VINCITORI E VINTI
Le stagioni dell'odio Dalle leggi razziali a Prodi e Berlusconi
Dello stesso autore nella collezione I libri di Bruno Vespa
Telecamera con vista
Il cambio
Il duello
La svolta
La sfida
La corsa
Il superpresidente
Dieci anni che hanno sconvolto l'Italia
Scontro finale. Chi vincerà l'ultimo duello
Scontro finale. Ultimo atto
La scossa
Rai, la grande guerra
La Grande Muraglia
Il Cavaliere e il Professore
Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi
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ISBN 88-04-54866-5
2005 RAI, Radiotelevisione italiana, Roma
Arnaldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione novembre 2005
Indice
Hitler gridò come un ossesso..., 3 - Com'è andata?" chiese il barone, 5 - "Il Mussolini di Germania si chiama Hitler", 9 - E il Duce disse: "Gli ebrei si sono comportati bene... ", 12 - Hitler: "Se le formiche si accoppiano con le formiche...", 15 - Antisemita fin dall'adolescenza, 17 - E arrivò la "notte dei lunghi coltelli", 20 - Dal "degenerato sessuale" all'Asse Roma-Berlino, 22 - Caduta l'Austria, il Duce si consegnò, 25
29 n Perché Mussolini diventò razzista
Quando gli ebrei erano "italiani", 29 - "Uno Stato ebraico? Portino Tei Aviv in America", 32 - Galeotta fu la guerra d'Africa, 34 - Gli ebrei votarono, Croce e Einaudi tacquero, 35 - "Gli ebrei non appartengono alla razza italiana", 39 - Confiscati dieci cappelli e una camicia usata..., 43 - La caccia all'ebreo, Perlasca e Palatucci, 45 -Kappler: "Vogliamo il vostro oro", 47 - Storia di Edith, sopravvissuta a sei campi, 49 - "Quando mia sorella fu sbranata dai cani", 50
55 m Dal processo a Pio XII all'assoluzione di Stalin
Farinacci: "Dobbiamo imparare dai gesuiti", 55 - E Pio XI disse: "Siamo tutti semiti", 58 - Pio XII: le ragioni di un silenzio, 61 - A ogni denuncia, una "tremenda rappresaglia", 62 - "Hitler mi arresta? Sarei solo il cardinal Pacelli", 65 - "cosa avremmo dovuto fare che non abbiamo fatto?", 67- Papa "buono" e papa "cattivo", 70 -perché il comunismo fu ignorato dal Concilio, 72 - Stalin, tra il "Rigoletto" e il Terrore, 75-4500 esecuzioni in grembiule da macellaio, 78 - Due milioni di ebrei salvi per miracolo, 80 - Sorpresa: campi sovietici a Buchenwald, 82 - Le "impressionanti similitudini" tra Hitler e Stalin, 84-1 comunisti italiani perseguitati da Stalin, 87 - E Togliatti dov'era?, 89 - Responsabile dell'assassinio dei polacchi, 91
IV Fratelli Cervi, fratelli Govoni: due storie uguali e diverse In un cimitero, una mattina d'estate, 95 Strangolati, uno per uno, 97 "Cerchi i corpi? Procurati un cane", 99 "Per me, ucciderne trenta o trentuno è la stessa cosa", 104 La strage di Oderzo, 106 "Casa Govoni? L'hanno abbattuta", 108 Cervi, la famiglia simbolo, 109 "Sette fratelli?" scrisse il ministro, 112 "Ma il Pci di Reggio non amava i Cervi", 115 E Montanari rivela i retroscena della strage dei Cervi, 117 "Chi sa parli", 122 "Non furono i fascisti, ma gente iscritta al Pci", 125 "Hai fatto quel che non fece Scelba", 127 466 partigiani comunisti riparati a Praga, 128 Francesco Moranino, un deputato all'ergastolo, 130 "Sia fatta piena luce" disse Fassino. Ma gli altri..., 134 D'Alema: "Il Pci e la logica dell'antistato", 136 Quindici anni dopo, 138
141 v Le stragi dei vinti
203 vn
Le stragi dei vinti
Il "triangolo della morte", 141 "I moribondi soffocati con manciate di terra", 145 Trenta fascicoli alla Procura di Padova, 146 Vivi e morti sepolti in un tunnel, 148 E all'ospedale psichiatrico di Vercelli..., 150 La strage di 18 bambini, 152 Quelle tessere concesse a un assassino, 156 1 conti Manzoni massacrati con domestica e cane, 158 194046:729 sacerdoti uccisi, 160 50 sacerdoti uccisi dai partigiani di Tito, 162 Strage di preti nel "triangolo" BolognaModenaReggio, 164 Sevizie e stragi nella cartiera di Carbonera, 169 Che differenza c'è tra Falco e Priebke?, 172 Togliatti, l'amnistia ambigua, 174
vi Trentamila morti dopo la Liberazione
Tra esecuzioni e linciaggi, 177 Alla maestra del paese restò un orecchio, 179 Arrigo Boldrini e la strage di Codevigo, 181 "Gli chiusero la pancia con un lucchetto", 184 Gli "stragisti" di Schio chiesero a Togliatti..., 185 La verità? "Nè affermarla nè negarla", 187 "Piccoli proprietari uccisi a centinaia", 189 1 "delitti perfetti" della Volante rossa, 191 Riconosciuta dal Pci. Poi mollata, 193 Quando l'odio uccise Giovanni Gentile, 195 E Togliatti restò isolato, 197 Trentamila esecuzioni?, 199
"Quell'odore di carne bruciata..."
L'"altra" Resistenza, 203 Quanti furono davvero i partigiani?, 205 Dieci italiani per ogni tedesco ucciso, 208 Pietro Koch, specialista in torture, 212 Dieci ergastoli (finalmente) per Sant'Anna di Stazzema, 215 "Quell'odore di carne bruciata mi ossessiona ancora", 218 Kesselring: "Proteggerò i comandanti
che eccederanno", 222 "L'armadio della vergogna", 224 "Procuratore, non mi mandi quegli atti", 228 Marzabotto: anche i bambini erano "banditi", 234 1 minatori di Niccioleta e i sette fratellini di Torlano, 237
239 vin Il gioco delle parti tra nazisti e fascisti
Fosse Ardeatine, orrore e polemiche, 239 Era utile uccidere quei tedeschi?, 242 A Pedescala "spararono e poi sparirono", 246 Anche i partigiani fecero rappresaglie, 249 120 fucilati per vendicare il comandante Battista, 251 "Mio padre era un partigiano comunista", 255 1 fascisti e le stragi naziste, 258 E un capitano italoamericano salvò Graziarli, 259 Junio Valerio Borghese, il principe nero, 262 E Ciano apr la fila dei vinti, 263 "Macelleria messicana" a piazzale Loreto, 268
271 ix Foibe, la pulizia etnica del maresciallo Tito
Nelle foibe solo perché italiani, 271 Le ragioni di un lungo silenzio, 273 Foiba? Una cavità carsica, 277 Violenza fascista, genocidio slavo, 279 La caccia all'italiano e l'eccidio di Porzus, 281 "Dove siete, brigate partigiane dell'Alta Italia?", 284
"A chi buttava giù i carabinieri davano del rhum", 286 "Buttarono nella foiba il camerata Boro. Poi toccava a me", 288 Il cane nero libera dalla colpa, 290 "Vai via perché la tua terra non è più la tua terra", 291 Le riunioni segrete di Parigi, 293 La proposta di Togliatti: Trieste italiana e Gorizia iugoslava, 295
E i profughi, in Italia, furono insultati, 297
301 x Il vulcano dell'odio
"Almirante mi disse la verità", 301 "Montatura fascista!" E invece. .., 303 "Valerio è morto l", 308 "Le pistole giravano come penne negli uffici", 310 "E' morto un partigiano. Cento ne nascono", 312 La lava cominciò a eruttare, 314 Tra Mario Capanna e Giorgio Almirante, 315 Uccidere un fascista non è reato", 318 "Le Br hanno radici nella storia di questo paese", 320 Dai partigiani a Feltrinelli, 323 Piazza Fontana, 36 anni senza colpevoli, 326
329 xi Il "piccolo" Calabresi non perdonerà
"S'è buttato, s'è buttato!", 329 Lo sparo di Bompressi. I complimenti di Sofri, 332 E Luigi disse: "Non riuscirò mai a perdonare", 334 La malasorte del "rapporto Mazza", 336 "Compagni che sbagliano", 337 Stragi di destra. Si, ma..., 339
D'Alema: "Quando difendevo il movimento", 342 Sei azioni terroristiche al giorno, 344 La svolta di Acca Larentia, 347 La folle reazione dei Nar, 349 Eppure le Br non odiavano Moro, 351 Rossa e Tobagi, due eroi civili. Odiati, 353 D'Antona e Biagi. Se riformi, muori, 357 "Tornando dalla spiaggia temevo di trovarlo ucciso", 359
363 xn L'odio in nome di Dio
Guerra per sempre?, 363 "Kamikaze made in Europe", 366 "Il dialogo delle pallottole", 368 E l'America diventò il Grande Satana, 371 La lunga strada verso le Torri Gemelle, 374 "Odiati per ciò che si è", 378 Combattere o collaborare?, 381 Che succede nelle moschee?, 385 "La mia risposta è: difendiamoci", 387 Identità e integrazione, 389 Pera: "Siamo bersagli in quanto giudei e cristiani", 391 Dove abbiamo sbagliato?, 392 Berlusconi: "Va dall'Iraq 300 per volta", 396 L'Afghanistan divide Prodi e Bertnotti, 398
401 xm Berlusconi ti odio. Anzi ti amo
Come Craxi?, 401 "Odiato perché ci ha ricacciato indietro", 404 Cossiga: "L'odio è un sentimento forte, da uomini...", 406
"Sparare a Berlusconi?", 410 Casini: "Una criminalizzazione fuori misura", 412 Ma Dell'Utri, Conf alonieri e Bondi...,413 E il Cavaliere fu purificato dall'Ingegnere, 415 ... ma poi chiamò Gianni Letta dalla barca, 417 E Celentano attaccò il Cavaliere, 419 Legge Gasparri: "Sbagliata. No, indispensabile", 424 D'Alema: "Via una rete a Rai e Medaset", 427
429 xiv L'abbandono di Pollini, la riscossa del Cavaliere
"Avevo una sola opzione", 429 La catastrofe delle regionali, 431 E Casini disse: "Subito le elezioni anticipate", 434 Ma Pera ammon: "Scompariremmo", 435 Fu a questo punto che Follini..., 437 "Come ossi d seppia", 440 L'amaro calice del Berlusconi bis, 442 Berlusconi e il partito unico, 445 E al congresso Marco andò giù pesante, 447 Aveva appena assaggiato il gelato..., 451 E Fini disse: "Mi candido anch'io", 454
A Reggio Calabria l'intesa BerlusconiFini, 457
465 xv La Rivoluzione d'Ottobre
Rutelli, dalla rottura all' accordo, 465 E Rutelli giocò alle belle statuine, 468 La resa dei conti nell'assemblea di maggio, 470 "France', facce sogna." Così una mattina in via Margutta...,
471 Poi arrivò il ciclone delle primarie, 473 Prodi e Rutelli, battaglia sui Pacs, 479 "Il centrismo, grande gioco dell'estate", 482 Partito democratico. E la parola "sinistra"?, 484 Ricucci, Fiorarli e Consorte, 486 D'Alema: "Io dietro Ricucci? Mai visto", 488 Bertinotti: "Sanguineti alla Cultura, Riccardi agli Esteri", 490 "Tassiamo la rendita immobiliare", 492
495 xvi Fini: "Mi candido". Bossi: "Grazie, Silvio"
E Fini bombardò il partito, 495 "Ignazio, vuoi sostituire Maurizio?", 498 Il cataclisma del referendum, 500 Tre amici al bar, 503 Infine, la ghigliottina, 505 E il Senatùr festeggiò la devolution, 507 Bossi, l'ultimo dei mohicani, 509 E Bossi racconta: "Quando stavo per morire...", 511
513 xvn Il Cavaliere e il Professore
"Fatto niente." "No, quasi tutto", 513 Berlusconi: "Anch'io sono stato povero...", 515 Prodi: "Diminuire la tassa sul lavoro", 518 "Non siamo stati una merchant bank a palazzo Chigi", 522 Casini e la magistratura come "sponda all'opposizione", 525 Cavaliere e Professore: "No al Quirinale", 527
531 Appendice
La "dichiarazione sulla razza" approvata dal Gran Consiglio del Fascismo, 533 Scheda sulla nuova legge elettorale, 537 Scheda sulla riforma costituzionale approvata in terza lettura alla Camera dei deputati, 539
545 Volumi citati
553 Indice dei nomi
Vincitori e vinti
Ad Augusta
Il pericolo per una democrazia può derivare non tanto dalla forza dei suoi oppositori quanto dalla debolezza dei suoi sostenitori.
Gustav Radbruch, ministro della Giustizia della Repubblica di Weimar
Quando Mussolini non era razzista
Hitler gridò come un ossesso...
Adolf Hitler dapprima ascoltò in silenzio. Il colorito del suo volto, mai roseo, diventò progressivamente terreo. Per ricevere l'ospite straniero aveva ritardato di un quarto d'ora l'inizio della riunione del Consiglio dei ministri. Ora era costretto ad ascoltare parole assai sgradevoli. Parole inaudite. E cose dette sulla voce al suo interlocutore.
Era da poco passato il mezzogiorno del 31 marzo 1933. Hitler era cancelliere del Reich esattamente da due mesi. Davanti a lui, l'ambasciatore italiano a Berlino, Vittorio Cerniti, restò impassibile, ma fu costretto a interrompere la lettura del messaggio personale per il Fuhrer che Benito Mussolini gli aveva telegrafato con urgenza. Oggetto: il proclama antiebraico approvato dal Partito nazionalsocialista il 28 marzo su indicazione dello stesso Hitler, e pubblicato l'indomani, che aveva suscitato furiose proteste internazionali ed era stato immediatamente trasmesso da Cerniti a Roma.
Durante la campagna elettorale che aveva portato il caporale austriaco alla guida del Reich, i militanti nazisti avevano ucciso 51 avversari e denunciato la morte di 18 dei loro. Le violenze contro comunisti, socialdemocratici e cattolici erano sempre più frequenti, ma la campagna d'odio scatenata all'inizio di marzo contro gli ebrei era di un'intolleranza assai superiore. E Mussolini aveva chiesto all'ambasciatore italiano di essere costantemente informato.
Il proclama nazista del 28 marzo sollecitava la messa al bando di prodotti e professionisti ebrei in ogni angolo del Reich. Il 7 aprile il governo avrebbe licenziato per decreto tutti i funzionari pubblici di razza non ariana: bastava avere un genitore o un nonno ebreo per essere colpiti. A chi, tra i suoi stessi collaboratori, gli prospettava le conseguenze internazionali del provvedimento, Hitler rispondeva: Non posso fermare la storia.
Nelle sue memorie Cerruti racconta che, nell'anticamera del Fuhrer, il vicecancelliere in persona, Franz von Papen, e il ministro degli Esteri Konstantin von Neurath lo scongiurarono di convincerlo, visto che la sera prima nemmeno il capo dello Stato, maresciallo Paul von Hindenburg, vi era riuscito, pur avendogli gettato nel piatto i 12.000 ebrei tedeschi caduti in guerra.
Il messaggio con il quale Mussolini chiedeva a Hitler di far desistere il Partito nazista dal proseguire nella campagna antisemita era esplicito e perfino duro. Ritengo, scriveva il Duce, che il proclama del partito per la lotta contro gli ebrei, mentre non rafforzerà il nazionalsocialismo all'interno, aumenterà la pressione morale e le rappresaglie economiche del giudaismo mondiale ... Credo che il governo deve invitare il partito a non dar corso pratico al suo proclama ... Ogni regime ha non solo il diritto ma il dovere di eliminare dai posti di comando gli elementi non completamente fidati, ma per questo non è necessario, anzi può essere dannoso, portare sul terreno della razza semitismo e arianesimo quello che è invece semplice misura di difesa e di sviluppo di una rivoluzione.
Hitler si irritò moltissimo e interruppe la lettura dell'ambasciatore italiano.
Cercando di controllarsi, disse che avrebbe dovuto eliminare senza riguardi il bolscevismo dall'Europa e non era colpa sua se i marxisti tedeschi erano in prevalenza ebrei. E giacché riteneva che la Germania fosse vittima di un'infame campagna diffamatoria, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, aveva deciso di procedere al boicottaggio contro gli ebrei tedeschi perché gli ebrei degli altri paesi, istigatori della campagna di calunnie, la facessero finita ...
Poiché, oltre che bugiardi, essi sono anche vigliacchi, l'atto di forza avrebbe sortito un effetto immediato.
Cerniti non batté ciglio e completò la lettura del messaggio di Mussolini, mentre Hitler andò eccitandosi sempre di più sino a urlare come un ossesso. Ella sa gridò all'ambasciatore quanto sia grande la mia ammirazione per Mussolini che considero il padre spirituale del mio movimento giacché se egli non fosse riuscito a prendere il potere in Italia, il nazionalsocialismo non avrebbe avuto alcuna probabilità di successo in Germania. Da oltre tre anni, quindi, il busto di Mussolini é collocato nella mia camera di lavoro alla Casa Bruna di Monaco, di fronte al mio scrittoio. Ciò premesso, mi consenta di affermare che Mussolini non capisce nulla del problema ebraico che io invece conosco a fondo avendolo studiato per anni intieri, da ogni lato, come nessun altro. Voialtri avete, sembra, la fortuna di avere pochi ebrei. Me ne felicito, ma non é una ragione perchè non scorgiate il pericolo che costituisce l'ebraismo intimamente legato al bolscevismo nel mondo intiero. Sono in possesso di notizie esattissime e recenti secondo le quali gli Stati Uniti dovranno fronteggiare questo grave problema per liberarsi dal pericolo marxista. Si dovrà ricorrere in America a metodi ben più energici dei miei e io vi prevedo, a breve scadenza, dei pogrom senza precedenti.
Su questo punto, la previsione di Hitler si rivelò clamorosamente sbagliata. Purtroppo, tragicamente profetica fu invece, almeno in parte, la conclusione del suo discorso: Di una cosa ho la certezza assoluta: che fra cinque o seicento anni il nome di Hitler sarà glorificato ovunque come il nome di colui che una volta per sempre avrà estirpato dal mondo la peste dell'ebraismo.
Com'è andata? chiese il barone
Com'è andata? chiese a Cerruti il barone Kostantin von Neurath appena l'ambasciatore italiano fu uscito dal gabinetto del Pulirei. L'insuccesso non poteva essere più completo rispose asciutto il diplomatico. Come osserva Golo Mann nella sua Storia della Germania moderna, il ministro degli Esteri di Hitler era uno di quei personaggi che costituivano il ponte tra i terroristi e la Germania pacifica, lo Stato costituzionale e burocratico. I tedeschi del '33 non avrebbero tollerato il dispotismo senza veli dei criminali. Della stessa schiatta era Papen, uno di quegli spiriti del passato ai quali il vecchio presidente Hindenburg che simpatizzava per Hitler senza amarlo, anzi temendolo aveva fatto ricorso durante l'agonia della Repubblica di Weimar, prima di consegnare il potere ai nazisti.
In Germania si verificò con una decina d'anni di ritardo quello che era avvenuto in Italia alla vigilia dell'avvento del fascismo. Da noi i liberali si erano illusi di tenere al guinzaglio i fascisti lasciando che abbaiassero per rassicurare i borghesi spaventati dai socialisti rivoluzionari. In Germania, i centristi di Hindenburg considerarono provvidenziale l'incredibile successo di Hitler alle elezioni del 14 settembre 1930, che videro i nazisti passare da 1 milione di voti a 6 milioni e mezzo e i loro deputati al Reichstag da 12 a 107. Hindenburg non capì il pericolo (come non lo avevano capito i vecchi liberali italiani) e pensò di aver sistemato una volta per tutte i socialdemocratici. I nazisti? Se non ci fossero, bisognerebbe inventarli scriveva ancora nel '32 Kurt von Schleicher, consigliere politico del vecchio presidente della Repubblica. In quello stesso anno Papen era stato cancelliere di un governo durato pochi mesi, ma che aveva abrogato, con un colpo di Stato, gli organi costituzionali della Prussia. Alle elezioni di luglio il Partito nazista era balzato al 37 per cento. Lo scontro tra gli spiriti del passato costrinse il 30 gennaio 1933 Hindenburg a nominare cancelliere Hitler, il quale a quarantaquattro anni conquistava la poltrona di Bismarck.
Il Fuhrer prese il potere quando la confusione politica imperante nella Repubblica di Weimar era pari al disastro economico successivo alla disfatta tedesca nella prima guerra mondiale. costretta a pagare ai vincitori una colossale indennità di 132 miliardi di marchi oro, portati poi a 226 miliardi, la Germania era al collasso. Un tedesco su tre era disoccupato e l'inflazione aveva diffuso miseria e disperazione tra la gente, che vide annientati in poche ore i risparmi di una vita. Prima del conflitto un dollaro valeva 4,20 marchi, alla fine del 1923, 4200 miliardi di marchi. Nel 1913 la Germania era la prima potenza economica europea, dieci anni dopo un chilo di burro, ricorda Heinrich August Winkler {La Repubblica di Weitnar), costava 168 milioni di marchi.
Dopo la pesante sconfitta nella prima guerra mondiale i tedeschi si erano riuniti, tra il febbraio e il settembre 1919, a Weimar, in Turingia, la patria di Goethe, per scrivere la costituzione del nuovo Stato: ne nacque una repubblica democratica, presidenziale e federale, che però fu subito messa in ginocchio da due fattori. Il primo fu il trattato di Versailles: mentre i costituenti tedeschi stavano rimettendo insieme i cocci del loro Stato, le potenze vincitrici li rovinarono finanziariamente con le richieste di cui abbiamo parlato e ne ferirono a morte l'orgoglio limitando a 100.000 uomini il grande esercito imperiale e a 15.000 la marina, e proibendo la ricostituzione dell'aviazione e dei corpi corazzati. Inoltre, la Germania fu costretta a restituire alla Francia l'Alsazia e la Lorena, e privata di altri territori in favore di Belgio, Danimarca e Polonia. Quello che era stato un grande impero perse così un settimo della propria superficie, un decimo della popolazione, un terzo delle risorse minerarie e il 90 per cento della flotta commerciale.
Il secondo fattore fu interno al paese. Quando viene data alle maggioranze parlamentari la possibilità di scaricare la propria responsabilità sul potere esecutivo, nota Winkler, queste prima o poi lo faranno. Inoltre, riprendendo le parole del ministro Gustav Radbruch, afferma il pericolo per una democrazia può derivare non tanto dalla forza dei suoi oppositori quanto dalla debolezza dei suoi sostenitori. La Repubblica di Weimar, nata nel 1919, morì giovinetta nel '33, ma risultò cagionevole fin nella culla. I socialdemocratici andarono per la prima volta al governo con il loro leader Friedrich Ebert, il quale scoprì con sollievo che il capo supremo dell'esercito del Kaiser, il feldmaresciallo Hindenburg (chiamato poi alla presidenza della Repubblica), aveva accettato di restare al suo posto per evitare il totale sbandamento delle forze armate. Un istante dopo, però, dovette fronteggiare la rivolta dei comunisti spartachisti guidati da Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg (nel '15 la Lega di Spartaco era stata l'unica formazione politica a opporsi ai crediti di guerra) che volevano instaurare in Germania una repubblica sovietica, dopo aver assunto il controllo della marina e cercato di abbattere il governo con la forza occupando la Cancelleria. Ebert riuscì a spuntarla, ma la ferita che si aprì nella sinistra tra comunisti e socialdemocratici non si rimarginò più.
Questa drammatica divisione, che ha caratterizzato la storia europea per tutto il Novecento, fu letale per la gracile democrazia tedesca. Sull'altro fronte, infatti, i nazionalisti soffiavano sul fuoco della dignità ferita dalle eccessive riparazioni di guerra e dall'umiliazione delle forze armate, trovando un'incredibile sponda proprio nei comunisti, che giudicavano la remissività dei socialdemocratici una debolezza piccolo borghese. Mentre la sinistra si divideva in cento fazioni litigiose, a destra prendevano sempre più piede i nazisti e gli intellettuali che gli tenevano bordone. Alfred Rosenberg (Il mito del XX secolo) sosteneva che il bolscevismo era la rivolta degli elementi razzialmente inferiori contro le vecchie élite ariane. E la stessa cosa accadeva in campo culturale. Nel suo libro sulla Repubblica di Weimar, Walter Laqueur ricorda che fin dagli anni precedenti la prima guerra mondiale il patriota tedesco era costernato per la crisi dei valori tradizionali e per l'oscenità dilagante, che aveva consentito a Berlino di strappare a Parigi la palma di capitale del libertinaggio più sfrenato. Anche il disfattismo ritenuto responsabile della sconfitta bellica e il periodo di decadimento proseguito per tutti gli anni Venti vennero addebitati agli ebrei.
Si aggiunga che, tra il '23 e il '27, i socialdemocratici erano divisi sui tempi e i modi di introduzione del socialismo in Germania. Il ministro del Lavoro assunse un potere formidabile, diventando di fatto arbitro dei conflitti sindacali tra lavoratori e imprenditori. E mentre gli uomini di governo cercavano di dare alle nuove norme (compresa quella sul salario politico) un'interpretazione favorevole alle aziende, gli ideologi erano dell'avviso opposto.
Il Mussolini di Germania si chiama Hitler
La confusione generale e la guerra civile strisciante avevano favorito l'ascesa dell'"uomo nuovo", anche se questi era un "caporale austriaco" dalle pessime referenze. Silvio Bertoldi (Hitler. La sua battaglia) ricorda che quando nel '30 i nazisti diventarono il secondo partito della Germania, dopo quello socialdemocratico, beneficiarono di "milioni di voti strappati ai partiti delle classi medie e ai conservatori, ma anche alle stesse sinistre, se i socialisti avevano visto calare di oltre un milione i loro suffragi. Per i nazisti avevano votato, in un irrazionale miscuglio, i disoccupati disperati e gli industriali della Ruhr, i piccoloborghesi avviliti dalla crisi e i nazionalisti che volevano cancellare il trattato di Versailles e vendicare la sconfitta del 1918, i giovani in cerca di un avvenire purchessia e i delusi della Repubblica di Weimar, insieme con coloro che, al contrario, puntavano su Hitler per rafforzare l'autorità delle istituzioni. L'apoteosi del controsenso, come spesso accade in politica, e non solo in Germania".
Non era stato difficile per il leader nazista conquistarsi il consenso dei militari e non lo fu nemmeno assicurarsi il favore e i denari degli imprenditori. Come sottolinea Bertoldi, essi non seppero resistere al programma di Hitler: rifiuto di pagare i danni di guerra, riarmo (e quindi grandi commesse per l'intero settore industriale), abolizione del sindacato, disciplina nelle fabbriche. A Monaco, nel salotto di Elsa Bruckmann, fu stretto il patto con i grandi nomi dell'economia tedesca: sfilarono i magnati dell'acciaio, della chimica, della finanza e delle assicurazioni. Deutsche Bank, Commerz Bank, Dresdner Bank furono tra le prime a impegnarsi, seguite da Siemens, Aeg, Krupp, mentre la Confindustria tedesca metteva mano ai fondi neri per finanziare l'esplosione del consenso ai nazisti. Il 6 giugno 1931 la crisi economica toccò il suo apice: le casse dello Stato erano vuote, furono tagliate perfino le pensioni ai mutilati e agli invalidi di guerra. Per Hitler, la marcia verso la Cancelleria fu una passeggiata.
Alle nuove elezioni del 5 marzo 1933, nonostante la violenza della campagna elettorale cui abbiamo fatto cenno, i nazisti non conquistarono l'agognata maggioranza assoluta. Il sistema proporzionale li fermò al 43,9 per cento dei voti e a 288 seggi su 647. Anziché sentirsi insidiato, Hitler approfittò della debolezza di Hindenburg per convincerlo a sottoscrivere un decreto che gli affidava i pieni poteri per quattro anni. Il Fùhrer si presentò al Parlamento con queste parole: "Sarebbe contraddittorio con lo spirito della riscossa nazionale, nè d'altro canto basterebbe al raggiungimento dello scopo prefisso, se il governo dovesse mercanteggiare e impetrare volta per volta l'approvazione del Reichstag per le misure necessarie. Il governo non per questo è mosso dal proposito di sopprimere il Reichstag come tale; al contrario, esso si propone, anche in futuro, di metterlo al corrente, di tanto in tanto, delle misure che ha in animo". In condizioni normali, qualsiasi Parlamento avrebbe gridato al colpo di Stato. Il Reichstag, invece, si suicidò con 441 voti favorevoli e soltanto 95 contrari, quelli dei socialisti. Come avrebbe ricordato Giovanni Paolo Il nel suo libro Memoria e identità (2005), fu un Parlamento liberamente eletto ad aprire le porte a una tremenda dittatura.
Hitler era ormai il padrone della Germania, ma per ragioni d'immagine volle trascinare al governo i conservatori per tranquillizzare un'opinione pubblica stremata dalla crisi economica e dalla litigiosità dei vecchi partiti. Abbracciò il vecchio Hindenburg (alla sua morte, nel '34, ne avrebbe preso sbrigativamente il posto unificando le cariche di cancelliere e di presidente della Repubblica). Piazzò nei posti strategici i vecchi compagni di merende Hermann Gòring e Joseph Goebbels, e tollerò che gli girassero intorno vecchi arnesi come Neurath e Papen, pur con incarichi solo formalmente di prestigio. Il ministro degli Esteri, tuttavia, credette di poter esercitare il suo ruolo e, con notevole coraggio, chiese all'ambasciatore Cerniti per tornare al nostro racconto iniziale di suggerire a Mussolini una dichiarazione ufficiale, o almeno ufficiosa, di condanna del proclama antiebraico. Il Duce se ne guardò bene, anzi come risulta dagli atti del processo di Norimberga dette istruzioni a tutte le ambasciate italiane Perché smentissero "le notizie propagandistiche deformate sulla persecuzione degli ebrei in Germania" (Renzo De Felice, Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo).
La prudenza di Mussolini nei confronti di Hitler nel '33 fu il primo di una serie di errori che, cinque anni dopo, avrebbero portato alle leggi razziali in Italia e a tutto il resto. In quel momento, sul piano internazionale, il Duce era molto più forte del Fùhrer e questi aveva nei suoi confronti ancora una certa soggezione. Come ricorda Ian Kershaw nella sua monumentale biografia di Hitler, quando nel '19 il "caporale austriaco" si presentò sulla scena del neonato Partito tedesco dei lavoratori, era un'"autentica nullità". Appena tre anni più tardi, il 3 novembre 1922, una settimana dopo la "marcia su Roma", veniva acclamato come "il Mussolini di Germania" da Hermann Esser, un obliquo personaggio a metà strada tra il lenone e il ricattatore che ebbe fortuna agli albori del nazismo. "La marcia su Roma" scrive Kershaw "scosse profondamente gli animi del partito nazista, suggerendo il modello di un dinamico ed eroico leader nazionalista in marcia verso la salvezza del suo paese dilaniato." Chiamandolo "il Mussolini di Germania" in un'affollata convention di partito, Esser "segnò simbolicamente l'invenzione del culto del Fùhrer da parte dei suoi seguaci". A proposito di Esser e dei suoi amici, ecco che cosa scrive William Shirer nella sua notissima Storia del Terzo Reich: "Assassini, ruffiani, degenerati, omosessuali, morfinomani o addirittura gangster, tutto andava bene per [Hitler], pur che servissero ai suoi scopi... Tali erano gli uomini che Hitler aveva raccolto intorno a sé in quei primi anni, nella brama di diventare dittatore di una nazione che aveva dato al mondo Lutéro, Kant, Goethe, Schiller, Bach, Beethoven e Brahms".
E il Duce disse: "Gli ebrei si sono comportati bene..."
Hitler fu per un certo periodo un ammiratore sfortunato di Mussolini. Sei anni prima di diventare cancelliere, chiese al Duce una foto con dedica che gli fu negata. Mussolini fece scrivere al ministero degli Esteri: "Si prega di ringraziare il predetto signore per i sentimenti da lui manifestati e di comunicargli, nella forma che sarà ritenuta migliore, che il duce non ha creduto di aderire alla sua richiesta" (Mario Donosti, Mussolini e l'Europa). Anche dopo che Hitler ebbe compiuto la sua rivoluzione, la stima di Mussolini non aumentò. "Dovrei essere contento che Hitler ha fatto una rivoluzione sulla nostra falsariga" disse al giornalista Michele Campana, suo conterraneo e amico, "ma sono tedeschi e finiranno col rovinare la nostra idea. Sono sempre i barbari di Tacito e della Riforma, in perpetua lotta con Roma. Io non me ne fido." Hitler, invece, fu prodigo di segnali di considerazione e di amicizia verso il dittatore italiano. Indro Montanelli e Mario Cervi (L'Italia littoria) raccontano che il Fùhrer, una settimana dopo aver assunto la guida della Cancelleria, "la sera del 7 febbraio 1933", durante un solenne ricevimento offerto da Hindenburg diede il braccio a Elisabetta Cerruti, moglie dell'ambasciatore italiano che, ultimo arrivato in sede, era in coda alle precedenze, e la scortò fino alla tavola imbandita. Poi, conversando con lei durante il pranzo, riferendosi a Mussolini le disse: "Avevo troppo rispetto verso quel grand'uomo per disturbarlo prima di aver raggiunto risultati positivi, ma ora le cose sono cambiate. Sono ansioso di conoscerlo. Sarà il giorno più bello della mia vita".
Quel giorno arrivò il 14 giugno 1934 alla villa reale di Stra. Adolfo incontra Cesare titolò un giornale francese. La risonanza sulla stampa internazionale fu enorme, grazie alla presenza di quattrocento giornalisti di ogni parte del mondo. Il Duce dette un giudizio fulminante dell'illustre ospite: "E' matto, è matto". Più tardi aggiunse con gli uomini del seguito: "Questo Hitler, che pulcinella!". La folla inneggiò al Duce e ignorò il Fùhrer. Il loro primo colloquio a quattrocchi fu un disastro.
"Invece di parlarmi dei problemi attuali" si sfogò Mussolini "mi ha ridetto a memoria il suo Mein Kampf, quel mattone che non sono mai riuscito a leggere."
Il razzismo era per Hitler un'autentica malattia e Mussolini non sapeva se arrabbiarsi o pensare che l'altro scherzasse con i suoi paradossi. "Durante una gita in motoscafo" raccontò il sottosegretario agli Esteri Fulvio Suvich "Hitler ha declamato per tutto il tempo sulla superiorità della razza nordica, sentenziando che tutti i popoli del Mediterraneo e gli italiani più degli altri, hanno sangue nero nelle vene. Il duce ci si è divertito molto" (Paolo Monelli, Mussolini piccolo borghese). Ma lo scherzo durò poco. "S'abbaiavano contro l'un l'altro come due mastini" testimoniò il ministro degli Esteri tedesco Neurath. Tema del litigio, i provvedimenti razziali del Fùhrer.
Mussolini aveva manifestato la sua contrarietà a una politica antiebraica nei lunghi colloqui del '32 con il giornalista Emil Ludwig, sfociati poi in una biografia (Colloqui con Mussolini) che ebbe un enorme successo in tutto il mondo grazie all'astuzia di Arnoldo Mondadori, il quale la vendette all'estero prima di pubblicarla in Italia, dove le pressioni dei fascisti più intransigenti consigliarono al Duce di chiederne una tiratura limitata nonostante fosse stato lui a dare l'imprimatur dopo aver corretto di proprio pugno l'originale. Ludwig era tedesco ed ebreo, e qualcuno vide nella scelta dell'interlocutore un malizioso dispetto fatto da Mussolini a Hitler. "L'antisemitismo non esiste in Italia" disse il Duce al giornalista. "Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati nelle Università, nell'esercito, e nelle banche. Tutta una serie sono generali..." All'obiezione d Ludwig che il regime fascista avrebbe precluso agli ebrei l'ingresso all'Accademia d'Italia, il Duce rispose: "Assurdo. Soltanto finora non si è trovata la persona. Ora è candidato il Della Seta, uno dei nostri maggiori scienziati, che si è occupato della preistoria d'Italia".
Come spiega l'antisemitismo?, gli chiese il giornalista.
"Sempre, quando per i tedeschi va male, devono esserne colpevoli gli ebrei. Ora, per loro, va particolarmente male ... Il capro espiatorio."
In una libreria antiquaria ho trovato un numero unico della rivista "Antieuropa. Rassegna dell'espansione fascista nel mondo" interamente dedicato al razzismo e stampato nel 1934, dopo l'approvazione delle leggi razziali in Germania. Il volume santificato da una prefazione di Mussolini pubblica molti contributi internazionali sul tema e si apre con un'introduzione del direttore della rivista, Asvero Gravelli, che lamenta l'assenza di interventi di specialisti tedeschi, pure invitati a partecipare al dibattito. "La mancanza della loro collaborazione" scrive Gravelli "non è sentita da noi che siamo intimamente contro un razzismo e contro il preteso predominio di una razza solo Perché i suoi elementi hanno i capelli biondi e più bianca la pelle." All'interno, un saggio d Wolf C. Ludovico Stein sull'ebraismo afferma che l'influenza della finanza ebraica "ha non poco contribuito a rendere possibile all'economia industriale germanica di conquistare la potenza che poi dovette destare l'invidia dell'Inghilterra e che ebbe quindi indirettamente la sua parte alla creazione dei clima in cui si scatenò la Guerra mondiale". Stein ricorda il valore di "ebrei di antico ceppo" durante il conflitto, nonché "le grandi conquiste scientifiche degli ebrei" e il mecenatismo ebraico. Niente male per una rivista fascista. (Un libro strutturalmente antisemita pubblicato in Italia dalla casa progressista Baldini & Castoldi nel 1995 e recensito dalla "Stampa" il 25 febbraio 1996 è Occhio per occhio di John Sack, un giornalista ebreo americano della Cbs e del "The New Yorker". Secondo Sack, che ha depositato la documentazione della sua inchiesta alla Boston University, subito dopo la fine della guerra ci fu una tremenda vendetta ebraica contro i tedeschi. Arruolati dai russi, ebrei e polacchi si vendicarono usando ogni forma di violenza verso i tedeschi innocenti finiti in campo di concentramento. Ne sarebbero morti decine di migliaia. La recensione della "Stampa" si riferisce a un piano, poi abbandonato, per avvelenare l'acqua di Norimberga e Monaco, che doveva uccidere milioni
Quando Mussolini non era razzista
di tedeschi. La notizia, pubblicata cinquantanni dopo, sconvolse l'opinione pubblica israeliana.)
Hitler: "Se le formiche si accoppiano con le formiche..."
"Io non crederò che si possa provare biologicamente che una razza sia più o meno pura" disse Mussolini a Ludwig. "Quelli che proclamano nobile la razza germanica sono per combinazione tutti non germanici: Gobineau francese, Chamberlain inglese, Woltmann israelita, Lapouge nuovamente francese..." Il primo, Joseph Arthur de Gobineau, fu autore di un saggio di modesto successo pubblicato nel 1855 (Sulla ineguaglianza delle razze umane), che precedette gli studi condotti su base scientifica da Charles Darwin, ma ebbe una notevole influenza teorica su Hitler in quanto stabiliva la supremazia della razza ariana su tutte le altre. A cavallo del nuovo secolo, fu Houston Stewart Chamberlain ad aprire la vera e propria campagna contro gli ebrei considerati "minaccia satanica alla razza eletta tedesca".
Nel loro studio Lo stato razziale Michael Burleigh e Wolfgang Wippermann ricordano che l'antisemitismo politico tedesco ebbe la sua prima manifestazione dopo la crisi economica del 1870: "Gli ebrei, ricchi e potenti, vennero ritenuti responsabili dei risvolti negativi dell'industrializzazione e del processo di modernizzazione: un comodo equivoco, tacitamente sanzionato dalla classe dirigente...". Anche il disastro della prima guerra mondiale, che l'imperatore Guglielmo Il aveva avviato nella certezza di dominare l'intera Europa, venne in qualche modo addebitato agli ebrei, giudicati tra gli ispiratori della rivoluzione socialista che scosse dalle fondamenta l'establishment dell'impero. Da quel momento la campagna antisemita diventò inarrestabile. Per giudicare quanto fosse diffuso in Germania il sentimento antiebraico, basti ricordare lo straordinario successo popolare di uno squallido romanzo (Peccato contro il sangue) pubblicato nel 1918 dallo scrittore Artur Dinter: una donna tedesca, bionda e con gli occhi azzurri, "razzialmente pura", avrebbe dato al marito "ariano" figli dall'aspetto "tipicamente ebreo" Perché i suoi caratteri ereditari erano stati corrotti senza rimedio dall'antica seduzione subita per opera di un ebreo.
Su questa scia, l'antisemitismo di Hitler esplose nel 1919 con una violenza che, nei successivi ventisei anni, fu sempre crescente e inarrestabile, e contagiò un numero insospettabile di tedeschi. Quando il futuro Fuhrer parlava di "epurazione degli ebrei dal nostro popolo", molti pensarono a una colossale espulsione di massa. Solo più tardi si comprese il tragico significato di quell'allusione. Egli dipinse subito gli ebrei come il "male assoluto": li accusava di essere la rovina della Germania, i burattinai della rivoluzione che aveva prodotto la Repubblica di Weimar e, più in generale, gli organi infetti che avevano contaminato fin nelle viscere la società tedesca. Secondo Hitler, scrivono Burleigh e Wippermann, "altri paesi erano o governati “dall'ebreo" come la "Russia bolscevica ebraica", o controllati dagli ebrei attraverso il loro presunto dominio sulla finanza mondiale. Comunismo e finanza capitalistica, apparentemente agli antipodi, erano in realtà entrambi semplici strumenti per l'attuazione dei piani ebraici di conquistare il dominio del mondo, come dimostrato nei Protocolli dei Savi di Sion".
Quest'ultimo era un documento apocrifo ma a lungo ritenuto autentico anche in Italia dopo l'emanazione delle leggi razziali che illustrava la strategia del movimento ebraico per conquistare l'egemonia mondiale. Il libro, nella versione maggiormente diffusa, si presenta come il resoconto fatto da un anonimo dirigente ebreo di ventiquattro riunioni in cui lo stato maggiore sionista avrebbe progettato, fin da tempi lontani, di distruggere le comunità cristiane e insediare, con l'aiuto della massoneria, un governo mondiale ebraico. Ai due elementi di base della presunta congiura planetaria ebrei e massoni si sarebbero aggiunti più tardi i bolscevichi. Questa teoria maturò subito dopo la Rivoluzione russa del 1917. Tra le carte della zarina Aleksandra, assassinata dai sicari del governo sovietico, fu trovata una copia dei Protocolli. Nacque così negli antibolscevichi la convinzione che gli ebrei si fossero accordati con gli uomini di Lenin per portare l'Anticristo in Russia.
La diffusione internazionale dei Protocolli si verificò nel 1920, l'anno della svolta per l'antisemitismo hitleriano. In un comizio del 21 luglio il futuro Fùhrer denunciò per la prima volta il connubio perverso tra bolscevichi ed ebrei. Il 13 agosto pronunciò un discorso dedicato esclusivamente al tema "Perché siamo antisemiti". Il suo programma antiebraico, scrive Reginald Phelps {Hitlers "grundlegende" Rede uber den Antisemitismus), fu interrotto cinquantotto volte dalle acclamazioni dei duemila presenti. Secondo Ernst Deuerlein (Hitlers Eintritt in die Politile und die Reichswehr), il tipico uditorio dei comizi di Hitler era composto per un quarto da donne e, per il resto, da impiegati, lavoratori (in genere benestanti) ed esponenti del ceto mediobasso. Gli resisteva la classe operaia, più vicina a quella socialdemocrazia che il Fùhrer riteneva ispirata dal "burattinaio ebreo". (Il supporto "scientifico" della presunta connessione tra ebrei e bolscevichi si consolidò nel 1923 quando l'esperto nazista di affari russi, Alfred Rosenberg, pubblicò uno studio sui Protocolli che ne stabiliva l'autenticità.)
Scrivendo nel 1924 il suo Mein Kampf ("La mia battaglia" oppure "La mia lotta", a seconda delle traduzioni) Hitler concluse che soltanto l'ariano è il "fondatore dei valori umani più alti", esprimendo in una battuta il nerbo della sua politica razziale: "Ogni femmina si accoppia soltanto con un maschio della stessa specie. La formica va alla formica, il fringuello al fringuello, la cicogna alla cicogna, il lupo al lupo". In cima ai suoi pensieri stava la purezza della razza ariana. Ma siccome le donne ariane non avrebbero saputo da sole rifuggire da qualunque rapporto con gli ebrei, l'unico modo per provvedere era l'eliminazione di questi ultimi.
Antisemita fin dall'adolescenza
Quando e Perché Adolf Hitler diventò antisemita? Sul quando c'è la testimonianza inoppugnabile di August Kubizek (The Young Hitler I Knew), suo compagno di scuola negli anni della prima giovinezza a Linz, in Austria. (Allorché nel 1909, all'età di vent'anni e nella miseria più nera, il futuro Fùhrer approdò a Vienna, dopo aver sepolto la madre accanto alla tomba del padre, un funzionario delle dogane, Kubizek avrebbe diviso con lui una camera ammobiliata.) Ricordando il periodo di Linz, l'amico scrive: "Quando incontrai Adolf Hitler per la prima volta, il suo antisemitismo era molto spinto ... Al suo arrivo a Vienna, Hitler era già un antisemita convinto, e sebbene le sue esperienze viennesi abbiano acuito tale sentimento, non ne furono di certo l'origine".
Sulle ragioni di un odio così tragico e profondo non esiste ovviamente una spiegazione sicura. Nella sua biografia di Hitler, Bertoldi racconta che il giovane Adolf, entrato all'improvviso nella camera della madre vedova, l'aveva trovata a letto con un negoziante ebreo. "Quella scena lo ossessionò per anni, non riusciva a cancellarla, aveva fatto precipitare sua madre dall'altare dove l'aveva sempre collocata." Altro episodio giovanile: a Linz un prestante ragazzo ebreo lo avrebbe sconfitto nella conquista di una bella ragazza, Stefania, di cui il giovanissimo Hitler era innamorato. Comunque sia, arrivato a Vienna, l'antisemitismo di Hitler diventò maniacale. Innanzitutto lui era poverissimo e vedeva negli ebrei l'incarnazione della ricchezza. Scrive Bertoldi: "Era lui, a Vienna, disoccupato e ridotto alla mendicità, a girare per le strade ricoperto di stracci, lurido di antica sporcizia, degradato al punto di non ricordare più l'uso dell'acqua e del sapone. Si liberava di una simile condizione attribuendola a chi d'istinto disprezzava e caricandola di un odio che nasceva dalla vergogna di sé".
L'antisemitismo hitleriano ha dunque una componente patologica. "Vienna" prosegue Bertoldi "rappresentava il terreno di coltura di questo antisemitismo. Quando il girovago Hitler camminava nelle sue strade, gli ebrei erano quasi il 9 per cento della popolazione, forse la maggiore concentrazione d'ogni capitale europea. Essi occupavano posizioni di rilievo nell'università, nei giornali, nelle banche, nell'industria. Alcuni intellettuali ebrei ispiravano e guidavano il movimento della sinistra operaia austriaca. Quasi tutti godevano di notevole agiatezza, vivevano in bei palazzi dei quartieri eleganti, rivestivano cariche importanti. Lo straccione Adolf Hitler ... era roso dall'invidia per questa disprezzata classe d privilegiati, nella quale identificava gli sfruttatori di chi lavora (categoria a cui peraltro non apparteneva di certo)."
Per rafforzare questo elemento di base, Hitler accusò progressivamente la "razza eletta" di ogni nefandezza morale. Scrive egli stesso in Mein Kampf: "C'era forse una qualsiasi forma di licenziosità o di sudiciume, specie nella vita culturale, nella quale non avesse parte almeno un ebreo? Se tagliate con cura codesti ascessi, vi troverete sempre, come il verme dentro la carogna ... un miserabile ebreo". Nel libro disse anche di aver constatato che gli ebrei erano "i freddi dirigenti, svergognati e calcolatori" della tratta delle bianche, ed era ossessionato dalla "visione d'incubo offerta dalla seduzione di centinaia di migliaia di ragazze ad opera di ripugnanti, storpi ebrei bastardi". Nel suo volume sul Terzo Reich, William Shirer scrive: "Vi è una forte dose di sessualità morbosa nei deliri di Hitler riferentisi agli ebrei. Tale era, del resto, la caratteristica della stampa antisemita del tempo", di cui si nutriva avidamente il giovane Adolf. La drammatica conclusione sta ancora una volta scritta in Mein Kampf: "A poco a poco cominciai a odiarli... Quella fu per me l'epoca di maggior elevazione spirituale che abbia mai vissuto: cessai di essere un incerto cosmopolita e diventai un antisemita". Da allora ogni suo gesto, ogni sua iniziativa ideologica dai comizi nelle birrerie di Monaco alla conquista della Cancelleria furono intrisi del più assoluto antisemitismo.
Eppure, ancora nell'autunno del 1933 i fascisti erano convinti che Hitler sei mesi dopo i primi durissimi provvedimenti razziali non volesse andare fino in fondo. Nel numero di ottobre di "Critica fascista", la rivista teorica diretta da Giuseppe Bottai, Mario Da Silva scrisse in una corrispondenza da Berlino che "nel campo dei valori politici e sociali interni il concetto di razza contiene un elemento pericoloso in quanto potrebbe logicamente indurre a sostenere il diritto al dominio di una oligarchia razzialmente pura". Ma attribuì con eccessiva ingenuità a Hitler di aver attenuato questa teoria, fin quasi a ribaltarla, nel congresso nazionalsocialista tenutosi all'inizio di agosto a Norimberga, riconoscendo il diritto al comando alle persone più capaci, d qualunque ceto sociale esse siano, "sempre che appartengano a una delle cosiddette razze germaniche". Il Fùhrer, in realtà, aveva già idealmente sepolto sotto un masso di atrocità milioni di ebrei.
E arrivò la "notte dei lunghi coltelli"
"Una certa premonizione" osserva Paolo Monelli nella sua biografia del Duce "fece in principio [Mussolini] tiepido e sospettoso verso Hitler; poi lo considerò come un allievo a cui impartire consigli e rimproveri; non si accorse che i tedeschi s'erano s messi a copiare dal fascismo il saluto e le gerarchie e le adunate, ma come tecnici che rifanno il lavoro di un dilettante, come professori che prendono la tesi di laurea di uno studente e se ne servono per un loro studio dotto e profondo. Se ne avvide troppo tardi..." Dopo l'incontro del giugno 1934 Mussolini era convinto di poter condurre il gioco. Mentre lui si sprecava a diffondere giudizi spregevoli sul Fuhrer ("scimmietta chiacchierona" era uno dei più benevoli), l'altro gli mandava messaggi profumati d'incenso: "Uomini come Mussolini nascono una volta ogni mille anni e la Germania può essere lieta che egli sia italiano e non francese. Io ed è naturale mi sono trovato alquanto impacciato con il Duce, ma sono felice di aver potuto parlare lungamente con lui".
Eppure, due episodi avrebbero dovuto allertare Mussolini. Il primo avvenne appena due settimane dopo l'incontro con il Fuhrer. Dal 1925, quando fu costituito il Partito nazionalsocialista nella sua struttura definitiva, alla primavera del 1934 Hitler poteva contare su due strutture militari a lui fedeli: le ss (Schutzstaffeln, Squadre di protezione), nate come milizia pretoriana del Fuhrer, e le SA (Sturmabteilungen, Squadre d'assalto), organizzazione paramilitare del partito. Non fidandosi più delle SA, il 30 giugno 1934 Hitler ordinò alle SS di annientarne il gruppo dirigente nella cosiddetta "notte dei lunghi coltelli". Visto che c'era, fece ammazzare complessivamente un migliaio di persone, mettendo nel gruppo ogni risma d'oppositori, compreso quel generale Kurt von Schleicher, consigliere politico di Hindenburg, che abbiamo visto esporsi con la celebre frase "Se i nazisti non ci fossero, bisognerebbe inventarli". Scrivono Montanelli e Cervi: "Il Duce ne fu impressionato, e con Rachele si sfogò contro quell'uomo "spiritato e feroce" che aveva ucciso "i camerati che lo avevano aiutato a conquistare il potere. Sarebbe" aggiunse "come se io ammazzassi o facessi ammazzare Dino Grandi, Italo Balbo, Giuseppe Bottai", senza minimamente sospettare che quel giorno sarebbe arrivato, anche per lui".
Il secondo episodio avvenne poco dopo, con l'assassinio il 25 luglio (data drammaticamente ricorrente) del cancelliere austriaco Engelbert Dollfuss durante un tentativo di colpo di Stato d'ispirazione nazista. Dollfuss era un protetto di Mussolini, e tale si considerava, sul piano politico e su quello personale. Sua moglie Alwine era ospite dei Mussolini a Riccione con i figli, e il Duce, che aveva raggiunto i suoi, aspettava l'amico per una rimpatriata. Mentre in Romagna tutti erano in festosa attesa, il premier austriaco moriva dissanguato nella Cancelleria di Vienna perdonando gli assassini. A tarda sera toccò a Benito e a Rachele dare la notizia ad Alwine, che si era coricata ignara dell'accaduto.
Anche se Hitler negò di aver avuto parte nella congiura, la convinzione degli storici è che ne fosse il motore. Da anni il Fùhrer sognava l'Anschluss, cioè l'annessione dell'Austria alla Germania. Mussolini, che non voleva Hitler sull'uscio di casa, vi si oppose fermamente e nei colloqui di giugno riuscì a ottenerne la formale rinuncia. Considerando Mussolini il proprio salvatore, Dollfuss, uomo politico di marcata fede cattolica salito al potere nel maggio 1932, l'anno successivo mise fine al regime parlamentare del proprio paese istituendo uno "Stato cristiano tedesco" a base corporativa. La sua ammirazione per Mussolini lo portò di fatto a fascistizzare progressivamente l'Austria, mettendo fuori legge dapprima i comunisti, poi il Partito nazionalsocialista. Travestiti da soldati austriaci, il 25 luglio 1934 i nazisti locali tentarono il colpo di Stato. Fallirono, ma uccisero il cancelliere.
Il Duce, turbato e furibondo allo stesso tempo, spedì due divisioni al Brennero, guadagnandosi la solidarietà di tutta l'Europa. Per qualche ora si temette che le rivoltellate contro Dollfuss avessero l'effetto dello sparo di Sarajevo contro Francesco Ferdinando, ma la scintilla non scoccò, e Hitler attese tempi migliori per unire la patria di ieri a quella di oggi.
Dal "degenerato sessuale" all'Asse Roma-Berlino
Tra il giugno 1934 (data del primo incontro tra Mussolini e Hitler) e il settembre 1938, quando anche in Italia vennero promulgate le leggi razziali, i rapporti con l'Austria testimoniarono il progressivo consolidamento dell'alleanza tra il dittatore italiano e quello tedesco, che dopo l'assassinio di Dollfuss era precipitata al minimo storico. Incontrando il 21 agosto 1934 a Firenze il successore del cancelliere ucciso dai nazisti, Kurt von Schuschnigg cattolico anch'egli , Mussolini gli garantì amicizia e protezione. Era furibondo con Hitler. "E' lui l'assassino di Dollfuss" disse al principe austriaco Ernst Starhemberg in visita a una colonia di bambini austriaci a Ostia. "E' un orribile degenerato sessuale, un pazzo pericoloso. Bisogna fermarlo." Allo stesso principe, due anni prima, aveva detto che le teorie razziali di Hitler erano "stupide e idiote" e che "in un paese con un sistema sano di governo una questione ebraica non esiste". Definì il nazionalsocialismo "una rivoluzione delle vecchie tribù germaniche della foresta primitiva contro la civiltà latina di Roma". Tesi ribadita il 6 settembre 1934 all'inaugurazione della Fiera del Levante di Bari: "Trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr'Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura ... nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto". Ho sott'occhio una foto di Mussolini in visita al padiglione "sionista" della Fiera. Lo accoglie questa scritta: "Per merito della rinascita sionistica sorge in Palestina una generazione ebraica sana e forte". (D'altra parte, sul giornale della comunità ebraica "Israele" si leggeva il 27 ottobre 1932,10ø anniversario della marcia su Roma: "Dopo dieci anni di regime fascista, il ritmo spirituale della vita ebraica in Italia è più intenso di prima".)
Fu quello, per Mussolini, il momento di massimo consenso internazionale. L'Europa era con lui, il Duce godeva di un'incredibile popolarità in Inghilterra culla della democrazia europea sulla scia di Winston Churchill che un anno prima, parlando alla Lega antisocialista britannica, aveva definito Mussolini "il più grande legislatore vivente ... che ha mostrato a molte nazioni che si può resistere all'incalzare del socialismo". Questi rapporti s'incrinarono nel '35 con la guerra italiana all'Etiopia, che segnò invece il riavvicinamento di Mussolini al Fùhrer. Questi, molto abilmente, ne condivise la scelta politica e lo rifornì di preziosissime materie prime. L'anno successivo il Duce annunciava la nascita dell'impero, assicurava con Hitler aiuti militari al dittatore spagnolo Francisco Franco, impegnato nella guerra civile, e consigliava al cancelliere austriaco di riannodare i rapporti con il Fùhrer. Nel '37 Mussolini, che aveva ormai ristabilito ottime relazioni con Hitler, disse a Schuschnigg di non essere del tutto contrario a quell'annessione dell'Austria alla Germania l'Anschluss, appunto che aveva giurato di impedire appena tre anni prima dinanzi al cadavere di Dollfuss.
La situazione precipitò nel febbraio 1938, cinque mesi dopo il viaggio di Mussolini a Berlino. Nonostante Hitler fosse ormai un uomo potentissimo, non aveva smesso di inondare il Duce di ruffianerie. Nell'ottobre 1936 aveva detto a Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri e genero del Duce: "Mussolini è il primo uomo di Stato del mondo con il quale nessun altro ha il diritto di misurarsi nemmeno di lontano". Per ricambiare tanta cortesia, il Duce aveva inserito nel vocabolario dei rapporti bilaterali una parola "Asse" destinata a diventare tragicamente storica.
Alia fine del settembre 1937, quando Mussolini sbarcò a Berlino, Hitler racconta Paolo Monelli "gli colmò le strade e le piazze di folle quali solo può radunare l'implacabile disciplina tedesca e una città di quattro milioni di abitanti, lo scarrozzò in macchina aperta sotto la pioggia fra chilometri e chilometri di soldati rigidi come statue, lo sbalordì con manovre militari, lo portò sotto le volte di colossali officine fra infiniti allineamenti di gigantesche bocche da fuoco, fece balenare davanti ai suoi occhi provinciali con un'abile messa in scena tra il nibelungico e il wagneriano la ferrea Germania della leggenda e delle cronache medievali, tutta durezza, tutta orrore di ferro e lampeggiare di armi". E fu abilissimo nelle conversazioni politiche. Accolse l'italiano come "un genio, uno di quei rari geni non creati dalla storia, ma creatori di storia essi stessi". Evitò di litigare sulle sorti dell'Austria e sul razzismo, lo spedì a giocare con i trenini elettrici di Gòring (che lo spaventò sciogliendogli contro la sua piccola leonessa). Insomma, lo stordì. Mussolini tornò in Italia convinto dell'invincibilità della Germania. "Quel viaggio" dice Monelli "fu per lui come quello del pittorello che va a Parigi e ne ritorna tutto diverso e gonfio di istinti imitatori."
Così, quando sei mesi dopo, il 7 marzo 1938, Schuschnigg gli comunicò di voler indire un plebiscito sull'Anschluss per ascoltare la volontà del suo popolo, Mussolini non lo sostenne, nè mosse un dito quando Hitler lanciò all'Austria un ultimatum, imponendo la ricostituzione del Partito nazista e l'assegnazione di alcuni ministeri chiave ai camerati con la camicia bruna. (Il cancelliere austriaco aveva inutilmente tentato di addolcire il Fùhrer, di limitare il pangermanesimo alla musica di Beethoven.) Rimasto solo, Schuschnigg tentò una mossa disperata: il 9 marzo annunciò il plebiscito per il giorno 13. Hitler lo seppe a cose fatte e fu preso da uno dei suoi memorabili attacchi di collera. Chiamò i suoi generali e ordinò di invadere l'Austria prima che gli austriaci si pronunciassero. Il cancelliere capì di aver perduto la partita e all'ultimo momento annullò il plebiscito. Ma ormai era troppo tardi. L'11 marzo il principe Filippo d'Assia recapitava al Duce una lettera di Hitler che conteneva questo passaggio: "Qualunque possa essere la conseguenza dei prossimi avvenimenti, io ho tracciato una netta frontiera tedesca verso la Francia e ne traccio ora una, altrettanto netta, verso l'Italia. E' il Brennero".
Il 12 marzo le truppe tedesche entrarono in Austria annettendola alla Germania. Nelle stesse ore alcune personalità lasciarono il territorio austriaco: tra queste, Sigmund Freud e Alwine Dollfuss, la giovane vedova del cancelliere assassinato dai nazisti che era appena rientrata da Roma. (Si sparse voce che fosse diventata una delle amanti del Duce, anche se nelle sue Memorie del cameriere di Mussolini Quinto Navarra, che smistava il traffico delle signore a palazzo Venezia, dice che non c'era evidenza di relazione.) Lo stesso 12 marzo il Gran Consiglio del fascismo dette il suo parere favorevole all'annessione, addossando tutta la responsabilità dell'accaduto sulle spalle del povero Schuschnigg, che nel frattempo era stato sostituito dal nazista Arthur SeyssInquart. Alla Camera, Mussolini giustificò la decisione sostenendo che essa rappresentava "il collaudo dell'Asse". Hitler gli rispose che mai avrebbe dimenticato un simile gesto d'amicizia.
Caduta l'Austria, il Duce si consegnò
In realtà, secondo Renzo De Felice (Mussolini il Duce), l'Anschluss fu per il dittatore italiano un colpo durissimo e fu avvertito da molti come la prima, vera sconfitta subita dal regime. Mussolini ne uscì indebolito. L'opinione pubblica, tranne l'ala filonazista del fascismo che era ancora minoritaria, non apprezzò la nuova situazione. La Francia e l'Inghilterra, che pure avevano messo nel conto l'assenso del Duce, aspettarono con ansia da Roma una reazione che non venne. Al posto del "patto a quattro" con l'Italia e la Germania per dare pace e stabilità all'Europa, venne il "patto d'acciaio" tra Hitler e Mussolini, che entrambi fino a pochi mesi prima avevano tassativamente escluso. Nel '37 il Fùhrer si era posto il problema e aveva dato un giudizio negativo. "L'Italia" lo avevano convinto i suoi "non è mai stata un'alleata sicurissima." Ma il 2 aprile 1938, venti giorni dopo l'annessione dell'Austria al Reich, Hitler avanzò a Mussolini la richiesta di un trattato d'assistenza militare, pubblico o segreto. Voleva rompere definitivamente ogni ponte di Roma con Londra e con Parigi, e ci riuscì.
Due, fra gli altri, i suoi argomenti persuasivi: l'Alto Adige e l'Albania. Su quest'ultima il Duce non poteva accettare intromissioni, in quanto si trattava di una delle sue poche aree d'influenza. Sull'Alto Adige, invece, l'apparente fermezza di Mussolini ("Spostino un sol palo di frontiera e coalizzerò tutto il mondo nella guerra più dura contro il germanesimo") nascondeva una profonda preoccupazione. Hitler propose di trasferire in Germania gli altoatesini di lingua tedesca, Mussolini si oppose. (Avrebbe cambiato idea nel '41: "Far coincidere razza, nazione e Stato quando l'etnia non va d'accordo con la geografia".) Ma la tensione c'era. Scrive nel suo diario Galeazzo Ciano: "In Alto Adige continua una propaganda che noi non possiamo tollerare: i 212.000 tedeschi alzano troppo la testa e si parla perfino di confine ad Ala o a Salorno. Ho consigliato al Duce di parlarne con il Fùhrer. In Italia la corrente antitedesca, fomentata dai cattolici, dai massoni e dagli ebrei, è e diviene sempre più forte. Se i tedeschi faranno gesti imprudenti in Alto Adige, l'Asse può saltare da un momento all'altro". Purtroppo, l'Asse non saltò.
Hitler rinnovò le sue pressioni su Mussolini durante il viaggio in Italia compiuto dal 3 al 9 maggio 1938. Nelle sue memorie Navarra riferisce che il Duce entrò in grande agitazione per quella visita. Volle percorrere di persona tutte le strade dell'itinerario del Fùhrer e fece tinteggiare tutti gli edifici in cattivo stato. In via Nazionale, all'angolo con via Parma, vide una casetta cadente dalle vetrate sudicie, che doveva essere lo studiolo di un fotografo, e dette ordine che venisse sistemata. Il governatore di Roma, Piero Colonna, con tecniche di scenografia cinematografica simulò una facciata perfetta facendo costruire un'alta quinta di assi intonacate. Mussolini ne fu entusiasta.
Mario Toscano (Le origini diplomatiche del patto d'acciaio) racconta che il grande vertice annunciato dalla propaganda
si limitò piuttosto a "un balletto da opera buffa": i tedeschi facevano proposte concrete e gli italiani divagavano. Un testimone diretto, l'interprete Paul Schmidt {Da Versaglia a Norimberga), conferma: "Mussolini e Ciano sfuggivano visibilmente a ogni serio discorso politico che ogni tanto Hitler e più ancora Ribbentrop cercavano di intrecciare".
De Felice annota che l'opinione pubblica italiana, nonostante l'impegno profuso dal gerarca Achille Starace nel mobilitare il partito, restò piuttosto fredda. Gelido fu il Vaticano. Già nel 1937 Pio XI, dopo aver bollato il comunismo con l'enciclica Divini Redemptoris, aveva fatto altrettanto con il nazismo {Mit hrennender Sorge). Come vedremo meglio nel capitolo terzo, appena Hitler mise piede a Roma il papa se ne andò a Castel Gandolfo. "Tristi cose avvengono" disse "molto tristi cose, e da lontano e da vicino. E' tra le tristi cose questa: che non si trova troppo fuori posto e fuor di tempo l'inalberare a Roma, il giorno della Santa Croce, l'insegna di un'altra croce che non è la Croce di Cristo." Il chiaro riferimento alla croce uncinata dei nazisti indispettì i fascisti più ortodossi. Il "Popolo d'Italia" polemizzò con l'"Osservatore romano". Tuttavia, anche il re testimonia Ciano restò "sempre ostile a Hitler" e lo fece passare "per una specie di degenerato psicofisico".
Eppure, la storia seguì il suo tragico corso. Hitler attirava a sé il regime italiano come una sirena fatale. "La Germania nazista" scrisse Giuseppe Bottai {Diario) il 12 luglio 1938 "sembra essere divenuta la terra di paragone della nostra fede. Un viaggio in Germania è una buona carta in mano ai gerarchi e sottosegretari in cerca di fortuna. E' intorno alla Germania che si forma il gioco delle tendenze e controtendenze."
Mussolini, incerto egli stesso, non ammetteva incertezze negli altri. Concionava sulla "necessità storica dell'Asse e dell'incontro tra la rivoluzione fascista e la rivoluzione nazionalsocialista". Lanciò "un'ondata di gallofobia per liberare gli italiani dall'ultima schiavitù, quella verso Parigi".
Il dado era tratto. Il 1ø settembre 1938 le leggi razziali ne furono l'immediata, tragica conseguenza.
Quando gli ebrei erano "italiani"
Perché Benito Mussolini diventò razzista? O meglio: Perché accettò di seguire Hitler sulla strada tragica e irreversibile delle leggi razziali? Partiamo da Renzo De Felice, di gran lunga il più autorevole studioso dell'Italia fascista. Con la sua monumentale storia del fascismo, cominciata nel '65 e conclusa trent'anni dopo, lo storico reatino fu il primo ad approfondire aspetti sconosciuti o trascurati del fascismo (la sua originaria matrice di sinistra, per esempio, o il ruolo della borghesia emergente) usando un chiaroscuro scientifico estraneo alla dottrina dominante del "fascismo male assoluto". Intendiamoci: da De Felice non venne nessuna parola assolutoria nei confronti di un regime che, in quanto regime, non poteva e non doveva averne. Consentì tuttavia di capire quel che c'era da capire, Perché i regimi l'abbiamo visto con l'incredibile ascesa "democratica" di Hitler non nascono sotto un cavolo.
Ma l'opera di De Felice che qui ci interessa è un'altra. La sua Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo è del 1961, e in quell'anno non tirava certo aria di revisionismo. Allora De Felice non aveva cattedre e veniva da studi sul giacobinismo. Suo maestro era Delio Cantimori, allievo di Giovanni Gentile, fascista convinto poi iscrittosi al Pci. La prefazione al libro sopra citato scritta da Cantimori, che all'epoca era non solo il più autorevole storico comunista italiano ma un indiscusso caposcuola, inizia così: "Questo è un libro coraggioso e importante".
Ecco che cosa scrive De Felice parlando della preparazione dei provvedimenti antisemiti di Mussolini: "Sino al 1937 l'idea di un antisemitismo di Stato fu lontanissima da lui: gli ebrei italiani goderono sotto il fascismo nè più nè meno della stessa "libertà" che godevano gli altri italiani; gli ebrei stranieri perseguitati trovarono in lui, se non proprio un protettore, un uomo politico che a più riprese li aiutò e aprì loro le porte d'Italia come bisogna onestamente riconoscerlo non fecero molti altri capi di Stato per i loro paesi... Certo verso "gli ebrei" Mussolini ebbe sempre una certa diffidenza, ma si trattava della diffidenza tipica di tutti i nazionalisti: era la diffidenza tipica del provinciale insofferente per tutto ciò che sapeva di cosmopolita e di internazionale ... Malta banca e X internazionale ebraica erano per lui una realtà, una realtà con la quale però non voleva scontrarsi e che, in ogni caso, non riteneva avesse in Italia agganci molto potenti. Gli ebrei italiani erano per lui italiani: erano stati buoni combattenti nella prima guerra mondiale (spesso irredentisti), molti erano stati ed erano buoni fascisti".
La tesi di De Felice, ribadita anche negli scritti successivi al 1981 e confermata da George Mosse, il maggiore storico tedesco, sembra reggere alle recentissime obiezioni di Giorgio Fabre (Mussolini razzista), il quale sostiene che sin dalla sua formazione socialista Mussolini aveva manifestato in alcuni scritti insofferenza per gli ebrei. Ma se Michele Sarfatti, direttore del Centro di documentazione ebraica di Milano, si dimostra molto interessato a questa tesi, lo storico Giovanni Sabbatucci la stronca: "E' sbagliato applicare a quei tempi il nostro metro di giudizio" dice a Dino Messina ("Corriere della Sera", 7 luglio 2005). "Come ha dimostrato anche una recente discussione su De Gasperi [in occasione dell'uscita del volume "Alcide De Gasperi: un percorso europeo"], agli inizi del secolo scorso i sentimenti antiebraici erano molto diffusi. Espressioni antigiudaiche si trovano in personaggi insospettabili come Gaetano Salvemini, che usò frasi oggi impronunciabili."
Musa, biografa e amante del Duce fu per molti anni Margherita Sarfatti. Rachele Mussolini, che chiudeva entrambi gli occhi dinanzi ai rapidi amplessi quotidiani del consorte sui tappeti o nel vano delle finestre della Sala del Mappamondo a palazzo Venezia, era invece esasperata dalla sua relazione con la Sarfatti, diversa da tutte le altre. "L'ammazzo con le mie mani, quell'ebrea" minacciava. Ma il fatto che Margherita fosse ebrea non aveva mai turbato suo marito.
Il solo fascista da sempre risolutamente antisemita fu Giovanni Preziosi, che già nel 1920 scrisse un libro dal titolo tanto eloquente da essere quasi caricaturale: Giudaismo, bolscevismo, plutocrazia, massoneria. Nella visione d Preziosi un prete spretato di Avellino che aveva avuto Hitler tra i collaboratori (anonimi) di una sua rivista razzista gli ebrei dominavano l'intera vita nazionale: dalle banche ai vertici delle società private, dall'amministrazione dello Stato alle università, dai giornali alle case editrici. Naturalmente, dice Preziosi, gran parte degli affari passavano per le loro mani. Secondo De Felice, questa analisi è infondata. Gli ebrei erano quasi tutti "borghesi", ma di qui a sostenere che fossero i controllori occulti della vita nazionale ce ne corre. Il censimento "razziale" del 1938 accertò che gli ebrei residenti in Italia erano 48.032. Di questi, poco meno della metà non lavoravano (casalinghe, studenti, pensionati e 1381 "benestanti"). Il resto era diviso tra circa 6000 imprenditori (4785 commercianti, 662 industriali, 218 agricoltori), 2000 dipendenti della pubblica amministrazione, 417 medici, 554 avvocati e alcune migliaia di impiegati in attività private. Gli ebrei stranieri erano 10.380. La comunità ebraica più consistente, in proporzione ai cittadini residenti, era a Trieste. Seguivano Livorno, Venezia, Ancona e Ferrara. In termini assoluti, invece, prevalevano ovviamente le province di Roma e Milano. Quella di Torino con 4000 cittadini ebrei era fra quelle d Trieste (6000) e di Livorno (2300). Gli ebrei italiani d'Oltremare erano 28.600: 24.000 in Libia, oltre 4000 nelle isole dell'Egeo.
Le comunità ebraiche erano interlocutori importanti delle autorità dello Stato. Scrive Michele Sarfatti {Gli ebrei nell'Italia fascista) che nel 1932 venne ultimata l'elaborazione delle linee programmatiche per i corsi suppletivi di cultura, religione e lingua ebraica a beneficio degli studenti ebrei che frequentavano le scuole medie pubbliche. Poichè nell'anno scolastico 193031, con la riforma Gentile, era stato introdotto nelle scuole elementari un testo unico, l'Unione delle comunità ebraiche chiese di poter "decattolicizzare" il sussidiario, cioè di poter sopprimere o sostituire i brani che avrebbero creato disagio in un bambino che avesse ricevuto una diversa educazione famigliare. Il governo autorizzò il taglio dei brani controversi e la pubblicazione di libri "amputati" per i bambini ebrei.
Sarfatti riconosce che "la concessione fu comunque notevole", ma aggiunge che il rifiuto di sostituire ai passi "cattolici" passi "ebraici" "simboleggiò bene lo stato di inferiorità riservato a chi non rispecchiava il progetto governativo di nazione". Ora, si può vedere il bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto. La richiesta degli ebrei di non essere turbati nei propri sentimenti era legittima. D'altra parte, visto che con il trattato del 1929 "la religione cattolica, apostolica, romana era la sola religione dello Stato", la richiesta di adottare nelle scuole pubbliche italiane testi che, a loro volta, avrebbero avversato il sentimento cattolico non era certo in linea con i tempi, senza che questo comportasse per i cittadini ebrei una condizione di minorità.
"Uno Stato ebraico? Portino Tei Aviv in America"
Abbiamo visto la ferma reazione diplomatica del Duce quando Hitler pubblicò il 29 marzo 1933 il suo proclama contro gli ebrei. Angelo Sacerdoti, rabbino capo di Roma, corse da lui per essere rassicurato e, da Londra, l'Alleanza mondiale per la lotta contro l'antisemitismo gli chiese d'intervenire. Mussolini autorizzò i dirigenti delle comunità ebraiche italiane ad assumere incarichi nei loro organismi internazionali. Chaim Weizmann, fondatore del "focolare ebraico" in Palestina, incontrò ripetutamele il Duce nei momenti d'emergenza e a Londra definì l'Italia "l'unico paese che ha largamente aperto le porte delle sue scuole agli studenti ebrei, ciò che mostra la generosità del governo fascista". Montanelli e Cervi (L'Italia dell'Asse) ricordano che Weizmann conosceva Mussolini fin dal '26, traendone la convinzione che "egli non fosse ostile all'idea sionista e alla nostra attività in Palestina: i suoi sospetti e la sua ostilità erano rivolti contro i britannici, i quali secondo lui si valevano degli ebrei nel Mediterraneo orientale per ostacolare il predominio italiano nel Mare Nostrum". Ancora nel luglio 1937 il Duce faceva sapere agli ebrei d'America che "le loro preoccupazioni per i fratelli viventi in Italia non hanno luogo di essere, ma sono frutto di malevole informazioni".
Pochi mesi dopo, la situazione era completamente ribaltata. Il mondo arabo, che si era congratulato con Hitler già a metà degli anni Trenta dopo i suoi primi provvedimenti antiebraici, all'inizio dei Quaranta vide la nascita di alcuni partiti di chiara ispirazione nazista. Lo conferma il più autorevole islamista dei nostri tempi, Bernard Lewis, il quale ha ricordato che sia il partito iracheno alBa'th (dove avrebbe fatto carriera Saddam Hussein) sia il gruppo politico Giovane Egitto (nelle cui file avrebbero militato Nasser e il giovane Sadat) erano di stampo nazista (Semiti e antisemiti. Le origini dell'odio arabo per gli ebrei). Alla fine degli anni Trenta il Gran Muft (la massima autorità civile e religiosa dell'Isiam) sfuggì agli inglesi (filosionisti) prima in Palestina e poi in Iraq. Ma quando anche questo paese diventò terra bruciata, riparò in Italia al seguito del personale dell'ambasciata (gli inglesi ordinarono infatti agli iracheni di interrompere le relazioni diplomatiche con le potenze dell'Asse). Per l'occasione, il Gran Muft partì "con la barba rasata, i capelli tinti e un passaporto italiano di servizio". Allorché, il 27 ottobre 1941, incontrò a Roma Mussolini, quest'ultimo "dipinse gli ebrei come spie, agenti e propagandisti degli inglesi". "Sono nostri nemici" disse il Duce all'ospite arabo "e non vi sarà posto per loro in Europa e nemmeno in Italia, dove ve ne sono al massimo quarantacinquemila su una popolazione di quarantacinque milioni. Sono pochi, e nonostante questo solo i meritevoli tra loro rimarranno. Non più d duemilacinquecento." Secondo il Gran Muft, unica fonte che abbia riferito sul colloquio, Mussolini si dimostrò nettamente contrario all'istituzione di uno Stato sionista in Palestina: "Gli ebrei non hanno motivi storici, razziali o altro per costituire uno Stato in Palestina ... Se essi desiderano tale Stato, devono portare Tei Aviv in America".
Galeotta fu la guerra d'Africa
Che cosa era accaduto, dunque? Secondo De Felice, galeotte furono le guerre d'Etiopia e di Spagna. Molti ebrei influenti e alcune organizzazioni ebraiche si opposero apertamente alle due campagne, che provocarono l'isolamento morale dell'Italia. Mussolini incaricò alcune personalità ebraiche di farsi mediatrici a Ginevra, Parigi e Londra, e poiché la loro missione fallì, si convinse che l'Internazionale ebraica tramava contro il fascismo. Si aggiunga che anche il mondo economico, sul quale i finanzieri ebrei esercitavano la loro influenza, osteggiò la politica autarchica del regime. La guerra d'Africa, d'altra parte, aveva posto al Duce il problema razziale sotto altre forme: i nostri soldati, insaziabili in fatto di appetito sessuale, avevano portato al parossismo la quantità di rapporti con le indigene. E il capo del fascismo temeva l'esplosione del meticciato su larga scala: cercò di contenere il fenomeno, ma non potendo mettere agli arresti l'intero corpo di spedizione, pensò di dare il buon esempio facendo fustigare e condannare a cinque anni di carcere tre donne italiane che avevano avuto rapporti sessuali con gli indigeni.
In ogni caso, le leggi razziali italiane non si spiegano se non con il salto ideologico che a un certo punto Mussolini sentì il bisogno di compiere per sgomberare il campo dagli ultimi equivoci con Hitler. Alla fine degli anni Trenta, infatti, il rapporto tra i due assunse aspetti patologici. Dopo un loro incontro, l'ambasciatore francese a Berlino André Francois Poncet raccontò: "Hitler è come affascinato, ipnotizzato; se il Duce ride, ride, se il Duce aggrotta le ciglia, anche lui le aggrotta; è una scena di vero e proprio mimetismo". Mussolini, invece, cominciava ad avere complessi nei confronti dell'alleato tedesco. Hitler s'era annesso l'Austria senza informarlo. Quando occupò la Boemia, gli spedì come al solito, a cose fatte il principe d'Assia con un messaggio. "Non bisogna darlo alla stampa" si lagnò il Duce. "Gli italiani riderebbero di me: ogni volta che Hitler prende uno Stato, mi manda un messaggio."
Resta infine assai ambiguo il ruolo del re, che promulgò le leggi sciagurate. Monelli lo descrive contrariato. "Ventimila italiani, con la schiena debole, in Italia si commuovono per gli ebrei" si sfogò un giorno Mussolini con Vittorio Emanuele III. E il sovrano gli rispose acre: "Io sono uno di quelli".
De Felice ne fa un ritratto del tutto diverso. Il re non era antisemita, scrive, ma certo non amava gli ebrei. E cita un incontro del sovrano con Italo Balbo, l'unico dei gerarchi fascisti a essere nettamente contrario alle leggi razziali. Quando il maresciallo gli chiese allarmato notizie sull'imminenza di quei provvedimenti, Vittorio Emanuele III gli rispose: "Senta, Balbo, io ho la consuetudine di non metter mai carne al fuoco prima del tempo, ma per questa storia ho prevenuto Mussolini e gli ho detto un paio di volte: "Presidente, gli ebrei sono un vespaio, non mettiamoci le mani dentro". Lu mi ha dato ragione ed è andato anche più in là: li ha fatti entrare in Italia a frotte. Non dico le lagnanze dei professionisti e dei commercianti nostri nel veder arrivare questi ebrei tedeschi, austriaci... anche un po' arroganti e invadenti, mi dicono. E Mussolini zitto e tollerante. Ora lo so, li vuole fuori, perché durante la guerra d'Africa e qui non gli si può dar torto si sono schierati in America, in Inghilterra, in Francia, contro di noi con un'acredine da non dire. Lei lo conosce quanto me e meglio; Mussolini se l'è legato al dito questo atteggiamento ostile... e poi è geloso credo che l'antisemitismo tedesco sia tanto piaciuto alle nazioni arabe del levante mediterraneo". "E alle repliche di Balbo" annota De Felice "[il re] lasciò cadere il discorso."
Gli ebrei votarono, Croce e Einaudi tacquero
Il 27 gennaio 2005 Vittorio Emanuele di Savoia ha riconosciuto "le responsabilità politiche e morali del re Vittorio Emanuele III nella promulgazione delle leggi razziali del 1938". Contro questo riconoscimento, che ha procurato molti consensi a lui e a suo figlio Emanuele Filiberto (latore della lettera di rammarico), si è schierato fieramente lo storico Aldo A. Mola, autore di una recente Storia della Monarchici in Italia e tuttora presidente della Consulta dei senatori del regno. Secondo Mola, il re non aveva scelta: dinanzi a una legge approvata dalle due Camere poteva soltanto rinviare la firma (e lo fece), ma dinanzi al rifiuto di rivedere il testo poteva solo o promulgare o abdicare. E se avesse abdicato, sostiene lo storico, Mussolini avrebbe abrogato l'istituzione monarchica assumendo il titolo di capo dello Stato, come aveva fatto Hitler alla morte di Hindenburg. Con un certo sadismo, Mola ricorda anche che Vittorio Emanuele III non ricevette dal paese alcun segnale forte per non precipitare nel fosso.
Dopo i passaggi di cui daremo conto tra poco, le leggi passarono in Parlamento nel giro di una settimana: la Camera le approvò il 14 dicembre 1938, il Senato il 20. Dei 400 deputati in carica, ricorda Aldo Pezzana (Gli uomini del Rè), erano presenti 351, che votarono a scrutinio segreto e approvarono le leggi all'unanimità. Va segnalata la presenza di quattro deputati ebrei Guido Jung, Gino Arias, Riccardo Luzzatti e Gian Jacopo Olivetti , che votarono a favore. Tra gli assenti non giustificati, Italo Balbo, notoriamente contrario al razzismo antisemita, che fu bollato da Mussolini come "porco massone democratico".
Al Senato i presenti furono soltanto 164 su 400. Di Benedetto Croce, assente, non si ricorda un'opposizione alla Balbo. Il filosofo in Italia tacque, salvo esprimere più tardi il suo dissenso, annota Mola, in un articolo per un giornale svedese. L'unico che ebbe il coraggio di parlare contro le leggi fu il senatore cattolico Filippo Crispolti, che contestò la nuova disciplina dei matrimoni misti, attuata in violazione del Concordato. I voti contrari furono soltanto dieci, tra i quali certamente quello del quadrunviro Emilio De Bono. Contrario, forse, anche il voto di Luigi Einaudi, che tuttavia non si espresse pubblicamente. Il re, dunque, non fu incoraggiato. Tuttavia, se si fosse rifiutato di firmare, anche a costo di venir deposto da Mussolini, nel 1943 sarebbe sicuramente tornato al Quirinale tra squilli di tromba.
L'approvazione delle leggi razziali non turbò tanti intellettuali di prestigio che dal '40 al '43 collaborarono alla rivista di Giuseppe Bottai "Primato". Recensendo sul "Corriere della Sera" del 13 settembre 2005 il libro di Mirella Serri I redenti, Aurelio Lepre ricorda il lungo oblio degli intellettuali prima fascisti, poi antifascisti, che solo durante la guerra si staccarono dal regime e poi tentarono di far dimenticare il loro passato. Già in Storia d'Italia da Mussolini a Berlusconi ricordammo che Bottai aveva sposato in pieno le leggi razziali. Nondimeno ebbe tra i collaboratori della sua rivista il meglio della cultura italiana: Giorgio Vecchietti (condirettore), Corrado Alvaro, Cesare Pavese, Nicola Abbagnano, Giulio Carlo Argan, Carlo Emilio Gadda, Giuseppe Dessi, Dino Buzzati, Eugenio Montale, Enrico Emanuelli, Salvatore Quasimodo, Piero Bargellini, Vitaliano Brancati, Giuseppe Titta Rosa, Giovanni Comisso, Riccardo Bacchelli, Galvano Della Volpe, Francesco Flora, Alessandro Bonsanti, Emilio Cecchi, Arrigo Benedetti, Mario Alicata, Bonaventura Tecchi, Nino Valeri, Enzo Carli, Romano Bilenchi, Bruno Migliorini, Pier Maria Pasinetti, Vittorio G. Rossi, Alfonso Gatto, Luigi Chiarini, Gianfranco Contini, Giuseppe Ungaretti, Sergio Solmi, Carlo Muscetta, Carlo Betocchi, Mario Luzi, Vasco Pratolini, Walter Binni, Cesare Angelini, Luigi Russo, Luigi Salvatorelli, Paolo Monelli, Ugo Spirito, Enrico Falqui, Giorgio Vigolo, Manara Valgimigli, Cesare Zavattini, Giaime Pintor, musicisti come Luigi Dallapiccola, Gianandrea Gavazzeni, artisti come Giovanni Fattori, Giorgio Morandi, Giacomo Manzù, Renato Guttuso, Orfeo Tamburi, Mino Maccari, Amerigo Bartoli, Camillo Pellizzi, Aligi Sassu, Domenico Cantatore, Mario Mafai, Pericle Fazzini. Norberto Bobbio si raccomandava al Duce per ottenere una cattedra, Alberto Moravia gli chiedeva protezione. Il giovane Giorgio Bocca difendeva la politica razziale sul giornale fascista di Cuneo, il giovanissimo Giovanni Spadolini lo faceva su "Italia e Civiltà", il suo coetaneo Eugenio Scalfari sosteneva su "Roma fascista" la "guerra rivoluzione", Ruggero Orlando e Vittorio Gorresio erano pervasi da entusiasmo filonazista il primo, e antisemita il secondo. Subito dopo la caduta del fascismo, alcuni di questi fecero la Resistenza, pagando chi con il carcere (Mario Alicata), chi con la vita (Giaime Pintor, caduto in azione). Molti entrarono nel Pci o nella sua sfera di influenza. Ma non mancarono dirigenti democristiani di assoluto prestigio e di sincera fede democratica, come Amintore Fanfani, Aldo Moro e Benigno Zaccagnini, tra gli autori di frasi razziste, sia pure più sfumate.
Nella primavera del 2005 la pubblicazione del volume a più mani Alcide De Gasperi: un percorso europeo ha innescato, come abbiamo detto, sul "Corriere della Sera" una polemica tendente ad affermare un pregiudizio antisemita del leader democristiano. In particolare, gli si è rimproverato di aver auspicato nel '38, sulle pagine dell'"Illustrazione vaticana", "che il razzismo italiano si attui in provvedimenti concreti di difesa e valorizzazione della nazione". Di qui l'accusa di antisemitismo strisciante. La verità documentale è stata ristabilita il 6 maggio con un intervento di Paola De Gasperi, figlia dello statista, che ha riprodotto numerosi interventi recisamente contrari al razzismo del padre. "Cattolico vuoi dire universale, non razzistico" scriveva De Gasperi citando Pio XII, e con lui si chiedeva "come mai, disgraziatamente, l'Italia abbia avuto bisogno di andare ad imitare la Germania". Vedremo meglio, nel prossimo capitolo, come la Chiesa sperasse che i provvedimenti fascisti del '38 avessero conseguenze minimali.
Attilio Tamaro {Venti anni di storia. 19221943) sostiene che le leggi razziali furono un "pegno" pagato da Mussolini a Hitler. Altre fonti documentali parlano di "contropartita", che si sarebbe arricchita successivamente anche con il passaggio dell'Alto Adige alla Germania. De Felice, convinto "che Mussolini fosse contrario alle aberrazioni naziste in materia di razza", sostiene che "la legislatura razziale italiana ... non può assolutamente essere messa sullo stesso piano di quella tedesca e neppure di quella degli altri satelliti della Germania, Francia di Vichy compresa" e che "nelle zone della Francia e dei Balcani occupate dalle truppe italiane i nostri comandi militari salvarono decine di migliaia di ebrei dai tedeschi con il pieno consenso di Mussolini che ne avallò l'operato e respinse le pressioni in senso contrario dei nazisti. Ancora ai tempi della Rsi furono fatti tentativi per evitare la consegna ai tedeschi degli ebrei arrestati e concentrati". Scrive infine De Felice: "Non vi è dubbio che Mussolini, decisa la campagna della razza, mirava soprattutto ad allontanare gli ebrei dall'Italia, non a perseguitarli personalmente e sterminarli". Nel febbraio 1940, quattro mesi prima che l'Italia entrasse in guerra, Mussolini s'illuse di far espatriare dieci ebrei al giorno per non dare nell'occhio. Successivamente, annota lo storico, non mise mai vincoli all'emigrazione ebraica. Si sa, purtroppo, come andò a finire.
Nel 1938 la situazione precipitò in poche settimane. All'inizio di maggio Hitler visitò l'Italia, un mese dopo arrivò una delegazione dell'Ufficio nazista per la razza, il 14 luglio il governo fascista diffuse il "manifesto della razza", il 6 ottobre il Gran Consiglio del fascismo con i soli voti contrari di Balbo, De Bono e Federzoni decise la persecuzione degli ebrei.
"Gli ebrei non appartengono alla razza italiana"
H cosiddetto "manifesto della razza", intitolato Il fascismo e i problemi della razza, era un documento politico mascherato da riflessione scientifica, che venne pubblicato sotto gli auspici del ministero della Cultura popolare. Il nono dei dieci paragrafi recita: "Gli Ebrei non appartengono alla razza italiana ... Gli Ebrei rappresentano l'unica popolazione che non si è mai assimilata in Italia, perché essa è costituita da elementi razziali non europei, diversi in modo assoluto dagli elementi che hanno dato origine agli Italiani". Si dice che Mussolini intervenne di proprio pugno sul testo per renderlo ancora più duro. Gli scienziati che formalmente ne erano gli autori accettarono anche questa umiliazione. Furono ricevuti da Achille Starace, segretario del Partito nazionale fascista, e acconsentirono che i loro nomi comparissero in un comunicato in cui veniva fornita la chiave della persecuzione: "Gli Ebrei s considerano da millenni, dovunque e anche in Italia, una razza diversa e superiore alle altre, ed è notorio che, nonostante la politica tollerante del Regime, gli Ebrei hanno, in ogni Nazione, costituito coi loro uomini e coi loro mezzi lo Stato Maggiore dell'Antifascismo".
Il primo provvedimento concreto fu adottato all'inizio di agosto: agli studenti stranieri ebrei era fatto divieto di iscriversi alle scuole del regno per l'anno scolastico 1938-39. Ministro dell'Educazione nazionale era Giuseppe Bottai, ed è sorprendente che uno degli uomini più colti e sensibili del regime sia stato al tempo stesso uno degli esecutori più convinti della persecuzione razziale. E ancor più sorprendente è che, tra il '40 e il '43 come abbiamo visto , sulla sua rivista "Primato" abbiano scritto quasi tutti i maggiori intellettuali del tempo, passati dopo la caduta del regime in larghissima parte al Pci.
In agosto, ai provveditori fu ordinato di escludere gli ebrei da ogni supplenza o incarico scolastico, e fu annunciato l'invio di un elenco di libri di testo da sostituire, anche se già adottati, in quanto scritti da ebrei. Negli stessi giorni il ministero degli Esteri mise a disposizione tutto il personale ebraico in Italia e all'estero, e quello dell'Interno avvisò i prefetti che 1'"appartenenza alla razza italiana era requisito essenziale e inderogabile per poter coprire cariche pubbliche".
Il re approvò senza esitazione i provvedimenti contro gli ebrei stranieri e per quelli italiani si tranquillizzò dinanzi alla promessa che sarebbero stati esclusi dalla persecuzione i decorati al valore, i volontari e i mutilati delle ultime guerre.
Il colpo finale venne dato nella notte tra il 6 e il 7 ottobre con un lungo documento del Gran Consiglio che esordiva: "L'ebraismo mondiale specie dopo l'abolizione della massoneria è stato l'animatore dell'antifascismo in tutti i campi". Seguiva il divieto per gli ebrei di "essere iscritti al Partito nazionale fascista; essere possessori o dirigenti di aziende di qualsiasi natura che impieghino cento o più persone; essere possessori di oltre cinquanta ettari di terreno; prestare servizio militare". Ai cittadini ebrei esonerati dagli impieghi pubblici veniva riconosciuto il diritto alla pensione. Quella notte stessa il Duce annunciò che sarebbe stato "durissimo" nella preparazione delle leggi di attuazione di quanto appena deciso. Dolorosissima fu la legge che vietava i matrimoni misti. Inutilmente l'Unione delle comunità ebraiche inviò a Mussolini "una mozione di assoluta e piena riaffermazione di fedeltà degli italiani ebrei al Duce e alla dottrina fascista".
Dopo aver colpito nel 1938 l'impiego pubblico e la proprietà industriale e terriera, nel giugno 1939 fu la volta delle professioni. Agli ebrei furono vietate le attività di giornalista e di notaio, e avvocati, ingegneri, medici ebrei vennero cancellati dai rispettivi ordini professionali.
Michele Sarfatti ricorda che Mussolini ebbe la tentazione di privare della cittadinanza anche gli ebrei italiani, così come fece per gli stranieri che l'avevano acquisita dopo il 1918. Vi rinunciò per ragioni di opportunità, ma il groviglio di disposizioni antiebraiche adottate tra il 1938 e il 1942 raggiunse punte di autentico sadismo burocratico. Agli ebrei fu proibito occuparsi di agenzie d'affari, commerciare preziosi, essere titolari di studi fotografici, fare i mediatori, i piazzisti, i commissionari, i tipografi, gli antiquari, i galleristi, i librai, i cartolai, gli ottici, i tassisti, raccogliere rottami e rifiuti, vendere oggetti sacri e articoli per bambini, andare a caccia e a pesca e, dal '42, frequentare località turistiche. Non potevano pilotare aerei nè allevare colombi viaggiatori. Non potevano vendere apparecchi radio e neppure possederne. Era loro vietato avere domestici "ariani" e, se facevano gli affittacamere, potevano ospitare solo persone della loro stessa razza. Agli ebrei fu precluso il mondo della musica, del cinema e della radio. Agli scrittori fu proibito pubblicare, agli artisti esporre.
Per capire quali fossero le condizioni delle famiglie ebree è sufficiente ricordare la testimonianza di un avvocato, Enzo Levi (Memorie di una vita. 18891947), padre di sette figli, al quale fu inibito l'esercizio della professione. La primogenita era insegnante e si trovò senza lavoro; il genero, impiegato di tribunale, fu licenziato; altri due figli laureati, ai quali erano preclusi gli uffici pubblici, penarono per trovare un lavoro privato; altri due figli, studenti, furono espulsi dalla scuola...
La stampa con l'eccezione della rivista " Artecrazia", guidata da Filippo Tommaso Marinetti dette un contributo decisivo alla campagna antisemita. E poiché molta gente era perplessa di fronte a tanta improvvisa durezza, alcuni fogli si esprimevano come segue: ""Ma dove andranno a finire i poveri ebrei?" Ecco una sciocca domanda e per noi fascisti, umiliante, che si sente insistentemente ripetere da un mese a questa parte da donne, da uomini, da troppa gente... All'inferno, camerati, all'inferno andassero a finire questi vostri "poveri ebrei", a scontare una minima parte del male che in venti secoli hanno saputo fare al mondo" ("La Scure", Piacenza, 6 ottobre 1938).
Come reagì a questo terremoto l'opinione pubblica italiana? I giudizi sono contrastanti. In un saggio pubblicato nel 2004 in occasione di una mostra sull'Olocausto (Dalle leggi antiebraiche alla Shoah) Alessandra Minerbi scrive: "La maggior parte degli italiani reagì con un misto di obbedienza, acquiescenza e indifferenza alle leggi antiebraiche. Il silenzio prevalse a ogni livello della società: Camera e Senato approvarono le leggi senza discuterle, i colleghi accettarono sostituzioni e posti vuoti senza proteste, i vicini di casa e i compagni di scuola si volsero spesso dall'altra parte senza rimpianti". Opposto il giudizio di De Felice: "Nonostante la massiccia e osannante preparazione della stampa e l'azione diretta del Pnf, i provvedimenti antisemiti non suscitarono nella maggioranza degli italiani alcuna simpatia. Si può anzi dire che, nonostante le gocce di veleno antisemita sparso negli anni precedenti, proprio in occasione del lancio della campagna della razza ... e per la prima volta grandi masse di italiani, che sino a quel momento erano state fasciste, o, se si vuole, mussoliniane, ma non certo antifasciste, incominciarono a guardare con occhi diversi il fascismo e lo stesso Mussolini". A sostegno delle proprie affermazioni, De Felice cita il caso di uno storico di famiglia modesta che non s'era mai occupato di politica. Quando la mamma, una semplice casalinga, sent, delle nuove leggi, disse al figlio: ""Ora capisco proprio che nel nostro paese per
una persona di coscienza non c'è altro che farsi mandare al confino"; e fu così che quel giovane, che sino allora si era occupato solo dei suoi studi, divenne antifascista".
Confiscati dieci cappelli e una camicia usata...
L'armistizio dell'8 settembre e la nascita della Repubblica sociale fecero precipitare la situazione. La linea del fronte tagliava in due l'Italia, lungo una retta che congiungeva i confini settentrionali della Campania a quelli meridionali del Molise. Soltanto un anno dopo sarebbe salita a sud di Bologna e all'altezza di Forlì. Nell'autunno del 1943 furono liberati circa 2500 ebrei, in larga parte stranieri, internati nel campo di Ferramonti, nel cosentino; altri 6000 riuscirono a riparare in Svizzera. Ma, da Roma in su, la situazione si fece sempre più drammatica. Pur mantenendo qualche personale riserva, peraltro sempre meno espressa, Mussolini ostaggio politico e militare dei tedeschi dopo la sua liberazione dalla prigionia al Gran Sasso cedette a Hitler la piena sovranità anche nell'ambito della politica razziale. E' eloquente un passo del manifesto programmatico della RSI approvato a Verona: "Gli appartenenti alla razza ebraica sono stranieri. Durante questa guerra appartengono a nazionalità nemica".
Gli ebrei, che fino ad allora erano stati espropriati del lavoro, lo furono anche dei beni e della dignità. Basti leggere l'inventario dei "beni" confiscati dal prefetto di Verona al "signor Sommer Antonio di razza ebraica": "10 cappelli da donna, 5 paia di scarpe da donna usate, 1 paio di pantofole da camera per uomo usate, 1 lenzuolo da una piazza di cotone, 1 fascia elastica ... 1 camicia da uomo ... 4 cravatte, 3 vestiti da donna di seta usati... 1 grembiule ... 3 piccoli tegami di alluminio, 1 scodella". Al di là di queste inutili eppure significative umiliazioni, gli ebrei furono spogliati di ogni cosa. Alla fine del '44 l'amministrazione della Rsi aveva totalizzato confische per l'equivalente di oltre 500 milioni di euro. Per metà si trattava di terreni, 50 milioni erano il valore dei fabbricati, 200 i titoli azionari, più di 25 tra denaro contante e titoli di Stato.
De Felice sostiene che, spietati nelle confische, i fascisti lo furono assai meno nel rapporto fisico con gli ebrei. "Violenze e massacri, individuali e collettivi, furono nella maggioranza dei casi opera dei tedeschi e delle varie formazioni autonome e più o meno irregolari fasciste (spesso organizzate addirittura nell'esercito tedesco, come le SS italiane), molto numerose e sulle quali il governo fascista aveva una autorità spesso del tutto nominale. Lo stesso concentramento degli ebrei fu condotto da parte delle prefetture relativamente ai tempi, ben s'intende con metodi e con discriminazioni abbastanza umani, nè esso fu totale."
Il ministero degli Esteri di Salò arrivò a interessarsi della sorte di qualche ebreo che risultava deportato, facendo infuriare Adolf Eichmann, la belva nazista che organizzò la deportazione e lo sterminio degli ebrei in tutta Europa. (Rifugiatosi nel dopoguerra in Argentina, fu catturato nel 1960 dai servizi segreti israeliani e impiccato nel '62 in Israele dopo un clamoroso processo.) Fece dunque rispondere Eichmann all'incauto vassallo della Rsi: "Sarà opportuno consigliare alla diplomazia italiana di non avanzare mai più richieste di tal genere. Abbiamo bisogno di tempo e di lavoro per dedicarci a cose vitali nell'interesse generale ... Ci rammarichiamo vivamente nel constatare che l'ambasciata di una repubblica fascista continui a interporre i suoi uffici a favore degli ebrei".
Con il passare dei mesi, tuttavia, nella Repubblica sociale la politica antiebraica fin completamente nelle peggiori mani possibili, quelle di Giovanni Preziosi. Questi, amicissimo dei nazisti, arrivò ad accusare Guido Buff arini Guidi e Alessandro Pavolini di connivenze massoniche ed ebraiche, e denunciò ai tedeschi lo stesso Mussolini come responsabile di "inconsulta tolleranza" verso entrambe le categorie. Il 15 marzo 1944 Preziosi fu nominato direttore dell'Ispettorato generale per la razza. Nonostante Mussolini avesse cercato di trattenerlo alle sue dipendenze per controllarlo, la linea oltranzista prevalse. La nascita del figlio di un italiano e un'ebrea (e viceversa) diventò "delitto contro la razza" e furono considerati "italiani" soltanto gli ebrei di famiglie residenti in Italia dal 1ø gennaio 1800.
La caccia all'ebreo, Perlasca e Palatucci
I nazisti decisero così di estendere all'Italia la "soluzione finale". "Alla caccia all'ebreo, tosto scatenata in tutta la penisola sotto l'occupazione tedesca" scrive De Felice "le autorità centrali fasciste contrapposero a parole la "loro" legislazione, in pratica dovettero però rassegnarsi a subirla passivamente, macchiandosi così di una complicità di fatto dalla quale non potranno mai essere assolte." Le autorità periferiche italiane parteciparono in massa alla caccia all'ebreo. "Polizia, carabinieri e militari, tranne casi sporadici, eseguirono passivamente gli ordini impartiti loro dai comandi tedeschi, eseguendo arresti, rastrellamenti, traduzioni di ebrei." Eppure, al processo Eichmann fu messo a verbale che "ogni ebreo italiano che è sopravvissuto deve la sua vita agli italiani".
Se non mancarono certo, nemmeno tra i civili, atti odiosi di zelo antiebraico, la stragrande maggioranza degli italiani si prodigò per soccorrere gli ebrei. A Rieti la famiglia Troiani ebbe tre dei suoi membri fucilati per aver aiutato alcuni ebrei. Tanti altri italiani furono deportati e seguirono la sorte dei loro sfortunati amici nei campi di sterminio.
Due esempi straordinari di abnegazione, conosciuti soltanto molti anni dopo la fine della guerra, sono quelli di Giorgio Perlasca e Giovanni Palatucci. Perlasca era un commerciante comasco che i'8 settembre 1943 si trovava a Budapest al servizio di una ditta italiana importatrice di carne per l'esercito. Internato con alcuni diplomatici in un castello, quando nell'ottobre 1944 i nazisti ungheresi di Ferenc Szalasi presero il potere con un colpo di Stato si rifugiò nella sede dell'ambasciata spagnola. Perlasca aveva combattuto con i fascisti nella guerra di Spagna ed era in possesso di un salvacondotto firmato da Francisco Franco che recitava: "Caro camerata, in qualunque parte del mondo ti troverai, rivolgiti alle ambasciate spagnole". Ottenuto così un passaporto iberico a nome di Jorge Perlasca, cominciò ad aiutare l'ambasciatore nell'azione umanitaria svolta dalla Spagna in favore dei perseguitati insieme con altre nazioni neutrali. Quando i diplomatici spagnoli dovettero abbandonare l'Ungheria, Perlasca restò, assegnandosi la carica di console spagnolo a Budapest. In un mese e mezzo, con incredibili peripezie raccontate oltre cinquantanni dopo da una fortunata fiction televisiva, riuscì a salvare 5200 cittadini ungheresi di religione ebraica destinati ai campi di sterminio. Onorato in Israele, Spagna, Ungheria e Stati Uniti, Perlasca fu ignorato in Italia fino al 1989, quando finalmente un senatore invocò dal capo dello Stato un vitalizio per quest'uomo che, a settantanove anni, viveva con la moglie a Padova in un appartamentino senza godere di alcuna pensione. Morì nel 1992.
Eroico come Perlasca, ma meno fortunato, fu Giovanni Palatucci. Commissario di polizia originario di Montella (Avellino), nel 1937 venne destinato come capo dell'Ufficio stranieri a Fiume, dove nel '44 diventò questore. Fin dall'autunno del '38, allorché entrarono in vigore le leggi razziali, Palatucci iniziò una discreta quanto straordinaria azione di difesa degli ebrei. Nel '39 sottrasse alla cattura della Gestapo 800 ebrei tedeschi in fuga, che avevano fatto sosta a Fiume a bordo di un vapore greco. Dopo l'8 settembre 1943 aiutò altre migliaia di perseguitati, smistandoli verso i paesi liberi o verso il Sud d'Italia controllato dagli Alleati. Molti furono ospitati nel campo di raccolta di Campagna, in provincia di Salerno, dove era vescovo uno zio del questore.
Nella primavera del 1944 Palatucci ebbe il coraggio di denunciare al capo della polizia di Salò "l'intollerabile atteggiamento delle autorità germaniche nel litorale adriatico". Da quel momento il questore di Fiume iniziò un'incredibile doppia vita. Con un nome di copertura ("dottor Danieli") prese contatti con il CLN e distrasse tutto il materiale documentale sugli ebrei custodito in questura, in modo che i nazisti non potessero formare le liste di proscrizione. Come autorità di polizia, ingiunse all'ufficio anagrafe del comune di Fiume di informare preventivamente la questura ogni volta che le SS si presentavano a chiedere informazioni su cittadini di razza ebraica. Riuscì così a prevenire le mosse dei nazisti, dotando via via gli ebrei di documenti di copertura che ne
perché Mussolini diventò razzista
favorissero la fuga. Quando, nell'agosto 1944, giunse da Berlino l'ordine di deportare tutti gli ebrei della zona, i nazisti non ne trovarono più.
Palatucci avrebbe potuto salvarsi accettando i ripetuti inviti del console svizzero a Trieste, ma rifiutò, per restare al suo posto. L'ultima persona che mise in salvo fu una giovane donna, un'ebrea slava che avrebbe voluto sposare. Arrestato e deportato nel campo di sterminio di Dachau, nei pressi di Monaco di Baviera, vi morì il 10 febbraio 1945, poche settimane prima della liberazione, e il suo corpo fu gettato in una fossa comune. Il ricordo di Palatucci vive oggi nei 5000 alberi uno per ogni ebreo salvato che il governo israeliano ha piantato in sua memoria. Nel 2004 la Chiesa cattolica ha concluso il suo processo di beatificazione.
Kappler: "Vogliamo il vostro oro"
La caccia all'ebreo portò migliaia di persone nei campi di concentramento italiani, primo fra tutti quello di Fossoli, in provincia di Modena, già destinato a ospitare i prigionieri inglesi della guerra d'Africa, che diventò il principale centro di smistamento verso i campi di sterminio.
Il 26 settembre 1943 Herbert Kappler, comandante delle SS a Roma, ricevette il presidente dell'Unione delle comunità ebraiche, Dante Almansi, e il presidente della comunità romana, Ugo Foà. "Vi consideriamo un gruppo staccato, ma non isolato, dei peggiori nemici che stiamo combattendo" disse il maggiore "e come tali dobbiamo trattarvi. Però non sono le vostre vite o i vostri figli che vi prenderemo, se aderirete alle nostre richieste. E' il vostro oro che vogliamo per dare nuove armi al nostro paese. Entro 36 ore dovrete versarmene 50 chili. In caso diverso, 200 fra voi saranno presi e deportati in Germania."
Cominciò una ricerca disperata. Nel timore di non fare in tempo, le autorità ebraiche chiesero alla Santa Sede se fosse eventualmente disposta a prestare l'oro mancante. La risposta fu positiva, senza alcun sollecito per l'eventuale restituzione.
Ma non ce ne fu bisogno. Gli ebrei raccolsero 80 chili d'oro, ne consegnarono a Kappler (che cercò anche di rubare sul peso) 50 chili e 300 grammi. Il resto fu messo in salvo e versato nel dopoguerra al fondo per la costruzione dello Stato d'Israele.
Ottenuto l'oro, i nazisti perquisirono la sede della comunità. Trovarono 2 milioni di lire in contanti (pari a circa 500.000 euro) e presero gli elenchi nominativi degli ebrei romani. All'alba del 16 ottobre 1943 i tedeschi circondarono il ghetto romano e in otto ore e mezzo catturarono 1007 ebrei, subito inoltrati ai campi di raccolta (Fossoli, Verona, Bolzano) e di sterminio. Ne sarebbero sopravvissuti soltanto 15.
Complessivamente, tra il '43 e il '45 gli ebrei romani deportati nei campi di sterminio furono 2091. Secondo De Felice, in tutta Italia furono 7495. Di essi, solo 610 tornarono vivi. In base ai recentissimi dati pubblicati da Valerla Galimi ("Come bestie braccate", in Dalle leggi antiebraiche alla Shoah), gli ebrei arrestati e deportati dall'Italia sarebbero stati 6806, ai quali ne andrebbe aggiunto un migliaio di cui non si conosce l'identità. I superstiti sarebbero stati 837. Qualunque sia il numero esatto, la cosa certa è che su 10 ebrei deportati 9 furono uccisi.
Dopo Roma, Venezia fu tra le città più colpite, nonostante l'eroismo del presidente della comunità ebraica, Giuseppe Jona, che si uccise dopo aver distrutto gli elenchi dei suoi correligionari.
All'inizio del 2005, in occasione di una Giornata della Memoria più importante e drammatica di altre (era il 60ø anniversario della liberazione dei campi di sterminio per opera degli Alleati), ho invitato a "Porta a porta" cinque dei pochissimi superstiti. Avevo saputo che alcuni di loro hanno ancora marchiato sulla pelle il numero di matricola del lager e cominciai il programma pronunciando i loro nomi e quelli dei campi in cui furono deportati: ciascuno rispose mostrando l'orribile tatuaggio. Quell'immagine incancellabile credo abbia persuaso milioni di spettatori, più di qualsiasi discorso, del livello di aberrazione raggiunto da quella stagione dell'odio. E il loro racconto dimostrò quanto sia facile per gli esseri umani varcare anche l'estremo confine che la coscienza possa concepire.
Storia di Edith, sopravvissuta a sei campi
Edith Bruck è una sfida vivente al destino e alla crudeltà dei nazisti. Deportata a dodici anni con la famiglia dall'Ungheria, è sopravvissuta alla detersione in sei campi: Auschwitz, Dachau, Landsberg, Kaufering, Kristianstad e BergenBelsen, dove morì Anna Frank. Qui fu liberata il 15 aprile 1945 dall'esercito americano.
"Quando vennero a prenderci i tedeschi" racconta "feci appena in tempo a nascondere la mia bambola nel soffitto. Ho pensato che così avrei potuto riaverla quando sarei tornata, anche se non sapevo dove ci avrebbero portati. Arrivammo ad Auschwitz e ci sembrò di aver abbandonato questo mondo. Ci spogliarono nudi, ci rasarono, ci dettero un numero di latta da mettere al collo e solo un vestito di lana grezza e un paio di zoccoli da indossare, senza biancheria intima. Ci divisero subito tra uomini e donne, adulti e bambini. Nessuno ci parlava. Le sole parole che sentivamo erano destra e sinistra, le direzioni a cui venivamo avviati. Io volevo andare a sinistra con la mia mamma. Ma quando venne il mio turno, un soldato mi disse di andare a destra. Urlai, perché non volevo separarmi da mamma. Quel soldato, invece, per ragioni che non ho mai conosciuto, mi salvò la vita. A sinistra c'erano le camere a gas, a destra i lavori forzati." Edith non rivide più la mamma. Tra i suoi compiti, quello di legare un fazzoletto alle caviglie dei morti e trascinarli in una tenda dove si raccoglievano i cadaveri. Qualche prigioniero moribondo fece in tempo a dirle il proprio nome e a raccontarle brandelli della propria storia, nel caso Edith fosse sopravvissuta.
"Le giornate" ricorda "trascorrevano con la sola speranza di arrivare vivi all'indomani. Venivamo continuamente sottoposti a visite mediche: bastava un solo foruncolo o una macchia sul corpo per essere eliminati. Bisognava cercare di essere invisibili... Nei lager ogni forma di umanità era scomparsa. Ho visto madri rubare croste di pane alle figlie e figlie rubarle alle madri. Eppure, ogni tanto filtrava un raggio di sole. Un cuoco mi regalò un pettine perché gli ricordavo sua figlia. Un'altra volta ebbi un guanto bucato. Soltanto un guanto bucato, ma era come se mi avessero regalato la vita. Perfino la liberazione fu un incubo. La maggior parte dei miei compagni liberati dai russi morì. I soldati, nella convinzione di risarcirli di tante privazioni, gli aprirono infatti le porte delle cucine. I prigionieri erano come impazziti, mettevano la testa nelle casse dello zucchero e della marmellata fino a morirne. Gli americani, invece, ci portarono subito negli ospedali e ci curarono. Così sono tornata a vivere."
Tra la perdita del lavoro e quella della libertà e della vita, nel 1942 migliaia di ebrei furono sottoposti in Italia a una vessazione inutile: il lavoro obbligatorio. "Per tredici mesi fui mandato a spalare la sabbia sul greto del Tevere, a Ponte Vittorio" racconta Giuseppe Di Porto, che allora aveva diciannove anni. "Riuscii a trasferirmi a Genova, dove la pressione sugli ebrei era meno forte, ma nel dicembre 1943 fui arrestato con mio cugino e spedito in Polonia. Impiegammo cinque giorni per raggiungere, da Milano, il campo di Birkenau su un carro bestiame. Viaggiavamo in settanta in un vagone di trenta metri quadrati, ci davano da bere con un secchio, ci alternavamo alle grate per respirare. Quando arrivammo, le donne furono dirottate verso le camere a gas, noi verso i campi di lavoro."
"Quando mia sorella fu sbranata dai cani"
Birkenau era uno dei tre campi principali del complesso di Auschwitz. Era dotato di quattro camere a gas progettate per uccidere fino a 6000 persone al giorno. Secondo il Dizionario dell'Olocausto, a Birkenau morirono tra le 1.100.000 e 1.300.000 persone, per il 90 per cento ebrei. La costruzione di questo settore ad alta capacità omicida fu decisa nel 1943 per supplire alle modeste "prestazioni" degli altri due campi di Auschwitz: i nazisti non potevano accettare che l, al 31 dicembre 1942, fossero stati liquidati "soltanto" 175.000 ebrei, mentre negli altri campi ne erano stati gassati già 1.400.000.
"Dopo aver indossato l'abito a righe con la stella gialla" racconta Di Porto "venivamo sottoposti al tatuaggio del numero di matricola sul braccio. Il mio era 167988. Dovetti impararlo subito a memoria in tedesco, altrimenti erano calci e bastonate. Lavoravamo tutto il giorno al freddo e i nostri pasti non superavano le 1300 calorie giornaliere. La media di sopravvivenza dei miei compagni era di due mesi e mezzo. [L'altissimo numero di prigionieri morti di stenti fu un problema per i gestori di Auschwitz, che avevano bisogno di schiavi da far lavorare.] Ogni due settimane, la domenica, venivamo sottoposti alla disinfestazione e al pomeriggio venivamo chiamati ad assistere alla punizione dei prigionieri che avevano commesso errori. Il 18 gennaio 1945 fu ordinato l'abbandono del primo campo di Auschwitz: ci muovemmo in 15.000.1 più deboli, tra cui mio cugino, furono uccisi durante la marcia. Alla fine riuscii a scappare con un prigioniero slavo. Restammo quattro giorni nascosti in un bosco. A Glevitz, finalmente, incontrammo i russi. Eravamo salvi."
"Avevo quindici anni quando fui catturato" mi racconta Alberto Sed. "Ci eravamo nascosti in una cantina di Roma. Vennero all'alba e presero anche mia madre, tre sorelle, un cugino e il nonno. Andammo prima al campo di Fossoli, poi ad Auschwitz. Mia madre e una delle mie sorelle furono uccise subito dopo la selezione: non erano in grado di lavorare. Un'altra morì in condizioni atroci. Quando i tedeschi erano ubriachi, spesso si divertivano ad aizzare contro i prigionieri cani inferociti. Nella sezione femminile lo fecero anche con mia sorella, che fu sbranata sotto gli occhi dell'altra sorella. Quest'ultima sarebbe sopravvissuta con me, ma non ha mai avuto una vita normale. Pensava di essere ancora in quel campo, l'immagine della sorella sbranata dai cani restò per lei incancellabile. Io? Ho visto i tedeschi scommettere su qualsiasi cosa: facevano perfino il tiro a segno con i neonati. Cercai di sopravvivere alla bell'e meglio. Per divertirsi, i nazisti amavano vederci fare la boxe. A un certo punto cedetti anch'io, per fame: a chi combatteva davano mezza pagnotta. Incontrai un pugile professionista ungherese. Presi tante di quelle botte che alla fine i tedeschi mi regalarono anche una fetta di salame. A proposito di pugili, ad Auschwitz conobbi
Vincitori e vinti
un pugile ebreo di successo, Leone Efrati, detto Lelletto. Era tornato dall'America per incontrare la famiglia. Lo presero e morì nel campo. Quando il nostro campo fu chiuso, ci trasferirono altrove. Dopo tre giorni e tre notti di cammino, ci stiparono in un vagone. Molti morirono e vennero buttati giù dal treno. Restammo soltanto in sette."
Alberto Mieli sub la stessa trafila. Cattura a Roma (aveva diciotto anni), smistamento a Fossoli, trasferimento ad Auschwitz. "In un anno ho cambiato tre campi. Ho percorso 600 chilometri a piedi. Durante le marce, chi inciampava veniva finito con una raffica di mitra. Quando fummo liberati dagli americani, pesavo trenta chili." Tre chili in più di Mario Limentani, un veneziano trasferitosi a Roma, arrestato a vent'anni e deportato a Dachau, Mauthausen e in altri campi minori, anche qui dopo marce di 600 chilometri. (Limentani, ottantadue anni, pochi giorni prima delle elezioni regionali del 2005 rilasciò all'"Unità" un'intervista raccontando di essere stato a suo tempo picchiato nella Casa romana del Fascio da un fascista di nome Storace. Il giornale titolò accusando del gesto il padre dell'allora presidente della regione Lazio, Francesco Storace. Questi denunciò il falso e il direttore del quotidiano fu costretto a scusarsi pubblicamente.) "A Mauthausen, in Austria" racconta Limentani "il nostro lavoro di dodici ore al giorno consisteva nel trasportare sulle spalle massi da venticinque chili su una ripida scalinata. Bastava perdere l'equilibrio e si finiva in un burrone. Cadeva gente ogni giorno e morirono così centinaia e centinaia di prigionieri. Finito il lavoro, dovevamo recuperarne i cadaveri e consegnarli agli uomini dei forni crematori. Quando, dopo l'ultimo trasferimento, videro che ero esausto, mi mandarono nella baracca della morte. Gli americani arrivarono appena in tempo."
Quando vado a trovarlo nella sua casa di Trastevere, Limentani mi mostra il suo piccolo museo degli orrori nazisti. Mi ripete in tedesco il suo numero di matricola (42230), mi mostra le foto dei forni crematori per bambini e l'immagine di una donna ancora viva che è la più terribile tra le centinaia che conoscevo: non ha più carne addosso, la pelle è letteralmente attaccata alle ossa. Altra immagine che ignoravo: i nazisti usavano la pelle tatuata dei prigionieri per farne dei paralumi. Infine, la foto che lo ritrae accanto all'ufficiale americano che lo salvò. Poi rimette tutto in una cartellina e la chiude. "Sa, devo continuare a girare l'Italia. I giovani devono sapere..."
Dal processo a Pio XII all'assoluzione di Stalin
Farinacci: "Dobbiamo imparare dai gesuiti"
E la Chiesa? Come si comportò la Chiesa nei confronti degli ebrei? Per alcuni decenni, tra la fine dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, l'antisemitismo cattolico fu molto evidente. Secondo Renzo De Felice (Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo), esso fu in parte la risposta alla ventata anticlericale che si abbatté sulla Chiesa dopo la breccia di Porta Pia e l'unificazione nazionale, alla quale gli ebrei non fecero mancare il proprio sostegno. Leone XIII recuperò consensi sociali con l'enciclica Rerum Novarum (1891), incoraggiando di fatto l'impegno solidaristico dei cattolici in campo politico, ma sotto il suo pontificato la durezza della campagna antisemita promossa dalla "Civiltà Cattolica", autorevolissima rivista dei gesuiti, e da altri giornali cattolici raggiunse punte sorprendenti. Tanto che nel 1938, a proposito delle leggi razziali, Roberto Farinacci scrisse sul quotidiano "II Regime Fascista": "Confessiamolo: in questo dobbiamo imparare dalla preveggenza e dal rigore dei gesuiti".
Per l'occasione fu rispolverato dagli archivi un saggio di padre Raffaele Ballerini pubblicato nel 1890 su tre numeri della "Civiltà Cattolica", le cui conclusioni erano tremende: "Se non si rimettono gli ebrei al posto loro, con leggi umane e cristiane s, ma di eccezione, che tolgan loro l'eguaglianza civile a cui non hanno diritto... non si farà nulla o si farà ben poco". Il gesuita suggeriva "leggi tali che al tempo stesso impediscano agli ebrei di offendere il bene dei cristiani e ai cristiani di offendere quello degli ebrei". In un saggio pubblicato nel febbraio 2004 sulla rivista cattolica "Il Timone", Vittorio Messori fornisce la spiegazione storica a un atteggiamento così duro. Sostiene Ballerini: "Il giudaismo da secoli ha voltato le spalle alla legge mosaica, surrogandovi il Talmud, quinta essenza di quel fariseismo che in tante guise venne fulminato dalla riprovazione di Gesù il Cristo". (La Torah è la legge mosaica esposta nei primi cinque libri della Bibbia, mentre il Talmud è la sterminata raccolta della tradizione orale formatasi a Gerusalemme e a Babilonia tra il IV e il V secolo dopo Cristo.) Spiegata così, sembra una questione religiosa tutta interna al mondo ebraico ma, avverte Messori, il Talmud, oltre a riportare una serie di espressioni ingiuriose verso il Cristo ("l'impostore", "il falso messia"), afferma "la superiorità di Israele su ogni altro popolo annunciando per un futuro indefinito ma certo il trionfo mondiale dei figli circoncisi di Abramo, cui tutti gli altri finiranno per versare tributo e prestare omaggio".
L'allarme dei gesuiti, spiega Messori, era determinato da due fattori: una parte rilevante degli ebrei religiosi preferiva le inquietanti profezie del Talmud alle rassicuranti rivelazioni della Torah, mentre gli ebrei laici e secolarizzati, quando non erano massoni, ne condividevano l'anticattolicesimo militante. Di più, padre Ballerini all'unisono con protestanti e ortodossi "riporta una serie impressionante di citazioni talmudiche, secondo le quali i comportamenti immorali non solo sono permessi, ma sono mentori se danneggiano i popoli, soprattutto cristiani, tra i quali gli ebrei sono ospiti. E' vero, ad esempio, che mentre l'usura è vietata tra israeliti, non solo è permessa ma è raccomandata se è praticata a spese dei "gentili" [i non giudei]. Ed è vero anche che ... la prospettiva talmudica molto insiste sulla pretesa ebraica di costituire una razza superiore, eletta, destinata a sottomettere le altre, a utilizzarle, se necessario a umiliarle. Di qui, la paura, se non l'angoscia, cristiana di essere minacciati da una "quinta colonna" di nemici che, seppure in minoranza, agivano con lucidità implacabile e con arti spesso ingannevoli se non truffaldine per diventare padroni".
Dal processo a Pio XII all'assoluzione di Stalin
Sulla questione dell'usura "differenziata" tra ebrei e non ebrei, ho interpellato Amos Luzzatto, presidente delle Comunità ebraiche italiane. "La questione è molto complicata, ma in due parole si può riassumere così. Nella tradizione biblica, l'interesse eccessivo può essere applicato soltanto al residente. La ragione non ha motivi razziali ed è banalissima: come si fa a essere sicuri di poter esigere il debito da un cammelliere che attraversa la nostra terra? Nella tradizione postbiblica, in linea di massima l'usura non è consentita, a meno che non sia l'unico modo di guadagnarsi da campare." Per esempio? "Per lunghi periodi si prenda il tardo Medioevo o il periodo della Controriforma ai nostri artigiani era proibito iscriversi alle corporazioni delle arti e dei mestieri. In questo caso si poteva prestare il denaro a un tasso esoso anche da ebrei a ebrei. Ma sul punto ci sono disquisizioni a non finire..."
I gesuiti erano allarmatissimi all'idea che, alla fine dell'Ottocento, almeno la metà dei banchieri di Parigi, Londra, Amsterdam e New York fosse ebraica, e che "l'usura strangolasse i cristiani". Padre Ballerini non perdonava agli ebrei appena "liberati" dalla Rivoluzione francese di "aver messo insieme di colpo grandi ricchezze comprando a prezzo spesso vile i beni sequestrati alla Chiesa". Nel 1789 questi beni, espropriati senza indennizzo, furono stimati in 4 miliardi di franchi, la cui rendita serviva a mantenere 130.000 religiosi e a finanziare le opere di carità. "La Civiltà Cattolica" scrisse che lo stesso Stato francese "repubblicano e filosemita" calcolava che nel 1880 i Rothschild, celebre famiglia di banchieri ebrei, possedessero 4 miliardi (una cifra corrispondente al valore dell'intero patrimonio ecclesiastico durante l'Antico Regime) e, annota Messori citando la rivista dei gesuiti, "agli 80.000 ebrei, in maggioranza di origine straniera, facevano capo ben 90 miliardi, non certo frutto di libere elemosine, bens accumulati (l'opinione pubblica ne era sicura) con mezzi disonesti, come sembravano dimostrare anche gli scandali finanziari tra cui quello del canale di Panama e in Italia quello della Banca Romana e della speculazione edilizia a Roma che avevano rovinato i risparmiatori". Gli ebrei erano inoltre formidabili proprietari immobiliari in tutta Europa: un quarto del territorio ungherese e l'8O per cento della regione spagnola della Galizia erano sotto il loro controllo.
E Pio XI disse: "Siamo tutti semiti"
I cattolici temevano anche il potere politico degli ebrei. Nell'impero austroungarico gli ebrei erano il 4 per cento della popolazione e controllavano un terzo del Senato, eletto per censo, e c'era una forte rappresentanza ebraica anche nel Parlamento francese. "In Italia che conta 30 milioni di abitanti" scriveva padre Ballerini "invece di mezzo ebreo a rappresentare i nostri 50.000 giudei, se ne contano al Parlamento oltre una dozzina e una regione come il Veneto è rappresentata da deputati e senatori tutti israeliti, tranne uno."
Di qui la conclusione dei gesuiti: no alla confisca dei beni giudaici, no all'espulsione degli ebrei, ma, scrive Messori, "una legislazione di "legittima difesa", dunque, che non perseguiti, ma separi ... una segregazione dai cittadini come quella praticata per gli stranieri ostili".
La denuncia in chiave anticristiana del "pericolo giudaico" alleato della massoneria e del bolscevismo dopo la Rivoluzione russa del 1917 continuò anche sotto i pontefici successivi. Papa Ratti (Pio XI) fu eletto nel 1922, l'anno in cui il fascismo salì al potere, e nel 1924 le organizzazioni cattoliche denunciavano alla Società delle Nazioni l'influenza sionista sui Luoghi Santi di Palestina, chiedendo la tutela del "diritto inviolabile della Cristianità esposto alle ripetute indisturbate vessazioni delle luride accozzaglie giudaiche". David Kertzer (I papi contro gli ebrei) ricorda, peraltro, che nel 1928 il Sant'Uffizio aveva condannato l'antisemitismo e "La Civiltà Cattolica" aveva raccomandato di "combatterne gli eccessi" in nome dell'"equilibrio della carità e della giustizia". La Chiesa aveva sempre cercato di proteggere "anche i suoi nemici e persecutori più accaniti, quali sono gli ebrei". Purtroppo, scriveva il giornale, da quando agli ebrei era stata riconosciuta parità di
Dal processo a Pio XII all'assoluzione di Stalin
diritti con gli altri cittadini, essi erano riusciti a stabilire "la loro egemonia in molte parti della vita pubblica".
Nel marzo 1937, tuttavia, con l'enciclica Mit brennender Sorge (Con viva ansia) Pio XI assumeva una posizione rigidissima contro il razzismo nazista, pur senza citarlo espressamente. Quando il fascismo pubblicò il "manifesto della razza", all'inizio il papa ne fu molto contrariato, anche se il Vaticano riconobbe come non infondate le rimostranze del governo italiano per la campagna internazionale alimentata anche dalla lobby ebraica contro la nostra presenza in Etiopia. La Santa Sede chiese una modifica delle leggi razziali, ma, con il passare dei mesi, rimarcò progressivamente le differenze tra il razzismo nazista e quello fascista. Secondo De Felice, alla fine circoscrisse il proprio contrasto alla sola questione dei matrimoni degli ebrei convertiti, che voleva in ogni modo salvaguardare.
La Chiesa s'illuse che Mussolini si sarebbe limitato alla "separazione, senza persecuzione degli ebrei". E quando i fascisti ripescarono il saggio di padre Ballerini, "La Civiltà Cattolica" scrisse: "Non negheremo che la forma e lo stile del nostro padre Ballerini, più che la sostanza del pensiero, possa, dopo quasi cinquantanni, apparire di qualche acerbità, ora che la lotta, sia della massoneria come del giudaismo, sembrerà a molti mitigata, nella forma, almeno, se non nella sostanza. Ma checché sia di ciò, il difetto dello stile e della forma non attenua la forza del ragionamento né, quindi, il valore delle conclusioni nella loro sostanza". Insomma, come rileva Messori, ci fu un'esplicita riconferma.
Con le leggi razziali Mussolini violò il Concordato del 1929, ma la preoccupazione che il regime potesse avere un'involuzione anticlericale come sostiene De Felice, che cita documenti interni al fascismo frenò sensibilmente le proteste della Santa Sede. Nel maggio 1938 si ventilò l'ipotesi che, durante la sua visita a Roma, Hitler potesse essere ricevuto dal papa. Secondo lo storico Pietro Melograni (intervista all'agenzia "Il Velino", luglio 2005), Pio XI pose due condizioni: il dittatore avrebbe dovuto chiedere formalmente il colloquio e impegnarsi a cessare le persecuzioni contro i cattolici tedeschi. Hitler rifiutò e, per tutta risposta, all'arrivo del Fuhrer il papa si ritirò ostentatamente a Castel Gandolfo, dopo aver fatto chiudere perfino i Musei Vaticani.
Nell'autunno del 1938, pochi mesi prima di morire, Pio XI disse durante un'udienza a un gruppo di cattolici belgi: "L'antisemitismo è un movimento detestabile al quale noi, in quanto cristiani, non possiamo prendere parte". E aggiunse tra le lacrime: "L'antisemitismo è inammissibile. Noi siamo tutti spiritualmente semiti".
Melograni ricorda che nell'estate del 1938 il papa aveva incaricato un gesuita americano di redigere la prima stesura di un'enciclica contro il razzismo e l'antisemitismo (Humani generis unitas). La bozza fu trovata sul suo comodino al momento della morte, avvenuta all'alba del 10 febbraio 1939, vigilia del decimo anniversario del Concordato che dice ancora Melograni il papa avrebbe celebrato con parole di dura condanna del fascismo. Come "pura ipotesi", lo storico avanza il sospetto che Pio XI sia morto di morte violenta e chiama in causa uno dei suoi medici, Francesco Petacci, padre di Garetta, l'amante del Duce, il quale avrebbe "fatto misteriose iniezioni al pontefice quando questi morì".
Immediata la replica di Gian Maria Vian sul quotidiano cattolico "L'Avvenire" (9 luglio): "L'ipotesi, avanzata da decenni ma senza prove ... è però una leggenda. E nemmeno la pubblicazione parziale voluta nel 1959 da Giovanni XXIII di uno dei due discorsi previsti dal pontefice per la circostanza [l'anniversario dei Patti Lateranensi] è riuscita a smontarla". Il giornale ricorda che in nessuna delle loro memorie i segretari di Pio XI parlarono di un complotto fascista, che avrebbe dovuto comportare la complicità dei più stretti collaboratori del papa (Pacelli, Tardini e Montini). Inoltre, "tra i curanti di Pio XI ... Petacci non c'era, essendo solo un medico della mutua vaticana". Vian, tuttavia, ricorda il perfido commento di Mussolini quando apprese del decesso del papa: "Finalmente è morto quest'uomo dal collo rigido".
Pio XII: le ragioni di un silenzio
Pio XII salì al soglio pontificio nel 1939. Sull'atteggiamento da lui tenuto durante la guerra e nei confronti dello sterminio degli ebrei sono stati scritti centinaia di volumi, spesso in assoluta contraddizione tra loro. Ancora oggi, come vedremo, la polemica è vivissima, anche se sembra prevalere la tesi che le accuse mosse al papa per aver ignorato, o addirittura coperto, l'assassinio di milioni di ebrei sono sostanzialmente diffamatorie. Il nuovo pontefice fallì nel tentativo di evitare il conflitto, cercò di impedire l'invasione nazista della Polonia e si adoperò perché l'Italia non entrasse in guerra e, poi, perché Mussolini studiasse una pace separata. Nei documenti vaticani sulla seconda guerra mondiale, messi a disposizione nel 1964 da Paolo VI proprio perché cessasse la la campagna diffamatoria contro Pio XII, "non si trova nessuna traccia della pretesa parzialità filotedesca che egli avrebbe assorbito nel periodo trascorso nella nunziatura in Germania" (Pierre Blet, S.J., in "La Civiltà Cattolica", 21 marzo 1998). Eugenio Pacelli lasciò la nunziatura di Berlino nel 1929, mentre Hitler andò al potere quattro anni dopo: tra i due non c'è mai stata alcuna corrispondenza, come invece ha scritto qualcuno. Scoppiata la guerra, tentò di scongiurarne gli aspetti più tragici e odiosi le persecuzioni, innanzitutto attenendosi sempre alla via diplomatica, come testimoniò poco dopo la morte del Santo Padre uno dei suoi più stretti collaboratori alla segreteria di Stato, Domenico Tardini (Pio XII). La ragione? Sepolto il pontefice, "La Civiltà Cattolica" fece proprie le due ragioni fondamentali della pubblicistica che ha sempre difeso Pio XII: evitare di "incorrere nell'accusa di parzialità da parte di uno dei contendenti" (Pio XII si illuse fino all'ultimo di poter mediare per la pace) e "impedire che la sua parola scatenasse contro innocenti indifesi le rappresaglie del persecutore inasprito" (Fiorenzo Cavalli, II Vaticano e la guerra).
E' un fatto che, già tra l'estate e l'autunno del 1942, parecchie cancellerie informarono la Santa Sede dell'avvio di una persecuzione "senza pietà" contro gli ebrei, soprattutto in Polonia. Renato Moro (La Chiesa e lo sterminio degli ebrei) riferisce puntualmente tutti gli espliciti, allarmati segnali che in quel periodo piovvero sul Vaticano, ma aggiunge che non tutti erano favorevoli a un intervento pubblico del pontefice: "Anche il governo inglese sembrava preferire, come il papa, il silenzio, pensando che aiutasse di più gli ebrei". Dopo quella data, tuttavia, si fecero più forti le pressioni internazionali anche britanniche sul Santo Padre perché intervenisse.
Pio XII restò sempre convinto che atti concreti e diretti in favore delle vittime potessero essere molto più utili di una guerra frontale tra il Vaticano e Hitler. Testimoni autorevoli riferiscono che il papa fu tentato più di una volta di scomunicare il dittatore tedesco, ma che alla fine vi rinunciò per le ragioni insospettabilmente evocate da un suo avversario, Luigi Sturzo: "Né Napoleone, né Elisabetta regina d'Inghilterra cambiarono la loro politica dopo la scomunica. Temo che in risposta alla minaccia di scomunica, Hitler ucciderebbe il più grande numero possibile di ebrei. E nessuno potrebbe impedirgli di farlo".
Nel suo libro di memorie {Il Vaticano di Pio XII), Harold A. Tittmann, incaricato d'affari americano presso la Santa Sede in quegli anni terribili, assolve il pontefice: "Papa Pio non parlò mai pubblicamente durante il conflitto, e dunque non vi sono prove in base alle quali giudicare se questa fosse o meno la cosa giusta. Se avesse protestato, le vittime sarebbero state di più o di meno? ... Personalmente non posso fare a meno di pensare che il Santo Padre, non protestando ufficialmente, abbia scelto la via migliore e abbia salvato in tal modo molte vite__
Le autorità naziste si andavano rendendo conto, gradualmente, di essere destinate a perdere la guerra e l'effetto psicologico della disillusione avrebbe potuto assai facilmente spingerle a reagire alle pressioni esterne con violenza ancora maggiore".
A ogni denuncia, una "tremenda rappresaglia"
Tittmann ricorda un episodio che può aver indotto Pio XII alla prudenza. Nell'ottobre 1939 Radio Vaticana trasmise testimonianze di prima mano sulle atrocità perpetrate dai nazisti in Polonia. I vescovi polacchi, tuttavia, informarono subito Roma che a ogni trasmissione faceva seguito una "tremenda" rappresaglia ai danni delle popolazioni locali. Così lo stesso padre generale dei gesuiti, Wlodzimierz Ledchowski che pure era polacco , fu costretto a sospendere il programma radiofonico. Il papa, come racconta Antonio Spinosa (Pio XII, l'ultimo papa), aveva appena scritto di proprio pugno due fogli di protesta contro Hitler, quando venne a sapere che il Fùhrer aveva risposto a una condanna dei vescovi olandesi ordinando la deportazione e la liquidazione di 40.000 ebrei. Allora s'avvicinò a un fornello da cucina e, dinanzi alla sua potentissima assistente suor Pascalina, disse: "Li brucio. Se la protesta dei vescovi olandesi è costata la vita a 40.000 infelici, la mia ne condurrebbe a morte almeno 200.000".
L'accenno più diretto alle atrocità dei nazisti fu fatto da Pio XII nel messaggio natalizio del 1942 allorché parlò delle "centinaia di migliaia di persone le quali, senza veruna colpa propria, talora solo per ragione di nazionalità o di stirpe, sono destinate alla morte o ad un progressivo deperimento".
"Ho già dichiarato in tre messaggi radio natalizi consecutivi che i principi antireligiosi e totalitari sono iniqui. Questi sono i principi del nazismo, come vede anche un bambino", così il papa si sfogò con l'incaricato d'affari americano Tittmann. E quando questi obiettò che si trattava di parole troppo vaghe, Pio XII rispose di non poter fare altrimenti per due ragioni. In primo luogo, in Germania c'erano 40 milioni di cattolici: "Nella confusione e nella disperazione della sconfitta sarebbe solo umano che il popolo tedesco non riuscisse a distinguere fra i nazisti e la patria. Non posso rischiare di alienarmi un numero così elevato di fedeli". E citò le conseguenze patite dalla Chiesa in Germania dopo che Benedetto XV fu accusato di aver contribuito alla sconfitta del Kaiser nella prima guerra mondiale. "In secondo luogo" continuò "se denuncio i nazisti per nome devo per amore di giustizia fare la medesima cosa con i bolscevichi, che professano principi sorprendentemente simili; non vorreste sentirmi dire questo di un vostro alleato al cui fianco oggi combattete una lotta mortale."
Vincitori e vinti
Nell'autunno del 1940 l'ambasciatore polacco presso la Santa Sede, Kazimierz Papee, aveva infatti riferito che alla deportazione di 1 milione di lavoratori polacchi in Germania s'era affiancata la deportazione di 1,5 milioni nelle steppe dell'Asia centrale. Pio XII si offrì a Tittmann come mediatore per una pace anticipata, ma il presidente americano Roosevelt gli fece sapere che non avrebbe firmato alcun protocollo prima di aver annientato Hitler.
A metà del 1943 il papa, dilaniato dal tormento, esacerbò le penitenze personali. Carlo Falconi, vaticanista assai severo con il pontefice, ne cita (Il silenzio di Pio XII) questo sfogo a uno dei suoi collaboratori, don Pirro Scavizzi: "Dica a tutti, a quanti può, che il papa agonizza per loro e con loro! Dica che più volte aveva pensato di fulminare di scomuniche il nazismo, di denunciare al mondo civile la bestialità dello sterminio degli ebrei. Abbiamo udito minacce gravissime di ritorsione, non sulla nostra persona, ma sui poveri figli che si trovano sotto il dominio nazista. Ci sono giunte vivissime raccomandazioni per diversi tramiti perché la Santa Sede non assumesse un atteggiamento drastico. Dopo molte lagrime e molte preghiere, ho giudicato che una mia protesta, non solo non avrebbe giovato a nessuno, ma avrebbe suscitato le ire più feroci contro gli ebrei e moltiplicato gli atti di crudeltà perché sono indifesi. Forse la mia protesta solenne avrebbe procurato a me una lode del mondo civile, ma avrebbe procurato ai poveri ebrei la persecuzione anche più implacabile di quella che soffrono".
Secondo Ernst von Weizsacker, ambasciatore tedesco presso la Santa Sede dalla primavera del 1943, nemmeno la Croce Rossa internazionale aveva rivolto appelli pubblici a Hitler perché attenuasse la sua campagna antiebraica nel timore di rappresaglie ancor più pesanti. Questa sofferta decisione fu assunta alla fine di un animato dibattito interno a Ginevra, nonostante i nazisti avessero impedito agli ispettori della Cri l'accesso ai campi di internamento.
In un articolo sulla "Civiltà Cattolica" (418 agosto 1990) il gesuita Robert A. Graham ricorda che gli Alleati parlarono ripetutamente al papa dei massacri compiuti ai danni degli ebrei, ma nota che Pio XII non aveva documenti per provare un'eventuale accusa diretta contro Hitler e dunque si sarebbe esposto alla contestazione di essere manovrato dagli angloamericani. Inoltre, "quando si incontrarono a Mosca nell'ottobre del 1943, le tre maggiori Potenze Alleate pubblicarono una dichiarazione sulle atrocità, ma non dissero neppure una parola sulla situazione degli ebrei".
"Hitler mi arresta? Sarei solo il cardinal Pacelli"
La politica della Santa Sede non cambiò dopo l'8 settembre e l'occupazione tedesca di Roma. Hitler pensò di arrestare il pontefice e deportarlo in Germania, o nel Liechtenstein, per non farlo cadere nelle mani degli angloamericani che stavano avanzando da sud. "Non crediate che il Vaticano mi metta soggezione" disse il Fuhrer al comandante delle SS Karl Otto Wolff. "Lo invaderemo senza esitare. Io me ne infischio. Lì dentro si sono rifugiati i diplomatici di tutto il mondo. Che canaglie! Ma noi staneremo quell'intero branco di porci. Poi faremo sempre in tempo a presentare delle scuse."
Centinaia di dirigenti della Resistenza e l'intero vertice del Comitato di liberazione nazionale s'era rifugiato in Laterano: Nenni, Saragat, Bonomi, Meuccio Ruini, Segni, De Gasperi. In Vaticano, travestito da muratore, aveva dovuto rifugiarsi il 9 settembre 1943 anche il rabbino capo di Roma, Israel Zolli, di origine polacca, sostituito nelle funzioni da David Panzieri. (Zolli aveva visto giusto proponendo la chiusura della sinagoga di Roma e la distruzione degli archivi. Gli altri dirigenti della comunità ebraica che non furono d'accordo con lui patirono le tragiche conseguenze della loro decisione. A Zolli, tuttavia, non fu perdonata la fuga. Dopo la Liberazione non fu reintegrato nell'incarico, ebbe una crisi spirituale e si convertì al cattolicesimo, assumendo il nome di Eugenio in omaggio a Pacelli.)
Spinosa ricorda che nel dopoguerra Wolff si attribuì il merito di aver dissuaso Hitler dal folle disegno di deportare il papa e nel 1974 testimoniò presso l'arcivescovado di Monaco
Vincitori e vinti
nella causa di beatificazione di papa Pacelli. In ogni caso, Pio XII prese in seria considerazione l'ipotesi del martirio. A chi gli proponeva di abbandonare Roma rispose: "Non lascerò il Vaticano. Sono stato messo sul seggio di Pietro per volere di Dio, e non sarò io a scenderne! Sciolse i cardinali da qualunque vincolo di residenza, nel caso di invasione nazista, previde di dare le dimissioni in caso di arresto e disse ai suoi collaboratori: "Non prenderanno il papa, ma il cardinal Pacelli".
La tesi propugnata nel 1963 dal drammaturgo tedesco Rolf Hochhuth (Il Vicario), secondo la quale alla base dei silenzi di Pio XII ci furono la paura e una sostanziale condivisione della politica nazista, ha raccolto a suo tempo qualche consenso, ma oggi è quasi unanimemente respinta. Lo stesso De Felice annota: "II suo fermo atteggiamento generale non può autorizzare dubbi del genere". Lo storico condivide l'idea che il papa confidasse nella neutralità della Santa Sede per una possibile opera di mediazione e ricorda l'aiuto "notevolissimo e in misura sempre crescente" di quasi tutti gli istituti cattolici e di moltissimi sacerdoti agli ebrei braccati dai tedeschi dopo l'8 settembre, così come era avvenuto ovunque nei paesi occupati dai nazisti: dalla Francia alla Romania, dal Belgio all'Ungheria.