingresso del palazzo comunale di Gorizia, come in tanti comuni d'Italia, c'è una lapide che ricorda i dipendenti caduti nella seconda guerra mondiale. Sono tre. La lista di Gorizia porta tuttavia un'intitolazione diversa da quella degli altri comuni: "Il Municipio reverente ricorda i dipendenti scomparsi nel nome d'Italia". Qualcosa di più ampio di una guerra. E infatti ai tre nomi dei caduti ne seguono altri venti di dipendenti deportati in Iugoslavia nel maggio 1945. Tre caduti in cinque anni di guerra, venti scomparsi nel giro di pochi giorni, prelevati dai partigiani di Tito e mai più tornati a casa. Chi erano questi venti? Fascisti assassini? Collaboratori del nemico nazista? Torturatori di partigiani? Nient'affatto. Giovanni Stringhetti, che chiude la lista, era messo usciere. Ettore Bonnesi, che l'apre, era applicato. Gli applicati presenti in lista sono quattro. Gli aiuto applicati sei, di cui cinque donne. I vigili urbani tre. Ci sono poi un aggiunto di ragioneria, un aggiunto tecnico, un segretario aggiunto. Infine, ai vertici di questa piccola nomenklatura comunale, troviamo un capo divisione, un segretario capo e l'ufficiale sanitario. "La verità" come disse il sindaco di Gorizia Michele Martina il 16 settembre 1967, 20ø anniversario della restituzione della città all'Italia, "è che i quaranta giorni dell'occupazione partigiana iugoslava nel '45 furono un momento di illegale, assurda repressione, nata dall'odio, dal disordine politico, da un desiderio di giustizia sommaria contro una popolazione spesso colpevole solo di appartenere a una nazione, a una città."

Quanti furono gli scomparsi di Gorizia? Daria Morassi, una signora d'età, elegante e austera, mi consegna un libriccino celeste a nome dell'Associazione congiunti dei deportati in Iugoslavia. Le ultime 73 pagine portano un elenco nominativo di scomparsi, cioè di persone di cui non è stato mai più trovato nemmeno il corpo. Li ho contati: 651. Si va dal carabiniere Abate Umberto al manovale Zuch Massimo. Il primo fu prelevato il 2 maggio 1945, il secondo il giorno precedente. Spariti. Come il padre della signora Morassi, Gino, medaglia al valore per le gravi ferite riportate nella prima guerra mondiale durante un attacco nella conca di Tolmino, fondatore del Nastro azzurro goriziano, vicepodestà al momento dell'arresto. "I partigiani iugoslavi vennero a prenderlo in casa nella notte tra il 2 e il 3 maggio" mi dice la signora. "Dopo alcuni giorni fu visto, con le mani legate con il fil di ferro, salire su un camion con altri cittadini e da allora non si è più saputo nulla di certo di lui. Alcune voci lo davano per infoibato nella selva di Tarnova, altre prigioniero nel carcere di Lubiana..."

Infoibato, gettato in una foiba. Le foibe sono fenditure profonde, spesso autentiche caverne, scavate dall'acqua nelle doline del Carso. La gente del posto le usava spesso come discariche. E, come discariche di corpi, le usarono i partigiani comunisti di Tito. Sotto l'apertura delle caverne, non larga e comunque spesso coperta da vegetazione, s'aprono abissi di centinaia di metri. Spesso, per risparmiare tempo e pallottole, oltre che per orribile sadismo, i prigionieri venivano legati gli uni agli altri. Così bastava sparare al primo della fila perché il disgraziato trascinasse i compagni ancora vivi nella fossa. Ecco che cosa sta scritto nel rapporto sul recupero delle vittime dalla foiba di Vines: "Tutte le salme estratte "hanno i polsi fissati da filo di ferro arrugginito del diametro di mm 2 circa" che, dichiara l'interrogato "è sempre stato strinto (fino a spezzare il polso) con pinza o tenaglia. Molte salme erano accoppiate mediante legatura, sempre da filo di ferro, dei due avambracci". ... Da notare che dei due disgraziati sempre soltanto uno presenta segni di colpi di arma da fuoco, il che fa comprendere che il colpito si è trascinato dietro il compagno ancor vivo".

Migliaia di italiani furono gettati nelle foibe, ma anche tedeschi, ustascia, cetnici, militari neozelandesi che facevano parte del corpo di spedizione angloamericano. Quanti in tutto? A Basovizza, presso Trieste, vennero recuperati 300 metri cubi di resti umani. Per una fonte si tratterebbe di 2000 persone, altre usano criteri di calcolo diversi. Abbiamo chiesto a un medico legale che collabora con i carabinieri specializzati in queste operazioni, e la sua valutazione approssimativa per ossa (e non per scheletri) è di 810 corpi per metro cubo. In questo caso arriveremmo almeno a 4000 persone. Il numero di 2000, che ci sembrava eccessivo, diventa addirittura prudenziale. E' invece realistico se pensiamo che le ossa non sono mai sistemate ordinatamente. Il totale degli scomparsi è, in ogni caso, enorme. Nel 1954, al momento di restituire definitivamente Trieste all'Italia, il governo militare alleato consegnò al commissariato del governo italiano uno schedario degli scomparsi con 4500 nomi. Scrive Edoardo Pittalis nel libro Il sangue di tutti: "Difficile fare i conti degli infoibati. La stima scientifica più credibile parla di 45000 persone, ma si possono aggiungere altri 5000 morti nei campi di concentramento della Slovenia e della Croazia. Un migliaio di salme sono state recuperate e identificate ... Una commissione del 1989 ha fornito queste cifre: 994 salme esumate da foibe e fosse comuni; 326 vittime non recuperate ma accertate; 5643 vittime presunte, 3500 nelle due cavità di Basovizza e Opicina. Altre 3174 vittime nei campi di concentramento. In totale 10.137 persone. Ma chiaramente è una stima per difetto".

 

Le ragioni di un lungo silenzio

Gli italiani hanno scoperto questi massacri soltanto negli ultimi anni. perché c'è stato questo ritardo sconvolgente? La data decisiva è il 28 giugno 1948. Quel giorno Tito ruppe con Stalin e inaugurò la lunga stagione dei "non allineati". Gli occidentali brindarono. Gli americani coccolarono il maresciallo, che aveva di fatto spostato più a est il confine della "cortina di ferro". Il governo italiano li assecondò: aveva anche lui i comunisti in casa, la De aveva vinto alla grande le elezioni del 18 aprile ed era inutile aprire nuove ferite. Si aggiunga che, come abbiamo visto nel capitolo precedente, il governo iugoslavo, giocando d'anticipo, aveva chiesto l'estradizione per crimini di guerra di parecchi ufficiali dell'esercito italiano che avevano partecipato con i tedeschi all'occupazione del suo paese. Quelle richieste non furono mai prese in considerazione, ma in cambio si rinunciò alla resa dei conti sulle foibe. Fu un prezzo pesantissimo.

La storia ha dato ragione a Pietro Quaroni, che da Mosca, dov'era ambasciatore, il 7 gennaio 1946 indirizzava un lungo e problematico dispaccio al ministero degli Esteri. Riferendosi ai "crimini di guerra" compiuti da tutti gli eserciti occupanti, scriveva: "Queste cose le possono fare, impuniti, solo i vincitori: i vinti, se le hanno fatte o anche solo se sono accusati di averle fatte, pagano con la testa". E noi eravamo vinti. Di qui il suggerimento dell'ambasciatore: "Mi vien fatto di domandarmi se sia saggio da parte nostra sollevare una questione che troppo facilmente può fungere da boomerang". Citando il dispaccio nel suo recentissimo Il dolore e l'esilio, Guido Crainz attribuisce ai baratto anche la decisione italiana di chiudere negli "armadi della vergogna" della Procura generale militare di Roma i tanti fascicoli a carico dei criminali nazisti. Dar corso all'azione giudiziaria avrebbe determinato, secondo Quaroni, una richiesta di estradizione da parte della Iugoslavia, della Grecia e di altri paesi di ufficiali italiani accusati di "crimini di guerra". Meglio, dunque, tacere su tutto.

Dopo sessant'anni la tesi appare assai debole. Se noi eravamo vinti, lo erano a maggior ragione i tedeschi, che non avevano avuto nemmeno il riscatto parziale della Resistenza. E nessuno storico ha mai osato comparare le violenze compiute dai nazisti in Italia a quelle cui faremo cenno tra poco compiute dagli italiani occupanti, che non vengono ricordati né come i peggiori colonialisti né come i peggiori invasori. Al punto che lo stesso Mussolini, come vedremo, temeva la nostra reputazione di "brava gente". La Jugoslavia di Tito era, al contrario, un paese vincitore. Ma se noi, per ipotesi, avessimo consegnato qualche ufficiale responsabile di esecuzioni sommarie, avremmo avuto in cambio l'intero Stato maggiore dell'esercito iugoslavo che compì la decimazione dell'incolpevole etnia italiana eseguendo un ordine del maresciallo?

E' più credibile, dunque, attribuire l'oblio alla fatale, ma mediocre convergenza d'interessi di cui abbiamo parlato più sopra. Da un lato, la decisione governativa di stabilire un eccellente rapporto con Tito, mai incrinatosi (Giulio Andreotti ne è stato il più convinto assertore e custode). Dall'altro, la posizione del Pci, che non aveva nessun interesse a svelare gli orrori compiuti dai comunisti e l'ambiguità dell'atteggiamento di Togliatti sul destino di Trieste e di Gorizia. così, la tragica partita degli scomparsi in Istria fu archiviata come una fatale vendetta dei titini contro i fascisti. E' un falso storico, ma per quasi cinquantanni le nostre più alte autorità hanno semplicemente ignorato il problema.

Nel 1974 seguii, per conto del telegiornale, la visita ufficiale del presidente della Repubblica Giovanni Leone a Trieste, di cui si celebrava il 20ø anniversario della restituzione all'Italia. Ricordo l'entusiasmo in piazza dell'Unità, ma Leone si guardò bene dal visitare una foiba. Mandò una corona di fiori a quella di Basovizza e il governo iugoslavo contraccambiò con una nota ufficiale di protesta. Si dovette aspettare il 3 novembre 1991 perché smembratasi la Jugoslavia un presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, si recasse alla foiba di Basovizza. Era commosso, e restò inginocchiato per quattordici secondi che sembrarono lunghi come i decenni dell'oblio. Da allora l'abbinata San Sabba Basovizza è diventata tradizione nelle visite di Stato. Oscar Luigi Scalfaro vi andò il 17 maggio 1997, Carlo Azeglio Ciampi il 24 febbraio 2000.

Nel 1982 il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini, uomo prudentissimo, fece dichiarare le sole due foibe rimaste in territorio italiano Basovizza e Monrupino monumenti di "interesse nazionale", un gradino sotto il "monumento nazionale", qualifica che da molto tempo era giustamente riconosciuta alla Risiera di San Sabba. Si è dovuto aspettare il 199293 per una parificazione tra i simboli di due orrori.

La Risiera di San Sabba, alla periferia di Trieste, era un vecchio stabilimento per la lavorazione del riso, adibito a caserma dagli anni Trenta e a campo di concentramento dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943. Secondo Tullia Catalan, autrice della voce "Risiera di San Sabba" nel Dizionario dell'Olocausto, il forno crematorio fu attivo fino all'aprile 1945. Citando gli atti del processo contro i responsabili dei massacri, celebrato solo nel 1976, la Catalan scrive: "Transitarono nella Risiera oltre 20.000 prigionieri, in gran parte destinati alla deportazione (su 43 convogli italiani nei quali erano rinchiusi anche deportati ebrei, ben 23 partirono dal Litorale Adriatico) mentre il numero degli uccisi al suo interno è calcolato fra 3000 e 4000. Costoro erano soprattutto partigiani e ostaggi croati e sloveni, ma in Risiera trovarono la morte anche civili ed ebrei".

Pur tenendosi distante dalle tesi negazioniste e raccontando i massacri perpetrati dai nazisti nella zona, nel suo libro L'esodo Arrigo Petacco sposa una tesi diversa: nella Risiera sarebbero state compiute "solo esecuzioni individuali e i cadaveri venivano poi bruciati nell'annesso forno crematorio ... Tuttavia non esisteva un impianto di gassazione e non risulta che al suo interno si siano verificate esecuzioni di massa ... Gli ebrei detenuti nella risiera e destinati all'Olocausto furono deportati nei campi di sterminio dell'Austria e della Polonia". La Risiera, quindi, non sarebbe stata un campo di sterminio, bensì un "campo di transito". Lo stesso Petacco riconosce peraltro che, dinanzi agli orrori che vi venivano compiuti indipendentemente dal numero e dalla natura "tecnica" , tale distinzione non ha molto senso. Anzi, secondo lui, ne ha soltanto alla luce delle successive polemiche, che fecero degli uccisi nella Risiera vittime di serie A e degli uccisi nelle foibe vittime di serie B.

 

Foiba? Una cavità carsica

Al lungo silenzio del governo sulle foibe si affiancò quello della pubblicistica e l'incredibile atteggiamento dei libri di testo e dei principali dizionari della lingua italiana. Quando, nell'autunno del 2000,l'allora presidente della regione Lazio, Francesco Storace (An), apr la polemica sulla faziosità dei testi scolastici in relazione ad alcune vicende storiche, si scoprì che su quelli più adottati la parola "foiba" non compariva affatto. In compenso, sul Vocabolario della lingua parlata in Italia, firmato dal famoso italianista Carlo Salinari (che abbiamo visto alla guida del commando Gap autore dell'attentato di via Rasella), alla voce "foiba" si legge: "Dolina con sottosuolo cavernoso. Indica particolarmente le fosse del Carso nelle quali, durante la guerra '4045, furono gettati i corpi delle vittime della rappresaglia nazista". Insomma, i nazisti al posto dei comunisti di Tito. Il dittatore iugoslavo non viene mai nominato in nessuno dei principali dizionari usciti recentemente. Il Garzanti Utet De Agostini, riedito dalla "Repubblica" nel 2004, si limita all'accezione geografica del fenomeno carsico. Il prestigioso Devoto Oli (Le Monnier, edizione 2005) parla genericamente di "fossa comune delle vittime di lotte civili e assassini politici". Tullio De Mauro, nel nuovo dizionario pubblicato nel 2000 da Paravia e distribuito nel 2004 come allegato al "Giornale", è se possibile ancora più reticente: "Fossa comune per occultare cadaveri di vittime di eventi bellici". L'edizione 2006 del dizionario Garzanti si limita alla descrizione scientifica della foiba. L'edizione 2006 dell'enciclopedia Zanichelli aggiunge questa incredibile spiegazione storica: "In Istria le foibe furono usate come fosse comuni nel quadro dell'azione terroristica svolta da squadristi fin dal 1919, e dal regime fascista in poi, tesa a espellere la comunità slava dalla regione incorporata all'Italia dopo la prima guerra mondiale. Utilizzate dai nazifascisti durante la repressione del movimento partigiano nel 194345, vi furono sepolti anche italiani vittime di rappresaglie e di omicidi politici al momento dell'occupazione iugoslava". Soltanto l'edizione 2006 dello Zingarelli parla di "eccidi e rappresaglie a opera dei partigiani comunisti iugoslavi nell'ultima fase della seconda guerra mondiale e subito dopo".

Uno studio italoiugoslavo del 1993, condotto da esperti nominati dai ministeri degli Esteri dei due paesi (I rapporti italosloveni 18801956), si limita a elencare serenamente gli elementi storici di contrasto, lasciando in controluce la pulizia etnica compiuta da Tito a danno degli italiani. Scrive Guido Miglia (Le nostre radici): "Aver incluso troppo forti minoranze etniche slave nei nostri confini del 1919 fu la nostra tragedia. Se non l'avessimo fatto, nel 1945 la Iugoslavia non avrebbe posto una rivendicazione tanto massiccia, totale, assoluta". La storia è questa. Nel 1915 l'Italia, legata all'Austria e alla Germania dalla Triplice alleanza, ruppe con il governo di Vienna per questioni di confine ed entrò nella prima guerra mondiale con il fronte avverso, patteggiando con Francia, Gran Bretagna e Russia che, in caso di vittoria, avrebbe ottenuto Trento, Trieste, l'Alto Adige fino al Brennero e la Dalmazia. Di Fiume che pure aveva la popolazione per la maggior parte italiana non s'era parlato.

Nel 1918, quando la guerra fin, le carte in tavola erano cambiate per l'intervento decisivo degli Stati Uniti nel conflitto e per il mutamento di proprietà della Russia: dallo zar a Lenin. Lo scontro avvenne alla Conferenza di pace di Parigi (conferenza e località che a noi non hanno mai portato fortuna), dove i vincitori si divisero le spoglie degli Imperi centrali. Dinanzi a una delegazione italiana che chiedeva a gran voce i nuovi confini previsti dagli accordi prebellici e in più Fiume e Spalato, gli iugoslavi non solo risposero picche per la parte che li riguardava, ma avrebbero voluto annettersi l'intera Istria, Trieste, Gorizia e tutta la Dalmazia e relative isole.

Quando il 28 giugno, dopo cinque mesi di trattative, fu firmato a Versailles il trattato di pace, l'Italia restò fortemente delusa. Non solo la Francia e la Gran Bretagna si erano spartite tutte le colonie tedesche, ma Fiume ebbe uno statuto autonomo all'interno del sistema doganale iugoslavo. In Italia scoppiò la rivolta. Gabriele d'Annunzio denunciò la "vittoria mutilata", mentre a Fiume la protesta della maggioranza della popolazione provocò incidenti tra la componente francese e quella italiana nella forza interalleata che occupava la città. Il 12 settembre d'Annunzio entrò in città con 2500 uomini e ne decretò l'annessione all'Italia tra frenetiche manifestazioni popolari di giubilo.

Per l'Italia la situazione era esplosiva. A torto o a ragione, gran parte dell'opinione pubblica teneva per d'Annunzio e, sul piano economico, i contrasti con il regno nascente di serbi, croati e sloveni rischiavano di paralizzare l'economia di Trieste. I fascisti, poi, soffiavano sul fuoco, guadagnando a Trieste vastissimi consensi. Nel settembre 1920, alludendo all'annessione all'Italia di popolazioni etnicamente diverse, Mussolini disse: "Io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani". Il 12 novembre 1920, a Rapallo, un nuovo accordo stabilì la seguente spartizione: l'Italia ottenne il confine della Venezia Giulia fissato dal Patto di Londra del 1915, l'intera Istria e, in Dalmazia, la città di Zara e le isole di Cherso (oggi la croata Gres), Lussino (Losinj), Lagosta (Lastovo) e Pelagosa (Palagruza). La lugoslavia ottenne il resto della Dalmazia e alcune isole. Fiume formò uno Stato libero, con un tratto di territorio che ne assicurava la contiguità con l'Italia. La Jugoslavia considerò questo accordo un diktat e si rifiutò di ratificarlo.

Violenza fascista, genocidio slavo

Soltanto nel 1924, con i Patti di Roma tra Mussolini e il suo collega iugoslavo Nikola Pasic, il problema venne risolto con la definitiva assegnazione di Fiume all'Italia e di Porto Barros alla lugoslavia (La storia d'Italia del XX secolo, a cura di Valerio Castronovo, Renzo De Felice e Pietro Scoppola; Arrigo Petacco, L'esodo; Gianni Oliva, Profughi). Come annota Petacco, con l'acquisizione di Fiume, dopo quella di Pola e di Zara, l'Italia raggiungeva finalmente i confini sognati nel Risorgimento. Ma la conquista di territori storicamente italiani non significava che tutti gli abitanti di quelle terre fossero felici di diventare tali. I fascisti di confine si dimostrarono infatti subito più duri di quelli metropolitani.

Guido Crainz, nel libro citato, sostiene infatti che alla nascita della Venezia Giulia, con l'assorbimento di 350.000 sloveni e croati, seguì una politica di ruvida normalizzazione da parte del fascismo: ""Italianizzazione" delle scuole, abolizione delle istituzioni slovene e croate, soppressione di associazioni culturali, limiti nell'accesso all'impiego pubblico, italianizzazione dei toponimi: per dirla con il rapporto della commissione culturale italoslovena [del 1993], il fascismo cercò di realizzare "un vero e proprio programma di distruzione integrale dell'identità slovena e croata"". I più, nella popolazione italiana, "applaudirono o assentirono tacendo". La conseguenza fu, presso le popolazioni slave, "l'equivalenza fra Italia e fascismo" con il "rifiuto di tutto ciò che appariva italiano".

L'invasione italotedesca della Iugoslavia nel 1941, con l'annessione all'Italia della provincia di Lubiana, acuì i contrasti. Gli italiani reagirono con estrema durezza, e talvolta con crudeltà, alla resistenza slovena. Crainz riporta uno slogan attribuito al generale Mario Roatta, uomo di vertice dell'esercito italiano: "Non dente per dente, ma testa per dente". Incontrando i nostri generali a Gorizia il 31 luglio 1942, Mussolini disse: "Sono convinto che al terrore dei partigiani si deve rispondere con il ferro ed il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre ... Questa popolazione non ci amerà mai ... Non vi preoccupate del disagio economico della popolazione. Lo ha voluto ... Non sarei alieno dal trasferimento di masse di popolazioni".

Così, alle azioni dei partigiani sloveni si rispose deportando complessivamente nei campi d'internamento circa 30.000 persone. Nel campo di Gonars (Udine), su 40006000 internati ne morirono 500; nell'isola di Arbe (Rab), 1400. Ho chiesto conferma di questi dati allo Stato maggiore dell'esercito e al ministero degli Esteri. Il primo li ha confermati nell'ordine di grandezza, mentre il secondo, non avendo documenti in archivio sul tema, mi rimanda a un testo di Alessandra Kerse van (Un campo di concentramento fascista: Gonars, 19421943) che propone un bilancio analogo: 5343 internati a Gonars (di cui 435 morti) e 1435 vittime ad Arbe.

Fu così che, subito dopo l'8 settembre 1943, si determinò, scrive Gianni Oliva, "una caccia indiscriminata contro chiunque sia ricollegabile all'amministrazione italiana, un clima torbido e inquietante nel quale si intrecciano il giustizialismo politico del movimento partigiano e la violenza selvaggia della rivolta contadina ... I primi ad essere colpiti sono i possidenti italiani e i loro famigliari, ma accanto a loro anche i quadri del partito fascista e i rappresentanti della passata amministrazione: vengono arrestati gerarchi, podestà, segretari e messi comunali, carabinieri, guardie campestri, esattori delle tasse ed ufficiali postali, vale a dire le figure che in qualche modo simboleggiano, anche al di là di specifiche responsabilità personali, l'oppressione di uno Stato che era divenuto indistinguibile dal regime fascista ... Si colpisce chi viene percepito come italiano, come fascista, o come possidente, in una confusione di ruoli che nell'immaginario collettivo della rivolta si sovrappongono l'uno all'altro". Ma i partigiani comunisti non si fermano alle figure simbolo (può esserlo anche un messo comunale o chi smista la posta?). Arrestano avvocati e levatrici, commercianti e medici condotti, cosicché nella comunità italiana nessuno si sente più al sicuro.

 

La caccia all'italiano e l'eccidio di Porzus

Osserva Crainz: ""Dietro il giustizialismo sommario e tumultuoso, i regolamenti di conti all'interno del mondo rurale istriano, ... è possibile scorgere un progetto ... volto alla distruzione del potere italiano sul territorio": volto, in sostanza, alla sua sostituzione con un "contropotere partigiano" che si fa strumento per l'annessione della regione alla Iugoslavia".

Gli arrestati vengono concentrati in due località dell'Istria, Pisino e Pinguente, dove già nel settembre 1943 si susseguono i processi sommari che si concludono quasi sempre con la condanna a morte. Destinazione finale, le foibe o le cave di bauxite che si trovano lungo la costa orientale. Come esempio della brutalità gratuita dei partigiani titini, il giornalista triestino Fulvio Molinari (Istria contesa. La guerra, le foibe, l'esodo) cita il caso delle tre sorelle Radecchi. Esse sono "costrette per alcuni giorni alle mansioni di cuoche e sguattere in un'improvvisata cucina da campo, e ripetutamente violentate dai loro sequestratori. Le tre sorelle (Albina, 21 anni, in stato di gravidanza; Caterina, 19 anni, e Fosca, di soli 17 anni) improvvisamente scompaiono, forse anche per il biasimo espresso da un commissario politico sul comportamento del gruppo che le tiene prigioniere. Verranno trovate nella foiba di Terli, e il medico constaterà le violenze subite" (Pittalis parla di Barbiana d'Istria e sostiene che due delle tre ragazze furono gettate vive nella foiba).

E i partigiani comunisti italiani? Molti si esaltano con volantini come questo: "Viva Stalin! Italiani! Il comunismo armato si avvicina! Gioite! Il compagno Togliatti sarà il nostro "piccolo padre" [l'affettuoso appellativo di cui i comunisti sovietici gratificavano Stalin], farà della nostra terra una piccola Russia. Uccideremo e deporteremo tutti i borghesi... Compagni, dobbiamo vivere per distruggere: sulla distruzione completa del passato ricostruiremo la nuova Italia". Crainz parla di "sostanziale subalternità", pur tra oscillazioni e contraddizioni, della Resistenza comunista italiana alla decisa volontà di Tito di occupare e annettere alla Iugoslavia tutta la Venezia Giulia. In questo contesto nasce il tragico ed emblematico eccidio di Porzus.

Sul fronte orientale ci sono partigiani italiani comunisti e anticomunisti. I comunisti sono inquadrati, fra le altre, nella brigata Natisone, comandata da Mario Toffanin (detto "Giacca"), appoggiato dalla federazione udinese del Pci. Gli anticomunisti militano nella brigata Osoppo, comandata da Francesco De Gregori (detto "Bolla"). Gli uomini della Natisone portano il fazzoletto rosso, quelli della Osoppo il fazzoletto verde. Scrive Giorgio Bocca in Storia dell'Italia partigiana: "Bolla ha creato un piccolo reparto "verde" in mezzo al mare "rosso"". De Gregori ha capito subito che i comunisti iugoslavi non vogliono semplicemente cacciare tedeschi e fascisti, ma vogliono prendersi la Venezia Giulia e perfino il Friuli orientale. E per lui questa strategia è inaccettabile. Così, quando gli dicono di attraversare l'Isonzo e di mettersi agli ordini dei partigiani titini, si rifiuta. Le due bande si scambiano accuse pesanti e la storia finisce male.

De Gregori ha con sè solo ventidue uomini (fra cui c'è anche una ragazza) quando la sera del 6 febbraio 1943, alle malghe di Porzus, arriva Toffanin con 150 partigiani comunisti. De Gregori, la ragazza e due compagni sono ammazzati subito, mentre gli altri vengono portati via e trucidati nei giorni successivi nel Bosco Romagno, un parco sopra Ronchi di Spessa, vicino a Cividale del Friuli. Un interminabile processo condanna Toffanin e i suoi principali collaboratori all'ergastolo. Inutilmente, però: sono scappati in Iugoslavia. Torneranno quando l'amnistia avrà cancellato questa orribile strage, che racconta meglio di ogni altra aspetti inquietanti della Resistenza.

Alla luce di questa improvvisa e furiosa stagione di odio, Gianni Oliva parla dell'"esistenza di un disegno egemonico slavo a penetrare nella coscienza dei protagonisti ... con l'aspettativa di una nuova e forse definitiva ondata che avrebbe travolto gli italiani nel caso la Venezia Giulia fosse nuovamente caduta sotto il controllo iugoslavo". Ed Ernesto Galli della Loggia spiega (La morte della patria): "Fu l, in quelle terre e in quella vicenda, che per la prima volta divenne ... chiaro alle forze dell'antifascismo che nel campo del vincitore esistevano due progetti, diversi e contrapposti, riguardo all'Italia, dal momento che in realtà il vincitore non era uno ma ne comprendeva almeno due, e questi due, gli "occidentali" e gli "orientali", obbedivano a visioni del mondo incompatibili". Disse infatti Edvard Kardelj, braccio destro di Tito nelle strategie internazionali: "L'Italia farà parte dell'altro mondo [quello capitalista] ... e quindi occorrerà salvare il più possibile di territorio dall'invasione e dall'occupazione alleata. Diventerà nostro territorio tutto ciò che si ritroverà nelle mani del nostro esercito. Dobbiamo liberare gran parte del territorio ed instaurare un forte governo militare.

La nostra aspirazione è conquistare Trieste e Gorizia prima degli Alleati". Questo proclama è dell'autunno del 1944. I drammatici avvenimenti della primavera 1945 sono dunque una tragedia annunciata.

"Dove siete, brigate partigiane dell'Alta Italia?"

L'attacco finale ai confini italiani partì il 17 aprile 1945. Basta guardare su una carta geografica il percorso della IV armata di Tito, che si muoveva d'intesa con le brigate partigiane slave, per capire quale fosse la strategia politica del maresciallo. Lubiana era in mani nazifasciste. Sarebbe stato ragionevole liberarla subito. E invece no. Tito sapeva che la realpolitik gli avrebbe restituito a tavolino la città, che fu raggiunta infatti soltanto l'il maggio. Erano parti d'Italia che occorreva conquistare per sottrarle alle potenze occidentali. Accadde così che i reparti neozelandesi che si muovevano in zona furono drammaticamente lenti. E i reparti slavi drammaticamente veloci. Il 20 aprile varcarono il confine italiano. Il 1ø maggio entrarono a Trieste e a Gorizia, il 3 a Fiume, il 4 a Pola, completando l'occupazione dell'intera penisola istriana. (Un reparto neozelandese arriverà a Trieste il 2 maggio, ma troverà che in poche ore gli slavi hanno assunto il pieno controllo militare della città.) Istantaneamente, ricorda Oliva, "l'esercito iugoslavo insedia dovunque i Comitati popolari di liberazione che assumono il potere politicoamministrativo e i cui membri sono quasi tutti di nazionalità slava, con l'inserimento di alcuni italiani di "provata fede comunista"". Gli antifascisti non comunisti compresero di aver perso la partita nel momento stesso in cui furono sicuri di averla vinta. Avevano partecipato all'insurrezione triestina, ma i comunisti slavi misero immediatamente alla porta il Cln dando seguito a un ordine del comitato centrale del Partito comunista iugoslavo ai propri reparti al fronte: "Considerate ogni insurrezione che non si fondi sul ruolo guida della Jugoslavia di Tito come un sostegno all'occupatore e un inizio della guerra civile".

I triestini, i goriziani e gli istriani erano disperati. Racconta un testimone, lo scrittore Pier Antonio Quarantotti Gambini (Primavera a Trieste): "Dove siete, brigate partigiane dell'Alta Italia, di cui sentiamo parlare da mesi? Possibile che nessun comandante abbia l'occhio acuto e il cuore pronto, che nessuno pensi a passare il Pia ve, il Tagliamento, l'Isonzo...? E che fa la "Osoppo", che è quassù, a poche decine di chilometri da noi? Possibile che ... soltanto gli iugoslavi pensino al Carnaro, all'Istria, a Trieste, a Gorizia... ? Non possiamo crederlo ... Ma una voce, nel fondo della nostra amarezza, ci dice di no: gli italiani... saranno assenti. Nessuno ci verrà in aiuto. Gli italiani, come troppe altre volte, scambiano per storico l'effimero. Gli italiani ammazzano Claretta, e non si accorgono che l'ala della storia batte sulle Alpi Giulie".

Poco dopo lo scrittore doveva arrendersi alla drammatica evidenza e trasformarsi in cronista della sconfitta nazionale: "Nella tarda serata di ieri [2 maggio] gli uomini di Tito, incoraggiati dall'inerzia degli Alleati, espellevano brutalmente il Gin dalla Prefettura, ch'è restata così nelle loro mani. E tutti gli edifici pubblici ... sono ormai occupati e vigilati, con le mitragliatrici a ogni entrata, dagli iugoslavi. Da ogni parte vengono segnalati arresti d'italiani più che di fascisti, e le nostre bandiere vengono strappate dalle finestre".

Un altro cronista è Silvio Benco (Contemplazione del disordine). La sua testimonianza è del 5 maggio, quando a Trieste si formò un corteo spontaneo di italiani issando il tricolore nell'illusione di contrastare, almeno simbolicamente, un'occupazione che diventava sanguinosa: "Quando un'immensa folla ... s'accalcò su le vie al grido "Italia! Italia!" si scaricarono su di essa le mitragliatrici... Ogni giorno dalle case perquisite ne erano portati via con gli autocarri alcuni che non tornavano più ... "E gli Alleati lo sanno; gli Alleati stanno a guardare. Osservano"".

Crainz cita il diario di Mafalda Codan, figlia e nipote di possidenti di Parenzo arrestati e gettati nelle foibe nella prima ondata di violenze dell'autunno del 1943: "Con un filo di ferro mi legano le mani dietro la schiena e mi fanno salire su una macchina ... Prima sosta, Visinada. Mi portano sulla piazza gremita di gente, partigiani, donne scalmanate urlano, gesticolano, imprecano. Stoinich mi presenta come italiana, nemica del popolo slavo, figlia di uno sfruttatore dei poveri, tutti cominciano a insultarmi, a sputacchiarmi, a picchiarmi con lunghi bastoni e a gridare: a morte, a morte ... A Santa Domenica mi portano davanti alla casa di Norma Cossetto ... chiamano sua madre, vogliono farla assistere alle mie torture per ricordarle il martirio della sua Norma [ne parleremo tra poco]. A casa mia si raduna il tribunale del popolo ... Vedo i miei coloni e molte persone aiutate e mantenute gratis da mio padre. Non posso credere ai miei occhi, sono gli stessi che prima "veneravano" la mia famiglia e si consideravano amici, ora sono qui per condannare e gridare "a morte"".

Questa crudeltà, questo terrore generalizzato hanno una precisa ragione politica. Annota Gianni Oliva: "Per vedere riconosciute alla Conferenza di pace le proprie aspirazioni territoriali, Tito ha bisogno di uno stato di fatto insieme militare e politico, di una Venezia Giulia pacificata nel segno della rivoluzione sociale e sotto la bandiera nazionale della Iugoslavia. In altre parole, l'epurazione deve eliminare qualsiasi voce di dissenso e va diretta non contro i fascisti in quanto tali, ma contro tutti coloro che si oppongono al comunismo iugoslavo, siano stati essi criminali di guerra, collaboratori del nazismo, oppure sinceri antifascisti o, ancora, comunisti sensibili alla questione nazionale e contrari all'annessione".

Cominciarono così le stragi. Peggiori di quelle del 1943.

"A chi buttava giù i carabinieri davano del rhum"

Nel libro Carabinieri, appena pubblicato, Marco Pirina racconta il drammatico viaggio compiuto nel giugno 1993 in Slovenia insieme con Giovanni Guarirli, il figlio di uno dei 19 carabinieri di Gorizia presi nel maggio 1945 e gettati in una foiba. Al contrario del Comando carabinieri di Trieste, che nell'estate del 1944 fu sciolto dai tedeschi che non se ne fidavano, i carabinieri di Gorizia restarono in servizio fino al 1ø maggio

Foibe, la pulizia etnica del maresciallo Tito 287

1945 con gli elmetti che portavano ancora la scritta del Regio esercito. Catturati dai partigiani di Tito, furono uccisi. Si sospettava che fossero stati gettati nella foiba di Tarnova, ma non se ne aveva la prova perché, ovviamente, gli slavi non consentivano ricerche del genere.

Entrati a Tarnova, Pirina e il suo emozionatissimo accompagnatore cercarono qualche traccia nelle case e nelle osterie. Una vecchia donna disse che centinaia di "domobranci", gli sloveni che avevano collaborato con i tedeschi, erano stati gettati in una foiba molto grande. Un'altra donna indicò l'indirizzo di un vecchio partigiano di 84 anni, Antonio Winkler, che aveva aiutato i titini a trasportare i carabinieri dal carcere di via Barzellini a Gorizia fino alla foiba di Bulicame Lesnica. Winkler disse di non essere tornato alla foiba da almeno cinquant'anni, ma si offrì di accompagnare i due. Passarono prima dinanzi a una buca dove era stato gettato il corpo di un finanziere che non ce l'aveva fatta a proseguire, poi arrivarono alla foiba. "Sopra di noi" racconta Pirina "alcuni alberi in circolo sembravano nascondere un tempio dimenticato. Erano invece la bordura della foiba, nera, verde, terribile, profonda oltre cento metri. Non ci sono recinzioni, nè protezioni. Solo sassi di natura carsica di diverse dimensioni." Giovanni Guarini si lasciò cadere su uno di questi massi e pianse senza freni. Era davanti alla tomba di suo padre e di diciotto sfortunati commilitoni. Ma il peggio doveva venire: il racconto del partigiano. "Dovevamo prendere i carabinieri nel carcere di Gorizia, ma legarli non è stato facile. Abbiamo dovuto intontirli, sbattendogli la testa contro i muri delle celle. Poi gli abbiamo legato i polsi con un filo di ferro e glieli abbiamo serrati con la pinza. Arrivati qui c'erano le squadre degli sloveni: ad alcuni spararono un colpo alla nuca, altri venivano gettati giù vivi, con un calcio. Dopo l'operazione il comandante consegnò a ciascuno di loro una bottiglia di rhum per dimenticare..."

Nel 1988 Pirina raccolse la testimonianza di un sacerdote, don Raffaele Lot, a proposito del massacro del presidio repubblicano di Fregona, in provincia di Treviso, che fu attaccato dai partigiani il 27 aprile 1945 dopo la caduta del fronte a Vittorio Veneto. Qui si trovavano due compagnie delle Brigate nere di Rovigo con il compito di bloccare la discesa della brigata partigiana Nannetti verso la pianura veneta. Quando arrivarono i partigiani, i brigatisti capirono che non avrebbero resistito. Accettarono dunque la mediazione di don Lot, che li convinse ad arrendersi con la garanzia che sarebbero stati risparmiati. Ma, appena arresisi, racconta il sacerdote, furono in gran parte uccisi. Don Lot parla di 3 persone (capitano, caporale, ausiliaria) ammazzate sulla strada e di il infoibati. La foiba era quella di Gaserà Prese a Pian de la Pitta, in provincia di Belluno. Altre fonti parlano di 36 militi rilasciati dopo l'interrogatorio e di 54 giustiziati. Pirina giudica questa seconda fonte più credibile perché furono 54 le persone che non tornarono più a casa. I parenti degli scomparsi impiegarono molto tempo per sapere dove erano stati gettati i corpi dei loro cari. I primi a trovare la foiba e a recuperare i resti non lo dissero agli altri per paura dei partigiani. Una tomba dove erano state raccolte le spoglie ritrovate fu fatta saltare in aria da un attentato.

"Buttarono nella foiba il camerata Boro. Poi toccava a me"

Alcuni degli scampati alla foiba di Gaserà Prese finirono in quella del Bus de la Lum, in provincia di Treviso, la più profonda (180 metri) di quelle presenti sul territorio italiano. Racconta il milite Brambilla: "Dopo avere subito ogni tipo di sevizie, un giorno con un gruppo di prigionieri fui condotto su in montagna ... Arrivammo sui bordi di una voragine. Con me c'era Boro Omero. Uno per uno venivano portati sul bordo e gettati giù tra le risa sghignazzanti dei partigiani comunisti. Prima di me uccisero il mio camerata Boro ... Arrivò il mio turno. Mi misi sull'attenti e feci il saluto romano ai camerati già precipitati nel fondo della foiba. Ora toccava a me ... un partigiano disse: basta, non facciamo martiri. Per oggi basta".

Nel 1949 una spedizione del Gruppo triestino speleologi, guidato da Silvano Mosetti, scese sul fondo della foiba e recuperò i resti di 28 persone che furono sepolte nel cimitero di Caneva di Sacile. Mosetti segnalò tuttavia che sul fondo della foiba "sono stati notati resti umani di altri individui, in numero imprecisato ma non insignificante". Furono trovate e lasciate sul fondo tre bombe a mano inesplose. Poiché è poco probabile che i militari gettati nella foiba fossero armati, è verosimile che i partigiani le abbiano lanciate nella foiba per completare l'opera. Nel 1992 una spedizione, di cui faceva parte anche Pirina, scese di nuovo nella foiba e recuperò alcuni resti. Dal numero dei reperti (68 ossa, di cui cinque femori, dieci peroni e così via) ritenne che quei resti appartenessero a cinque o sei vittime. Pirina li portò in superficie avvolti in un tricolore e segnalò la presenza di circa 300 metri cubi di resti appartenenti a un numero assai elevato di vittime. Il Commissariato per le onoranze ai caduti dello Stato maggiore dell'esercito ordinò una verifica al VII reggimento alpini di Belluno, che confermò la presenza e l'entità dei resti che sarebbe stato inutile (e assai costoso) riportare in superficie vista l'assoluta impossibilità di identificare le vittime. Fu perciò eretto un monumento sulla foiba.

Nel Bellunese si è riusciti a identificare altre due foibe in provincia di Pordenone grazie alle richieste di rimborso spese per il recupero di cadaveri, previsto dalla legge, inviate da piccoli comuni al Commissariato onoranze. Il 27 settembre 1950 il sindaco di Budoia informava che nella "Busa del Can" erano state recuperate 14 vittime, "tutte decedute per colpo alla nuca", e reclamava 42.000 lire (600 euro) di rimborso. Il sindaco di Polcenigo comunicava da parte sua il seppellimento di 46 salme non identificabili, ma appartenenti verosimilmente a militari tedeschi e della Rsi, oltre che a vittime civili.

Il 29 aprile 1945 un sergente e 12 militari altoatesini del corpo italiano di sicurezza furono arrestati da partigiani comunisti a Lusiana, in provincia di Vicenza. Il parroco, don Antonio Dall'Oglio, andò nella cantina in cui erano stati rinchiusi per visitarli, ma non c'erano più. "Sono stati gettati nel Buso della Spaluga" gli spiegarono. Era una foiba. Tre anni dopo il parroco partecipò alla ricerca dei corpi in fondo alla voragine. L'autista del camion che trasportava le salme disse al prete: "La possono chiamare il parroco degli assassini. E sa perché? perché sette suoi parrocchiani, dei quattordici della banda, hanno compiuto il massacro". La sera del recupero dei corpi, don Dall'Oglio ricevette la visita di uno degli assassini.

"E' vero che li avete trovati?" chiese al parroco.

"E' vero."

"Com'erano?"

"Come li hai gettati tu."

"Avete trovato anche quello che portava una corona in mano?"

"Come vuoi che reggesse ancora la corona dopo un salto di cento metri?"

Le ultime parole dell'assassino furono: "Non sarà più vero che io mi armi, che io uccida".

Il cane nero libera dalla colpa

Sulle foibe, il libro di Edoardo Pittalis riporta alcune testimonianze impressionanti: "Una colonna in fuga verso Trieste scopre due foibe piene di cadaveri di soldati italiani. Ne trovano a Vines, altri presso Pola, altri in una cava di Pisino. L'armistizio ha sorpreso centinaia di migliaia di soldati schierati in Jugoslavia e ha immesso la zona in un clima di guerra totale e ancora più esasperata. I soldati in fuga abbandonano armi, arsenali, mezzi di trasporto. Non esistono controlli, né autorità, è caccia indiscriminata agli italiani, ai funzionari del regime".

Anche qui la crudeltà non conosce limiti. Norma Cossetto, 23 anni, di Santa Domenica di Visinada, nei pressi di Parenzo (Istria), sta per laurearsi in lettere. La sua unica colpa è di essere figlia del locale segretario del fascio. La catturano con il padre il 26 settembre 1943: i partigiani di Tito la legano a un tavolo, la torturano, la violentano, le recidono i seni, le deturpano il sesso e gettano quel povero corpo nudo nella foiba di Villa Surani, profonda più di 100 metri. La sorte della famiglia del farmacista Pietro Ticina arriva all'opinione pubblica

Foibe, la pulizia etnica del maresciallo Tito 291

attraverso una copertina della "Domenica del Corriere". Il professionista, la moglie e i due figli muoiono annegati: i partigiani li gettano in acqua con una pietra al collo.

Gli assassini sanno di compiere atti privi di una qualunque pur remota giustificazione. Gettano molte persone nelle foibe insieme con la carogna di un cane nero. Dice infatti un'antica leggenda istriana che il corpo del cane nero libera dalla colpa l'assassino, impedendo all'anima della vittima di chiedere vendetta.

"Vai via perché la tua terra non è più la tua terra"

Per evitare di finire in una foiba, o comunque di essere violentati nella persona, nella famiglia e nelle cose, un metodo c'era: rinnegare la propria italianità. Nella primavera del 1945 i partigiani d Tito erano ragionevolmente sicuri di poter annettere alla Iugoslavia anche Trieste e Monfalcone, con i cantieri navali e la sua robusta base operaia. Per questo gli slavi tentarono di dividere gli italiani nemici del popolo da quelli bravi e laboriosi. Bastava che questi ultimi si mostrassero "impegnati nella costruzione del socialismo, amici dell'Unione Sovietica, nemici dell'imperialismo americano e nemici anche dell'Italia, che non solo non era capace di avviarsi verso il socialismo, ma pretendeva di conservare la sovranità sui territori giuliani, collocandosi così agli occhi dei dirigenti iugoslavi in perfetta continuità con la politica fascista" (Raoul Pupo, Gli esodi e la realtà politica del dopoguerra).

Questa strategia incontrò qualche successo tra la classe operaia e tra gli intellettuali di estrazione marxista, ma fall nei confronti della piccola e media borghesia commerciale e professionale, che non rinunciò mai alla sua identità nazionale. E per questo fu costretta ad andarsene. Racconta Fulvio Aquilante, esule istriano di Orsera (Vrsar), a Gianni Oliva: "La mia famiglia se ne è andata dall'Istria perché non si sentiva sicura, perché non aveva certezza del domani, perché da un momento all'altro poteva capitare qualcosa... un licenziamento, una requisizione, un arresto ... Vai via, perché ti rendi conto che lì non hai un futuro, né per te né per i tuoi figli, perché capisci che la tua terra non è più la tua terra".

I primi esodi ci furono a Zara. Storica roccaforte meridionale della Repubblica di Venezia, ebbe la sua italianità violentata una prima volta dagli Asburgo, che ne sostituirono la lingua negli uffici pubblici con quella slava. Tornata all'Italia alla fine della prima guerra mondiale, trasformata in zona franca durante il fascismo (il costo della vita relativamente basso vi richiamò negli anni Trenta molti pensionati italiani), fu occupata dai tedeschi subito dopo l'8 settembre 1943 e dai partigiani iugoslavi nell'ottobre del 1944. In questo anno Zara fu distrutta da 54 bombardamenti ("Quel nome indica soltanto uno spettro senza corpo e senza volto": Enzo Bettiza, Esilio). Secondo Antonio Cattalini (7 bianchi binavi del cielo), "furono i capi del movimento titino comunista a far colpire a morte una piccola città che essi consideravano una spina nel loro fianco solo perché gli abitanti avevano il peccato d'origine di essere e professarsi italiani".

Oliva cita la testimonianza di un sacerdote, don Giovanni Lovrovich: "Mentre si seppelliscono i morti [dei bombardamenti alleati], i superstiti fuggono dalla città. Già dal 28 novembre [subito dopo l'arrivo dei partigiani di Tito] si è iniziato l'esodo in massa, quasi che su Zara pesi la maledizione di Dio. Carrozze, camion, biciclette e persino carrozzelle, tutto viene adibito per trasportare quanto si può portar via degli arredi domestici ... Seguirono le fucilazioni senza processo. Non ci fu possibile conoscere la località delle esecuzioni". Così, mentre i nomi italiani sulle strade venivano sostituiti da nomi slavi, le insegne italiane distrutte, i leoni di San Marco abbattuti, venivano uccisi i notabili locali: l'industriale Luxardo (quello del rosolio), il comandante dei carabinieri, il cavalier Livich, una cinquantina tra militi e agenti di pubblica sicurezza. Nel 1940 Zara contava 21.000 abitanti, nel maggio 1945 soltanto 10.000, di cui 3000 italiani (che se ne andarono quasi tutti negli anni successivi) e 7000 slavi arrivati al seguito delle truppe.

A Fiume gli italiani erano oltre 45.000 su una popolazione di 51.000.1 tedeschi se ne andarono dopo aver distrutto tutto il possibile. Gli slavi arrivarono come un esercito di fantasmi. Racconta Enrico Burich, preside del liceo {Fino alla feccia, in "Fiume", 34, 1995): "Stanchi, stupiti, a testa bassa, assenti, ciondoloni, male in arnese, laceri addirittura ... E' gente che non è mai stata in città e si guarda intorno e non sa neanche che cosa domandarsi, nè che cosa aspettarsi". Questo accadeva la mattina del 3 maggio. La notte stessa cominciarono i primi arresti e le prime uccisioni. Il massacro fu "trasversale": furono uccisi uomini del regime fascista e antifascisti del Gin, persone della borghesia professionale, cittadini comuni e i dirigenti del movimento autonomista fiumano. Nel libro già citato, scrive Raoul Pupo: "Per il loro rifiuto di riconoscere l'egemonia del Partito comunista croato, gli autonomisti erano già stati presi di mira da un'intensa campagna denigratoria durante gli ultimi anni della dominazione germanica, e dopo l'instaurazione del nuovo regime vennero esplicitamente indicati come il peggior nemico da combattere". Secondo Oliva, nella sola Fiume gli assassinati furono oltre 300, cui vanno aggiunte le persone eliminate negli altri tredici comuni della provincia. Orrida l'esecuzione di Angelo Adam: appena rientrato dalla deportazione nel campo di sterminio nazista di Dachau, fu fatto sparire insieme con la moglie e la figlia.

 

 

Le riunioni segrete d Parigi

Gli slavi ammazzarono migliaia di istriani e di dalmati per costringerne centinaia di migliaia ad andarsene. Nel 1991 Milovan Gilas il braccio destro di Tito che ne sarebbe diventato uno dei critici più convinti raccontò a "Panorama" (21 luglio) di essersi recato nel 1946 in Istria con Kardelj, diventato nel frattempo ministro degli Esteri, per condurre di persona la campagna antitaliana: "Bisognava indurre gli italiani ad andare via, con pressioni di ogni tipo. Così fu fatto". Il vescovo di Trieste, Antonio Santin, fu aggredito e oltraggiato mentre era in visita pastorale alle parrocchie nelle zone

Vincitori e vinti

sotto controllo slavo. E quello di Pola, Raffaele Radossi, fu arrestato e rimase alcuni giorni in carcere.

Tito ebbe una prima certificazione pratica del suo potere almeno su una parte della Venezia Giulia nel maggio 1945, quando il generale americano William Morgan, capo di Stato maggiore del comandante delle truppe alleate Harold Alexander, tracciò una linea di demarcazione per risolvere, almeno provvisoriamente, l'impossibile convivenza sul campo tra militari occidentali e slavi. Furono create una zona A, affidata all'amministrazione militare alleata, che comprendeva Trieste e Gorizia e saliva lungo l'Isonzo a Tolmino e Caporetto fino al confine di Tarvisio per scendere giù fino all'enclave di Pola, e una zona B, affidata all'amministrazione militare iugoslava, che comprendeva l'Istria, Fiume e le isole del Quarnaro. Quando questi confini furono certificati nell'estate del 1945 dalla Conferenza di Potsdam, si stabilì di fatto quale sarebbe stato il confine tra l'area di influenza atlantica e quella di influenza sovietica, di cui s'era parlato all'inizio dell'anno nel vertice di Jalta. E gli abitanti di Fiume capirono che non sarebbero stati mai più italiani.

Alla Conferenza di pace di Parigi, nel 1946, De Gasperi si trovò dinanzi alla richiesta russa di far passare sotto le bandiere di Tito anche Trieste e la Venezia Giulia, oltre naturalmente all'Istria e alla Dalmazia. Dalla nostra parte stavano gli americani. Più tiepidi gli inglesi. Sfrontatissimi i francesi. Avevano collaborato con i tedeschi per quattro anni, dal 1940 al '44, e il governo filonazista di Vichy aveva controllato metà del paese a sud di Parigi. Eppure, essi non solo avevano ottenuto di sedersi al tavolo dei vincitori (beneficiando poi di quel seggio permanente alle Nazioni Unite che detengono tuttora), ma fecero la faccia feroce contro gli italiani e avanzarono sulla spartizione dei nostri territori orientali le proposte meno generose. Fu loro l'iniziativa fatale di cedere Pola alla Jugoslavia.

L'atteggiamento di Togliatti fu molto ambiguo. I comunisti erano al governo con quattro ministri ed esercitavano in pieno il loro peso. Ed erano inoltre sostenuti da Pietro Nenni, ministro degli Esteri. Eugenio Reale medico antifascista, amicissimo di Togliatti, fondatore del Pci napoletano, sottosegretario agli Esteri avrebbe raccontato nelle sue memorie (dopo l'uscita dal Pci) che l'acquiescenza di Nenni era favorita dal fatto che al Psi andava regolarmente una piccola quota del finanziamento in dollari che ogni mese il Partito comunista sovietico faceva pervenire al Pci attraverso le diverse ambasciate dei paesi dell'Est accreditate in Italia. Reale rappresentava Togliatti nella delegazione italiana a Parigi. (Una volta fu raggiunto segretamente dal leader comunista: scoperto, Togliatti disse di essere capitato per caso nella capitale francese alla ricerca di libri rari.) Andreotti, strettissimo collaboratore di De Gasperi, mi ha raccontato che Reale faceva il doppio gioco: dopo la riunione con la nostra delegazione nell'ambasciata d'Italia, andava a riferire alla vicina ambasciata sovietica. Questo costrinse De Gasperi a fare due riunioni: la prima, ufficiale, con la partecipazione di Reale; la seconda, segreta, in casa del ministro consigliere della nostra ambasciata, senza l'esponente comunista. I comunisti italiani non volevano in alcun modo prendere una posizione sgradita non tanto a Tito, quanto all'Unione Sovietica, che allora gli copriva perfettamente le spalle.

La proposta di Togliatti: Trieste italiana e Gorizia iugoslava

Già nel 1944 gli iugoslavi avevano avanzato la richiesta di annettersi Fiume, Zara, l'Istria, il litorale della Dalmazia e le isole dell'Adriatico. I comunisti italiani erano favorevoli e i socialisti, in larga maggioranza, pure (Franco Catalano, Storia del Comitato Nazionale di Liberazione Alta Italia). Visto il terreno propizio, all'inizio dell'autunno Tito alzò la posta: voleva anche Trieste e Gorizia. A questo punto i comunisti italiani cominciarono a muoversi su due binari. Vincenzo Bianco, uomo di Mosca paracadutato in Jugoslavia, ordinò alle federazioni comuniste della Venezia Giulia il passaggio dei partigiani italiani sotto il comando del IX Corpus iugoslavo. (L'ordine fu eseguito in autunno con il passaggio della divisione Garibaldi Natisone sotto il comando iugoslavo. Abbiamo visto che De Gregori e i suoi uomini della Osoppo si rifiutarono e furono massacrati.) Per quanto riguarda i territori italiani, Trieste compresa, Bianco ne prevedeva di fatto il passaggio alla Iugoslavia, "in un paese dove il popolo è padrone dei propri destini. Trieste sarà amministrata dalla maggioranza italiana, in perfetta unione con il popolo fratello sloveno".

Longo e Secchia, che rappresentavano il Pci nella Resistenza dell'Alta Italia, si allarmarono. Va bene la collaborazione con i fratelli sloveni, obiettarono, ma se Tito vuole giocare all'asso pigliatutto, noi rischiamo di trovarci in forte difficoltà con le forze reazionarie italiane. A questo punto il doppio gioco di Togliatti diventa un capolavoro. Dopo aver incontrato a Bari Kardelj e Gilas, se ne uscì con una dichiarazione mirabilmente cerchiobottista: cari compagni, c'è tempo per parlare di annessione. L'importante è che Trieste sia guidata da "forze democratiche e antifasciste più decise e disposte alla collaborazione più stretta con il movimento slavo e con l'esercito e l'amministrazione di Tito. I nostri compagni devono comprendere e fare comprendere a tutti i veri democratici triestini che una linea diversa si risolverebbe, di fatto, in un appello alla occupazione di Trieste da parte delle truppe inglesi". Meglio Mosca che l'Occidente, dunque. Per intanto, l'occupazione iugoslava è "un fatto positivo, di cui dobbiamo rallegrarci e che in tutti i modi dobbiamo favorire ... [così] in questa regione non vi sarà né un'occupazione inglese, nè una restaurazione dell'amministrazione reazionaria italiana, cioè si creerà una situazione profondamente diversa da quella che esiste nella parte libera dell'Italia" (Paolo Spriano, Storia del Partito comunista italiano).

Era Mosca a premere in questa direzione, e stavolta Togliatti scavalcò Longo e Secchia nella fedeltà a Stalin, salvo dimostrargli alcuni mesi dopo l'isolamento in cui si sarebbe trovato (e in effetti si trovò) il Pci ricevendo di nuovo l'ordine di obbedire alle mire di Tito. Ancora nel maggio 1946 gli emissari di Stalin, dando per acquisiti alla Iugoslavia quasi tutti i territori contesi, ammonivano Togliatti che "essendo iugoslavo tutto l'hinterland, lasciare Trieste all'Italia significherebbe separare la testa dal corpo". Le trattative si trascinarono fino all'autunno e all'inizio di novembre Togliatti, senza informare Nenni, andò in segreto da Tito e tornò con una proposta clamorosa che nascondeva una trappola fatale: la Jugoslavia avrebbe ceduto all'Italia Trieste in cambio di Gorizia e di tutto il resto della Venezia Giulia. In un documento i comunisti italiani espressero "riconoscenza" al maresciallo Tito per questa generosa proposta, ma Nenni si infuriò ("Tito rinuncia a ciò che non ha e ci chiede ciò che abbiamo") e De Gasperi bocciò risolutamente questa soluzione.

Al tavolo della Conferenza fu ventilata l'ipotesi di un plebiscito nelle zone contese tra Italia e Iugoslavia. De Gasperi rifiutò, temendo una sconfitta: i comunisti italiani avrebbero votato la soluzione più favorevole alla Iugoslavia. Paola Romano (La questione giuliana) avanza un'ipotesi più maliziosa: il plebiscito nella Venezia Giulia ne avrebbe forse determinato un altro in Alto Adige e, in quella zona, il trentino De Gasperi non voleva rischiare. Soltanto gli italiani di Pola, disperati, chiesero fino alla fine un plebiscito al quale, scrisse "L'Arena di Pola", avrebbero aderito 28.000 abitanti su 32.000 , altrimenti tutti sarebbero emigrati. Ma Pola era perduta.

Le pressioni internazionali e il rischio che gli Stati Uniti facessero mancare all'Italia i giganteschi aiuti economici che cominciavano ad arrivare costrinsero infatti De Gasperi a firmare il 10 febbraio 1947 un pesantissimo trattato di pace. Cedemmo alla Iugoslavia larga parte della Venezia Giulia, l'Istria (con Pola) e la Dalmazia (con Zara e Fiume). Trieste fu divisa e sarebbe tornata completamente all'Italia soltanto nel 1954.

E i profughi, in Italia, furono insultati

Furono 300.000 gli italiani che lasciarono la loro terra per non essere sottomessi al regime di Belgrado. Lo strappo più doloroso fu quello di Pola. Scrisse Tommaso Besozzi sull'"Europeo": "Trentamila su trentaquattromila avevano chiesto di essere trasferiti sulla penisola e trentamila abbandoneranno realmente le loro case prima che Pola sia consegnata ai soldati di Tito. Lungo le banchine, da Scoglio Ulivi fin quasi all'Arsenale, si levano cataste di mobili. La neve li ha coperti. Alla stazione ferroviaria attendono altre montagne di masserizie". Così Enzo Bettiza, giovanissimo profugo dalmata, racconta il distacco nel suo libro Esilio: "Il peschereccio, schiacciato dal peso di quell'umanità fuggitiva, levò le ancore e puntò la prua su Bari. Fino all'ultimo io guardai l'amico che, in piedi sul molo, senza mai agitare la mano, diventava via via sempre più minuto, più fragile, più evanescente. Quando si ridusse a un grigio puntolino nell'azzurro, capii che il mio esilio era davvero incominciato".

I profughi di Pola si imbarcarono sulla motonave Toscana, che fece il primo dei suoi dieci viaggi il 3 febbraio 1947. Dopo averne visto le immagini in un documentario girato dai militari americani, Gianni Oliva le descrive così: "Verso il Toscana muove un'umanità sofferente, che ha scavato in volto il senso della sconfitta: donne anziane, infagottate di nero, sedute sul bordo di un carretto tra cumuli di casse; giovani coppie senza sorriso, con i bambini in braccio vicino a valigioni rigonfi; sguardi assenti che vagano tra il molo e il mare; un cielo livido d'inverno, che appesantisce l'atmosfera di tristezza e di smarrimento; dovunque, il senso di una partenza senza ritorno, di una rottura irreversibile nella storia di ognuno".

E Regina Cirnmino (Quella terra è la mia terra): "Triste, tristissimo imballare mobili... Lasciare affetti e piccole cose care. Le mie strade in salita e in discesa, le siepi di rosmarino, il sole che tramonta sul mare. Bosco Siana, dove fiorivano allo stesso tempo violette e ciclamini, che non avrei colto mai più. Lasciare i morti, i cimiteri...".

La tristezza maggiore, tuttavia, ai profughi la riservò la patria. A Venezia, i passeggeri della motonave Toscana furono insultati dai portuali. A Bologna, un treno carico di sventurati fu bloccato prima che potesse entrare in stazione. Il Pci aveva fatto circolare fra i propri militanti la notizia che i profughi fossero fascisti in fuga. Quando, all'inizio del 2004, la vicenda è tornata d'attualità, i dirigenti ex comunisti dei Ds non hanno avuto difficoltà ad ammettere gli errori commessi dai loro padri politici e hanno aderito alla proposta della maggioranza di centrodestra di promuovere un "Giorno del ricordo" per commemorare le vittime delle foibe e le sofferenze dei profughi giuliani, istriani, dalmati. La prima giornata è stata celebrata il 10 febbraio 2005, nel ricordo del giorno successivo alla firma del trattato di Parigi, quando il comando dei territori contesi passò dall'autorità alleata a quella iugoslava.

 

Il vulcano dell'odio

"Almirante mi disse la verità"

"No, quella notte no!" Anna Mattei tira la testa indietro, spalanca gli occhi, poi li chiude. S'alza, scompare in un'altra stanza, torna stringendo in mano una boccetta di gocce e un bicchiere di carta. "La medicina..." spiega il figlio Giampaolo, che vuole proteggere la mamma dai suoi ricordi.

"Quella notte" sono le 3.20 di lunedì 16 aprile 1973. Quartiere romano di Primavalle, via Bernardo di Bibbiena numero 33, lotto 15 delle case popolari, scala D, interno 5. Sessanta metri quadrati di casa per una famiglia di otto persone. La famiglia di Mario Mattei, netturbino, segretario della sezione di quartiere del Msi. Nella camera da letto coniugale, con Mario e Anna dormivano i due figli più piccoli: Antonella, 9 anni, e Giampaolo, 3 anni e mezzo. Nella cameretta, Virgilio, il maggiore, 22 anni, e il fratello Stefano, 8. Nel microtinello, le due femmine più grandi: Silvia, 19 anni, e Lucia, 15.

"Ho sentito un gran botto e ho visto il fuoco dappertutto. Ho buttato avanti i due piccoli e poi non ricordo più niente." Sono le sole parole che Anna riesce a pronunciare, prima di bloccarsi di nuovo, stringendo fra le mani la boccetta della medicina. Il "gran botto" era frutto della vampata prodotta dall'incendio di quattro cinque litri di benzina fatti scivolare sotto la porta d'entrata, sigillata poi con una striscia di catrame. Mario provò istintivamente ad aprire la porta e venne investito da una nuova fiammata. Anna si gettò nel fuoco con i due piccoli. Si salvò, e li salvò, con l'aiuto del vicino di pianerottolo, anch'egli ustionato dall'incendio. Mario tentò invano di spegnerlo, allora si precipitò nella stanza delle figlie, riuscì a guadagnare il balcone. (La famiglia abitava al terzo piano.) Mario cercò di calare una delle due sul balcone del secondo. Ci riuscì. La seconda, invece, cadde nel vuoto, ferendosi gravemente. Infine si calò anche lui. E Virgilio? E Stefano? Cercarono anch'essi di guadagnare l'esterno, ma lo raggiunsero troppo tardi. Quando poco dopo, giovane cronista del Tg1, arrivai sul posto, vidi un corpo carbonizzato accasciato sul parapetto di un balcone. Era Virgilio. E ben presto venimmo a sapere che ai suoi piedi, non visibile dalla strada, c'era il cadavere di Stefano. Sul pianerottolo dell'appartamento distrutto, una scritta: giustizia proletaria.

I superstiti furono ricoverati a lungo in ospedale. "Io ci stetti venti giorni" racconta Anna "e nessuno voleva dirmi la verità. Ma io l'avevo capita guardando la gente che arrivava. Chi è morto?, chiedevo. E loro: tranquilla, stanno tutti bene. Ma io non ci credevo. Mio marito aveva ustioni sul settanta per cento del corpo e stava in camera asettica. E gli altri? Un giorno è venuto Abiurante. "Ti prego, Anna," mi raccomandò "di' tutto quello che sai, anche se si tratta di gente del nostro partito", perché la sinistra aveva sparso la voce che fosse una vendetta di "fascisti". Io lo guardai e gli dissi: "Chi è morto? Dimmelo almeno tu". Lui m'ha guardato a sua volta a lungo, poi è scoppiato a piangere e mi ha detto: "Virgilio e Stefano". Abbiamo pianto insieme. E con noi ha pianto tutto il partito e, credo, buona parte degli italiani. Ai funerali, Almirante mi prese sottobraccio. Io guardavo in alto per non guardare le bare. E vedevo i fucili puntati verso l'alto. La polizia aveva paura dei cecchini... "

Il servizio d'ordine del Msi si chiamava "Volontari nazionali". Ne faceva parte Graziano Cecchini, che, con l'Associazione fratelli Mattei (presentata ufficialmente il 28 ottobre 2005), è da trentadue anni vicino alla famiglia, incontra tutti da Veltroni a Fini e, adesso, siede con noi nel tinello della casa popolare al quartiere Flaminio che fu subito assegnata alla famiglia. "Almirante ci ordinò: non muovetevi. E sbagliò" mi dice Cecchini. "Se ci avessero lasciato fare, oggi forse lei avrebbe meno tragedie su cui scrivere." Anna scuote la testa: "No, sbagli tu. Io stessa dissi ad Almirante: devi ordinare ai ragazzi di stare calmi". Cecchini ribatte: "così, uno dopo l'altro ce ne hanno ammazzati tanti...".

"Montaturaf ascista!" E invece...

Ci sono due elementi di cui tener conto per capire il retroterra politico della strage. Il primo è che il Msi era molto forte. (Alle elezioni politiche del 1972 aveva ottenuto l'8,7 per cento dei voti alla Camera un solo punto meno del Psi , raddoppiando rispetto al '68, e alle comunali di Roma del '71 aveva superato il 16 per cento.) Il secondo è che nelle borgate si stava facendo sempre più massiccia la presenza di elettori e militanti missini, ponendo fine alla storia dei "fascisti pariolini". La sinistra si sentiva espropriata di parte dell'elettorato proletario e reagiva con durezza.

All'inizio degli anni Settanta, qual era il clima a Primavalle, uno dei più noti quartieri popolari romani? "Era una casbah di case sostenute da palafitte" racconta Giampaolo. "Nella piazza principale del quartiere, dalla metà del '72 al giorno della tragedia attaccare un nostro manifesto era un gesto di enorme pericolosità." "Le bombe molotov erano diventate pane quotidiano" aggiunge Cecchini. "Prima, dopo una scazzottata si andava al bar, poi si passò alle bastonate e anche alle revolverate."

Bruno Sodilo, l'attuale direttore del giornale radio Rai, sub il primo processo proletario al liceo Castelnuovo. "Ero l'unico studente di destra del turno pomeridiano" mi racconta. "Fui aggredito e mi rifugiai in presidenza. Il preside era Carlo Salinari [l'italianista che guidò il commando gappista di via Rasella] e mi cacciò. Quell'ufficio, disse, non era casa mia. Allora gli aggressori mi presero di nuovo e mi fecero il processo pubblico. Mio padre sporse denuncia per sequestro di persona, ma poi fin tutto in prescrizione."

Il giovane missino il "fascista", come si diceva all'epoca veniva messo alla berlina. Bastava comprare, non dico "Il Secolo d'Italia", ma semplicemente "Il Tempo" per finire in ospedale. "Mio marito e mio figlio Virgilio reagivano [Mario Mattei aveva la fama di essere uno tosto]" aggiunge Anna "ma la lotta era durissima." "Nostro avversario era il "collettivo" di Prima valle di Potere operaio, rafforzato dai collettivi universitari di Franco Piperno, Oreste Scalzone, Achille Lollo. Lollo abitava l. Noi al lotto 15, lui al 25" racconta Cecchini. "Lollo l'ho visto crescere" dice Anna. "Fino alla terza media ha frequentato la stessa scuola di Virgilio. Giocavano insieme a pallone in parrocchia. L'ho rivisto poi in tribunale nel 1975 e gli sono saltata al collo."

Non avevate mai avuto un segnale che la situazione stesse precipitando? "Quattro giorni prima della strage" mi racconta Anna "avevano messo una bomba al palazzo dove c'era la sezione del Msi diretta da mio marito. I danni non furono enormi, anche se la polizia ci disse che il quantitativo di polvere era tale da metterla fuori uso. Poi hanno incendiato l'automobile di Marcello Schiavoncini, un nostro militante. Dico "nostro" perché io ero la segretaria del movimento femminile. .." "Era l'anima della sezione" la corregge Cecchini. "Io so' rimasta missina, vabbè? Anzi, almirantiana per la pelle. Quello s che era un uomo. Lui e Berlinguer. Gli altri buttateli tutti a fiume. In famiglia non potevamo parlare degli attacchi subiti per non mettere in agitazione i ragazzi. Ma io, come donna e come mamma, non pensavo che poteva succedere quel che è successo quella notte. Poi, un giorno..."

Un giorno? "E' un episodio che non ho raccontato nemmeno al processo, perché m'era passato completamente di mente. Un giorno hanno bussato a casa mia. Erano in tre. "Vendiamo enciclopedie" disse uno. "Grazie, ma non ci interessano" risposi. Intanto, però, erano entrati in camera da pranzo. Uno dei tre girava nelle altre stanze con un foglio di carta. "Che cerca?" gli chiesi. "Niente, guardavo la casa." Dopo tanti anni mi si è aperta una luce in testa..." "Mi pare che Manlio Grillo, uno dei tre condannati per la strage" interviene Cecchini "vendesse appunto enciclopedie."

 

Per la strage furono subito incriminati tre giovani militanti di Potere operaio Achille Lollo, Marino Clavo e Manlio Grillo e un repubblicano quarantenne, Aldo Speranza, che odiava i missini quanto loro. ("Quelli di Potere operaio" dice Cecchini "si appoggiavano alla sezione del Pri di Primavalle.") Speranza, netturbino come Mario Mattei, sarà poi scagionato per la strage e accusato da Lollo di aver bruciato l'auto di Schiavoncini. Clavo e Grillo si resero immediatamente irreperibili. (Nel libro di Aldo Grandi, Insurrezione armata, uscito nell'autunno del 2005, Francesco Bellosi, militante nella struttura illegale di Potop, racconta di averli fatti espatriare in Svizzera su richiesta di Scalzone.)

Lollo andò detenuto al processo e, in suo favore, si scatenò una gigantesca campagna mediatica che vide impegnato, oltre ai giornali della sinistra, anche il più importante quotidiano di Roma, "Il Messaggero", passato dal grigiore burocratico e filogovernativo degli anni Sessanta a una linea rivoluzionaria. Umberto Terracini, mitica figura del Pci, si spese personalmente per lui, andandolo a trovare in carcere, mentre Franca Rame convinta erroneamente che, subito dopo l'arresto, fosse stato scagionato gli scriveva il 28 aprile 1973: "Io non ti conosco, ma come molti sono stata in grande angoscia per te. Ho provato dolore e umiliazione umiliazione nel vedere gente che mente, senza rispetto neanche per i propri morti".

Eppure, all'interno di Potop alcuni sospettarono subito che la strage di Primavalle potesse essere stata opera di compagni. Nel libro di Grandi, Lanfranco Pace oggi giornalista di La7 e del "Foglio", e allora dirigente di Potere operaio racconta di aver compiuto un'indagine interna per scoprire se Lollo, Clavo e Grillo fossero gli autori della strage. I tre negarono, ma i dirigenti capirono che a uccidere erano stati loro, e non i fascisti per una faida interna. ("Pur conoscendo la verità" dice Pace "dovemmo per forza dire che i tre erano vittime di una persecuzione.") Pace ritiene che i tre abbiano agito per mettersi in mostra agli occhi di Valerio Morucci anche lui dirigente di Potop prima di passare alle Brigate rosse , a capo di una sezione clandestina del partito (Lavoro illegale) incaricata delle azioni violente. (Racconta Morucci in La peggio gioventù: "Li. era un organismo parallelo che avrebbe dovuto inventarsi di sana pianta l'armamento tecnico e organizzativo da mettere in campo al momento dell'Insurrezione. Cioè, in soldi, armi, esplosivo, documenti falsi, auto rubate e un abbozzo di capacità a muoversi clandestinamente nella città".)

"Il primo giorno del processo" ricorda Anna "furono esplosi contro di noi dei colpi di pistola. La stessa cosa accadde a due giornalisti del "Secolo d'Italia". Da allora dovemmo andare a palazzo di giustizia sempre scortati." Il 26 maggio 1975 Grillo e Clavo furono arrestati a Stoccolma. Alberto Moravia chiese che il governo svedese concedesse loro l'asilo politico. Non ce ne fu bisogno. Mentre cortei al grido di "Lollo libero" si snodavano intorno al palazzo di giustizia, il 5 giugno successivo i due, insieme a Lollo, furono assolti per insufficienza di prove. "Il Messaggero" se ne rallegrò con un titolo che prese tutta la prima pagina: La vergognosa montatura fascista è crollata in Corte d'assise.

Eppure, i tre sapevano di non avere la coscienza a posto, tanto che Lollo raggiunse gli altri due all'estero e non è più tornato in Italia. "L'ho aiutato io a fuggire" ha raccontato a Pierangelo Maurizio del "Giornale" (12 febbraio 2005) Antonella De Stefani, nipote di Giangiacomo Feltrinelli e figlia di Stefano, un regista televisivo molto legato ai movimenti rivoluzionari dell'Angola.

Il 16 dicembre 1986 i tre furono condannati in appello a 18 anni di carcere, di cui 3 condonati con una sentenza che fa ancora discutere: la strage non venne considerata un atto volontario. E la Cassazione confermò. Nel 1992 Lollo fu arrestato e rilasciato in Brasile: la sua estradizione non è mai stata concessa. Gli altri due sono stati sempre irreperibili. Grillo si è stabilito a Managua, dove gode dell'impunità un altro terrorista latitante, Alessio Casimirri.

La "non volontarietà" della strage ha fatto s che nel 2005 la sentenza sia andata in prescrizione. Adesso Lollo, Clavo e Grillo sono liberi. Quando lo intervistai il 15 febbraio 2005 in collegamento dal Brasile, Lollo propose una tesi sconcertante: "Non gettammo benzina [sotto la porta dei Mattei] perché l'innesco scoppiò tra le mie mani, mentre Clavo sistemava il cartello [con la scritta giustizia proletaria] facendo un fracasso enorme. Sono caduto e rialzandomi ho sentito una voce maschile che dall'interno diceva: sono arrivati". Gli chiesi se stesse dicendo che i Mattei si erano incendiati la casa da soli per poi simulare l'attentato e utilizzarlo politicamente. Lollo rispose di s. "Dovrebbe vergognarsi" gridò al telefono Giampaolo Mattei, interpellato subito dopo.

Il 24 giugno 2005, opponendosi all'archiviazione dell'inchiesta, quest'ultimo ha fatto notare in un esposto alla magistratura romana che Lollo passato in Svezia, Francia e Angola durante un interrogatorio in Brasile nel 1993, quando l'Italia ne chiese l'estradizione, affermò di esservi entrato legalmente nel 1986 con un passaporto italiano e di aver svolto, con una sua società di consulenza, servizi per banche italiane e americane, e per imprese italiane con filiali in Brasile. Come faceva Lollo, chiede Mattei, ad avere un passaporto italiano quando la sua sentenza di condanna non era ancora definitiva? In realtà, fino al dicembre 1986, quando fu condannato, Lollo era un libero cittadino e diventò latitante solo dopo quella data.

La difesa di Mattei sospetta peraltro che, in tutto il lunghissimo periodo trascorso all'estero, Lollo abbia goduto di autorevoli protezioni. L'avvocato della famiglia, Francesco Caroleo Grimaldi, allega alla memoria atti emersi dall'inchiesta della commissione parlamentare Mitrokhin sui rapporti spionistici tra l'Italia e gli ex paesi comunisti. E' documentato il collegamento operativo di Lollo in Svezia con guerriglieri africani e sudamericani. Si ritiene inoltre, sulla base di documenti del 1980 interni ai nostri servizi segreti, che essi fossero a conoscenza della rete di favoreggiamento della "stragrande maggioranza dei ricercati italiani per terrorismo rosso". perché non si è intervenuti? chiede la difesa di Mattei.

Nel nostro colloquio dell'autunno 2005 in casa Mattei, Graziano Cecchini va oltre: "Achille Lollo ha lavorato per i servizi segreti italiani e ha avuto sempre a disposizione forti somme di denaro". Di quest'ultima affermazione, la difesa di Mattei non ha prove documentali, ma ha chiesto alla Digos di Roma e alla magistratura di chiarire le modalità del rilascio del passaporto italiano a LoUo. Da altri documenti che abbiamo potuto consultare risulta in maniera inequivoca che i nostri servizi conoscessero i movimenti e le attività di LoUo. E' anche assai probabile che i tre latitanti abbiano ricevuto un forte sostegno economico da amici italiani benestanti lambiti dall'inchiesta. Le interviste rilasciate da Lollo a "Porta a porta" e al "Corriere della Sera" erano forse un segnale lanciato a qualcuno di quelli che l'avevano protetto e aiutato finanziariamente.

Difficilmente una svolta alle indagini potrà venire dall'interrogatorio di Lollo autorizzato dalla magistratura brasiliana il 13 settembre 2005. Nelle sue interviste d'inizio d'anno l'assassino dei Mattei aveva chiamato in causa altre persone, quindi sarà sentito come testimone. Ma lui ha fatto sapere che non avrebbe risposto ad alcuna domanda. Ha detto, anzi, che avrebbe parlato solo di politica, non di fatti giudiziari. Dopo oltre trent'anni, dunque, Lollo insiste nel dire che quella di Primavalle non fu una strage, ma una "vicenda politica". Poiché potrebbe essere nuovamente incriminato, meglio una condanna per reticenza o falsa testimonianza che l'apertura di una pagina di verità. Nel frattempo, l'odio è rimasto intatto.

 

 

"Valerio è morto l"

"L'avessimo invitato a pranzo..." dice Massimo, l'amico di sempre che assiste al colloquio. "Quella mattina non eravamo andati a scuola, al liceo scientifico Archimede. Valerio mi aveva dato cinquemila lire per comprare le bibite e andare a spasso con le ragazze. Io m'ero tenuto i soldi ed ero andato a casa della mia fidanzata. All'una e mezzo lo sentii gridare da sotto: "Bastardo, restituiscimi i soldi!". Io cercai di calmarlo. La mia ragazza disse: invitiamolo a pranzo. Per carità, risposi, non vedi che è una belva? Tre quarti d'ora dopo Orazio, un altro compagno, mi disse che gli avevano sparato."

"Valerio è morto l." Rina Verbano mi mostra un divano di finta pelle marrone, appoggiato alla parete di fondo del soggiorno dove parliamo da un'ora. Sul posto dove s'accasciò il figlio, la testa insanguinata con i bei capelli neri, c'è un piccolo cane grigio di peluche, dono della sua ragazza, Manuela. E' rimasto tutto com'era all'ora di pranzo del 22 febbraio 1980, in una strada quieta del quartiere di Montesacro a Roma.

"Ero rientrata con mio marito intorno a mezzogiorno e mezzo. La poliomielite a una gamba lo aveva costretto a tanti interventi chirurgici e anche quella mattina eravamo andati da un medico. Ci stavamo cambiando quando qualcuno bussò. M'avvicinai alla porta con uno stivale in mano. "Chi è?" "Siamo amici di Valerio, suoi compagni di scuola." "Valerio non c'è." "Possiamo aspettarlo qui, per favore? Siamo un po' stanchi..." Aprii ed ebbi il tempo d'intravedere per un istante un giovane biondo e altri due che s'erano calati il passamontagna sul volto. Mi girarono immediatamente di spalle. Sentivo mio marito che chiedeva "Chi è?", ma non potevo rispondere perché uno di loro mi aveva chiuso la bocca con la mano. Andarono in camera, sbatterono sul letto mio marito, lo legarono e lo imbavagliarono. Fecero la stessa cosa con me e tornarono qui, in soggiorno. Con noi restò soltanto uno di loro: ci teneva la pistola sotto il naso, ma diceva di non preoccuparci. "Dobbiamo soltanto parlare con Valerio quando arriva." Può immaginare che cosa passammo in quei momenti. Io arrivai a sperare che Valerio avesse un incidente con la Vespa. Invece arrivò.

"Mancava un quarto alle due quando sentimmo le chiavi girare nella toppa e subito un tonfo: era caduto l'attaccapanni. Poi i rumori di una lotta furiosa Valerio era esperto di judo e uno sparo, andato a vuoto. La pallottola si conficcò nel muro. Valerio tentò di venire qui in soggiorno, che è vicinissimo alla porta, per raggiungere la terrazza. Ma dopo un attimo, un secondo colpo lo raggiunse alla schiena. Sentii che gridava: "Mamma, aiuto...". La porta era rimasta aperta, i vicini mi trovarono che mi trascinavo per raggiungere il corpo di Valerio, qui, sul divano, ormai morto con il sangue che gli usciva dalla bocca. In terra c'erano un passamontagna e una pistola,

Vincitori e vinti

rubata a un poliziotto sulla Cassia. Dalle perizie capimmo che forse volevano soltanto gambizzarlo. Poi lui si è difeso, ha tolto il passamontagna a uno dei tre, lo ha disarmato, e loro l'hanno ammazzato." Valerio Verbano aveva 19 anni.

"Le pistole giravano come penne negli uffici"

Chi era Valerio Verbano? perché l'hanno ucciso? Dice la madre: "Aveva frequentato le medie alla Settembrini di corso Trieste. La scuola era all'interno del complesso del Giulio Cesare, un liceo classico "nero". Valerio era di sinistra e allora abbandonò l'idea originaria di frequentare il classico per trasferirsi qui all'Archimede, un liceo scientifico abbastanza "rosso"". "Noi due" interviene Massimo "ci siamo conosciuti alle riunioni di Lotta continua alla sezione di via Scarpanto. Anno? 1976, forse anche prima. Eravamo proprio ragazzini. perché stavamo là? Avevamo la "sindrome di Robin Hood", togliere ai ricchi per dare ai poveri. Oggi suona un po' strano, c'è chi è meno comunista di allora, o almeno lo è in maniera meno dogmatica, e chi non lo è più [lui sta traslocando dall'Udc alla Margherita]. Ma allora..."

"Mio marito era iscritto al Pci" dice la signora Rina. "Attivista, anche se era capo divisione al ministero dell'Interno. Non si parlava mai di politica in casa. Sapevamo che Valerio aveva simpatie di sinistra, certo, ma non che fosse un estremista. L'unico elemento di contestazione tra padre e figlio era il calcio: mio marito era laziale, Valerio romanista. Gli amici? Ne venivano, certo. Ma si chiudevano nella stanza di Valerio. Sa, in casa di un funzionario dell'Interno non si fidavano..."

"Noi" dice Massimo "eravamo un gruppo di una trentina di persone. Un gruppo abbastanza autonomo che faceva riferimento a Lotta continua. Il nostro capo? Valerio. Facevamo controinformazione. Che significa? Schedavamo gli estremisti di destra. Con i soldi della merenda compravamo pellicola fotografica per controllare le loro manifestazioni. Come facevamo per non farci scoprire? Io giravo con il "Secolo d'Italia" in tasca, passavo per un fascista. Valerio si faceva

Il vulcano dell'odio

vedere con le pubblicazioni dei Testimoni di Geova. Lei mi chiede se le persone fotografate e schedate diventavano degli obiettivi. No, noi non abbiamo mai fatto niente di male a nessuno. Ma ci eravamo costruiti un archivio per sapere dove andare a cercare la gente se fosse capitato qualcosa. L'archivio veniva tenuto qui, in casa di Valerio."

"E pensare" sospira Rina "che, sapendolo appassionato di fotografia, il padre gli aveva regalato un ingranditore per la stampa... Scoprimmo tutto quando la polizia venne qui a fare una perquisizione e lo arrestò."

"L'antefatto" racconta Massimo "fu uno scontro con i fascisti a piazza Annibaliano. Valerio aveva un coltello e lo usò contro Nanni De Angelis, un estremista nero che poi fu arrestato dopo la morte di Valerio e si uccise in carcere. Valerio non sub conseguenze per quell'episodio, ma perse il borsello con una tessera del ministero dell'Interno. I "neri" dunque sapevano che aveva partecipato a quella rissa. Qualche mese dopo, alcuni dei nostri stavano in campagna, vicino a un casale, a costruire piccole bombe, mettendo nel contenitore di plastica dei rullini fotografici una miscela esplosiva di diserbante e zucchero. Erano bombette destinate alle sedi del Msi. Questa era una roba per i ragazzi. I più grandi si addestravano con polvere da mina. Arrivò la polizia e li arrestò tutti. Valerio era l'unico che avesse compiuto i 18 anni, e andò in carcere."

"Poi vennero qui per la perquisizione" dice la signora Rina "aprirono un cassetto in camera di Valerio e trovarono una pistola. Mi sentii gelare. Lui mi disse, poi, che un ragazzo lo aveva pregato di custodirla perché temeva che la madre lo scoprisse. Sarebbe venuto a ritirarla il giorno dopo. Quell'arma era a disposizione del gruppo. Era stata usata? No, mai. Così stabilirono le perizie." "Quella pistola" interviene Massimo "serviva a proteggere i compagni quando i più grandi riaccompagnavano a casa i più piccoli. Aveva uno scopo difensivo. Non è mai stata usata per attentati e nemmeno portata alle manifestazioni. Quel tipo di pistola non sparava mai. Devo dire, però, che tra noi le pistole giravano come le penne negli uffici. A via dei Volsci, dove andavamo a trovare gli "autonomi", ce ne erano casse piene. Pistole nuove, ancora avvolte nel cellophane dentro le scatole. Una struttura paramilitare vera e propria. Poi, man mano che si cresceva, ci facevamo tante domande. Possibile che nessuno sapesse niente? Ricorda di quando presero Daniele Pifano con due bazooka? Era un clima pazzesco. Avevamo la certezza matematica che in Italia sarebbe accaduto qualcosa di grave, che saremmo andati allo scontro armato. Tutti ci preparavamo a questo scontro. Non c'era accanimento per ammazzare gli estremisti di destra. Erano molto simili a noi, convinti però che sarebbe arrivato il comunismo. C'era un'ottica distorta da entrambe le parti."

"E' morto un partigiano. Cento ne nascono"

"In camera di Valerio" sospira Rina "venne sequestrato il dossier della schedatura. C'erano centinaia di nomi. Quando il giudice Mario Amato fu ucciso con due colpi alla testa da Giusva Fioravano" qui vicino, alla fermata dell'autobus, lavorava su quel dossier. Valerio fu arrestato il 20 aprile 1979 e restò in carcere fino al 22 novembre. Gli dettero 18 mesi con la condizionale. Lo scarcerarono quando ebbero la prova che la pistola non aveva mai sparato."

"Il carcere lo aveva cambiato" assicura Massimo. "Non aveva più la sicurezza di prima, s'era tirato fuori dal giro più duro. In prigione studiava, e ci raccontò che i detenuti comuni con cui divideva la cella lo proteggevano: lo chiamavano "bombarolo" e gli dicevano di starsene tranquillo, di non impicciarsi dei fatti loro. Poi lo trasferirono con due "politici" molto noti, Paolo e Daddo, che avevano sparato a un poliziotto."

Venticinque anni dopo, gli assassini di Valerio Verbano sono liberi. Nessuno li ha mai trovati. "Eppure un nostro vicino li aveva visti in faccia tutti e tre" mi racconta la signora Rina. "Li aveva notati giorni prima dal balcone. Lui fumava molto e doveva farlo all'aperto. Faceva anche le scale a piedi, per fumare l'ultima sigaretta prima di rientrare in casa. Li incontrò, così, dopo l'omicidio mentre correvano per le scale.

Il vulcano dell'odio

Avevano rubato anche gli occhiali di Valerio, dei Rayban, la macchina fotografica, cinquemila lire che stavano sullo scaffale dei libri. Il vicino era un collega di mio marito: in questa palazzina abitano tutti impiegati dell'Interno. Aiutò la polizia a disegnare l'identikit, ma quando lo portarono in questura per riconoscere alcune foto, si dichiarò non disponibile. "Caro Verbano," disse a mio marito "anch'io ho un figlio e ho paura." Un mese dopo cambiò casa."

Le prime indagini furono affidate a uno degli uomini migliori della polizia, Ansoino Andreassi, oggi vicedirettore del Sisde, che peraltro allora si occupava di terrorismo rosso. Ma non portarono a niente, se non a uno scambio di auguri, ogni Natale, con la mamma di Valerio.

Quando, nei primi mesi del 2005, "Porta a porta" rilanciò i due casi di giustizia negata Mattei e Verbano si è risvegliata l'attenzione, anche investigativa. "Ci fecero sapere che non c'erano nuovi indizi per riaprire le indagini" osserva Rina "ma poi Paolo Cento, deputato dei Verdi, che è nostro amico, mi disse: "perché non provano a cercare il Dna sul passamontagna? Nel 1980 non era possibile, ma adesso..."." Dagli accertamenti che abbiamo fatto, però, è molto improbabile che questo possa accadere. Quando un caso è chiuso, è difficile trovare dopo venticinque anni i corpi di reato e, dopo tanto tempo, il Dna dei capelli sarebbe comunque difficile da identificare.

"A proposito dei Mattei" aggiunge Rina "mi chiesero se condividevo il loro desiderio di giustizia. Certo, risposi. Anche se siete di colori politici diversi?, insistettero. Scherziamo? Hanno ammazzato un figlio anche a me. I morti sono morti..."

Rina è rimasta sola: anche il marito non c'è più. La camera di Valerio è diventata la sua camera. Su un piccolo scaffale sono rimasti gli animaletti di peluche che hanno accompagnato il ragazzo per diciannove anni. Era bello Valerio: aveva uno sguardo e un sorriso molto dolci. La sua foto sta a pochi centimetri dal muro dove si conficcò il primo proiettile di quella tragica mattina di febbraio. Poco oltre, un grande manifesto: "E' morto un partigiano. Altri cento ne nascono. Valerio, un comunista".

La lava cominciò a eruttare

I fratelli Mattei e Valerio Verbano sono tra le centinaia di vittime della nuova stagione dell'odio esplosa in Italia vent'anni dopo la chiusura della precedente. Tra il 1948 e il '68 la lava dei risentimenti e della lotta di classe, mai sopiti in alcune frange, ha covato nel fondo del vulcano della legittimazione reciproca tra i partiti dominanti. La De e il Pci si detestavano ma si riconoscevano: sapevano entrambi di essere figli del patto di Jalta e della divisione del mondo in due blocchi. Si assegnavano il compito storico di rappresentare due visioni del mondo e della società italiana. Il Pci non ha mai pensato di poter andare al governo. La De non ha mai immaginato di poter diventare un partito d'opposizione. Nessun comunista ha mai progettato di uccidere Mario Scelba. Nessun democristiano e nemmeno nessun missino di assassinare Palmiro Togliatti. (Antonio Pallante, che il 14 luglio 1948 sparò tre pallottole alla nuca e al torace del segretario del Pci, era uno studente fuori corso dalle idee confuse, con qualche simpatia nazista, ma completamente isolato.) Nessun comunista pensò mai di uccidere nemmeno Giorgio Aimirante, che aveva fondato il Msi sulle ceneri della Repubblica di Salò. Al Pci e alla De bastava che il Msi fosse completamente emarginato nella politica e nella società. Nel 1960 Aimirante tentò di mettere la testa fuori dalla sentina istituzionale in cui era convenzionalmente ristretto, ma scelse come sede del congresso nazionale del Msi Genova, città medaglia d'oro della Resistenza. Il 30 giugno una gigantesca manifestazione contro la "provocazione fascista" fin in un colossale scontro con la polizia e il prefetto annullò il congresso. Una settimana dopo, la manifestazione si replicò a Reggio Emilia. Gli scontri con la polizia furono ancora più duri. I celerini spararono: 5 manifestanti rimasero uccisi.

Tuttavia, fu soltanto nella seconda metà degli anni Sessanta che la lava dell'odio cominciò a eruttare dal vulcano fino allora dormiente. La prima colata venne da Reggio Emilia. E non a caso. L, un giorno del 1967, un gruppo di giovani

Il vulcano dell'odio

anarchici sparò con un fucile Flobert all'avvocato Alberto Ferioli, dirigente nazionale del Pii, che usava radersi accanto alla finestra aperta del bagno. Mancarono il bersaglio e lo specchio andò in frantumi. Arrestati, uscirono dal carcere dopo un paio di mesi, furono espulsi dal movimento anarchico e ammessi nella federazione giovanile del Pci, allora in dissenso con la direzione del partito. "Era un luogo molto accogliente" racconta Alberto Franceschini, capo storico delle Brigate rosse, "dove tutti i soggetti in qualche modo antagonisti potevano trovare un rifugio" (Giovanni Fasanella e Alberto Franceschini, Che cosa sono le Br). Franceschini era figlio di un partigiano reggiano. Lo era anche Prospero Gallinari. Entrambi furono tra i fondatori delle Brigate rosse, insieme ad alcuni studenti cattolici che incontreremo tra poco.

In quale clima si arrivò alla lotta armata? perché il '68 italiano è durato vent'anni, mentre altrove se la sono sbrigata in pochi mesi? In altri paesi (la California, dove insegnava il filosofo tedesco Herbert Marcuse e dove nacque la contestazione al sistema capitalistico, la Francia di Daniel CohnBendit, la Germania di Rudi Dutschke) la lava è esplosa e, una volta riversatasi in terra, s'è raffreddata. Non c'era il vulcano dell'odio che ne teneva altra in caldo, come in Italia.

Tra Mario Capanna e Giorgio Almirante

Il 17 novembre 1967, mentre a Reggio Emilia il liberale Ferioli si chiedeva ancora perché quei ragazzi "rossi" volessero sparargli, a Milano Mario Capanna occupava l'Università Cattolica alla guida del Movimento studentesco. "Milleduecento mani si levarono a mezzanotte per decidere l'occupazione" mi racconta oggi Capanna, che produce frutta biologica e miele in Umbria e presiede un Consiglio dei diritti genetici per combattere gli ogm in agricoltura. "Alle tre del mattino il rettore guidò la polizia nell'operazione di sgombero. Ci portarono via di peso mentre leggevamo la costituzione..."

Le occupazioni non erano roba da collegiali impertinenti. Si picchiava duro e, se necessario, si sprangava. Le botte si davano e si prendevano. (Se Capanna ha le ossa a posto, lo deve a un coraggioso commissario di polizia che lo salvò da un tentativo di linciaggio: si chiamava Luigi Calabresi.) Dai cortei del Movimento studentesco uscirono fior di terroristi. Ma ho sempre avuto la sensazione che il godimento vero di Capanna fosse di occupare una qualunque sede istituzionale per il semplice gusto di farlo, crogiolandosi nello sconcerto di chi quelle istituzioni avrebbe dovuto tutelare e meravigliandosi che lo lasciassero fare. In quegli anni lo incontrai un giorno nell'ufficio del capo della redazione Rai di Milano, seduto dietro la scrivania. "Che fai qui?" gli chiesi sbalordito. "Occupo" mi rispose placidamente. ("I telegiornali" mi dice oggi "trasmettevano soltanto le immagini degli scontri e mai le nostre idee. Così decidemmo di andarli a trovare.")

L'occupazione della Cattolica fu una fiammata che si propagò sulla benzina sparsa dappertutto. Seguì quella di alcune facoltà di Roma, Milano, Torino, Napoli, Pisa. A Roma, il Movimento studentesco faceva base a Lettere. I "neri" che hanno influito in maniera assai marginale sul '68 presidiavano Giurisprudenza. Il 16 marzo 1968 Giorgio Almirante entrò nella Città universitaria alla guida di duecento mazzieri per "liberare" Lettere. Fall, fu contestato anche dai suoi e provocò la scissione dal Msi di Avanguardia nazionale. (Nel 1987 dirà a "Epoca" Pino Rauti, leader di Ordine nuovo, una formazione nata dalla costola destra del Msi: "Avevamo con noi la maggioranza degli studenti negli anni Sessanta, ma non abbiamo fatto noi il '68. Anzi Almirante e Caradonna sono andati all'università di Roma con le mazze in mano, e hanno pensato bene di farsi anche fotografare! Ma hanno fatto bene, gli studenti, a prenderci a mazzate". Lanciando mobili dalle finestre di una facoltà, Giulio Caradonna celebre picchiatore centrò in pieno il leader di Autonomia operaia Oreste Scalzone, ferendolo seriamente.)

Il Pd, al contrario, segu con estrema attenzione la rivoluzione giovanile. Nella sua ormai lontana autobiografia (Biennio rosso) Scalzone racconta l'incontro di una delegazione del Movimento con il segretario comunista Luigi Longo. "C'è

stata da parte nostra una mancanza di previsione sul movimento studentesco" disse l'anziano leader, che affascinò i suoi giovani interlocutori parlando dei contrasti con Amadeo Bordiga al IV congresso dell'Internazionale comunista del 1922. "Il vostro movimento è un aspetto del movimento sovversivo del sistema. Come vedete voi il rapporto tra le rivendicazioni immediate e le lotte più generali per il rovesciamento del sistema?" Un dialogo tra rivoluzionari, dunque. Il Pci puntava a "un rovesciamento sociale radicale". "Abbiamo pubblicato il saggio di Le Duan [dirigente del Vietnam del Nord]" aggiunse Longo "dove si riconoscono tutti gli aspetti della lotta politica: rivendicazioni immediate, riforme, lotta armata di liberazione. Ma possiamo pensare, oggi in Italia, alla possibilità di una guerra di guerriglia, a una lotta armata? Io non lo credo, io credo che siamo già più avanti."

"Contrariamente alla vulgata corrente" mi dice Capanna "il '68 nacque e si mantenne rigorosamente non violento. La violenza venne quando la polizia cominciò ad attaccare le università e le scuole occupate e i picchetti delle fabbriche prima dell'autunno caldo del '69." Avrebbero dovuto accettare le occupazioni a oltranza? "Noi volevamo dialogare... In ogni caso, dal Movimento studentesco non è uscito un terrorista che è uno." C'era odio? "C'era gioia. Nonostante tanto tempo, tanto sonno e tanto salario perso, ci siamo divertiti moltissimo. Ci riconoscevamo in pieno nella frase di Hannah Arendt: vedi cambiare il mondo mentre lotti per farlo." Pensavate alla rivoluzione? "Certo, volevamo cambiare il costume, le abitudini sessuali, il modo di pensare. E, naturalmente, anche le istituzioni. La lettura migliore l'ha fatta Giorgio Gaber trent'anni dopo: quei giovani non volevano prendere il potere, ma essere diversi da quelli che l'avevano."

Nelle altre capitali europee per non parlare delle università californiane il confronto e lo scontro avvenivano tra studenti e professori, tra docenti legati al voto di profitto e allievi che consideravano i libri di testo pietre angolari di un sistema che non riconoscevano più, tra sostenitori di Mao e di Che Guevara e tutori dell'ordine costituito, tra i Cohn

318 Vincitori e vinti

Bendit e i prefetti di polizia. In Italia, oltre a tutto questo, c'era lo scontro politico e di classe. Cominciò tra i "rossi" e i "neri", e incendiò per vent'anni fette larghissime di società e tutte le istituzioni.

"Vivere a sinistra voleva dire stare all'università o, alla mattina presto, davanti alle fabbriche, con le mani e il naso gelati per dare i volantini agli operai. Voleva dire vestirsi con attenta disinvoltura, con curata nonchalance: i jeans, i maglioni sformati, le Clark ai piedi, i titoli rossi dei giornali in tasca ... E i giovani di destra, assediati nel loro minoritarismo ... devono solo organizzare raids offensivi per rompere il cerchio che li vede anche socialmente isolati ... ed essere così i "mazzieri al soldo della borghesia"? ... Possono bastare i valori tradizionali della patria, della bandiera, della famiglia, dell'onore, quando dall'altra parte della barricata si impongono concezioni che hanno il pregio della modernità e di una certa trasgressione proprio di quei tipi di valori?" scrivono Adalberto Baldoni e Sandro Provvisionato in A che punto è la notte?, un libro fondamentale per capire quegli anni.

"Uccidere un fascista non è reato"

Gianni Alemanno, seduto al tavolo di lavoro del ministero delle Politiche agricole, concorda: "Era il classico scontro dell'Italia divisa a metà, dei guelfi e dei ghibellini. Eravamo separati da un odio assoluto, da una totale incomunicabilità antropologica. Indossavamo abiti diversi, vivevamo in quartieri diversi. Lo scontro degenerò per l'insufficienza delle istituzioni a fronteggiarlo". Gianfranco Fini si iscrisse al Msi dopo che gli fu impedito di vedere al cinema Berretti verdi, l'unico film che difendeva la guerra degli americani in Vietnam. "Ricordo" mi dice nel suo ufficio di ministro degli Esteri "una violenza molto diffusa, che andava dall'intimidazione all'aggressione verbale, all'omicidio. Per molti anni, dalla fine dei Sessanta all'inizio degli Ottanta, noi di destra eravamo le vittime designate, i neri in Alabama, all'insegna di quello slogan infame secondo cui uccidere un fascista non è reato. Quel che ancora oggi mi disgusta è l'ignavia, la viltà, la codardia di tutti quelli dai giornalisti ai politici, ai magistrati che, pur sapendo ciò che accadeva, tenevano gli occhi chiusi. Questa totale indifferenza scatenò, più tardi, in alcune frange della destra il desiderio della vendetta. Non si può capire una certa fase del "terrorismo nero" se non si conosce che cosa accadde in quel periodo."

Ricorda Alemanno: "Nel 1971 avevo tredici anni. Militavo nel Fronte della gioventù e mi iscrissi con un anno di anticipo al liceo scientifico Righi di Roma, una scuola considerata di destra, mentre il vicino liceo classico, il Tasso, era di sinistra. Venivano i ragazzi del Tasso ad attaccarci e, dopo la vittoria elettorale di Almirante alle elezioni del '72, l'antifascismo militante, che sembrava sopito, si radicalizzò di botto. All'insegna di "uccidere un fascista non è reato", cominciò la caccia all'uomo, anche se eravamo uomini di 1415 anni."

"Al Tasso ho frequentato tutti i cinque anni di liceo" ricorda Maurizio Gasparri. "Per me, ragazzo di destra, era un lager. Ma non un lager comune, un gulag vietnamita. Ha presente il film Il cacciatore? Bene, io ero quello dentro la gabbia. Mi è servito, mi sono temprato, mi sono allenato a diventare Gasparri..." Andò peggio a Francesco Storace, oggi ministro della Salute. Gli bruciarono la casa (la madre fu salvata dal fratello minore) e gli spararono sei colpi di pistola mentre attaccava manifesti. "Mi salvai gettandomi a terra" raccontò più tardi. "Non ho mai usato scale per non espormi."

Daniela Fini, moglie di Gianfranco, è viva per miracolo. Il 17 gennaio 1975 si trovava con una ventina di camerati nella piccola sezione del Msi di Cinecittà un locale al piano della strada quando attentatori mai identificati gettarono una bomba incendiaria all'interno e chiusero la saracinesca dall'esterno. Le fiamme si svilupparono immediatamente e i "topi neri" così li chiamavano gli extraparlamentari di sinistra non potevano uscire. Mentre Daniela, con i lunghi capelli che le bruciavano, veniva allontanata da un ragazzo di 16 anni, Alessandro Losavio, un carrozziere dall'esterno riuscì a togliere il fil di ferro usato dagli attentatori per bloccare la saracinesca e liberò il gruppo. Losavio, che salvò anche il fratello Cesare di 17 anni, riportò ustioni gravissime che quindici interventi chirurgici non sono riusciti a cancellare.

"Odio? No, noi di Potere operaio non abbiamo mai odiato veramente quelli di destra" mi dice Lanfranco Pace. "Per noi l'antifascismo era un problema residuale. Non abbiamo mai pensato davvero che in Italia ci fosse un pericolo fascista, al contrario dei tanti che a sinistra come sentivano odore di fascisti volevano il sangue. Erano i tempi in cui venne coniato lo slogan "fanfascismo". Ma come si fa ad assimilare Fanfani al fascismo? La distanza della De dal fascismo era abissale. Eppure, in tanti prevalse la retorica della Resistenza incompiuta."

"Le Br hanno radici nella storia di questo paese"

Nel suo Lettera a mio figlio sul Sessantotto, ristampato alla fine del 2005, Mario Capanna nega che i movimenti che animarono quella grande rivolta fossero violenti e aggiunge che il terrorismo nacque "solo nella testa di pochi" dopo la strage di piazza Fontana, come reazione alla brutalità con cui lo Stato volle reprimere quella forma di ribellione. In realtà, credo che abbia ragione Michele Brambilla (L'eskimo in redazione) quando ribatte che quasi tutti i terroristi rossi uscirono dai movimenti di estrema sinistra nati nel '68 (Prima linea fu partorita dalla costola più radicale di Lotta continua). Gli stessi brigatisti hanno ripetuto più volte che la scelta della lotta armata fu una logica conseguenza del loro essere comunisti, leninisti, quindi rivoluzionari. I Gap di Feltrinelli, come vedremo tra poco, nacquero nella primavera del 1970. Il gruppo XXII Ottobre di Genova si formò, come ricorda il nome, il 22 ottobre 1969. Avanguardia operaia nacque nel '67, Lotta continua nell'estate del '69, Potere operaio nell'autunno dello stesso anno. "La strage di piazza Fontana" mi dice Pace "avvelenò enormemente il clima. Fino ad allora c'erano stati scontri. Ma se la polizia spara e il manifestante muore, siamo nel copione. Il 12 dicembre 1969 portò un elemento nuovo e cupo."

Diversa la valutazione di Capanna: "Prima di piazza Fontana nessuno nei movimenti si è mai organizzato per uccidere. E' vero, invece, che la polizia aveva represso tante manifestazioni uccidendo alcune persone. Quando il 7 dicembre 1968 andammo a tirare le uova alle signore milanesi che entravano alla Scala per l'apertura di stagione dicemmo: i braccianti di Avola vi augurano buon divertimento. Due di loro erano stati uccisi cinque giorni prima. La notte di Capodanno, alla Bussola di Focette, fu colpito Soriano Ceccanti, che ancor oggi è ridotto su una sedia a rotelle. E il 9 aprile 1969 ci furono due morti alla manifestazione di Battipaglia a favore delle lavorataci del tabacco. Poi arrivò la strage di Stato del 12 dicembre...".

La strage di piazza Fontana ebbe probabilmente un ruolo decisivo nel trasformare in Brigate rosse il Collettivo metropolitano di Renato Curdo e Corrado Simioni. Ma abbiamo visto che fin dal '67, a Reggio Emilia, Alberto Franceschini sognava la lotta armata.

"Le Brigate rosse" dice Franceschini a Fasanella "non sono nate dal nulla. Non sono un prodotto da laboratorio, magari di qualche Servizio segreto, ma il frutto di una cultura e di una tradizione politica della sinistra italiana. Quindi hanno radici nella storia di questo paese." Aggiunge Mario Moretti, capo delle Br durante il sequestro Moro: "C'era un grande movimento operaio, per niente integrato, e in esso c'era quel grande partito comunista. La storia delle Br è una storia in quella storia... Conoscevamo i compagni del Pci, come ne vivevano la linea, le illusioni che si facevano. E loro conoscevano noi. Ci conoscevano e non ci denunciavano, ci parlavano, parlavamo. Magari non erano d'accordo, ce ne dicevano di tutti i colori, ma erano compagni, non erano lo Stato e non lo sarebbero stati mai" (Brigate rosse. Una storia italiana).

Abbiamo detto che la prima colata della lava dell'odio scese non a caso da Reggio Emilia. Fu l, infatti, che attorno a Franceschini si formò il nucleo forte originario delle Br: oltre a Gallinari, Roberto Ognibene, Lauro Azzolini e Franco Bonisoli. Fu l che tra il '68 e il '69 (quindi prima della strage di piazza Fontana) le Brigate rosse si proposero come la continuazione del movimento partigiano. Racconta Franceschini: "Erano gli stessi ex partigiani che ci dicevano di andare a cercare le armi, perché volevano che le prendessimo noi ... L'idea che avevamo, chiara e precisa, era che dovevamo costruire una struttura armata ... Sapevano che, le loro armi, noi le avremmo usate. Avevano fatto la guerra di Liberazione, dopo il 25 aprile avrebbero voluto continuare a combattere per costruire una società socialista, ma il Pci, il loro partito, li aveva traditi". La rivoluzione socialista, che il Pci non aveva potuto fare per la sconfitta del 18 aprile 1948 (e forse ancora prima per gli accordi di Jalta), doveva dunque essere riproposta vent'anni dopo colpendo i simboli politici, economici, istituzionali dell'Italia capitalistica.

Su questa idea di rivoluzione, i nipoti dei partigiani comunisti trovarono una sponda forte e insospettabile nell'ambiente cattolico dell'università di Trento. All'inizio degli anni Sessanta ci fu in Italia un fiorire di libere università. Quella di Trento fu voluta dai dirigenti provinciali democristiani e fu la prima ad aprire le porte anche ai diplomati degli istituti tecnici. Si voleva superare la discriminazione di classe e rinnovare radicalmente la formazione giovanile. Furono chiamati insegnanti famosi: Sabino Acquaviva, Francesco Alberoni, Gian Enrico Rusconi, Norberto Bobbio, Franco Ferrarotti, Nino Andreatta, Romano Prodi. Testimonia Bruno Kessler, a lungo presidente democristiano della provincia e oggi parlamentare ds: "E' proprio all'interno del mondo cattolico che, anche nella scia del Concilio, la deflagrazione degli anni Sessanta ha lasciato i segni più marcati, le lacerazioni più vistose. E non poteva non essere così in una terra come la nostra, dove anche il meglio di Lotta continua è cattolico".

Questa orgogliosa presa d'atto diventa ancor più comprensibile alla luce di insospettabili simpatie raccolte dai rivoluzionari in ambienti autorevoli del mondo cattolico. Corrado Gorghi, per esempio: segretario regionale emiliano della De all'inizio degli anni Sessanta, ascoltato interlocutore di Enrico Berlinguer alla fine dello stesso decennio nonostante contestasse il Pci da sinistra, fondatore con altri dell'Azione cattolica, amico personale di Che Guevara e di Fidel Castro. Secondo Franceschini, Corghi avrebbe approvato l'idea della lotta armata se fosse stata "leggibile dalla gente come atto di giustizia".

Dai partigiani a Feltrinelli

A Trento si formarono Marco Boato, uno dei leader di Lotta continua, e Renato Curcio e Margherita ("Mara") Cagol, che furono insieme con il gruppo di Franceschini i fondatori delle Brigate rosse. "Le Brigate rosse sono nate a Milano nel 197172, non a Trento" dice Marco Boato a Roberto Beretta (Il lungo autunno. Controstoria del Sessantotto cattolico). "Nella nostra università non ci furono mai episodi di violenza ... Curcio aveva una formazione cristiana un po' originale ... Nel giro di un anno e mezzo, poi, diversamente da me fece una sorta di conversione al marxismo per influsso di Mauro Rostagno." Ribatte nello stesso libro Renzo Gubert, senatore trentino dell'Udc: "In realtà la teorizzazione della violenza come metodo di cambiamento apparteneva già agli studenti trentini e a Boato stesso, anche se oggi lo nega".

Franceschini e Gallinari fecero i primi proseliti: "Selezionammo 2030 compagni, i più determinati, gli stessi che più tardi avrebbero formato il nucleo più agguerrito delle prime Brigate rosse. E cominciammo a esercitarci andando a sparare sulle montagne con i mitra che ci davano gli ex partigiani ... Poi imparammo a costruire bombe molotov". Tra i maestri, Franceschini ricorda Lucio Libertini, importante senatore del Psiup passato poi al Pci, il quale sulla prima pagina della rivista "La sinistra", edita da Feltrinelli, pubblicò un articolo in cui spiegava come si fabbrica una bomba molotov.

Il Pci cap ìche quei ragazzi di Reggio avevano la testa troppo calda. Non li denunciò e tentò di ripercorrere la stessa strada aperta vent'anni prima con i partigiani autori delle stragi più indifendibili: come aveva mandato questi a Praga, così propose a Franceschini e Gallinari di andarsene a Mosca. I due rifiutarono, furono espulsi dal partito e trovarono una sponda importante in Giangiacomo Feltrinelli.

Troppo giovane per aver fatto la Resistenza (anche se qualche suo coetaneo c'era riuscito: era del 1926), troppo vecchio per fare la rivoluzione, Feltrinelli fu il vero collante tra le due anime delle prime Brigate rosse: quella cattolica di Curcio e quella comunista di Franceschini. Giangiacomo era l'erede di una grande e ricchissima famiglia milanese. Ebbe un'infanzia difficile, tra la gelida madre Giannalisa e un patrigno, Luigi Barzini jr, con il quale non legò mai (suo padre s'era suicidato dopo uno scandalo che l'aveva coinvolto durante il fascismo). Fu editore spregiudicato e geniale: suo il colpo di pubblicare in esclusiva mondiale Il dottor Zivago di Boris Pasternak e Il Gattopardo di Tornasi di Lampedusa.

Dapprima comunista intransigente: fortissimo il legame con Pietro Secchia, il quale sperò sempre di vedere spuntare un giorno il sole della rivoluzione. (A dire il vero, perfino un uomo come Riccardo Lombardi, secondo Franceschini, si era rassegnato alla necessità della lotta armata come unico antidoto all'imminente svolta golpista che temeva per l'Italia.) Poi tessitore di intrighi rivoluzionari internazionali: sua la pistola che il 1ø aprile 1971 uccise ad Amburgo il console boliviano Roberto Quintanilla Pereira, coinvolto nell'assassinio di Che Guevara. Infine, accecato dal terrore di un colpo di Stato, che lo portò su una strada senza ritorno.

Feltrinelli aveva maturato questa convinzione fin dal 1967. Aveva mandato senza esito, com'era ovvio un suo uomo in Sardegna per vedere se fosse possibile farne una Cuba del Mediterraneo. Oreste Scalzone, che lo conobbe nel '68, ne fa questo ritratto: "Lo vidi per la prima volta nel retro della libreria del Babuino a Roma. Camicia azzurra cubana regalata da Fidel, bionde "Senior service" schiacciate a metà nel posacenere, allure, faccia e baffi da hazendeiro, si portava addosso l'alone di avventura che nella sua inguaribile adolescenza l'ha accompagnato per tutta la vita". Nel luglio dell'anno successivo diffuse un documento, intitolato Estate '69, che recitava: "E' possibile che il colpo di Stato, organizzato dalla Cia americana, dalla Nato, dalle grandi industrie, dai militari e dalle forze internazionali trovi attuazione nel corso di questa estate, facilitato dall'esodo estivo, dal generale disinteresse, dall'impreparazione delle tradizionali organizzazioni operaie (Pci e sindacati)". Ma la sua strategia non si limitava certo a difendere le istituzioni democratiche. Il suo obiettivo strategico era quello di "abbattere il sistema capitalistico in Italia, distruggere il potere dei monopoli, distruggere le istituzioni dello Stato capitalista". Come un uomo del suo calibro abbia potuto immaginare uno scenario del genere, resterà per sempre un mistero.

Passò dunque alla lotta armata rifondando i Gap, i Gruppi d'azione patriottica che erano stati sciolti nei primi anni del dopoguerra. Entrato in clandestinità alla fine del '69, dopo la strage di piazza Fontana (si tagliò i baffi per mutare aspetto), Feltrinelli s'illuse di interpretare la parte del Grande Vecchio in grado di unificare e dirigere tutti i gruppi di guerriglia che s'erano formati. Curcio non gli dette molta retta, ma Potere operaio (Franco Piperno e Toni Negri), Lotta continua e il Manifesto che pure, dopo un incontro di Luciana Castellina e Lucio Magri con Franceschini, s'era dissociato da ogni ipotesi di lotta armata attinsero generosamente alle sue sterminate finanze. Quando Feltrinelli era in Italia, incontrava i suoi interlocutori ogni mercoledì alla stessa ora nei giardini del Castello Sforzesco di Milano, con la cura maniacale dei dettagli del bravo clandestino. Viaggiava spesso. Aveva infatti consolidato i suoi rapporti con i regimi cubano e cecoslovacco, e Franceschini sospetta che attraverso di lui i servizi segreti di Praga tenessero d'occhio le nascenti Brigate rosse.

L'editore morì un mercoledì di marzo 1972, il 15, dilaniato da una carica di dinamite che stava collocando sotto il traliccio 71 di Segrate per lasciare al buio una parte cospicua della città di Milano. Morì vittima della leggenda che si era costruita addosso. Morì nel tentativo di dimostrare ai suoi compagni sudditi che "Osvaldo" (era il suo nome di battaglia) non sapeva soltanto tirar fuori i soldi (tanti), ma era pronto a rischiare di persona ed era fisicamente in grado di compiere azioni di guerriglia. I documenti trovati dai poliziotti addosso al cadavere erano intestati a Vincenzo Maggioni, impiegato di Novi Ligure. Maggioni non esisteva. Il commissario Luigi Calabresi suggerì ai suoi capi: "Mettete un paio di baffi a quella foto". Venne fuori il ritratto di Feltrinelli.

In pochi, a sinistra, credettero che Osvaldo fosse morto sul campo. Il quotidiano romano "Paese Sera", vicino al Pci, scrisse: "Sarebbe stato assassinato e portato sul luogo dell'attentato". Questa tesi, riprodotta sulla prima pagina del "Corriere della Sera", fu subito rilanciata a Milano dal Movimento studentesco e da una serie di intellettuali guidati da Camilla Cederna, la giornalista dell'"Espresso" capofila della "rivolta democratica" contro lo Stato assassino. Invano Potere operaio rivendicò l'appartenenza di Feltrinelli ai Gap, fornendo una serie di particolari sull'attività terroristica del gruppo fino ad allora sconosciuti. Invano le indagini della magistratura accertarono su richiesta della famiglia Feltrinelli che l'editore non era stato picchiato nè cloroformizzato prima di morire. Si dovettero aspettare sette anni perché nella primavera del 1979, in apertura dell'udienza del processo GapFeltrinelliBr, i brigatisti guidati da Renato Curcio dalla loro gabbia chiarissero definitivamente ogni equivoco. "Osvaldo non è una vittima" dissero "ma un rivoluzionario caduto combattendo."

Piazza Fontana, 36 anni senza colpevoli

Anche se i movimenti rivoluzionari "rossi" nacquero negli anni precedenti, fu la strage di piazza Fontana 12 dicembre 1969 a far precipitare il paese nell'incubo del terrorismo e ad alimentare le frange estremiste di sinistra. Quel venerdì pomeriggio, alle 16.37, una bomba esplose nella sede della Banca nazionale dell'agricoltura. Era trascorsa oltre mezz'ora dall'orario di chiusura (e questo avrebbe fatto dubitare più d'uno della volontà stragista degli attentatori), ma il salone centrale era ancora affollato di piccoli operatori, venuti anche dalla provincia. Bilancio della strage: 17 morti, 88 feriti.

Cornelio Rolandi, tassista iscritto al Pci, riconobbe in un anarchico di 37 anni, Pietro Valpreda, il passeggero claudicante che gli aveva chiesto di portarlo all'angolo con piazza Fontana. Il passeggero era sceso con una borsa ed era risalito senza. Arrestato, aggredito dai media, Valpreda restò a lungo in carcere, e il Parlamento approvò una legge ad personam per farlo uscire ("Avevamo paura che ci morisse in prigione" mi confessò Andreotti). Condannato poi soltanto per associazione sovversiva, infine assolto, Valpreda uscì definitivamente dal processo nel 1985.

Entrarono e uscirono anche molti personaggi legati all'estrema destra e ai servizi segreti: l'agente del Sid Guido Giannettini e, in decenni diversi, i neofascisti Franco Freda, Giovanni Ventura, Stefano Delle Ghiaie, Massimiliano Fachini, Delfo Zorzi, Carlo Maria Maggi, Giancarlo Rognoni. I primi due furono condannati all'ergastolo e poi assolti. Delle Ghiaie e Fachini sono stati sempre assolti. Gli ultimi tre furono condannati all'ergastolo nel 2001, assolti in appello nel 2004 e assolti definitivamente in cassazione il 3 maggio 2005.

All'inizio della storia, la magistratura romana si convinse che la mente dell'attentato fosse fascista e il braccio anarchico, cioè Valpreda. La stessa tesi mi è stata ripetuta fino al momento della morte dal consigliere istruttore Ernesto Cudillo, che diresse le indagini insieme con il pubblico ministero Vittorio Occorsio, poi ucciso dai Nar. Di questo parere, che non trovò riscontri giudiziari, era anche il commissario Calabresi, che lo confidò alla moglie Gemma.

Sorprendentemente, la tesi rossonera è stata rilanciata nella deposizione del brigatista Veneto pentito Michele Galati (10 gennaio 1991). Galati parla di un'accurata inchiesta condotta dalle Brigate rosse sulla strage, attingendo anche a documenti rubati in alcune sedi del Msi e negli uffici del movimento di Edgardo Sogno. Secondo Galati, gli anarchici "volevano attuare un attentato dimostrativo antisistema". L'ordigno, collocato da Valpreda, sarebbe dovuto esplodere mentre la banca era chiusa. Il cervello dell'operazione sarebbe stato Delle Ghiaie, che avrebbe agito attraverso l'infiltrato Mario Merlino figura chiave, mai studiata fino in fondo con la collaborazione di Giannettini. I timer sarebbero stati forniti da Freda e Ventura. Rolandi avrebbe confermato la sua versione anche ad ambienti della sinistra milanese. L'anarchico Giuseppe Pinelli, di cui parleremo tra poco, avrebbe collaborato all'organizzazione dell'attentato, ma si sarebbe suicidato dopo aver scoperto in questura di essere stato usato dai fascisti.

Una tesi analoga fu sostenuta nel 1992 da Bettino Craxi: mano anarchica, organizzazione curata da spezzoni dei servizi segreti Veneti legati alla Nato, appoggio logistico d Pinelli ("un brav'uomo"), poi suicidatosi per il rimorso. Nel riportare la confessione di Galati, Giorgio Boatti (Piazza Fontana) ne prende le distanze e sposa invece quella del magistrato milanese Guido Salvini, che ha tenuto le fila del processo fino alla fine. Secondo Salvini, la strage sarebbe maturata all'interno di cinque entità di destra: Ordine nuovo, Avanguardia nazionale, Aginter press (organismo internazionale antisovietico), forze legate ai servizi segreti italiani e a quelli americani. Nemmeno questa tesi, però, ha retto alla verifica processuale. Così, dopo trentasei anni, la strage è impunita, e resta una delle pagine più vergognose della storia italiana.

 

Il "piccolo" Calabresi non perdonerà

"S'è buttato, s'è buttato!"

La sera della strage di piazza Fontana, la magistratura milanese imboccò decisamente la pista anarchica. Insieme a decine di militanti di questo movimento fu fermato Giuseppe Pinelli, 41 anni, ferroviere, iscritto al circolo milanese Ponte della Ghisolfa. Era conosciuto come una persona ferma nelle sue idee, ma incapace di far del male a chicchessia. Con Luigi Calabresi, commissario dell'ufficio politico della questura, aveva rapporti amichevoli. I due ricorda Michele Brambilla nel suo libro si erano appena scambiati un dono: il commissario aveva regalato a Pinelli Mille milioni di uomini di Enrico Emanuelli, l'anarchico aveva ricambiato con l'Antologia di Spoon River.

Pinelli fu trattenuto in questura tre giorni, uno in più di quanto consentisse la legge, anche se, come vedremo, gli era stato concesso di allontanarsi per qualche ora. Poco prima della mezzanotte del 15 dicembre precipitò da una finestra dell'ufficio al quarto piano di via Fatebenefratelli. La polizia dichiarò che si era suicidato. Nel 1997 Gemma Calabresi mi disse che il marito, la notte stessa, le aveva raccontato che dopo aver interrogato Pinelli era stato chiamato dal capo dell'ufficio politico della questura, Antonino Allegra. Mentre i due parlavano, un collaboratore era corso verso l'ufficio di Allegra gridando: "S'è buttato, s'è buttato!". A un brigadiere dei carabinieri che aveva tentato di fermarlo era rimasta in mano una scarpa. Calabresi ammise di aver fatto credere a Pinelli che Valpreda aveva confessato di aver piazzato la bomba. La versione della polizia fu sempre che Pinelli, disperato, avrebbe esclamato: "Questa è la fine del movimento" e si sarebbe buttato giù, non si sa se per una ragione ideale o perché temeva di essere incastrato a sua volta, come fece capire il questore di Milano, Marcelle Guida, in una sgradevole dichiarazione ("Il suicidio equivale a un'autoaccusa").

Fu subito chiaro che, al momento del fatto, Calabresi non era presente nella stanza in cui si trovava l'anarchico. C'erano, invece, un tenente e quattro brigadieri dei carabinieri. Al contrario di quanto scrisse sull'"Espresso" Camilla Cederna, non è vero che Pinelli fu interrogato per 77 ore consecutive. Tanto è vero che potè uscire per consegnare alla madre la tredicesima, che aveva incassato il 12 dicembre, e telefonò più volte alla moglie tranquillizzandola. Calabresi interrogò Pinelli soltanto la sera di lunedì 15. Ma, dall'indomani, fu lui e solo lui l'oggetto di una spaventosa campagna d'odio che lo additava come l'assassino di Pinelli. Brambilla ricorda che Pinelli cadde davanti a un cronista dell'"Unità", Aldo Palumbo: se davvero fosse stata la polizia a buttarlo giù, avrebbe scelto il posto con maggiore cautela e, poiché Pinelli morì soltanto in ospedale, non si sarebbe esposta al rischio di essere denunciata dalla stessa vittima.

Nel suo libro Mio marito, il commissario Calabresi la moglie Gemma scrive che la campagna fu aperta dai difensori della famiglia Pinelli, dal quotidiano socialista "Avanti!", dai giornali comunisti "l'Unità" e "Vie Nuove". Feroce fu "L'Espresso" con Camilla Cederna. "Lotta Continua" partì un momento dopo, ma fu implacabile: dal 17 febbraio 1970 avviò una campagna martellante che additava Calabresi come assassino di Pinelli. Nel giugno 1971 "L'Espresso" pubblicò una lista di 800 intellettuali il meglio dell'intellighenzia italiana, guidata da Norberto Bobbio che definivano Calabresi "commissario torturatore responsabile della morte di Pinelli".

Aldo Cazzullo (Il caso Sofri) racconta che il 14 ottobre 1971, quando Calabresi si presentò in tribunale a Milano per deporre al processo per diffamazione contro il quotidiano "Lotta Continua", la polizia dovette caricare i militanti di Le all'interno dello stesso palazzo di giustizia per consentirgli di tornare a casa. Nello stesso mese, 52 intellettuali tra cui Umberto Eco, Giulio Carlo Argan e Natalia Ginzburg si schierarono a fianco dei giornalisti di "Lotta Continua" dichiarando: "Quando essi si impegnano a "combattere un giorno con le armi in pugno contro lo Stato fino alla liberazione dai padroni e dallo sfruttamento", ci impegniamo con loro". D'altra parte, quando Calabresi sporse querela, 44 redazioni di riviste politiche e culturali (tra cui alcune cattoliche) espressero la loro solidarietà a "Lotta Continua". A teatro, un grande consenso di critica andò alla commedia di Dario Fo morte accidentale di un anarchico, in cui Calabresi veniva chiamato il "dottor Cavalcioni" perché faceva i suoi interrogatori sistemando i malcapitati a cavalcioni di una finestra. Per dire a che punto fosse arrivato l'impazzimento generale, il quotidiano cattolico "Avvenire" concludeva la sua compiaciuta recensione con queste parole: "All'attore autore tutto il consenso che gli è dovuto".

L'indomani del processo, il giornale di Le scriveva: "Siamo stati troppo teneri con il commissario Luigi Calabresi. Egli si permette di continuare a vivere tranquillamente, di continuare a fare il suo mestiere di poliziotto ... Ma il proletariato ha già emesso la sua sentenza: Calabresi è responsabile dell'assassinio di Pinelli e Calabresi dovrà pagarla cara".

Il 17 maggio 1972 Calabresi fu ucciso a colpi di pistola appena uscito di casa. "Fu ammazzato alla fine di un semestre orribile" mi raccontò la moglie venticinque anni dopo. "Cinque giorni prima dell'omicidio, passeggiavo con i bambini nel nostro quartiere, quando cominciai a piangere in mezzo alla strada. Io sono vedova, mi dissi..."

I giornali di sinistra non accolsero la notizia dell'omicidio con particolare cordoglio. Alcuni parlarono di provocazione fascista, altri di provocazione democristiana. Adriano Sofri scrisse su "Lotta Continua": "Non possiamo deplorare l'uccisione di Calabresi... un atto in cui gli sfruttati riconoscono la loro volontà di giustizia".

 

Lo sparo di Bompressi. I complimenti di Sofri

Quando Calabresi era vivo, nel 1970, la magistratura archiviò l'inchiesta per la morte di Pinelli e da sinistra si disse che i giudici avevano "ucciso Pinelli una seconda volta". Riesumata la salma dell'anarchico, l'indagine fu affidata al giudice istruttore Gerardo D'Ambrosio, uomo di sinistra, che nell'ottobre 1975 concluse: "Ipotesi di suicidio: possibile ma non verosimile; ipotesi di malore: possibile e verosimile; ipotesi di lancio involontario di corpo inanimato: assoluta inconsistenza". Prevalse la tesi del "malore attivo": un uomo stanco e provato dallo stress si sarebbe affacciato per prendere una boccata d'aria e sarebbe precipitato per un malore. Calabresi e i carabinieri che erano nella stanza con Pinelli vennero scagionati. Il commissario era già morto da tre anni.

Nel 1988, sedici anni dopo il delitto, si costituiva ai carabinieri Leonardo Marino, militante di Lotta continua. Disse di non resistere ai rimorsi: aveva ucciso Calabresi insieme con un compagno, Ovidio Bompressi, su ordine di Adriano Sofri e di Giorgio Pietrostefani, capo del servizio d'ordine di Le. Marino guidava la macchina che aveva portato Bompressi sul luogo del delitto. Quando nel '97 andai a trovarlo a Bocca di Magra, vendeva frittelle in un chiosco sul lungofiume. "Bompressi" mi raccontò "sparò con la pistola a tamburo a canna lunga. Pietrostefani ordinò: eliminate il commissario. Sofri commentò: avete fatto un buon lavoro." Pietrostefani era stato mio compagno di scuola e di doppio a tennis. Quando gli feci visita nel carcere di Pisa, negò perfino l'esistenza del servizio d'ordine di Le, di cui era il capo. Lo rivedevo dopo trentasei anni. Mi fissò negli occhi e disse: "Sono innocente".

Sofri ha sempre protestato la propria innocenza con il sorriso sulle labbra, con raffinata levità intellettuale. "Che cos'era Lotta continua?" mi disse in carcere. "Uno stato d'animo. .." Chi ha ucciso Calabresi?, gli chiesi a bruciapelo. "Non lo so e, se lo sapessi, non te lo direi. Penso che sia stato ucciso da persone di sinistra convinte di fare giustizia dell'assassinio di Pinelli." Non disse "morte", disse "assassinio". Era convinto e suppongo lo sia ancora che Pinelli fosse stato buttato giù dalla finestra.

Il 2 maggio 1990, due anni dopo l'arresto, Sofri, Pietrostefani e Bompressi furono condannati a 22 anni di carcere, Marino a il. Queste sentenze sono diventate definitive soltanto nel 1997. In sette anni, sono stati celebrati sette processi, record assoluto per la giustizia italiana. Nei tre anni successivi, per cinque volte tra Cassazione e tre diverse Corti d'appello c'è stato il rimpallo sulla richiesta di revisione del processo avanzata dai difensori, respinta nel 2000. Nel frattempo tutti gli imputati erano stati scarcerati. Marino era ormai libero, Sofri correttamente si consegnò, Pietrostefani fuggì in Francia dove vive tuttora, Bompressi andò agli arresti domiciliari per ragioni di salute (per lo stesso motivo, ha trascorso complessivamente pochissimo tempo in cella). Nell'estate del 2005 Sofri ha avuto il permesso di lavorare presso la biblioteca della Scuola Normale di Pisa, dove aveva studiato.

Nelle deposizioni in aula, Sofri ha riconosciuto che Calabresi fu vittima di una campagna d'odio: "Gli articoli che hanno accompagnato la campagna sul commissario Calabresi sono indubbiamente orribili... Una specie di gusto inerte dell'insulto, del linciaggio, della minaccia, si è impadronito di noi e non solo di noi". perché, nemmeno dopo l'assassinio, il giornale abbassò la tensione? "perché, se ci fossimo pronunciati contro di esso, avevamo paura di disarmare e di diseducare le masse a quello che un giorno sarebbe stato il loro compito nei confronti di un destino di lotta armata che vedevamo inevitabile."

Sofri non ha mai chiesto la grazia. "Se dovessi farlo" mi disse "sarei completamente rimbambito." La famiglia Calabresi, per lunghi anni contraria, esige almeno che essa non venga presentata come la "riparazione di un torto subito" e sia eventualmente concessa nel pieno rispetto di una chiara sentenza di colpevolezza. Ciampi è favorevole, il ministro della Giustizia Castelli è contrario. La Corte costituzionale è stata chiamata a decidere se il capo dello Stato al contrario di quanto è accaduto finora può procedere da solo. A fine settembre 2005 il quesito è stato dichiarato ammissibile.

E Luigi disse: "Non riuscirò mai a perdonare"

La mattina del 17 maggio 1972 prese servizio in casa Calabresi una domestica a ore chiamata per aiutare Gemma che era incinta. Alla nuova arrivata era stato taciuto il mestiere del padrone di casa. "Scusi il ritardo, signora" disse la donna a Gemma "ma qua sotto hanno sparato a un commissario." Nel raccontarmi l'episodio venticinque anni dopo, la signora Calabresi mi disse: "Sentii il feto di Luigi fare un salto dentro di me". Al piccolo, che nacque il 3 dicembre successivo, furono imposti i nomi del padre: Luigi Antonio Giuseppe.

Oggi Luigi ha 33 anni, è sposato, ha una bambina di due anni e, dopo un'esperienza in California, lavora a Milano presso un grande tour operator perché i viaggi sono la sua principale passione. Gli ho chiesto di descrivere il suo stato d'animo attuale e, per la prima volta, Luigi ha accettato di manifestarlo: "Il perdono è un sentimento privato e individuale che matura nel tempo, ma io non sono riuscito a elaborarlo. Non lo ritengo possibile per me. Non penso che riuscirò mai a perdonare. Non solo perché è stato assassinato mio padre, e la mia vita è stata ancora prima di cominciare segnata. Ma anche perché non mi è mai piaciuto l'atteggiamento che Adriano Sofri ha avuto nei nostri confronti al processo. Per come lo ricordo io, era un atteggiamento sfrontato e provocatorio. Ho sofferto moltissimo in quegli anni, in quelle aule di tribunale. E non perdono a lui, come a Bompressi e Pietrostefani, di aver eluso le loro responsabilità. Io ho seguito i processi, ho avuto fiducia e rispetto nella magistratura e ho creduto nelle sentenze. E per me i mandanti di un omicidio sono e resteranno i mandanti di un omicidio. Non credo si possano scolorire le responsabilità nel clima di quegli anni. Clima di odio, che chi ha ucciso mio padre, non dimentichiamolo, ha decisamente contribuito a creare.

"Oggi non posso nascondere di essere rimasto turbato per come Sofri sia riuscito a ottenere subito un posto nella biblioteca dell'università di Pisa. E sono rimasto ancor più sbigottito nel vederlo alla finestra delle autorità al Palio di Siena, accolto e presentato come persona illustre dal sindaco.

"Penso di essere cresciuto con gli stessi valori dei miei fratelli, quelli che mia madre ci ha insegnato. Però è vero che il mio stato d'animo è meno pacificato del loro. Lo ammetto, ho più rabbia dei miei fratelli. Sono nato dopo che mio padre era stato ammazzato e non l'ho mai visto. Porto il suo nome, ma non ho mai avuto una carezza e forse questo mi ha lasciato un segno diverso. Tuttavia non ha mai creato divisioni tra noi, nel nostro modo di stare insieme e nel modo di vivere e condividere il dolore e la perdita. C'è sempre stato rispetto e dialogo, anche quando ci trovavamo a discutere in casa intorno al tavolo della cucina.

"Due anni fa mi è nata una bambina, si chiama Chiara, e l'ho scoperto solo dopo era il nome che mio padre aveva scelto se al mio posto fosse arrivata una femmina. La nascita di mia figlia e l'aver fatto famiglia mi ha aiutato a pensare di più alla mia vita, a quella da costruire, al futuro, e meno a quello che ci è successo. Mi ha in parte rasserenato, liberandomi da un dolore che spesso mi soffocava. Guardare Chiara mi aiuta ad avere speranza e mi da forza.

"Di questi anni una cosa che ricordo con gratitudine è stata la scelta del presidente della Repubblica di conferire la medaglia d'oro alla memoria di papa Gigi. Il ricordo di quella mattina al Quirinale, quando Ciampi ha appuntato la medaglia sul bavero della giacca di mamma, tira su il morale. E poi c'è stato il francobollo commemorativo di mio padre. Mi sono capitate per le mani delle lettere affrancate con quel francobollo. Le ho conservate. Queste sono cose che mi fanno sentire orgoglioso e spero sempre che possano far capire meglio all'opinione pubblica quanto nostro padre fosse una persona perbene e non quel mostro che avevano dipinto.