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Ora andate avanti...

Dov’è l’inizio?

Di inizi ce ne sono pochissimi. Certo, alcune cose sembrano avere un principio.

Il sipario si alza, una zampa muove un passo, si spara il primo colpo,1 ma quello non è l’inizio.

Il dramma, la caccia, la guerra, sono solo una piccola finestra su una catena di eventi che può risalire all’indietro per migliaia di anni. Il punto è che c’è sempre qualcosa prima. C’è sempre da Andare Avanti.

Gli umani hanno impiegato molto del loro ingegno nella ricerca del Prima definitivo.

Lo stato attuale della conoscenza può essere riassunto come segue:

In principio non c’era nulla e poi è esploso.

Altre teorie sull’inizio definitivo prevedono la presenza di dèi che creano l’universo da costole, viscere e testicoli dei loro padri.2 Di queste ce ne sono parecchie; sono interessanti, non tanto per quello che ci dicono sulla cosmologia, quanto per quello che ci dicono sulla gente. Ragazzi, secondo voi la vostra città da quale parte viene?

Ma questa storia inizia su Mondo Disco, che viaggia nello spazio sul dorso di quattro enormi elefanti che stanno sul guscio di una tartaruga gigantesca che non è fatta con pezzi di corpi altrui.

Ma quando è stato il principio?

Migliaia di anni fa? Quando una grande cascata bollente di pietre scese dal cielo con un urlo fece un buco sulla cima del Monte Testadirame e rase al suolo la foresta nel raggio di dieci miglia?

I nani le estrassero, perché erano fatte di una specie di ferro; e i nani, contrariamente all’opinione comune, amano il ferro più dell’oro. Il fatto è che, nonostante ce ne sia di più, è più difficile inventarci su delle canzoni. I nani amano il ferro e quelle pietre contenevano questo: l’amore per il ferro. Un amore così forte che attirava tutto il ferro verso di sé. I tre nani che trovarono la prima pietra riuscirono a liberarsi solo strisciando fuori dai pantaloni di cotta di maglia.

Molti mondi hanno un nucleo fatto di ferro. Ma Mondo Disco è privo di nucleo, come una frittella.

Sul Disco, se fai un incantesimo su un ago, quello punterà verso il Perno, dove il campo di magia è più forte. Semplice.

Altrove, su mondi progettati con meno fantasia, l’ago ruota per via dell’amore per il ferro.

All’epoca nani e umani avevano urgente bisogno dell’amore per il ferro.

Ora mandate avanti il tempo di un migliaio d’anni, fino a una cinquantina o più prima dell’irrequieto «ora», fino a una collina e a una giovane donna che corre. Non fugge da niente in particolare, né corre verso una meta specifica, ma è abbastanza veloce da tenere a distanza un giovanotto, anche se naturalmente non così a distanza da farlo desistere. Corrono fuori dal bosco e nella valle piena di giunchi, dove su un piccolo rialzo del terreno ci sono le pietre.

Sono alte all’incirca quanto un adulto e poco più grosse di un grassone.

E non sembrano niente di che. La fantasia suggerisce che se si vede un cerchio di pietre è meglio non avvicinarsi, e poi che devono esserci enormi e imponenti triliti e altari che gridano il ricordo tenebroso di sacrifici sanguinosi. Non degli stupidi sassi.

In seguito si scoprirà che stavolta la ragazza stava correndo un po’ troppo forte, e che in effetti il giovanotto che la inseguiva ridendo si sarebbe poi perso e, stufo, sarebbe tornato in città da solo. A questo punto lei ancora non lo sa, ma si aggiusta distrattamente i fiori tra i capelli. È un pomeriggio di quel tipo.

Lei sa delle pietre. Non che qualcuno ne parli mai. E a nessuno viene detto di non andarci, perché quelli che evitano di parlarne sanno quanto sia forte il fascino del divieto. Il fatto è che andare alle pietre non è una cosa... che si fa. Specie se sei una ragazza carina.

Ma qui non abbiamo una ragazza carina nel senso comune del termine. Tanto per cominciare non è bella. Ha la mascella forte e un naso aquilino che, con il vento a favore e la luce giusta, potrebbe essere definito bello da un bugiardo benevolo. Inoltre negli occhi ha quella certa luce tipica delle persone che hanno scoperto di essere più intelligenti della maggior parte dei loro simili, ma non hanno ancora capito che una delle cose più intelligenti che possano fare è impedire a detti simili di scoprirlo. Insieme al naso, questo le dà un’espressione penetrante che spiazza moltissimo. Non è una faccia con la quale si possa parlare. Apri la bocca e ti ritrovi improvvisamente sotto uno sguardo acuminato che dichiara: ‘sarà meglio per te che tu abbia qualcosa di interessante da dire’.

Ora le otto piccole pietre sulla loro collinetta si trovano sotto quegli occhi penetranti.

Mmmh.

Poi lei si avvicina cautamente. Non è la cautela di un coniglio pronto alla fuga. È più simile al movimento di un cacciatore.

Si mette le mani sui fianchi.

 

C’è un’allodola nel caldo cielo estivo. A parte quella, nemmeno un rumore. Giù nella valletta e sulle colline le cavallette friniscono e le api ronzano e l’erba brulica di micro-frastuono. Ma intorno alle pietre c’è sempre silenzio.

«Sono qui» dice. «Fammi vedere».

All’interno del cerchio compare una donna dai capelli scuri, con un abito rosso. Il cerchio è largo appena un tiro di sasso, ma in qualche modo la donna pare avvicinarsi da molto lontano.

Altri sarebbero fuggiti. Ma la ragazza non scappa e la donna nel cerchio è subito incuriosita.

«Quindi sei vera».

«Certo. Come ti chiami, ragazza?»

«Esmerelda».

«E che cosa vuoi?»

«Non voglio niente».

«Tutti vogliono qualcosa. Altrimenti perché saresti qui?»

«Volevo vedere se eri vera».

«Per te lo sono di sicuro... hai una buona vista». La ragazza annuisce. È talmente orgogliosa che cresce di dieci centimetri.

«E ora che l’hai scoperto» dice la donna nel cerchio, «cos’è che vuoi davvero?»

«Niente».

«Sul serio? La settimana scorsa sei andata fin sulle montagne sopra Testadirame per parlare con i troll. Che cosa volevi?»

La ragazza inclina la testa di lato.

«Come lo sai?»

«È in cima ai tuoi pensieri, ragazza. Chiunque lo vedrebbe. Chiunque abbia... una buona vista».

«Un giorno ci riuscirò anch’io» replica la ragazza compiaciuta.

«Chi lo sa? Forse sì. Che cosa volevi dai troll?»

«Volevo... parlare con loro. Lo sai che credono che il tempo vada al contrario? Perché dicono che il passato si può vedere e...»

La donna nel cerchio ride.

«Ma sono come quegli stupidi nani! I sassolini sono l’unica cosa che interessa loro. E non c’è niente di interessante in un sassolino».

La ragazza scrollò appena le spalle, come a dire che invece i sassolini possono avere aspetti di notevole interesse.

«Perché non esci da quelle pietre?»

Ha la netta impressione di aver fatto la domanda sbagliata. La donna la ignora con cura.

«Posso aiutarti a trovare molto più che dei sassolini».

«Non puoi uscire, non è vero?»

«Permettimi di darti quello che vuoi».

«Io posso andare dove mi pare, ma tu sei bloccata in quel cerchio» dice la ragazza.

«Puoi andare dove ti pare?»

«Quando sarò una strega potrò andare ovunque».

«Ma non sarai mai una strega».

«Cosa?»

«Dicono che non ascolti. Dicono che non riesci a controllare la rabbia. Dicono che non hai disciplina».

La ragazza getta indietro i capelli. «Oh, sai anche questo, eh? Dicono così, allora? Ma io intendo diventare una strega, non m’importa quello che dicono. Le cose le puoi scoprire anche da sola, non c’è bisogno di stare a sentire delle vecchie mezze sceme che non hanno mai visto il mondo. E te lo dico io, signora nel cerchio, che sarò la strega migliore che si sia mai vista».

«Penso che tu possa diventarlo, con il mio aiuto» dice la donna nel cerchio. «Credo che il tuo giovanotto ti stia cercando» aggiunge in tono più dolce.

Un’altra scrollatina di spalle, come a dire che il giovanotto può cercare anche tutto il giorno.

«Lo diventerò, vero?»

«Potresti essere una grande strega. O qualsiasi cosa, qualsiasi cosa tu voglia. Entra nel cerchio. Ti farò vedere».

La ragazza fa qualche passo avanti, poi esita. C’è qualcosa nel tono di quella donna. Il sorriso è cordiale e amichevole, ma c’è qualcosa di troppo disperato, troppo pressante, troppo famelico nella sua voce.

«Ma sto imparando molto...»

«Entra nel cerchio, subito!»

La ragazza esita ancora.

«Come faccio a sapere...»

«Il tempo è quasi scaduto! Pensa a cosa potresti imparare!»

«Ma...»

«Entra!»

Ma questo è stato molto tempo fa, nel passato.3 E oltretutto quella stronza è...

... vecchia.

 

Una terra di ghiaccio...

Non è l’inverno, perché quello presuppone l’autunno e magari, un giorno, la primavera. Questa è una terra di ghiaccio, non solo una stagione fredda.

Tre figure a cavallo guardano un cerchio di otto pietre, ai piedi di un pendio coperto di neve. Da questo lato le pietre sembrano molto più grandi.

Bisognava guardarle per un po’, quelle figure, prima di capire che cosa c’era di strano in loro: a parte i vestiti, s’intende.

Il respiro caldo dei cavalli restava ad aleggiare nell’aria gelida. Quello dei cavalieri no.

«E stavolta» disse la figura al centro, una donna in rosso, «non ci saranno sconfitte. La terra ci darà il benvenuto. Ormai deve odiarli, gli umani».

«Ma c’erano delle streghe» disse uno degli altri cavalieri. «Mi ricordo delle streghe».

«Un tempo, sì» disse la donna. «Ma ora... poverine, poverine. Non avevano quasi alcun potere. Ed erano suggestionabili. Menti malleabili. Sono stata in giro, miei cari. Di notte. Conosco le streghe che hanno adesso. A loro ci penso io».

«Mi ricordo delle streghe» insisté il terzo cavaliere. «Menti simili... al metallo».

«Non più. Ve l’ho detto, ci penso io». La Regina sorrise benevola al cerchio di pietre.

«E poi saranno vostre» disse. «Quanto a me, mi piacerebbe un marito mortale. Uno speciale, un’unione di mondi. Per dimostrare che stavolta non ce ne andremo».

«Il Re non sarà contento».

«E da quando la cosa ha importanza?»

«Non ne ha, signora».

«È il momento giusto, Lankin. I cerchi si stanno aprendo. Presto potremo tornare».

Il secondo cavaliere si appoggiò al pomello della sella.

«E andrò di nuovo a caccia» disse. «Quando? Quando?»

«Presto» disse la Regina. «Presto».

 

Era una notte buia, quel buio che non è spiegabile semplicemente con l’assenza di luna o stelle, un’oscurità che sembra fluire da altrove, così densa e tangibile che potresti prendere una manciata di aria e spremerne la notte.

Era il tipo di oscurità che spinge le pecore a saltare i recinti e i cani a nascondersi nelle tane. Eppure il vento era caldo, e non tanto forte quanto rumoroso: ululava nelle foreste e gemeva nei camini.

In notti come questa le persone normali si tirerebbero le coperte fin sopra la testa, intuendo che qualche volta il mondo appartiene a qualcos’altro. Il mattino dopo tutto sarebbe tornato umano: rami abbattuti, qualche tegola caduta dal tetto, ma umano. Per ora... meglio rintanarsi...

Ma qualcuno era sveglio.

Jason Ogg, mastro maniscalco e fabbro, azionò un paio di volte i mantici della sua fucina, tanto per far bella figura, e sedette di nuovo sull’incudine. Faceva sempre caldo nella fucina, anche con il vento che fischiava nelle grondaie.

Poteva ferrare qualsiasi cosa, Jason Ogg. Una volta per scherzo gli avevano portato una formica, e lui era rimasto sveglio tutta la notte a lavorare con una lente d’ingrandimento e un’incudine fatta con la capocchia di uno spillo. La formica era ancora in giro da qualche parte, a volte la sentiva ticchettare sul pavimento.

Ma stanotte... ecco, stanotte in un certo senso avrebbe pagato l’affitto. Naturalmente la fucina era sua, tramandata da generazioni. Ma in una fucina non c’erano solo mattoni, calce e ferro. Non avrebbe saputo dargli un nome, ma c’era qualcos’altro. Era la differenza tra essere un mastro maniscalco e uno che si limitava a guadagnarsi da vivere piegando il ferro in modi strani. E c’entrava il ferro, e qualcosa che gli permetteva di essere molto bravo nel suo lavoro. Una specie di affitto.

Un giorno suo padre l’aveva preso da parte e gli aveva spiegato che cosa doveva fare in notti come questa.

Ci sarebbero state delle volte, gli disse, delle volte (e lui avrebbe saputo quando, senza che nessuno glielo dicesse) in cui sarebbe venuto qualcuno a ferrare il cavallo. Accoglilo. Ferra il cavallo. Non farti domande. E cerca di non pensare a nient’altro che non siano i ferri di cavallo.

Ormai ci era abituato.

Il vento si alzò, e da qualche parte si sentì lo scricchiolio di un albero che cadeva.

La maniglia girò.

Poi ci fu un colpo alla porta. Seguito da un altro.

Jason Ogg prese la benda e se la mise sugli occhi. Suo padre gli aveva detto che era importante. Gli impediva di distrarsi.

Aprì la porta.

«Buonasera, signore» disse.

CHE NOTTE PAZZESCA.

Sentì l’odore del cavallo bagnato che entrava nella fucina, con gli zoccoli che battevano sul pavimento.

«Il tè è sul fuoco e la nostra Dreen ha fatto dei biscotti. Sono nel barattolo con la scritta ‘Ricordo di Ankh-Morpork’».

GRAZIE. CONFIDO CHE STIA BENE.

«Sì, signore. Ho già preparato i ferri, non la tratterrò a lungo. So che... è molto occupato, ecco».

Sentì il clic-clic dei passi verso la vecchia sedia di cucina riservata ai clienti, o quantomeno ai proprietari dei clienti.

Jason aveva messo gli attrezzi, i ferri e i chiodi a portata di mano sul banco accanto all’incudine. Si pulì le mani sul grembiule. Prese una lima e si mise al lavoro. Non gli piaceva ferrare a freddo, ma faceva il maniscalco da quando aveva dieci anni. Lo sentiva al tatto. Impugnò la raspa.

Doveva ammetterlo, quello era il cavallo più ubbidiente che avesse mai ferrato. Peccato non averlo mai visto. Un buon cavallo, certamente...

Suo padre gli aveva detto: ‘Non provare a sbirciare’.

Sentì il gorgoglio della teiera, il tintinnio del cucchiaino nella tazza e poi sul piattino.

Mai un rumore, aveva detto suo padre. A parte quando parla o cammina, non gli sentirai mai fare un rumore. Né uno schiocco di labbra né niente.

Nemmeno un respiro.

Oh, e un’altra cosa. Quando togli i ferri vecchi, non buttarli nell’angolo per fonderli con tutto il resto. Tienili separati. Fondili da soli. Tieni un recipiente solo per quelli, e usa solo quel metallo per farne di nuovi. Qualsiasi cosa tu faccia, non mettere quel ferro su un altro essere vivente.

In effetti Jason aveva conservato un set di ferri vecchi per le gare di lancio nelle fiere di paese e quando li aveva usati non aveva mai perso. Vinceva talmente spesso che la cosa lo rendeva nervoso, e ora quei ferri se ne stavano perlopiù appesi a un chiodo dietro la porta.

A volte il vento faceva tremare una finestra, o scoppiettare i carboni. Una serie di tonfi e uno starnazzo un po’ più in là suggerirono che il pollaio in fondo al giardino si era congedato dal suolo.

Il padrone del cliente si versò un’altra tazza di tè.

Jason finì uno zoccolo e lasciò andare la zampa. Poi tese la mano. Il cavallo spostò il proprio peso e sollevò l’ultimo zoccolo.

Di cavalli così ce n’era uno su un milione. Anche più di un milione.

A un certo punto aveva finito. Che strano. Non sembrava mai che ci volesse molto. Jason non sapeva che farsene di un orologio, ma sospettava che un lavoro che richiedeva quasi un’ora potesse essere concluso contemporaneamente in pochi minuti.

«Ecco» disse. «Finito».

GRAZIE. DEVO DIRE CHE QUESTI BISCOTTI SONO ECCELLENTI. COME FANNO A METTERCI DENTRO I PEZZETTI DI CIOCCOLATO?

«Non lo so, signore» disse Jason, fissando intensamente l’interno della benda.

INSOMMA, IL CIOCCOLATO DOVREBBE SCIOGLIERSI QUANDO LI CUOCIONO. COME PENSA CHE FACCIANO?

«Probabilmente è un segreto artigianale» disse Jason. «Non faccio mai domande del genere».

LEI È UN BRAV’UOMO. MOLTO SAGGIO. DEVO...

Doveva chiedere, se non altro perché così avrebbe sempre saputo di aver almeno chiesto.

«Signore?»

SÌ, SIGNOR OGG?

Jason si leccò le labbra.

«Se mi... togliessi la benda, cosa vedrei?»

Ecco. L’aveva fatto.

Un ticchettio sul pavimento di pietra e uno spostamento d’aria avvertirono Jason che ora il suo interlocutore era davanti a lui.

LEI È UN UOMO DI FEDE, SIGNOR OGG?

Jason ci pensò su rapidamente. A Lancre non ci si interessava granché di religione. C’erano i Dubbiosi Del Nono Giorno, gli Offliani Stretti e svariati altari dedicati a dèi poco importanti, più lontano, in mezzo alle radure. Lui non ne aveva mai sentito la necessità, proprio come i nani. Il ferro era ferro e il fuoco era fuoco: se cominciavi a fare il metafisico finivi per dover grattare via il tuo pollice da sotto il martello.

IN COSA HA FEDE IN QUESTO MOMENTO?

‘È qui davanti’ pensò Jason. ‘Potrei allungare la mano e toccarlo...’

C’era un odore. Non sgradevole. Quasi percettibile, in effetti. Era l’odore dell’aria nelle vecchie stanze dimenticate. Se i secoli avessero un odore, quello sarebbe l’odore dei secoli passati.

SIGNOR OGG?

Jason deglutì.

«Ecco, signore» disse, «in questo momento... ho molta fede in questa benda».

BRAV’UOMO. LEI È UN BRAV’UOMO. ORA... DEVO ANDARE.

Jason sentì il catenaccio che veniva sollevato. La porta, spinta dal vento, sbatté all’indietro con un tonfo; poi ci fu il rumore degli zoccoli sul selciato.

COME AL SOLITO, HA FATTO UN LAVORO SUPERBO.

«Grazie, signore».

LO DICO DA ARTIGIANO.

«Grazie, signore».

CI RIVEDREMO.

«Sì, signore».

LA PROSSIMA VOLTA CHE IL MIO CAVALLO AVRÀ BISOGNO DI ESSERE FERRATO.

«Certo, signore».

Jason chiuse la porta e mise il paletto, anche se pensandoci bene probabilmente non aveva senso.

Ma quello era il patto: tu ferravi qualsiasi cosa ti portassero, qualsiasi, e in cambio tu riuscivi a ferrare qualsiasi cosa. C’era sempre stato un maniscalco a Lancre, e lo sapevano tutti che il maniscalco di Lancre era molto potente.

Era un patto antico, e aveva a che fare con il ferro.

 

Il vento diminuì. Ora era un sussurro sugli orizzonti e il sole stava sorgendo.

Questa era la terra dell’erba ottarina. Buon terreno agricolo, specialmente per il grano.

Eccone un campo, che si agitava dolcemente tra le siepi. Non era un campo grande, e non aveva niente di particolare. Era solo un campo con del grano, tranne naturalmente in inverno, quando c’erano solo piccioni e corvi.

Il vento cessò.

Le spighe ondeggiavano ancora. Non erano le normali onde causate dal vento. Venivano dal centro del campo, come se qualcuno vi avesse lanciato una pietra.

L’aria sfrigolava e risuonava di un furioso ronzio.

Poi, al centro del campo, le giovani spighe si piegarono con un fruscio.

In un cerchio.

Il cielo pullulava di api che ronzavano con rabbia.

 

Mancavano poche settimane al giorno di mezza estate. Il regno di Lancre sonnecchiava nella calura che baluginava sulla foresta e sui campi.

In cielo apparvero tre punti.

Dopo un po’ fu possibile identificarli come tre figure femminili a cavallo di tre scope, con uno stile di volo che ricordava quello delle famose tre anatre di gesso.

Osservatele da vicino.

La prima, chiamiamola il capo, vola seduta con la schiena dritta, uscendo apparentemente vincitrice da una sfida con la resistenza dell’aria. Potreste definire il suo aspetto singolare, o perfino avvenente; ma non potreste considerarla ‘bella’, a meno che non vogliate vedervi crescere il naso di un metro.

La seconda è bassa e grassa, con le gambe arcuate, la faccia come una mela lasciata lì troppo a lungo e un’espressione di benevolenza quasi terminale. Suona il banjo e canta (uso quest’espressione finché non me ne viene una migliore). La canzone parla di un porcospino.

A differenza della scopa della prima, più o meno sgombra a parte un paio di sacchi, questa è sovraccarica di cose tipo due asinelli di peluche viola, cavatappi a forma di bambini che fanno pipì, bottiglie di vino in cestini di paglia e altri souvenir internazionali. In mezzo a tutta quella roba è acciambellato il gatto più puzzolente e malvagio del mondo, e al momento dorme.

La terza, e decisamente ultima delle scope, è occupata dalla più giovane. A differenza delle altre due, vestite di nero come corvi, indossa abiti allegri e colorati che non le stanno bene, come probabilmente non le stavano bene dieci anni fa. Ha sul viso un’aria vaga, gentile e speranzosa. Ha dei fiori nei capelli, ma stanno leggermente appassendo, come lei.

Le tre streghe superano i confini di Lancre, il regno, e in breve sorvolano la città. Iniziano la discesa sulle brughiere oltre la città, per atterrare poi accanto a una pietra che segna i confini del loro territorio.

Sono tornate.

E tutto va di nuovo per il verso giusto.

Per circa cinque minuti.

 

Nel gabinetto esterno c’era un tasso.

Nonna Weatherwax lo pungolò con il manico della scopa finché quello non capì l’antifona e se ne andò con passo pesante. Poi prese la chiave appesa al gancio, accanto alla copia dell’Almanacco e Libro de’ Giorni dell’anno precedente, e tornò sul vialetto che portava al suo cottage.

Era stata via per tutto l’inverno! Ci sarebbe stato parecchio da fare. Andare a riprendere le capre dal signor Skindle, cacciare i ragni dal camino, le rane dal pozzo e in genere tornare a impicciarsi dei fatti di tutti per conto di tutti, perché non si sa mai cosa si mette in testa la gente senza una strega nelle vicinanze...

Ma poteva permettersela, un’oretta con i piedi all’aria.

C’era anche un nido di pettirosso nel bollitore. Gli uccelli erano entrati dal vetro rotto di una finestra. Portò fuori il bollitore con ogni cautela e lo mise sopra la porta per proteggerlo dalle donnole; poi mise a bollire un po’ d’acqua in un pentolino.

Infine caricò l’orologio. Alle streghe non servivano granché gli orologi, ma quello lo teneva per il ticchettio... be’, soprattutto per quello. Dava alla casa un’aria vissuta. Era stato di sua madre, che lo caricava ogni giorno.

La morte di sua madre non era stata una sorpresa, prima di tutto perché Esme Weatherwax era una strega e le streghe vedevano il futuro; e poi perché aveva già una certa esperienza di medicina e riconosceva i segnali. Perciò aveva avuto modo di prepararsi e non aveva pianto fino al giorno dopo, quando l’orologio si era fermato nel bel mezzo del pranzo funebre. Aveva fatto cadere un vassoio di panini al prosciutto ed era andata a sedersi nel gabinetto per un po’, perché nessuno la vedesse.

Ora era il momento giusto per pensare a quelle cose. Per pensare al passato...

L’orologio ticchettava. L’acqua bolliva. Nonna Weatherwax prese una bustina di tè dall’esiguo bagaglio sulla scopa e sciacquò la teiera.

Il fuoco si assestò. L’aria umida e appiccicosa di una casa rimasta vuota per mesi si stava gradualmente dissipando. Le ombre si allungarono.

Ora di pensare al passato. Le streghe vedono il futuro. I fatti di cui presto avrebbe dovuto impicciarsi sarebbero stati i suoi...

Poi guardò fuori dalla finestra.

 

Tata Ogg salì cautamente su uno sgabello e passò un dito sul cassettone, poi lo esaminò. Era immacolato.

«Mmmmh» disse. «Mi sembra moderatamente pulito».

Le nuore rabbrividirono di sollievo.

«Finora» disse Tata.

Le tre ragazze si strinsero l’una all’altra in un muto terrore.

Il rapporto con le nuore era l’unica macchia nel carattere altrimenti affabile di Tata Ogg. Con i generi era diverso: ricordava i loro nomi e perfino i compleanni, e loro erano entrati a far parte della famiglia come pulcini troppo cresciuti sotto le ali di una chioccia. E i nipoti erano tutti dei tesori. Ma qualsiasi donna così incauta da sposare un maschio Ogg si doveva rassegnare a una vita di torture mentali e oscura servitù domestica.

Tata Ogg non sbrigava mai le faccende domestiche, ma era la causa stessa delle faccende.

Scese dallo sgabello e sorrise, raggiante.

«Avete tenuto bene la casa» disse. «Ben fatto».

Il sorriso svanì.

«Sotto il letto della stanza degli ospiti» aggiunse. «Lì non ho ancora guardato, giusto?»

L’Inquisizione avrebbe licenziato Tata Ogg per eccesso di cattiveria.

In quel momento entrarono altri familiari e lei si voltò, con il viso contorto nel sorriso appannato con cui accoglieva sempre i suoi nipoti.

Jason Ogg spinse avanti il più piccolo. Pewsey Ogg aveva quattro anni e qualcosa in mano.

«Che cos’hai lì?» disse Tata. «Fai vedere alla nonna».

Pewsey sollevò l’oggetto.

«Oh, cielo, sei stato...»

Successe proprio lì, in quel momento, sotto i suoi occhi.

 

* * *

 

E poi c’era Magrat.

Era stata via otto mesi.

Ora sentiva avvicinarsi il panico. Tecnicamente era fidanzata con il re Verence II. Ecco... non proprio fidanzata. Era quasi certa che per un tacito accordo il fidanzamento fosse un’opzione possibile. In effetti lei aveva continuato a dire al sovrano di essere uno spirito libero, che non voleva legami di alcun genere, e naturalmente era vero, più o meno, ma... ma...

Ma... ecco... otto mesi. In otto mesi poteva essere successa qualsiasi cosa. Lei sarebbe dovuta tornare direttamente da Genua, ma le altre due si stavano divertendo.

Spolverò lo specchio e si esaminò con occhio critico. Non che ci fosse molto da fare, in realtà. Qualsiasi cosa facesse ai capelli, dopo circa tre minuti tornavano a ingarbugliarsi come un tubo di gomma da giardino lasciato in un capanno.4 Si era comprata un abito verde nuovo, ma quello che sul manichino di gesso era sembrato bello ed entusiasmante addosso a lei pareva un ombrello piegato.

Invece Verence regnava su Lancre da otto mesi. Certo, Lancre era così piccolo che per sdraiarti ti ci voleva il passaporto, ma lui era un re autentico, e i re autentici tendevano ad attrarre giovani donne in cerca di una carriera nel settore delle regine.

Magrat fece del suo meglio con l’abito e si passò una spazzola vendicativa tra i capelli.

Poi andò al castello.

Il turno di guardia al castello di Lancre era appannaggio di chi in quel momento non aveva molto altro da fare. Di guardia oggi c’era Shawn, il figlio minore di Tata Ogg, con una cotta di maglia che non gli donava affatto. Mise insieme tutta la concentrazione possibile quando Magrat gli trotterellò davanti, poi lasciò cadere la picca e le corse dietro.

«Signorina, può rallentare un po’?»

La superò, corse su per le scale fino alla porta, prese una tromba appesa a un chiodo con un pezzetto di spago e suonò un’approssimativa fanfara. Poi s’impanicò di nuovo.

«Aspetti lì, signorina, proprio lì... conti fino a cinque e poi bussi» disse, entrò in fretta e si chiuse di schianto la porta alle spalle.

Magrat aspettò e poi mosse il batacchio.

Dopo qualche secondo Shawn aprì la porta. Era paonazzo e portava sulla testa una parrucca incipriata, al contrario.

«Sssssììììì?» biascicò, cercando di assumere l’aria di un maggiordomo.

«Hai ancora l’elmo sotto la parrucca» notò Magrat premurosa.

Shawn guardò in alto, abbattuto.

«Sono tutti alla fienagione?» disse Magrat.

Lui sollevò la parrucca, si tolse l’elmo e si rimise la parrucca. Poi, senza pensarci, si rimise l’elmo sulla parrucca.

«Sì. E il maggiordomo, il signor Spriggins, è di nuovo a letto con il suo problema» disse. «Ci sono solo io, signorina. E devo pure preparare la cena prima di andare via perché la signora Scorbic sta poco bene».

«Non c’è bisogno che mi accompagni» disse Magrat. «Conosco la strada».

«No, le cose vanno fatte per bene» disse Shawn. «Lei si muova con calma e lasci fare a me».

Corse avanti e aprì una porta a due battenti.

«La signoriiiina Magraaaaat Garrrrrrlick!» e si precipitò verso le porte successive.

Al terzo paio di porte era senza fiato, ma fece del suo meglio.

«Laaa... signoriiiinaaa... Magraaaat... Garrrlick... Sua Maeeeeestàààà il re... Oh capperi, dov’è andato?»

La sala del trono era vuota.

Alla fine trovarono Verence II, re di Lancre, nel cortile delle stalle.

Certi nascono re. Altri ci arrivano, o quantomeno diventano Arci-Generalissimi-Padri-della-Patria. Ma a Verence la sovranità era stata tirata addosso. Non era stato educato per quello, era arrivato al trono solo per via di uno di quei pasticci complicati di fratellanze e parentele fin troppo comuni nelle famiglie reali.

Lui in realtà era stato educato per diventare giullare, un uomo il cui compito era saltellare, raccontare barzellette e farsi mettere la senape nei pantaloni. Questo naturalmente gli aveva conferito un approccio serio e solenne verso la vita, e una cupa determinazione a non ridere mai di nulla, specialmente in presenza della senape.

Come re aveva iniziato con il beneficio dell’ignoranza. Nessuno gli aveva mai spiegato come regnare, perciò aveva dovuto scoprirlo da solo. Aveva mandato a prendere dei libri sull’argomento: Verence credeva fermamente nell’utilità della conoscenza che viene dai libri.

Aveva maturato la bizzarra convinzione che il compito di un re fosse rendere il regno un posto migliore per tutti.

Ora stava esaminando un apparecchio complicato. Aveva due stanghe per un cavallo, e il resto assomigliava a una carrettata di mulini a vento.

Alzò la testa e sorrise, distratto.

«Oh, ciao» disse. «Sei tornata sana e salva?»

«Ehm» cominciò Magrat.

«È un girafieno brevettato» disse Verence, battendo sulla macchina. «Appena arrivato da Ankh-Morpork. È il futuro, vedi. Mi sto interessando molto dello sviluppo dell’agricoltura e dell’efficienza del suolo. Dobbiamo lavorarci sul serio, su questo nuovo sistema dei tre campi».

Magrat fu colta alla sprovvista.

«Ma credo che ne abbiamo solo tre, di campi» disse, «e non c’è molto terreno in...»

«È molto importante mantenere un rapporto corretto tra cereali, legumi e tuberi» spiegò Verence, alzando la voce. «E sto anche pensando seriamente al trifoglio. Mi interesserebbe molto sapere cosa ne pensi!»

«Ehm...»

«E credo che dovremmo fare qualcosa per i maiali!» gridò Verence. «La Cinta di Lancre! È molto robusta, ma potremmo aumentare la taglia! Con degli incroci mirati! Per esempio con il Maiale di Sto! Mi sono fatto mandare un verro... Shawn, la pianti di suonare la tromba?»

Shawn abbassò lo strumento.

«Stavo facendo una fanfara, maestà».

«Sì, ma non devi andare avanti all’infinito. Qualche nota è sufficiente». Verence tirò su col naso. «E c’è qualcosa che sta bruciando».

«Oh, porc... sono le carote...» Shawn corse via.

«Così va meglio» disse Verence. «Dove eravamo rimasti?»

«Ai maiali, mi pare» disse Magrat, «ma in realtà sono venuta per...»

«Dipende tutto dal terreno» disse Verence. «Prepara bene il terreno e tutto il resto viene da sé. Tra parentesi, ho fissato il matrimonio per il giorno di mezza estate. Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere».

La bocca di Magrat si trasformò in una O.

«Ovviamente possiamo spostare la data, ma non molto per via del raccolto» disse Verence.

«Ho già mandato alcuni inviti, agli invitati sicuri» disse Verence.

«E ho pensato che prima sarebbe carino organizzare una fiera o un festival» disse Verence.

«Ho chiesto a Boggi di Ankh-Morpork di mandare il loro sarto migliore con un assortimento di stoffe; una delle cameriere ha la tua taglia e credo che il risultato ti piacerà molto» disse Verence.

«E il nano, il signor Ironfoundersson, è sceso dalla montagna apposta per fare la corona» disse Verence.

«E mio fratello e gli uomini del signor Vittoller non possono venire perché a quanto pare sono in tournée a Klatch, ma Hwel il drammivendolo ha scritto una commedia apposta per le nozze. Una cosa che nemmeno i villici possono rovinare, dice lui» disse Verence.

«Allora è tutto a posto?» chiese Verence.

Finalmente la voce di Magrat riemerse da qualche remoto apogeo, leggermente roca.

«Ma non avresti dovuto chiedermelo?» domandò.

«Che? Ah. In realtà no» disse Verence. «No. I re non chiedono. Ho controllato. Io sono il re, e tu, senza offesa, sei una suddita. Non devo chiedere».

Magrat aprì bocca per urlare dalla rabbia, ma all’ultimo momento il suo cervello entrò in funzione. Certo, le disse, puoi urlargli addosso e andartene. E lui probabilmente ti inseguirà. È molto probabile.

Ehm.

Forse non tanto. Perché sarà pure un simpatico ometto dagli occhi gentili e umidi, ma è anche un re e ha fatto i compiti.

Ma è probabile, sì, è probabile.

Ma...

Vuoi continuare a scommettere per il resto della vita? Non era questo che volevi, comunque? Non è quello che speravi venendo qui? Davvero?

Verence la guardava con una certa preoccupazione.

«È per via della stregoneria?» disse. «Non devi abbandonarla del tutto, ovviamente. Io ho un grande rispetto per le streghe. Puoi essere una strega regina, anche se credo che implichi portare vestiti scollacciati, tenere dei gatti e dare in giro mele avvelenate. L’ho letto da qualche parte. La stregoneria è un problema, eh?»

«No» mormorò Magrat, «non è quello... ehm... hai parlato di una corona?»

«La devi avere, la corona» disse Verence. «Tutte le regine ce l’hanno. Ho controllato».

La mente di lei intervenne di nuovo. ‘Regina Magrat’, disse, sollevando lo specchio dell’immaginazione...

«Non sei arrabbiata, vero?» disse Verence.

«Cosa? Ah. No. Chi, io? No».

«Bene. Allora è tutto sistemato. Direi che non resta fuori niente, no?»

«Ehm...»

Verence si fregò le mani.

«Stiamo facendo delle cose meravigliose con i legumi» disse, come se non avesse appena riorganizzato la vita di Magrat senza consultarla. «Sai, fagioli, piselli... Fissatori dell’azoto. E con la marna e la calce, naturalmente. Agricoltura scientifica. Vieni a vedere».

Si allontanò con passo elastico ed entusiasta.

«Sai» disse, «possiamo farlo funzionare davvero, questo regno».

Magrat lo seguì.

E così era tutto sistemato. Niente proposte, solo un’affermazione. Non sapeva bene cosa aspettarsi da quel momento, nemmeno nelle ore più buie della notte, ma aveva avuto qualche idea sulla possibile presenza di rose, tramonti e uccellini azzurri. Il trifoglio aveva un ruolo marginale. Fagioli e altri fissatori leguminosi dell’azoto non erano una caratteristica centrale.

D’altro canto Magrat, in fondo, era una persona molto più pratica di quanto pensasse la maggior parte della gente, quelli che non vedevano oltre il suo sorriso vago e la collezione di oltre trecento gioielli occulti, nessuno funzionante.

Quindi era così che sposavi un re. Tutto veniva organizzato da altri. Non c’erano cavalli bianchi. Il passato si catapultava nel futuro e ti portava con sé.

Forse era normale. I re sono gente impegnata. L’esperienza di Magrat in fatto di matrimoni con i re era limitata.

«Dove stiamo andando?» chiese.

«Nel vecchio roseto».

Ah... ora già andava meglio.

Peccato che non ci fossero rose. Il giardino chiuso era stato privato dei vialetti e degli alberi ed era occupato da steli verdi alti un metro, con fiori bianchi. Le api erano freneticamente impegnate nei boccioli.

«Fagioli?» disse Magrat.

«Sì! Una nuova varietà. Porto qui i contadini a vederla» disse Verence, poi sospirò. «Fanno sì con la testa, sorridono, ma poi temo che tornino a fare le solite cose».

«Lo so» disse Magrat. «Mi succedeva la stessa cosa quando cercavo di dare lezioni sul parto naturale».

Verence inarcò un sopracciglio. Il pensiero di Magrat che dava lezioni di parto alle feconde donne di Lancre era leggermente irreale, perfino per lui.

«Davvero? E come li facevano prima, i bambini?» chiese.

«Oh, alla vecchia maniera» disse Magrat. Guardarono per un po’ il ronzante campo di fagioli.

«Naturalmente quando sarai regina non sarai costretta a...» cominciò Verence.

Fu una cosa delicata, quasi come un bacio, leggera come il tocco del sole.

Non si alzò il vento, ma solo una calma improvvisa e pesante, da far fischiare le orecchie.

Gli steli si piegarono e si spezzarono, formando un cerchio sul terreno. Le api s’infuriarono e volarono via.

 

Le tre streghe arrivarono alla pietra insieme.

Non si misero nemmeno a dare spiegazioni. Certe cose le sapevano e basta.

«In mezzo alle mie erbe, porca miseria!» disse Nonna Weatherwax.

«Nell’orto del palazzo!» disse Magrat.

«Povero bimbetto! E voleva anche farmelo vedere!» disse Tata Ogg.

Nonna Weatherwax fece una pausa.

«Ma che stai dicendo, Gytha Ogg?» disse.

«Il mio Pewsey stava facendo crescere delle piantine di senape e crescione per la sua nonnina» spiegò pazientemente Tata Ogg. «Me le fa vedere e proprio mentre mi chino... splat! Giù in cerchio!»

«Questa» disse Nonna Weatherwax «è una cosa seria. Sono anni che non era così grave. Sappiamo tutte cosa significa, no. Ora...»

«Ehm» disse Magrat.

«... quello che dobbiamo fare...»

«Scusate» disse Magrat. Certe cose andavano dette.

«Sì?»

«Non so cosa voglia dire» disse Magrat. «Ecco, Goodie Whemper...»

«Pace all’anima sua» dissero in coro le streghe più anziane.

«... una volta mi ha detto che i cerchi erano pericolosi, ma non ha mai detto perché».

Le altre due si scambiarono un’occhiata.

«Non ti ha mai detto delle Danzatrici?» chiese Nonna Weatherwax.

«Non ti ha mai detto del Lungo?» chiese Tata Ogg.

«Quali Danzatrici? Vuoi dire quelle vecchie pietre nella brughiera?»

«Tutto quello che devi sapere ora» disse Nonna Weatherwax «è che dobbiamo fermarli...»

«Fermare chi?»

Nonna Weatherwax era il ritratto dell’innocenza...

«I cerchi, ovviamente» disse.

«Ah, no» disse Magrat. «Lo capisco da come l’hai detto. Hai detto ‘fermarLi’, come se fosse una specie di maledizione. Hai detto fermarli con la L maiuscola».

Le streghe anziane erano a disagio.

«E chi è il Lungo?» chiese Magrat.

«Noi non parliamo mai del Lungo» disse Nonna Weatherwax. «Mai».

«Comunque non c’è niente di male a raccontarle delle Danzatrici» mormorò Tata Ogg.

«Sì, ma sai... insomma... è Magrat» disse Nonna Weatherwax.

«E questo cosa vorrebbe dire?» domandò Magrat.

«Sto solo dicendo che forse non la penseresti allo stesso modo su di Loro» disse Nonna.

«Parliamo di...» cominciò Tata Ogg.

«Non nominarli!»

«Sì, giusto. Scusa».

«Bada bene, un cerchio potrebbe anche non trovarle, le Danzatrici» disse Nonna Weatherwax. «Possiamo sempre sperare. Potrebbe essere un caso».

«Ma se se ne apre uno nel...» disse Tata Ogg.

Magrat sbottò.

«Lo state facendo apposta! Parlate sempre in codice, sempre! Ma quando diventerò regina non potrete più!»

Questo le fermò.

Tata Ogg inclinò la testa di lato.

«Ah» disse. «Il giovane Verence ha fatto quella domanda, eh?»

«Sì!»

«A quando il lieto evento?» disse Nonna Weatherwax in tono glaciale.

«Tra due settimane» rispose Magrat. «Il giorno di mezza estate».

«Pessima scelta, pessima scelta» disse Tata Ogg. «È la notte più corta dell’anno...»

«Gytha Ogg!»

«E voi sarete mie suddite» disse Magrat, ignorandola. «E dovrete inchinarvi e tutto il resto!»

Capì subito di aver detto una stupidaggine, ma si lasciò trasportare dalla rabbia.

Nonna Weatherwax strinse gli occhi.

«Mmh» disse. «Ah, dovremo inchinarci?»

«Sì, e se non lo farete» disse Magrat, «potreste finire in prigione».

«Perbacco» disse Nonna Weatherwax. «Santo cielo. Ah, non mi piacerebbe. Per niente».

Tutte e tre sapevano che le segrete del castello, che in ogni caso non erano mai state la sua caratteristica più degna di nota, erano del tutto inutilizzate.

Verence II era il monarca più amabile della storia di Lancre. I suoi sudditi gli riservavano quella sorta di benevolo disprezzo che è il destino di tutti quelli che lavorano in silenzio e con coscienza per il bene comune. Inoltre, Verence si sarebbe tagliato una gamba piuttosto che mettere in prigione una strega: alla lunga avrebbe creato meno problemi e probabilmente avrebbe fatto anche meno male.

«Regina Magrat, eh?» disse Tata Ogg, cercando di alleggerire un po’ l’atmosfera. «Accidenti. Be’, il castello avrebbe bisogno di una rinfrescatina...»

«Oh, si rinfrescherà di sicuro» disse Nonna Weatherwax.

«E comunque non devo preoccuparmi di questa roba» disse Magrat. «Di qualunque cosa si tratti, sono affari vostri. Di certo non avrò tempo».

«Sono certa che farai a modo tuo, vostra-tra-poco-maestà» disse Nonna Weatherwax.

«Ah!» disse Magrat. «Ci puoi scommettere! E porco cane, trovatevene un’altra, di strega per Lancre! È chiaro? Un’altra ragazza sentimentale che faccia tutto il lavoro noioso, che non sappia mai niente e a cui parlare alle spalle. Ho di meglio da fare!»

«Meglio che essere una strega?» disse Nonna Weatherwax.

Magrat ci cascò in pieno. «Sì!»

«Oh, cielo» mormorò Tata Ogg.

«Ah. Bene, allora immagino che tu voglia andartene» disse Nonna Weatherwax, tagliente come un rasoio. «Per tornare a palazzo, di certo».

«Sì!»

Magrat prese la scopa.

Nonna afferrò il manico con un gesto molto rapido.

«Oh, no» disse. «Le regine si spostano in carrozze dorate e tutte quelle balle lì. A ciascuno il suo. Le scope sono per le streghe».

«Avanti, voi due» cominciò Tata Ogg, mediatrice per natura. «Si può benissimo essere regine e str...»

«Chi se ne importa?» disse Magrat, mollando la scopa. «Non devo più preoccuparmi di cose del genere».

Si voltò, raccolse la gonna e si mise a correre, finché non fu una sagoma stagliata contro il tramonto.

«Sei una vecchia sottana, Esme» disse Tata Ogg. «Solo perché si sposa».

«Lo sai cosa avrebbe detto se gliene avessimo parlato» disse Nonna Weatherwax. «Avrebbe capito tutto al contrario. La Nobiltà. I Cerchi. Avrebbe detto che è... carino. Meglio che ne stia fuori».

«Sono inattivi da anni» disse Tata. «Ci servirà aiuto. Voglio dire... quand’è stata l’ultima volta che sei andata dalle Danzatrici?»

«Sai com’è» disse Nonna. «Quando è tutto tranquillo... non ci pensi».

«Avremmo dovuto tenerle sgombre».

«Vero».

«Ci andiamo per prima cosa domani mattina» disse Tata Ogg.

«Sì».

«E ci portiamo una falce».

 

Non ci sono molti posti, nel regno di Lancre, in cui un pallone che cade non rotoli via. Perlopiù si tratta di brughiera e colline ripide e boscose, che in breve lasciano il posto a montagne aspre e aguzze dove non andrebbero nemmeno i troll e vallate così profonde che la luce del sole dovevano portarla con i tubi.

Il sentiero che conduceva alla brughiera che ospitava le Danzatrici era ingombro di rovi, anche se distava soltanto poche miglia dalla città. I cacciatori a volte ci capitavano, ma solo per caso. Non che fosse un brutto posto per cacciare, ma ecco... c’erano le pietre.

I cerchi di pietre erano abbastanza comuni sulle montagne. I druidi li costruivano come computer per le previsioni meteo e visto che costruire un cerchio di trentatré megaliti costava sempre meno che aggiornarne uno lento e vecchio, generalmente in giro ce n’erano parecchi.

I druidi non si avvicinavano mai alle Danzatrici.

Le pietre non erano sagomate. Non erano nemmeno disposte in modo particolarmente significativo. Se il sole colpiva la pietra giusta all’alba del giorno giusto non succedeva niente. Qualcuno aveva semplicemente trascinato lì otto pietre rosse e le aveva disposte in un rozzo circolo.

Ma il clima era diverso. La gente diceva che se si metteva a piovere, all’interno del cerchio cominciava sempre qualche secondo dopo che all’esterno, come se la pioggia venisse da molto più lontano. Se il sole veniva oscurato dalle nuvole, ci voleva un istante prima che la luce calasse anche all’interno del cerchio.

William Scrope sarebbe morto tra un paio di minuti. Bisogna dire che non sarebbe dovuto andare a caccia di cervi fuori stagione, e specialmente non del bell’esemplare maschio che stava inseguendo, e specialmente non di un bell’esemplare maschio della specie Ramtop rosso, ufficialmente dichiarata specie in pericolo anche se, in quel momento, non quanto William Scrope.

Era davanti a lui e correva tra le felci, facendo un tale baccano che anche un cieco avrebbe potuto stargli dietro.

Scrope avanzava dietro il cervo.

La nebbia aleggiava ancora attorno alle pietre: non una coltre pesante, ma lunghe strisce sbrindellate.

Il cervo raggiunse il cerchio e si fermò. Fece su e giù un paio di volte, poi guardò Scrope.

Lui sollevò la balestra.

Il cervo si voltò e saltò fra le pietre.

Da quel momento in poi ci furono solo sensazioni confuse. La prima fu di...

... distanza. Il cerchio era largo solo qualche metro: non avrebbe dovuto improvvisamente contenere una tale distanza.

E la successiva fu di...

... velocità. Qualcosa stava uscendo dal cerchio, un puntino bianco che diventava sempre più grande.

Sapeva di aver puntato la balestra. Ma quando quella cosa lo colpì gliela strappò dalle mani e all’improvviso rimase solo un senso di...

... pace.

E il breve ricordo del dolore.

William Scrope morì.

William Scrope guardò fra le dita le felci schiacciate. Il motivo per cui erano schiacciate era che il suo corpo ci era disteso sopra.

I suoi occhi appena deceduti osservarono il paesaggio.

Non ci sono illusioni per i morti. Morire è come svegliarsi dopo una gran bella festa, quando hai quei due secondi di libertà innocente prima di ricordare tutte le cose fatte la sera prima, che in quel momento sembravano logiche e divertenti, e poi ti torna in mente quella cosa incredibile che hai fatto con un paralume e due palloncini che ha fatto ridere tutti a crepapelle, e ora ti rendi conto di dover guardare un sacco di gente negli occhi; sei sobrio, loro pure, e ricordate tutto.

«Ah» disse.

Il paesaggio fluiva intorno alle pietre. Era talmente ovvio, quando lo guardavi dall’esterno...

Ovvio. Niente pareti, solo porte. Niente bordi, solo angoli...

WILLIAM SCROPE.

«Sì?»

DA QUESTA PARTE, PREGO.

«È un cacciatore?»

MI PIACE CONSIDERARMI UN COLLEZIONISTA DI QUISQUILIE INUTILI.

Morte sorrise speranzoso. Scrope aggrottò la fronte post-mortem.

«Eh? Tipo oggetti smarriti...?»

Morte sospirò. Le metafore erano sprecate con certa gente. A volte aveva la sensazione che nessuno lo prendesse sul serio.

VOGLIO DIRE CHE PORTO VIA LA VITA ALLE PERSONE, disse con stizza.

«E dove la porta?»

QUELLO LO VEDREMO, NO?

William Scrope stava già svanendo nella nebbia.

«Quella cosa che mi ha colpito...»

SÌ?

«Credevo che fossero estinti!»

NO. SE N’ERANO SOLO ANDATI.

«E dove?»

Morte puntò un dito ossuto.

LAGGIÙ.

 

Magrat all’inizio non aveva pensato di trasferirsi a palazzo prima del matrimonio, per via delle chiacchiere. In effetti a palazzo, dove c’era un numero enorme di stanze, viveva già una dozzina di persone; ma avrebbe voluto dire stare comunque sotto lo stesso tetto, e tanto bastava.

Ma questo era vero prima. Ora le ribolliva il sangue. Che parlassero pure. Aveva anche qualche idea su chi avrebbe parlato. Che dicessero quello che volevano.

Si alzò presto e mise insieme le sue poche cose. Il cottage non era esattamente suo, e nemmeno i mobili. Le streghe andavano e venivano, ma le loro case restavano per sempre, di solito con le stesse tegole.

Ma il set di coltelli magici era suo, e così pure i cordoncini colorati mistici, i Graal e i crogioli, e una scatola piena di anelli, collane e braccialetti carichi dei simboli ermetici di una dozzina di religioni. Rovesciò tutto in un sacco.

Poi c’erano i libri. Goodie Whemper era stata una specie di topo di biblioteca fra le streghe. Ce n’erano più di dieci. Magrat esitò, e alla fine li lasciò sullo scaffale.

C’era il cappello statutario a punta. A lei non era mai piaciuto e aveva sempre evitato di portarlo. Nel sacco pure lui.

Si guardò intorno irrequieta finché non vide il piccolo paiolo nella nicchia accanto al focolare. Quello ci voleva. Finì nel sacco, e il sacco fu legato con uno spago.

Mentre andava a palazzo attraversò il ponte sulla Gola di Lancre e lanciò il sacco nel fiume.

Galleggiò per un istante nella corrente impetuosa, poi affondò.

Aveva segretamente sperato in una serie di bolle multicolore, o magari un sibilo. Ma invece affondò e basta. Come se non fosse stato niente di importante.

 

Un altro mondo, un altro castello...

L’elfo arrivò al galoppo sul fosso ghiacciato. Dal suo cavallo nero, e dalla cosa che portava sul collo, si alzava del vapore.

Salì i gradini e arrivò nella sala dove la Regina sedeva tra i suoi sogni...

«Lord Lankin?»

«Un cervo!»

Era ancora vivo. Gli elfi erano bravi a tenere le cose in vita, spesso per settimane.

«Dall’esterno del cerchio?»

«Sì, mia signora!»

«Si sta indebolendo. Non te l’ho detto?»

«Quanto? Quanto ancora?»

«Poco. Molto poco. Che cosa è passato dall’altra parte?»

L’elfo cercò di evitare di guardarla in faccia.

«Il tuo... cucciolo, mia signora».

«Non andrà lontano, senza dubbio». La Regina rise. «Senza dubbio si divertirà...»

 

All’alba piovve per un po’.

Non c’è niente di peggio che camminare in mezzo alle felci bagnate che ti arrivano fino alle spalle. No, invece c’è. C’è un numero incalcolabile di cose peggiori da attraversare, specie se ti arrivano alle spalle. Ma qui e ora, pensò Tata Ogg, era difficile farsene venire in mente più di una o due.

Ovviamente non erano atterrate all’interno delle Danzatrici. Perfino gli uccelli cambiavano rotta pur di non attraversare quello spazio aereo. Ragni migratori su fili sottilissimi sospesi a mezzo miglio da terra ci giravano intorno. Le nuvole si dividevano in due e le aggiravano. La nebbia aleggiava sulle pietre. Una nebbia umida e appiccicosa.

Tata tagliò distrattamente alcune felci.

«Ci sei, Esme?» mormorò.

La testa di Nonna Weatherwax spuntò da un ciuffo di felci poco lontano.

«Sono successe delle cose» disse in tono freddo e deciso.

«Tipo?»

«L’erba e le felci sono calpestate. Secondo me qualcuno ha danzato».

Tata Ogg reagì come un fisico nucleare a cui viene detto che qualcuno sfrega due pezzetti di uranio subcritico per scaldarsi.

«Non lo fanno mai» disse.

«L’hanno fatto. E un’altra cosa...» Era difficile pensare che ci fosse dell’altro, ma Tata Ogg disse comunque «Sì?».

«Qui è stato ucciso qualcuno».

«Oh, no» si lagnò Tata Ogg. «Non dentro al cerchio».

«Ma no, non dire scemenze. È successo fuori. Un uomo alto, con una gamba più lunga dell’altra. E la barba. Probabilmente un cacciatore».

«Come lo sai?»

«Ci sono appena passata sopra».

Il sole spuntò in mezzo alla nebbia.

 

I raggi mattutini stavano già sfiorando le antiche pietre dell’Università Invisibile, scuola suprema di stregoneria, cinquecento miglia più in là.

Non che se ne fossero accorti in molti, all’interno. Per la maggior parte dei maghi dell’Università Invisibile il pranzo era il primo pasto della giornata. Non erano proprio gente da colazione. L’Arcicancelliere e il Bibliotecario erano gli unici due a sapere che aspetto avesse l’alba vista dal davanti, e tendevano ad avere il campus tutto per loro per diverse ore.

Il Bibliotecario si alzava sempre presto perché era un orangutan, e loro si svegliano presto per natura, anche se questo qui non strillava tre o quattro volte per tenere gli altri maschi lontani dal suo territorio. Si limitava ad aprire la Biblioteca e a dar da mangiare ai libri.

A Mustrum Ridcully, l’attuale Arcicancelliere, piaceva vagare per gli edifici sonnacchiosi, salutare i domestici con un cenno della testa e lasciare bigliettini ai suoi subordinati, solitamente con l’unico scopo di rendere assolutamente chiaro che lui era in piedi e si occupava delle questioni del giorno mentre loro dormivano della grossa.5

Oggi, tuttavia, aveva qualcos’altro in mente. Più o meno in senso letterale.

Era tonda. Tutto intorno c’era una crescita sana. Avrebbe potuto giurare che ieri non c’era.

Girò la testa da una parte e dall’altra, sbirciando nello specchio che si teneva sopra la testa.

Il prossimo dipendente a svegliarsi dopo Ridcully e il Bibliotecario era il Tesoriere: non perché fosse mattiniero di natura, ma perché verso le dieci del mattino la pazienza molto limitata dell’Arcicancelliere arrivava alla fine e lui si fermava in fondo alle scale e gridava:

«Tesoriereeee!»

... finché il Tesoriere non compariva.

In effetti capitava così spesso che il Tesoriere, un neurovoro per natura,6 si ritrovava spesso pronto e vestito nel sonno diversi minuti prima dell’urlo. Stavolta era in piedi, vestito di tutto punto e già quasi alla porta prima ancora di aprire gli occhi.

Ridcully non perdeva mai tempo a parlare del più e del meno. Solo del più.

«Sì, Arcicancelliere?» disse cupo il Tesoriere.

L’Arcicancelliere si tolse il cappello.

«Che mi dice di questo?» domandò.

«Ehmm... Cosa, Arcicancelliere?»

«Questo, amico! Questo!»

Sull’orlo del panico, il Tesoriere guardò in cima alla testa di Ridcully.

«Questo che? Ah. La chierica?»

«Io non ho nessuna chierica!»

«Eh, allora...»

«Voglio dire che ieri non c’era!»

«Ah, ecco. Ehm». A un certo punto qualcosa scattava sempre nel Tesoriere, e lui non riusciva più a trattenersi. «Certo, sono cose che capitano. Mio nonno giurava che strofinandoci sopra tutti i giorni un misto di miele e sterco di cavallo...»

«Non sto diventando calvo!»

Un tic comparve sulla faccia del Tesoriere. Le parole cominciarono a venir fuori da sole, senza l’intervento manifesto del cervello.

«... e poi aveva preso un congegno con un bastoncino di vetro, che-che-che strofinava con un panno di seta e...»

«Insomma, è ridicolo! Nella mia famiglia nessuno è mai diventato calvo, tranne una zia!»

«... e poi, poi raccoglieva la rugiada del mattino e ci si lavava la testa, e poi e poi e poi...»

Ridcully si calmò. Non era un uomo cattivo.

«Che cosa prende al momento?» mormorò.

«Rana, rana, rana, rana» balbettò il Tesoriere.

«Le solite pillole di rana essiccata, giusto?»

«S-s-s-s».

«Tasca sinistra?»

«S-s-s-s».

«Okay... bene... mandi giù».

Rimasero a fissarsi per un momento.

Il Tesoriere si afflosciò.

«V-v-va molto meglio ora, grazie, Arcicancelliere».

«Sta succedendo qualcosa, non c’è dubbio, Tesoriere. Me lo sento nelle ossa».

«Come dice lei, Arcicancelliere».

«Tesoriere?»

«Sì, Arcicancelliere?»

«Lei per caso non fa parte di qualche società segreta, eh?»

«Io? No, Arcicancelliere».

«Allora togliersi le mutande dalla testa sarebbe un’idea niente male».

 

«Lo conosci?» disse Nonna Weatherwax.

Tata Ogg conosceva tutti a Lancre, anche quella cosa dimenticata in mezzo alle felci.

«È William Scrope, da Slice» disse. «Sono tre fratelli. Lui ha sposato quella Palliard, te la ricordi? Quella con i denti con le prese d’aria?»

«Spero che la povera donna abbia qualche vestito nero decente» disse Nonna Weatherwax.

«Sembra che sia stato pugnalato» disse Tata Ogg. Rigirò il corpo, gentilmente ma con fermezza. I cadaveri non la impressionavano. Le streghe di solito preparavano anche i morti per la sepoltura, oltre a fare da levatrici; c’erano un sacco di persone a Lancre per le quali la faccia di Tata Ogg era stata la prima e l’ultima cosa che avevano visto, il che probabilmente rendeva tutto il resto abbastanza noioso al confronto.

«Da parte a parte» disse. «L’hanno trapassato. Perbacco, chi farebbe mai una cosa del genere?»

Entrambe si voltarono a guardare le pietre.

«Che cosa sia non lo so, ma so da dove viene» disse Nonna.

Ora Tata Ogg vide che le felci intorno alle pietre erano calpestate e piuttosto scure.

«Arriverò in fondo a questa cosa» disse Nonna.

«Sarà meglio che tu non vada...»

«So esattamente dove andare, grazie».

C’erano otto pietre nelle Danzatrici. Tre di queste avevano un nome. Nonna girò loro intorno finché non trovò quella nota come il Pifferaio.

Prese uno dei tanti spilloni che assicuravano ai capelli il suo cappello a punta e lo tenne a circa quindici centimetri dalla pietra. Poi lo lasciò andare e rimase ad osservarlo.

Tornò da Tata Ogg.

«C’è ancora dell’energia» disse. «Non molta, ma il cerchio tiene».

«Ma chi può essere tanto scemo da venire fin quassù a danzare intorno alle pietre?» chiese Tata Ogg, e in quel momento un pensiero malevolo le attraversò la mente, così aggiunse: «Magrat è stata via con noi per tutto il tempo».

«Dovremo scoprirlo» disse Nonna Weatherwax, con un sorriso lugubre. «Ora aiutami con questo poveraccio».

Tata Ogg si chinò.

«Accidenti se pesa. Ci sarebbe servita la giovane Magrat».

«No. Volubile» disse. «Si distrae facilmente».

«Però è simpatica».

«Troppo svenevole. Pensa che si possa vivere come nelle favole e che le canzoni folk siano vere. Non che non le auguri ogni bene».

«Spero che se la cavi bene, come regina» disse Tata.

«Le abbiamo insegnato tutto ciò che sappiamo» disse Nonna Weatherwax.

«Giusto» disse Tata Ogg, mentre scomparivano tra le felci.

«Senti, ma...»

«Cosa?»

«Senti, ma forse avremmo dovuto insegnarle tutto ciò che sappiamo?»

«Ci avremmo messo troppo».

«Vero».

 

Le lettere ci mettevano un bel po’ ad arrivare fino all’Arcicancelliere. La posta veniva raccolta ai cancelli dell’Università da chiunque capitasse da quelle parti, e poi lasciata su uno scaffale da qualche parte o usata per accendere la pipa, o come segnalibro oppure, nel caso del Bibliotecario, come giaciglio.

Questa ci aveva messo solo due giorni ed era più o meno intatta a parte un paio di segni di tazza e un’impronta bananosa. Arrivò sul tavolo insieme al resto della posta mentre i docenti erano a colazione. Il Decano la aprì con un cucchiaio.

«Qualcuno qui sa dove si trova Lancre?» chiese.

«Perché?» disse Ridcully, alzando di scatto la testa.

«C’è un re che si sposa e vuole che andiamo».

«Oh, cielo» disse il Professore di Rune Recenti. «Un re da quattro soldi si sposa e vuole che andiamo?»

«È sulle montagne» disse piano l’Arcicancelliere. «Si pescano delle belle trote da quelle parti, ricordo. Per la miseria. Lancre. Non ci pensavo più da anni. Sapete, ci sono dei laghi in mezzo a quei ghiacciai con dei pesci che non hanno mai visto una lenza. A Lancre».

«È troppo lontano» disse il Professore di Rune Recenti.

Ridcully non stava ascoltando. «E ci sono i cervi. Migliaia di cervi. E alci. Lupi dappertutto. E non mi meraviglierei se ci fossero leoni di montagna. Ho sentito dire che sono state viste anche delle Aquile del Ghiaccio».

Gli brillavano gli occhi.

«Ce ne sono rimaste solo una mezza dozzina» disse.

Mustrum Ridcully faceva molto per le specie rare. Tanto per cominciare, le manteneva rare.

«È in fondo al nulla» disse il Decano. «Fuori dalla mappa».

«Andavo in vacanza da mio zio, lassù» disse Ridcully, gli occhi velati dal ricordo. «Che belle estati, lassù. Che belle... il cielo è di un azzurro più intenso che in qualsiasi altro posto, è molto... e l’erba... e...»

Tornò bruscamente dalle lande della memoria.

«Bisogna andare, allora» disse. «Il dovere chiama. Un capo di stato che si sposa è un’occasione importante. Ci deve essere qualche mago, per fare bella figura. Nobblessobliig».

«Be’, io non ci vado» disse il Decano. «Non è naturale, la campagna. Troppi alberi. Mai sopportati».

«Al Tesoriere farebbe bene una gita» disse Ridcully. «Ultimamente mi sembra un po’ nervoso, non capisco perché». Si sporse a guardare l’altro capo del tavolo. «Tesoriereeee!»

Il Tesoriere fece cadere il cucchiaio nella pappa d’avena.

«Visto?» disse Ridcully. «È un fascio di nervi. STAVO DICENDO CHE LE FAREBBE BENE UN PO’ D’ARIA FRESCA, TESORIERE». Dette pesantemente di gomito al Decano. «Spero che non se ne stia andando fuori di testa, poveraccio» disse, scegliendo di credere che fosse un sussurro. «Passa troppo tempo al chiuso, non so se mi spiego».

Il Decano, che usciva all’aperto circa una volta al mese, scrollò le spalle.

«IMMAGINO CHE LE PIACEREBBE STARE PER UN PO’ LONTANO DALL’UNIVERSITÀ, EH?» disse l’Arcicancelliere, annuendo e facendo smorfie come un pazzo. «Un po’ di pace, di silenzio? Un po’ di sana vita di campagna?»

«M-m-m-mi piacerebbe molto, Arcicancelliere» disse il Tesoriere, con la speranza che gli spuntava sul viso come un fungo d’autunno.

«Brav’uomo. Verrà con me» disse Ridcully, raggiante.

Il Tesoriere rimase di sale.

«Deve venire anche qualcun altro» disse Ridcully. «Volontari?»

I maghi, animali da città, si concentrarono sul cibo. Quello lo facevano in ogni caso, ma stavolta era per evitare lo sguardo di Ridcully.

«Che ne dite del Bibliotecario?» disse il Professore di Rune Recenti, gettando in pasto ai lupi una vittima a caso.

Ci fu un improvviso balbettio di assenso e di sollievo.

«Ottima scelta» disse il Decano. «È proprio quello che fa per lui. Campagna, alberi. E... e... alberi».

«Aria di montagna» disse il Professore di Rune Recenti.

«Sì, ultimamente lo vedo un po’ emaciato» disse il Lettore di Scritture Invisibili.

«Per lui sarebbe una gioia» disse il Professore di Rune Recenti.

«Come una seconda casa, direi» disse il Decano. «Alberi dappertutto».

Guardarono tutti l’Arcicancelliere, in attesa.

«Non porta vestiti» disse Ridcully. «E dice sempre ‘ook’».

«Però porta quella vecchia vestaglia verde» disse il Decano.

«Solo quando fa il bagno».

Ridcully si strofinò la barba. In effetti il Bibliotecario gli piaceva; non litigava mai con lui e si teneva in forma, anche se a forma di pera. Quella giusta per un orangutan.

Il fatto era che nessuno ci faceva più caso, che il Bibliotecario era un orangutan, a meno che un visitatore non lo facesse notare. In quel caso qualcuno diceva: «Ah, sì. È stato una specie di incidente magico, no? Sì, ne sono quasi certo. Un minuto prima era umano, un minuto dopo un primate. È buffo, però... non mi ricordo che aspetto aveva prima. Voglio dire, dev’essere stato umano, immagino. Ho sempre pensato a lui come a un primate, gli si addice di più».

E in effetti era stato proprio un incidente tra i potenti libri magici della Biblioteca dell’Università che aveva spinto il genotipo del Bibliotecario giù dall’albero dell’evoluzione e l’aveva fatto poi risalire su un altro ramo, con la differenza non irrilevante che ora poteva appendercisi per i piedi, a testa in giù.

«Oh, va bene» disse l’Arcicancelliere. «Ma per la cerimonia dovrà mettersi qualcosa addosso, se non altro per il bene della povera sposa».

Il Tesoriere gemette.

Tutti i maghi si voltarono a guardarlo.

Il cucchiaio cadde a terra con un piccolo tonfo. Era di legno. I maghi gli avevano discretamente sottratto le posate di metallo da quello noto come lo Sfortunato Incidente A Cena.

«U-u-u-u» gorgogliò il Tesoriere, cercando di spingere la sedia via dal tavolo.

«Pillole di rana essiccata» disse l’Arcicancelliere. «Qualcuno gliele prenda dalla tasca».

I maghi non si precipitarono. Nelle tasche di un mago si trovava di tutto: piselli, cose irragionevoli con le zampe, piccoli universi sperimentali, qualsiasi cosa...

Il Professore di Scritture Invisibili si sporse a vedere che cosa aveva scollato il suo collega.

«Ehi, guardate il piatto!»

C’era una depressione perfettamente circolare nella sua pappa d’avena.

«Oh, cielo, un altro cerchio nel grano» disse il Decano.

I maghi si rilassarono.

«Quest’anno saltano fuori dappertutto» disse l’Arcicancelliere. Non si era tolto il cappello per mangiare; gli serviva per tenere fermo un impiastro di miele e sterco di cavallo e un piccolo generatore elettrostatico azionato da un topo, che si era fatto costruire da quei ragazzotti svegli dell’Edificio di Magia ad Alta Energia; svegli, quei ragazzotti. Un giorno magari avrebbe perfino capito metà di quello di cui cianciavano continuamente...

Nel frattempo si sarebbe tenuto il cappello.

«Sono anche particolarmente forti» disse il Decano. «Il giardiniere mi ha detto ieri che stanno facendo sfracelli con i cavolfiori».

«Credevo che questa roba comparisse solo nei campi» disse Ridcully. «Un fenomeno naturale normalissimo».

«Se c’è un livello di flusso sufficientemente alto, la pressione inter-continuum probabilmente può superare un quoziente di realtà a base elevata» disse il Lettore di Scritture Invisibili.

La conversazione s’interruppe. Tutti si voltarono a guardare quello sciagurato membro del corpo docente, per di più ultimo arrivato.

L’Arcicancelliere gli fece gli occhiacci.

«Non voglio nemmeno che ci provi, a spiegare» disse. «Probabilmente dirà che l’universo è un foglio di gomma con dei pesi sopra, giusto?»

«Non esattamente...»

«E la parola ‘quanti’ si sta precipitando fuori dalla sua bocca» disse Ridcully.

«Ecco, il...»

«E anche ‘continuinuinuum’ giusto?» disse Ridcully.

Il Lettore di Scritture Invisibili, un giovane mago di nome Ponder Stibbons, emise un profondo sospiro.

«No, Arcicancelliere, stavo solo osservando...»

«Ancora i tunnel? No, eh?»

Stibbons si arrese. Usare una metafora con un uomo privo di immaginazione come Ridcully era come agitare uno straccio rosso davanti a un to... era come mettere qualcosa di molto fastidioso davanti a qualcuno per dargli molto fastidio.

Era dura, essere un esperto di Scritture Invisibili.7

«Secondo me è meglio che venga anche lei» disse Ridcully.

«Io, Arcicancelliere?»

«Non la posso lasciare qui in giro a inventare milioni di altri universi troppo piccoli per essere visti e tutto il resto del continuinuinuum» disse Ridcully. «E poi mi servirà qualcuno che mi porti la bales... la mia roba» si corresse.

Stibbons fissò il piatto. Non aveva senso discutere. Quello che davvero voleva lui dalla vita era passare la maggior parte dei prossimi cento anni all’Università, a consumare pasti enormi senza muoversi molto negli intervalli. Era un giovanotto paffuto, con un colorito che ricordava una cosa che vive sotto un sasso. La gente gli diceva sempre di fare qualcosa della sua vita, e infatti lui voleva proprio questo: farne un letto.

«Ma Arcicancelliere» disse il Professore di Rune Recenti, «è sempre troppo lontano».

«Sciocchezze» disse Ridcully. «Hanno messo quella nuova strada a pedaggio fino a Sto Helit. Ci sono carrozze tutti i mercoledì. Tesoriereeeee! Oh, qualcuno gli dia una pillola di rana essiccata... signor Stibbons, se le capita di trovarsi in questo universo per cinque minuti, vada a procurarsi dei biglietti. Ecco. È tutto sistemato».

 

Magrat si svegliò.

E capì all’istante di non essere più una strega. La sensazione s’insinuò dentro di lei, come parte del normale inventario che il corpo fa in pochi secondi emergendo dalle profondità del sogno: braccia: 2; gambe: 2; angoscia esistenziale: 58%; senso di colpa casuale: 94%; livello di stregoneria: 00,00.

Il punto era che non ricordava di essere mai stata altro. Era sempre stata una strega. Magrat Garlick, la terza strega. Quella gentile.

Sapeva di non essere mai stata granché brava. Oh, sapeva fare qualche incantesimo abbastanza bene, se la cavava con le erbe, ma non era una strega fin nelle ossa come le due più vecchie. E loro facevano sempre in modo di farglielo sapere.

Be’, avrebbe dovuto imparare a fare la regina. Almeno a Lancre era l’unica. Nessuno sarebbe stato a guardarle sopra la spalla dicendo cose tipo ‘Non lo tieni nel modo giusto, quello scettro’.

Bene...

Qualcuno durante la notte le aveva rubato i vestiti.

Si alzò in camicia da notte e saltellò sulle pietre gelide del pavimento fino alla porta. Era a metà strada quando quella si aprì da sola.

Riconobbe la ragazza piccola e bruna che entrò, visibile a malapena dietro una pila di biancheria. A Lancre si conoscevano tutti.

«Millie Chillum?»

La biancheria fece una piccola riverenza.

«Sissigno’?»

Magrat sollevò parte della pila.

«Sono io, Magrat» disse. «Ciao».

«Sissigno’». Un’altra riverenza.

«Che ti prende, Millie?»

«Sissigno’». Riverenza, riverenza.

«Ho detto che sono io. Non c’è bisogno che mi guardi in quel modo».

«Sissigno’».

Quel su-e-giù nervoso andò avanti. Magrat notò che anche le sue ginocchia cominciavano a piegarsi per simpatia, ma fuori tempo, per cui quando lei andava su la ragazza andava giù.

«Se dici un’altra volta ‘sissigno” divento cattiva» riuscì a dire mentre si incrociavano.

«... Bene, vostra maestà, signo’».

Spuntarono le prime deboli luci dell’alba.

«Non sono ancora regina, Millie. E mi conosci da vent’anni» ansimò Magrat, risalendo.

«Sissigno’. Ma lo diventerete. E mia mamma mi ha detto che devo portare rispetto» disse Millie, senza smettere di inchinarsi nervosamente.

«Ah. Va bene. Dove sono i miei vestiti?»

«Ce li ho qui, vostra pre-maestà».

«Non sono miei. E smettila di fare su e giù, per favore. Mi sta venendo il mal di mare».

«Il re li ha ordinati apposta a Sto Helit, signo’».

«Ah, sì? E quanto tempo fa?»

«Non lo so, signo’».

Sapeva che stavo per tornare a casa, pensò Magrat. Come lo sapeva? Che sta succedendo qui?

La quantità di pizzo era molto superiore a quanto Magrat fosse abituata, ma era soltanto la ciliegina sulla torta. Magrat di solito indossava un abito semplice, con sotto non molto altro che lei stessa. Le signore di classe non se la cavavano con così poco. A Millie era stato fornito uno schema tecnico, ma non era di grande aiuto.

Lo esaminarono per un po’.

«Quindi questa sarebbe una tenuta da regina standard?»

«Non glielo so dire. Credo che sua maestà abbia mandato a quelli un sacco di soldi, e gli abbia detto di mandare qui tutto a lei». Disposero sul pavimento tutti i pezzi.

«Queste sarebbero le pantofole?»

Fuori, sui bastioni, ci fu il cambio della guardia. In effetti la guardia si cambiò, si mise il grembiule da giardiniere e andò a zappare i fagioli. All’interno, la discussione sartoriale si era fatta seria.

«Credo che se lo sia messo storto, signo’».

«Qual è la crinolina?»

«Qui dice Inserire la Linguetta A nella Fessura B. Non la trovo, la Fessura B».

«Sembrano bisacce. Io non me le metto. E questa roba?»

«È una gorgiera, signo’. Mh. Mio fratello dice che a Sto Helit fanno furore».

«Nel senso che fanno arrabbiare la gente? E questo cos’è?»

«Broccato, credo».

«Sembra cartone. Devo portare roba del genere tutti i giorni?»

«Non lo so proprio, signo’».

«Ma Verence se ne va in giro con una vecchia giacca e le ghette di cuoio!»

«Ah, ma lei è la regina. Le regine non possono mica farle, certe cose. Lo sanno tutti. I re possono benissimo andare in giro con le chiappe mezze fuori dai pant...»

Si tappò la bocca con la mano.

«Non ti preoccupare» disse Magrat. «Sono sicura che anche i re hanno... qualcosa in cima alle cosce, come chiunque altro. Continua pure».

Millie era diventata di un rosso vivo.

«Cioè, ecco, insomma, intendevo che le regine devono essere delle signore» riuscì a dire. «Il re ha dei libri che ne parlano. Ettichetta, o una roba del genere».

Magrat si guardò allo specchio con occhio critico.

«Le sta bene, vostra-maestà-fra-poco» disse Millie.

Magrat si voltò da un lato e dall’altro.

«I capelli sono un disastro» disse, dopo un po’.

«Il re dice che farà venire un parrucchiere da Ankh-Morpork, signo’. Per il matrimonio».

Magrat si sistemò una treccia. Cominciava a rendersi conto del fatto che essere una regina significava una vita completamente nuova.

«Perbacco» disse. «E ora che succede?»

«Non lo so, signo’».

«Il re cosa sta facendo?»

«Oh, ha fatto colazione presto e se l’è filata a Slice per far vedere al vecchio Muckloe come si allevano i maiali con un libro».

«E io cosa faccio? Qual è il mio lavoro?»

Millie la guardò perplessa, anche se questo non cambiò molto nella sua espressione.

«Non lo so, signo’. Regnare, mi sa. Passeggiare in giardino. Fare salotto. Fare l’arazzo, va molto di moda fra le regine. E poi... ehm... dopo c’è la faccenda della successione...»

«Per il momento» disse con fermezza Magrat, «faremo un tentativo con l’arazzo».

 

Ridcully aveva qualche difficoltà con il Bibliotecario.

«Si dà il caso che sia il suo Arcicancelliere, signore!»

«Oook».

«Le piacerà lassù! Aria fresca! Un sacco di alberi! Tanti di quei boschi da sfinire un esercito di taglialegna!»

«Oook!»

«Scenda giù immediatamente!»

«Oook!»

«I libri staranno benissimo durante le vacanze. Buon Dio, già è difficile trascinare qui gli studenti nel migliore dei casi...»

«Oook!»

Ridcully fece gli occhiacci al Bibliotecario, che era appeso per le dita dei piedi allo scaffale in alto di Parazoologia, da Ba a Mn.

«Oh, be’» disse, con voce bassa e astuta, «è un vero peccato, date le circostanze. Al castello di Lancre hanno una bella biblioteca, da quello che ho sentito. Oddio, la chiamano biblioteca ma è solo un mucchio di libri vecchi. A quanto pare non hanno mai visto un catalogo».

«Oook?»

«Migliaia di libri. Mi hanno detto che ci sono anche degli incunaboli. È proprio un peccato che non voglia vederli». La voce di Ridcully aveva i semiassi oliati.

«Oook?»

«Ma vedo che ormai ha deciso. Quindi è meglio che vada. Addio».

Ridcully si fermò fuori dalla Biblioteca, contando fra sé. Era arrivato a tre quando il Bibliotecario arrivò di gran carriera sulle nocche, attratto dagli incunaboli.

«Quindi i biglietti sono quattro, giusto?» disse Ridcully.

 

Nonna Weatherwax si mise a indagare a modo suo su quello che era successo intorno alle pietre.

La gente sottovaluta le api.

Nonna Weatherwax no. Aveva una mezza dozzina di arnie e, per esempio, sapeva che non esiste una cosa come una singola ape. Ma esiste lo sciame, le cui cellule componenti sono appena un pochino più mobili di quelle, che so, di una conchiglia. Gli sciami vedono tutto e percepiscono molto di più, e ricordano le cose per anni, anche se la loro memoria tende a essere esterna e fatta di cera. Il favo è la memoria dell’alveare: la posizione delle celle per le uova, quelle per il polline, quelle per la regina, quelle per il miele, per i diversi tipi di miele: fa tutto parte della stessa serie di memoria.

E poi ci sono i fuchi grossi e grassi. La gente pensa che non facciano altro che vagolare tutto l’anno per l’alveare, in attesa di quei pochi brevi momenti in cui la regina si accorge della loro esistenza, ma questo non spiega come mai abbiano più organi sensoriali del tetto del palazzo della CIA.

Nonna non allevava davvero le api. Ogni anno prendeva un po’ di cera per le candele, e ogni tanto quella libbra di miele di cui l’alveare riteneva di poter fare a meno, ma soprattutto le teneva per avere qualcuno con cui parlare.

Per la prima volta da quando era tornata a casa, andò dalle api.

E rimase sbalordita.

Le api erano tutte fuori, impazzite. Il ronzio riempiva la piccola area, di solito tranquilla, dietro i cespugli di lamponi. Piccoli corpi marroni sfrecciavano nell’aria come chicchi di grandine di traverso.

Nonna avrebbe voluto sapere perché.

Le api erano il suo unico cruccio. Non c’era una sola mente a Lancre che lei non potesse Prendere in Prestito. Riusciva perfino a vedere il mondo con gli occhi dei lombrichi.8 Ma lo sciame, una mente fatta di migliaia di parti mobili, era al di là delle sue capacità. Era la prova più difficile. Aveva provato e riprovato a vedere il mondo attraverso diecimila paia di occhi sfaccettati, e tutto quello che ne aveva ricavato era un’emicrania e la tendenza a fare l’amore con i fiori.

Ma osservando le api si potevano capire molte cose. L’attività, la direzione, il comportamento delle api guardiane.

Si comportavano come se fossero molto preoccupate.

Allora Nonna Weatherwax andò a fare un riposino, come solo lei sapeva fare.

 

Tata Ogg provò un sistema diverso, che non aveva granché a che fare con la stregoneria, ma molto a che fare con la sua Oggità.

Rimase per un po’ seduta nella sua cucina immacolata, a bere rum e a fumare la sua pipa puzzolente, e a guardare i quadri alle pareti. Erano stati dipinti dai nipoti più piccoli in una dozzina di toni di fango, e rappresentavano omini fangosi con la scritta NONNA fangosamente tracciata in lettere fangose.

Davanti a lei il gatto Greebo, felice di essere tornato a casa, era steso sul dorso con le quattro zampe all’aria, impegnato nella sua nota interpretazione della cosa-trovata-nello-scarico.

Alla fine Tata si alzò e si avviò pensierosa alla fucina di Jason Ogg.

La fucina occupava sempre un posto importante in un villaggio, visto che fungeva da municipio, sala riunioni e punto di smistamento di pettegolezzi. Ora c’erano diversi uomini all’interno, che ammazzavano il tempo tra le normali occupazioni di Lancre, vale a dire bighellonare e guardare le donne che lavoravano.

«Jason Ogg, ti devo parlare».

La fucina si svuotò come per magia. Probabilmente qualcosa nel tono di voce di Tata Ogg. Ma lei afferrò per il braccio uno degli uomini che cercò di passarle accanto acquattandosi e incespicando.

«Sono contenta di vederla, signor Quarney» disse. «Non scappi. Il negozio va bene?»

L’unico negoziante di Lancre la guardò come un topo con tre zampe guarda un gatto atletico.

Ciò nondimeno, ci provò.

«Oh, malissimo. Gli affari vanno malissimo, signora Ogg».

«Al solito, eh?»

Quarney aveva un’espressione implorante. Sapeva che non l’avrebbe passata liscia; voleva sapere cosa l’aspettava.

«Ecco» disse Tata Ogg, «conosce la vedova Scrope, che vive a Slice?»

Quarney aprì la bocca.

«Non è vedova» disse. «È...»

«Scommettiamo mezzo dollaro?» disse Tata.

Quarney rimase a bocca aperta, e tutto intorno la sua faccia si compose in una smorfia di orrore incantato.

«Quindi bisognerà farle credito finché non rimette in sesto la fattoria» disse Tata Ogg, nel silenzio. Quarney annuì.

«Questo vale anche per voialtri che state origliando fuori» disse Tata alzando la voce. «Un taglio di carne lasciato fuori dalla sua porta una volta a settimana non ci starà male, eh? E probabilmente avrà bisogno di una mano in più per il raccolto. So che posso contare su di voi. Adesso filate...»

Quelli se ne andarono di corsa, lasciando una trionfante Tata Ogg sulla porta.

Jason Ogg la guardò impotente, un uomo di novanta chili ridotto a un bimbo di quattro anni.

«Jason?»

«Devo finire questa saldatura per il vecchio...»

«Allora» disse Tata, ignorandolo, «ragazzo mio, che cosa è successo da queste parti mentre eravamo via?»

Jason Ogg attizzò distrattamente il fuoco con una sbarra di ferro.

«Oh, abbiamo fatto una girandola enorme la notte di Hogswatch e una delle galline di Mamma Peason ha fatto lo stesso uovo tre volte, e la vecchia mucca di Poorchick ha partorito un serpente a sette teste, e c’è stata una pioggia di rane a Slice...»

«Tutto normale, allora» disse Tata Ogg. Riempì la pipa con fare casuale ma eloquente.

«Tutto tranquillo, davvero» disse Jason. Tolse la sbarra dal fuoco, la posò sull’incudine e sollevò il martello.

«Prima o poi lo scoprirò, sai» disse Tata Ogg.

Jason non si voltò, ma il martello si fermò a mezz’aria.

«Lo scopro sempre» disse Tata Ogg.

Il ferro si raffreddò, passando dal giallo paglia fresca al rosso acceso.

«Lo sai che ti senti sempre meglio, dopo aver parlato con la tua vecchia mamma» disse Tata Ogg.

Il ferro passò dal rosso al nero sfavillante. Ma Jason, abituato a stare tutto il giorno nel calore rovente della fucina, sembrava che avesse un po’ troppo caldo.

«Io lo batterei prima che si raffreddi» disse Tata Ogg.

«Non è stata colpa mia. Mamma, come facevo a fermarle?»

Tata si appoggiò allo schienale della sedia, sorridendo allegramente.

«Fermare chi, figlio mio?»

«Quella Diamanda, Perdita e quell’altra ragazza con i capelli rossi di Faccia Tosta e le altre. Io l’ho detto al vecchio Peason, gliel’ho detto che tu avresti avuto da dire, ho detto che Comare Weatherwax se la sarebbe fatta... sarebbe stata molto sarcastica se l’avesse saputo» disse Jason. «Ma loro ridevano e basta. Dicevano che potevano impararla da sole, la magia».

Tata annuì. In realtà avevano ragione. La magia potevano impararla da sole. Ma sia l’insegnante che l’allieva dovevano essere un certo tipo di persona.

«Diamanda?» disse. «Non mi dice niente, il nome».

«In realtà si chiama Lucy Tockley» disse Jason. «Dice che Diamanda è più... stregoso».

«Ah. Quella con il cappello di feltro floscio?»

«Sì, mamma».

«Quella che si dipinge le unghie di nero?»

«Sì, mamma».

«Il suo vecchio l’aveva mandata via per studiare, no?»

«Sì, mamma. È tornata mentre eri via».

«Ah».

Tata Ogg si accese la pipa nella fucina. Cappello floscio, unghie nere e istruzione all’estero. Oh, cielo.

«Quante ce ne sono, di queste ragazzette?» chiese.

«Cinque o sei. Ma sono brave. Mamma?»

«Sì?»

«Non è che hanno fatto qualcosa di male».

Tata Ogg guardò pensierosamente le braci nella fucina.

I silenzi di Tata Ogg avevano profondità. Diciamo pure che erano senza fondo. E anche una certa componente direzionale. Jason aveva pochi dubbi sul fatto che quel silenzio fosse rivolto a lui.

Ci cascava sempre, e cercava di riempirlo.

«E quella Diamanda è molto istruita» disse. «Conosce delle parole molto carine».

Silenzio.

«E poi lo dici sempre che non ci sono abbastanza ragazze interessate a imparare la stregoneria di questi tempi» disse Jason. Tolse la sbarra di ferro e la colpì due o tre volte, tanto per salvare le apparenze.

Verso di lui fluttuò altro silenzio.

«Vanno a danzare sulle montagne a ogni luna piena».

Tata Ogg si tolse la pipa di bocca e ne esaminò attentamente il fornello.

«La gente dice» proseguì Jason, abbassando la voce, «che danzano come mamma le ha fatte».

«E come le ha fatte?» chiese Tata Ogg.

«Sì, dai, mamma. Tutte ignude».

«Perbacco. Che notizia. E nessuno ha visto dove vanno?»

«Nah. Weaver, quello che fa i tetti, dice che lo seminano sempre».

«Jason?»

«Sì, mamma?»

«Sono andate a danzare intorno alle pietre».

Jason si pestò il pollice.

 

Sulle montagne e nelle foreste di Lancre c’era un certo numero di dèi. Uno di loro era noto come Heme il Cacciato. Era un dio della caccia e degli inseguimenti, più o meno.

La maggior parte degli dèi è creata e tenuta in vita dalla fede e dalla speranza. I cacciatori, danzando vestiti con pelli di animali, crearono il dio della caccia, che tendeva a essere chiassoso e turbolento, con il tatto di un’onda di maremoto. Ma non sono quelli gli unici dèi della caccia. Anche la preda ha una voce occulta, mentre il sangue pulsa e i cani abbaiano. Heme era il dio degli inseguiti e dei cacciati, e di tutti i piccoli animali il cui destino finale è un improvviso squench umidiccio.

Era alto circa un metro, con orecchie da coniglio e corna molto piccole. Ma aveva uno scatto notevolissimo, e lo stava usando al meglio mentre correva come un pazzo nei boschi.

«Arrivano! Arrivano! Stanno tornando tutti!»

 

«Chi sono?» disse Jason Ogg, con il pollice nella cisterna dell’acqua.

Tata Ogg sospirò. «Loro. Lo sai. Non ne siamo sicure, ma...»

«Chi sono Loro?»

Tata esitò. C’erano delle cose che alla gente comune non dicevi. D’altro canto Jason era un fabbro, il che voleva dire che non era comune. I fabbri avevano dei segreti da mantenere. E poi era di famiglia: Tata Ogg aveva avuto una giovinezza avventurosa e non era molto brava a fare i conti, ma era abbastanza sicura che fosse suo figlio.

«Vedi» disse, facendo un gesto vago con le mani, «quelle pietre... le Danzatrici... ai tempi dei tempi, insomma...»

Si interruppe e riprovò a spiegare la natura essenzialmente frattale della realtà.

«Ecco... ci sono dei posti che sono più sottili di altri, dove c’erano le vecchie soglie, sì, insomma, non erano proprio delle soglie... nemmeno io l’ho mai capito bene, più che altro dei punti in cui il mondo è più sottile... E comunque il fatto è che le Danzatrici... sono una specie di barriera... noi, sì, ecco, quando dico noi intendo migliaia di anni fa... però non sono solo pietre, sono un po’ come il ferro dei meteoriti, ma... ci sono cose tipo le maree, ma non con l’acqua, succede quando i mondi si avvicinano tanto che puoi passare dall’uno all’altro... insomma, se c’è gente che gira intorno alle pietre e fa la scema... Loro torneranno, se non stiamo attenti».

«Loro chi?»

«È questo il problema» disse Tata in tono infelice. «Se te lo dico capirai tutto al contrario. Vivono dall’altra parte delle Danzatrici».

Suo figlio la guardò. Poi un debole sorriso di comprensione gli apparve sul viso.

«Ah» disse. «Ho capito. Ho sentito che i maghi giù ad Ankh ogni tanto fanno dei buchi in una specie di tessuto della realtà che hanno loro, e che poi dalla Dimensione delle Segrete vengono fuori delle cose orrende. Insetti enormi con decine di occhi e più gambe di un gruppo di Danza Moresca». Afferrò il suo martello n. 5. «Non ti preoccupare, mamma. Se cominciano a saltar fuori anche qui, li facciamo...»

«No, non è così» disse Tata. «Quelli vivono fuori. Ma Loro vivono... là».

Jason era completamente smarrito.

Tata scrollò le spalle. Prima o poi doveva dirlo a qualcuno.

«I Signori e le Signore» disse.

«Chi sono?»

Tata si guardò intorno. Dopotutto era una fucina. Lì esisteva una fucina da molto prima che ci fosse un castello, molto prima che ci fosse un regno. C’erano ferri di cavallo ovunque. Il ferro era entrato nelle pareti. Non era solo un posto fatto di ferro, era un posto dove il ferro moriva e rinasceva. Se non potevi dire quelle parole qui, non potevi farlo da nessuna parte.

E tuttavia avrebbe preferito di no.

«Sì, insomma» disse. «I Luminosi. I Nobili. Gli Sfolgoranti. Il Popolo delle Stelle. Hai capito».

«Cosa?»

Tata posò la mano sull’incudine, tanto per andare sul sicuro, e pronunciò la parola.

Il cipiglio di Jason si distese molto dolcemente, alla velocità di un’alba.

«Loro?» disse. «Ma non sono buoni e...»

«Visto?» disse Tata. «Te l’avevo detto che avresti capito al contrario!»

 

«Quanto?» disse Ridcully.

Il cocchiere si strinse nelle spalle.

«Prendere o lasciare» disse.

«Mi dispiace, signore» disse Ponder Stibbons. «È l’unica carrozza».

«Cinquanta dollari a testa è una rapina a mano armata!»

«No» disse il cocchiere in tono paziente. «Una rapina a mano armata» spiegò con l’autorevolezza di un esperto «è quando qualcuno si mette in mezzo alla strada con una freccia puntata contro di noi mentre tutti i suoi amici saltano giù dalle rocce e dagli alberi e ci rubano i soldi e tutto il resto. Poi ci sono le rapine a mano non armata, di solito le fanno di notte e sono uguali alle altre, a parte il fatto che danno fuoco alla carrozza per vederci meglio. Poi ci sono i furti al tramonto, ecco, fondamentalmente si tratta di...»

«Sta dicendo» disse Ridcully «che farsi rapinare è compreso nel prezzo?»

«Gilda dei Banditi» disse il cocchiere. «Quaranta dollari a testa. È una tariffa a forfait».

«E che succede se non paghiamo?» disse Ridcully.

«Siete morti».

I maghi si ritirarono in un angolo.

«Abbiamo centocinquanta dollari» disse Ridcully. «Non possiamo tirare fuori nient’altro dalla cassaforte perché ieri il Tesoriere ha ingoiato la chiave».

«Ho un’idea. Posso provare, signore?» disse Ponder.

«Va bene».

Ponder rivolse un ampio sorriso al cocchiere.

«Gli animali domestici viaggiano gratis?» suggerì.

«Oook?»

 

La scopa di Tata Ogg sfrecciò a poca distanza dai sentieri della foresta, curvando a velocità tale che gli stivali strusciavano contro le foglie. Saltò giù dalla scopa davanti alla casetta di Nonna Weatherwax così in fretta che si dimenticò di spegnerla, e quella proseguì da sola finché andò a conficcarsi nel gabinetto.

La porta era aperta.

«Yuhuu?»

Tata sbirciò nel retrocucina, poi salì le scale strette.

Nonna Weatherwax era distesa rigida sul letto. Il viso era grigiastro, la pelle fredda.

Altre persone l’avevano trovata così prima, e la cosa era sempre stata motivo di imbarazzo. Perciò ora rassicurava i visitatori, ma sfidava la sorte tenendo sempre fra le mani rigide un bigliettino scritto a mano che diceva:

NON SONO MICA MORTA.

La finestra era tenuta aperta con un pezzo di legno.

«Ah» disse Tata, molto più a proprio beneficio che per chiunque altro, «vedo che non ci sei. Io... ecco, metto su l’acqua per il tè e aspetto che torni?»

L’abilità di Esme nel Prendere in Prestito le dava sui nervi. Entrare nella mente degli animali e simili andava benissimo, ma c’erano troppe streghe che non erano più tornate. Per molti anni Tata aveva lasciato fuori palline di grasso e cotenna di bacon per una cinciarella che secondo lei era la vecchia Nonna Postalute, che un giorno era andata per Prestiti e non era più tornata. Per quanto una strega potesse giudicare straordinario qualcosa, quello per Tata Ogg era straordinario.

Tornò nel retrocucina e prese un secchio d’acqua dal pozzo, ricordandosi stavolta di togliere le salamandre prima di mettere l’acqua a bollire.

Poi osservò il giardino.

Dopo un po’ una piccola sagoma lo attraversò volteggiando, diretta alla finestra del piano di sopra.

Tata versò il tè. Con cura prese un cucchiaio di zucchero dalla zuccheriera, versò tutto il resto dello zucchero nella sua tazza, rimise la cucchiaiata nella zuccheriera, mise entrambe le tazze su un vassoio e salì di sopra.

Nonna Weatherwax era seduta sul letto.

Tata si guardò intorno.

C’era un grosso pipistrello appeso a testa in giù a una trave.

Nonna Weatherwax si passò le mani sulle orecchie.

«Mettigli sotto il pitale, Gytha, per favore» mormorò. «Hanno quel vizio di farla sul tappeto».

Tata tirò fuori il soprammobile più timido della stanza di Nonna Weatherwax e lo spostò con il piede sul tappeto.

«Ti ho portato il tè» disse.

«Ottima idea. Ho la bocca che sa di tarme» disse Nonna.

«Pensavo che di notte facessi i gufi» disse Tata.

«Sì, ma poi va a finire che per giorni e giorni provi a girare la testa dall’altra parte» disse Nonna. «Almeno i pipistrelli guardano sempre nella stessa direzione. Ho provato prima con i conigli, ma lo sai come sono quando si tratta di memoria. E poi si sa a cosa pensano in continuazione, sono famosi per quello».

«All’erba».

«Esatto».

«Scoperto niente?» chiese Tata.

«Una mezza dozzina di persone va lassù a ogni luna piena!» disse Nonna. «Ragazze, a giudicare dalla forma. Con i pipistrelli vedi solo le sagome».

«Bel lavoro» disse Tata cautamente. «Ragazze di queste parti, secondo te?»

«Per forza. Non usano scope».

Tata Ogg sospirò.

«C’è Agnes Nitt, la figlia del vecchio Threepenny» disse. «E la figlia di Tockley. E qualche altra».

Nonna Weatherwax la guardò a bocca aperta.

«Ho chiesto al mio Jason» disse. «Scusa».

Il pipistrello ruttò. Nonna si coprì urbanamente la bocca con la mano.

«Sono una vecchia scema, eh?» disse dopo un po’.

«No, no» disse Tata. «Il Prestito è una cosa difficile. E tu sei molto brava».

«Altera, vorrai dire. Una volta ci avrei pensato anch’io a chiedere alla gente, invece di andare in giro a fare il pipistrello».

«Jason non l’avrebbe detto a te. L’ha detto a me solo perché avrei reso la sua vita un inferno, se non me lo diceva» disse Tata Ogg. «È a questo che servono le madri».

«Sto perdendo il tocco, ecco cosa. Invecchio, Gytha».

«Ognuno ha l’età che si sente, lo dico sempre».

«Voglio dire proprio quello».

Tata Ogg pareva preoccupata.

«Se Magrat fosse stata qui» disse Nonna, «mi avrebbe visto fare la figura della scema».

«È al sicuro al castello» disse Tata. «Impara a fare la regina».

«La cosa buona del fare la regina» disse Nonna «è che se lo fai male nessuno se ne accorge. È così perché lo dici tu».

«È buffa, la faccenda della regalità» disse Tata. «È un po’ come la magia. Prendi una ragazza con un sedere come due maiali sotto una coperta e la testa vuota, poi lei sposa un re, un principe o qualcosa del genere e all’improvviso diventa una radiosa maestà. È strano, il mondo».

«Bada che non ho intenzione di prostrarmi davanti a lei» disse Nonna.

«Ma tanto non ti prostri mai» disse Tata Ogg con pazienza. «Non hai mai nemmeno fatto un inchino al vecchio re. A Verence è tanto se gli fai un cenno. Non ti sei mai prostrata davanti a nessuno».

«Esatto!» disse Nonna. «È nella natura delle streghe».

Tata si rilassò un poco. Nonna che si sentiva vecchia la metteva a disagio. Nonna nella sua normale condizione di furia trattenuta a malapena era molto più rassicurante.

Nonna si alzò.

«La figlia di Tockley, eh?»

«Esatto».

«Sua madre era una Keeble, giusto? Bella donna, se non ricordo male».

«Sì, ma quando è morta il vecchio ha mandato la ragazza a studiare a Sto Lat».

«Non le sopporto, le scuole» disse Nonna Weatherwax. «Interferiscono con l’istruzione. Tutti quei libri. A che servono? Oggigiorno si legge troppo. Noi mica ce l’avevamo, il tempo di leggere».

«Eravamo troppo occupate a divertirci a modo nostro».

«Esatto. Andiamo, non c’è molto tempo».

«In che senso?»

«Non sono solo le ragazze. Là fuori c’è anche qualcos’altro. Una specie di mente».

Nonna rabbrividì. L’aveva avvertita nello stesso modo in cui un cacciatore abile, vagando per le colline, avverte la presenza di un altro cacciatore: dai silenzi dove dovrebbero esserci dei rumori, da uno stelo calpestato, dalla rabbia delle api.

A Tata Ogg l’idea del Prestito non era mai piaciuta, e Magrat aveva sempre rifiutato anche solo di provarci. Le vecchie streghe dall’altra parte della montagna avevano già troppi problemi con le esperienze corporee per aver voglia di quelle extracorporee. Perciò Nonna era abituata a tenere quella dimensione mentale tutta per sé.

C’era una mente che vagava per il regno, e Nonna Weatherwax non la capiva.

Prese in Prestito. Bisognava starci attenti, era come una droga. Si poteva entrare nelle menti di animali e uccelli, ma mai di api, guidandole con garbo, vedendo attraverso i loro occhi. Nonna Weatherwax aveva vagato molto spesso per i canali della coscienza intorno a sé. Per lei faceva parte del cuore stesso della stregoneria. Vedere con altri occhi...

... con gli occhi dei moscerini, per vedere come rallenta il tempo al ritmo di chi ha un solo giorno di vita e la mente che viaggia rapida come il fulmine...

... ascoltare con il corpo di uno scarafaggio, così che il mondo diventi una trama tridimensionale di vibrazioni...

... vedere con il naso di un cane, tutto odori e niente colori...

Ma c’era un prezzo. Nessuno ti chiedeva di pagarlo, ma era quella stessa mancanza a renderlo un obbligo morale. Non schiacciavi. Scavavi piano. Davi da mangiare al cane. Pagavi. Te ne curavi, non perché fossi particolarmente buona o gentile, ma perché era giusto. Non lasciavi altro che ricordi, non prendevi altro che esperienza.

Ma quest’altra intelligenza che vagabondava... entrava e usciva dalle menti come una sega circolare e prendeva, prendeva, prendeva. Ne percepiva la forma, la forma di predatore, un concentrato di crudeltà e di fredda spietatezza; una mente brillante che usava gli altri esseri viventi e faceva loro del male per divertimento.

Nonna aveva un nome per una mente come quella.

Elfo.

 

I rami alti degli alberi si agitavano con forza.

Nonna e Tata procedevano a grandi passi nella foresta. O meglio, Nonna Weatherwax procedeva a grandi passi. Tata Ogg sgambettava.

«I Signori e le Signore stanno cercando il modo di entrare» disse Nonna. «E c’è qualcos’altro. Qualcosa che è già passato, una specie di animale dell’altra parte. Scrope ha inseguito un cervo fin nel cerchio e quella cosa doveva essere lì, e dicevano sempre che è possibile passare di qua se qualcos’altro va nella direzione opposta...»

«Quale cosa?»

«Sai com’è la vista dei pipistrelli. Ho visto solo una grossa sagoma. Qualcosa ha ucciso Scrope, ed è ancora in giro. Non un... un Signore o una Signora» disse Nonna, «ma una cosa che viene da El... da quel posto».

Tata guardò le ombre. Ci sono parecchie ombre nella foresta, di notte.

«Non hai paura?»

Nonna fece scrocchiare le nocche.

«No, ma spero che ce l’abbia quella cosa».

«Oooh, è vero quello che dicono. Sei un tipo altero, Esmerelda Weatherwax».

«Chi lo dice?»

«Tu. Proprio adesso».

«Non mi sentivo bene».

Altri probabilmente avrebbero detto: ‘Non ero io’. Ma Nonna Weatherwax non aveva nessun altro, a parte se stessa.

Le due streghe ripresero ad avanzare veloci nella tempesta.

Al riparo di un cespuglio di rovi, l’unicorno le vide passare.

 

Diamanda Tockley portava davvero un cappello floscio di velluto nero. Aveva anche una veletta.

Perdita Nitt, che prima di darsi alla stregoneria era stata semplicemente Agnes Nitt, portava anche lei un cappello nero con la veletta, perché lo portava Diamanda. Avevano tutte e due diciassette anni. Perdita avrebbe voluto essere naturalmente magra come Diamanda, ma se non riesci a essere magra puoi sempre rimediare con un aspetto malsano. Perciò, per nascondere il suo colorito, roseo di natura, portava un trucco bianco molto pesante, tanto che se si fosse voltata di colpo la faccia le sarebbe finita sulla nuca.

Avevano fatto il Cono del Potere, un po’ di magia con le candele e un po’ di cristallomanzia. Ora Diamanda stava mostrando loro come fare le carte.

Diceva che contenevano un distillato della saggezza degli Antichi. Perdita si era ritrovata a chiedersi sospettosa chi fossero questi Antichi: ovviamente non erano i vecchi, che erano stupidi, come diceva Diamanda, ma non le era ben chiaro come mai fossero più saggi, che so, dei moderni.

E poi non capiva cosa fosse il Principio Femminile. E non le era nemmeno molto chiara la faccenda del Sé Interiore. Cominciava a sospettare di non avercelo per niente.

E avrebbe voluto sapersi truccare gli occhi come Diamanda.

E anche saper portare i tacchi come Diamanda.

Amanita DeVice le aveva detto che Diamanda dormiva veramente in una bara.

Avrebbe voluto avere il coraggio di farsi fare un tatuaggio con un teschio e una spada sul braccio, come aveva fatto Amanita, anche se era solo inchiostro e doveva lavarlo via ogni sera per non farlo vedere a sua madre.

Una vocina sgradevole nel Sé Interiore suggerì che Amanita non era un bel nome. E nemmeno Perdita, se era per quello.

E disse che forse Perdita non doveva immischiarsi in cose che non capiva.

Il problema, e lei lo sapeva, era che questa cosa importava più di tutto.

Avrebbe voluto saper portare il pizzo nero come Diamanda.

Diamanda otteneva dei risultati.

Perdita non ci avrebbe creduto. Sapeva da sempre delle streghe, naturalmente. Erano delle vecchie vestite come corvi, tranne Magrat Garlick che era francamente fuori di zucca e sembrava sempre sul punto di scoppiare in lacrime. Perdita si ricordava di quando Magrat aveva portato la chitarra a una festa di Hogswatch, e aveva cantato tremule canzoni folk con gli occhi chiusi, come se ci credesse davvero. Non sapeva suonare, ma d’altra parte non sapeva nemmeno cantare. La gente aveva applaudito perché, va be’, che altro potevano fare?

Ma Diamanda aveva letto dei libri. Sapeva un sacco di cose. Come acquisire potere dalle pietre, per esempio. Funzionava davvero.

Ora stava facendo le carte.

Il vento quella notte si era alzato di nuovo. Faceva sbattere le persiane e faceva cadere la fuliggine giù nel camino. Perdita aveva la sensazione che il vento avesse spazzato via tutte le ombre verso gli angoli della stanza...

«Mi stai ascoltando, sorella?» disse freddamente Diamanda.

C’era anche un’altra cosa. Bisognava chiamarsi ‘sorelle’ per fraternità.

«Sì, Diamanda» disse timidamente.

«Questa è la Luna» ripeté Diamanda, «per chi non stava attento». Sollevò la carta. «E che cosa vediamo qui... tu, Muscara?»

«Um... c’è la figura della luna?» rispose Muscara (al secolo Susan) in tono speranzoso.

«Ovviamente non è la luna. È una convenzione non-mimetica, non legata a un sistema di riferimento consolidato» disse Diamanda.

«Ah».

Una folata di vento fece vibrare il cottage. La porta si spalancò e sbatté contro il muro, rivelando un cielo carico di nubi in cui faceva bella mostra di sé la convenzione non-mimetica di una luna crescente.

Diamanda agitò una mano. Ci fu un breve lampo di luce ottarina e la porta si richiuse. Diamanda fece quel sorriso che agli occhi di Perdita voleva dire che la sapeva lunga.

Posò la carta sul panno di velluto nero.

Perdita la guardò cupamente. Era tutto molto carino, le carte erano colorate come gioielli di cartapesta e avevano nomi interessanti. Ma la vocina traditrice sussurrò: come diavolo facevano a sapere cosa riservava il futuro? Il cartoncino non è molto intelligente.

D’altra parte, la congrega stava aiutando delle persone... più o meno. Evocavano il potere e tutte quelle altre cose. Oh, cielo, e se lo chiede a me?

Perdita si rese conto di essere preoccupata. Qualcosa non andava. Qualcosa era appena andato storto. Non sapeva cosa, ma era andato storto in quel momento. Alzò la testa.

«Prosperità e fortuna per questa casa» disse Nonna Weatherwax.

Con lo stesso tono con cui una persona direbbe ‘Assaggia un po’ di piombo, Kincaid’ oppure ‘Ti starai chiedendo se dopo tutta quella confusione ho ancora qualche palloncino o qualche paralume’.

Diamanda rimase a bocca aperta.

«No, stai sbagliando. Con una mano come quella non vai da nessuna parte» disse volenterosamente Tata Ogg, guardandole al di sopra della spalla. «Hai una Doppia Cipolla».

«Chi siete

Erano comparse all’improvviso. Perdita pensò che un secondo prima c’erano delle ombre, un secondo dopo erano lì, in carne e ossa.

«Che cos’è tutto questo gesso per terra?» disse Tata Ogg. «Avete il pavimento pieno di gesso. E di scritte pagane. Non che abbia qualcosa in contrario» aggiunse, poi ci pensò su. «Praticamente sono pagana anch’io, ma non scrivo per terra. Perché scrivete per terra?» Diede di gomito a Perdita. «Il gesso non si toglie più» disse, «entra nella pietra».

«Ehm, è un cerchio magico» disse Perdita. «Salve, signora Ogg. Ehm. È per tenere lontani gli influssi malefici...»

Nonna Weatherwax si chinò leggermente in avanti.

«Dimmi, cara» disse a Diamanda, «secondo te sta funzionando?»

Si chinò ancora un po’.

Diamanda si tirò indietro.

E poi lentamente si sporse in avanti.

Finirono naso contro naso.

«Questa chi è?» disse Diamanda con l’angolo della bocca.

«Ehm, è Nonna Weatherwax» disse Perdita. «Ehm. È una strega...»

«Di che livello?» chiese Diamanda.

Tata Ogg cercò qualcosa dietro cui nascondersi. Le sopracciglia di Nonna Weatherwax ebbero un fremito.

«Livelli?» disse. «Direi che sono al livello uno».

«Principiante?» disse Diamanda.

«Oh, cielo. Ascolta» disse piano Tata Ogg a Perdita, «secondo me se rovesciamo quel tavolo possiamo nasconderci senza problemi».

Ma tra sé pensava: ‘Esme non sa resistere a una sfida. Nessuna di noi ne è capace. Non sei una strega se non sei sicura di te. Ma non diventiamo più giovani. Essere una strega esperta è come essere uno spadaccino a pagamento. Pensi di essere brava, ma sai che da qualche parte ce n’è una più giovane, che si esercita tutti i giorni, che perfeziona la sua arte, e un giorno sai che in mezzo alla strada sentirai una voce alle tue spalle che dice: “estrai il rospo”, o qualcosa del genere. Anche Esme prima o poi si troverà di fronte qualcuno più veloce di lei con la magia’.

«Oh, sì» disse Nonna, piano. «Sono una principiante. Comincio dal principio tutti i giorni».

Tata Ogg pensò: ‘Ma non sarà oggi’.

«Stupida vecchia» disse Diamanda, «non mi fai paura. Oh, sì. So tutto di come voi vecchie spaventate i villici superstiziosi. Mormorii e sguardi minacciosi. È tutto nella mente, psicologia spicciola. Non è vera magia».

«Io vado in cucina a vedere di riempire un secchio d’acqua, eh?» disse Tata Ogg a nessuno in particolare.

«Quindi sai tutto sulla magia» disse Nonna Weatherwax.

«Sì, sto studiando» disse Diamanda.

Tata Ogg si rese conto di essersi tolta il cappello e di stare mordicchiando nervosamente la tesa.

«Mi immagino che sarai molto brava» disse Nonna Weatherwax.

«Non male» disse Diamanda.

«Fammi vedere».

‘È brava’, pensò Tata Ogg. ‘Regge lo sguardo di Esme da più di un minuto. Perfino i serpenti di solito si arrendono dopo un minuto’.

Una mosca che si fosse trovata a volare nello spazio tra i loro sguardi si sarebbe incenerita in un istante.

«Ho imparato l’arte da Tata Gripes» disse Nonna Weatherwax, «che l’ha imparata da Goody Heggety, che l’ha imparata da Nanna Plumb, che ha sua volta era allieva di Black Aliss, che...»

«Perciò stai dicendo» disse Diamanda, caricando le parole nella frase come proiettili in un revolver, «che nessuno ha imparato qualcosa di nuovo

Il silenzio che seguì fu rotto da Tata Ogg che disse: «Cavolo, mi sono mangiata il cappello. Proprio mangiato».

«Capisco» disse Nonna Weatherwax.

«Guarda» si affrettò a dire Tata Ogg, dando di gomito a una tremante Perdita, «anche la fodera, tutto. Mi è costato due dollari, e ho dovuto pure affumicargli il maiale. Ecco due dollari e un maiale affumicato che non rivedrò tanto presto».

«Perciò puoi anche andartene, vecchia» disse Diamanda.

«Ma dobbiamo rivederci» disse Nonna Weatherwax.

La strega anziana e quella giovane si squadravano, soppesandosi.

«A mezzanotte?» disse Diamanda.

«Mezzanotte? Non c’è niente di speciale nella mezzanotte. Praticamente chiunque può fare la strega, a mezzanotte» disse Nonna. «Facciamo a mezzogiorno».

«Benissimo. Per cosa ci battiamo?»

«Battiamo? Mica ci battiamo. Facciamo solo vedere di cosa siamo capaci. Così, da amiche» disse Nonna Weatherwax.

Si alzò.

«È meglio che vada» disse. «I vecchi hanno bisogno di dormire, sai com’è».

«E cosa si vince?» chiese Diamanda. C’era appena una traccia di incertezza nella sua voce. Molto lieve: sulla scala Richter del dubbio probabilmente non era niente di più di un bicchiere di plastica che cade su un tappeto da uno scaffale basso, a cinque miglia di distanza, ma c’era.

«Oh, si vince e basta» disse Nonna Weatherwax. «È questo che conta. Non preoccuparti di accompagnarci alla porta, non ci hai nemmeno viste entrare».

La porta si aprì di schianto.

«Semplice psicocinesi» disse Diamanda.

«Ah, be’. È tutto a posto, allora» disse Nonna Weatherwax, scomparendo nella notte. «Così si spiega tutto».

 

Una volta, prima che inventassero gli universi paralleli, le direzioni erano molto semplici: Alto e Basso, Destra e Sinistra, Indietro e Avanti, Passato e Futuro...

Ma non funzionano nel multiverso, che ha fin troppe dimensioni perché chiunque riesca a trovare la strada; e così ne hanno inventate delle altre, per trovarla.

Per esempio: a est del sole e a ovest della luna.

Oppure: dietro alla tramontana.

Oppure: alle spalle dell’oltre.

Oppure: in mezzo alla Terra di Mezzo.

Oppure: oltre i campi conosciuti.

E a volte c’è una scorciatoia, una porta o un cancello. Delle pietre, un albero spaccato da un fulmine, un mobiletto d’archivio.

Magari un punto qualsiasi in una brughiera, da qualche parte...

Un posto dove è quasi qui.

Quasi, ma non proprio. C’è abbastanza dispersione da far oscillare i pendoli e far venire dei brutti mal di testa ai sensitivi, da far dire di una casa che è stregata, da far volare di tanto in tanto una padella da un capo all’altro di una stanza.

C’è abbastanza dispersione da mettere in guardia i fuchi.

Oh sì. I fuchi.

Esistono delle assemblee di fuchi. A volte, nelle belle giornate estive, i fuchi di alveari lontani chilometri fra loro si riuniscono in un posto e volano in cerchio, ronzando come minuscoli sistemi d’allarme, che poi è quel che sono.

Le api sono ragionevoli. È un termine umano. Ma le api sono creature d’ordine, geneticamente programmate per odiare il caos.

Un tempo, se certe persone sapevano dove si trovava un posto del genere, se avevano esperienza di cosa succede quando il qui e il là si aggrovigliano, segnalavano (se sapevano come fare) quel posto con delle pietre particolari.

Nella speranza che un buon numero di deficienti lo prendesse come un avvertimento e ne stesse alla larga.

«Allora, cosa ne pensi?» disse Nonna, mentre si affrettavano verso casa.

«Quella piccola e grassoccia ha un po’ di talento naturale» disse Tata Ogg. «L’ho sentito. Il resto è lì solo per lo spasso, secondo me. Giocano alle streghe. Sì, insomma, tavolette uuu-gia, carte, guanti di pizzo nero senza dita per pasticciare con l’occulto».

«Non sopporto chi pasticcia con l’occulto» disse Nonna con fermezza. «Quando cominci a pasticciare con l’occulto, poi cominci a credere negli spiriti, e se credi negli spiriti credi anche nei demoni e in men che non si dica ti ritrovi a credere negli dèi. E allora sì che sei nei guai».

«Ma esistono tutte, quelle cose» disse Tata Ogg.

«Sì, ma crederci non fa bene per niente. Le incoraggia soltanto».

Nonna Weatherwax rallentò il passo.

«E lei?» chiese.

«A chi ti riferisci?»

«Hai percepito potere anche lì?»

«Oh, sì. Da far drizzare i capelli in testa».

«Qualcuno gliel’ha dato, e io so chi. Una ragazzina con la testa piena di idee lette sui libri, e all’improvviso si ritrova ad avere un potere senza sapere che farci. Carte! Candele! Quella non è magia, sono giochi da festicciola. Pasticci con l’occulto. Hai visto che ha le unghie nere?»

«Be’, le mie non sono molto più pulite...»

«Voglio dire laccate».

«Anch’io mi davo lo smalto rosso alle unghie dei piedi, quand’ero giovane» disse Tata, nostalgica.

«Le unghie dei piedi sono un’altra cosa. E anche il rosso. Comunque» disse Nonna, «lo facevi per attirare l’attenzione».

«E funzionava».

«Ah! Figurati».

Proseguirono per un po’ in silenzio.

«C’era un sacco di potere lì» disse Tata Ogg alla fine.

«Sì, lo so».

«Parecchio».

«Sì».

«Non sto dicendo che non possa batterla» si affrettò ad aggiungere Tata. «Non sto dicendo questo. Ma io non credo di farcela, e mi sembra che abbia fatto sudare un po’ anche te. Dovrai farle male per batterla».

«Sto perdendo il giudizio, eh?»

«Oh, non...»

«Mi ha dato sui nervi, Gytha. Non ho resistito. E ora mi tocca duellare con una diciassettenne, e se vinco sono una vecchia strega prepotente, se perdo...»

Diede un calcio a delle foglie secche.

«Il mio problema è che non so quando fermarmi».

Tata Ogg non rispose.

«E perdo la calma per ogni minima...»

«Sì, ma...»

«Non ho finito».

«Scusa, Esme».

Un pipistrello passò in volo. Nonna lo salutò con un cenno della testa.

«Sai come se la cava Magrat?» disse in tono disinvolto e rilassato come un busto ortopedico.

«Il mio Shawn dice che se la cava bene».

«Ottimo».

Arrivarono a un incrocio; la terra battuta bianca brillava appena alla luce della luna. Una strada portava nell’abitato di Lancre, dove viveva Tata Ogg; un’altra si perdeva nella foresta, diventava una stradina sterrata, poi un sentiero e finiva a casa di Nonna Weatherwax.

«Quando ci rivediamo... noi... due?» chiese Tata Ogg.

«Senti» disse Nonna. «Lei è fuori, va bene? Sarà molto più felice a fare la regina!»

«Io mica ho detto niente» replicò Tata Ogg in tono mite.

«Lo so! Ti ho sentito, che non dicevi niente! Non ho mai sentito silenzi più rumorosi da qualcuno che non fosse morto!»

«Allora ci vediamo verso le undici?»

«Va bene!»

Il vento si alzò nuovamente mentre Nonna proseguiva lungo il sentiero verso casa.

Sapeva di essere al limite, ma c’erano troppe cose da fare. Aveva sistemato Magrat, Tata sapeva badare a se stessa, ma i Signori e le Signore... non li aveva calcolati.

Il punto era...

Il punto era che Nonna Weatherwax aveva la sensazione di stare per morire. E la cosa cominciava a darle sui nervi.

Sapere quando si morirà è uno di quei bizzarri vantaggi di cui godono i veri utenti della magia. E in generale sì, è un vantaggio.

Molti maghi sono morti felici scolandosi ciò che restava delle loro cantine, avendo tra l’altro accumulato ingenti quantità di denaro.

Nonna Weatherwax si era sempre chiesta come ci si sentisse, che cosa si vedesse all’orizzonte. Alla fine aveva scoperto che era il vuoto.

La gente crede che la vita sia come il percorso di un puntino che va dal Passato al Futuro, con la memoria che lo segue come la coda di una cometa mentale. Invece la memoria si estende in avanti, e non solo all’indietro. Il fatto è che la maggior parte degli umani non sa come gestirla, e perciò arriva sotto forma di premonizioni, intuizioni e presentimenti. Le streghe sanno come fare; per loro vedere il vuoto dove dovrebbero esserci le appendici del futuro è come, per un pilota d’aereo, sbucare da un banco di nuvole e vedere una fila di sherpa che lo guardano dall’alto in basso.

Aveva ancora qualche giorno, e poi fine. Aveva sempre pensato di avere un po’ di tempo per se stessa, per mettere in ordine il giardino e dare una bella pulita alla casa, in modo che chiunque fosse venuta dopo di lei non pensasse che era una sudiciona; e poi scegliere un buon posto per la sepoltura e passare un po’ di tempo seduta fuori, sulla sedia a dondolo, a non fare niente a parte guardare gli alberi e pensare al passato. Invece... non se ne parlava.

E stavano succedendo anche altre cose. La sua memoria le giocava brutti scherzi. Forse era così che andava, forse alla fine scorrevi via, come la vecchia Tata Gripes, che negli ultimi tempi metteva il gatto sulla stufa e il bollitore fuori per la notte.

Nonna si chiuse la porta alle spalle e accese una candela.

In un cassetto del comò c’era una scatola. La aprì sul tavolo di cucina e prese un foglio piegato con cura. C’erano anche una penna e dell’inchiostro.

... alla mia amica Gytha Ogg lascio lo letto e lo tappeto fattomi dal fabbro di Bad Ass, e la brocca col catino e col comesichiama che le sono sempre piaciuti, e la scopa che a lavorarci un po’ su va da dio.

A Magrat Garlick lascio il contenuto di questa scatola, il servizio da tè d’argento con la lattiera a forma di mucca che è un Cimelio di Famiglia, e pure l’Orologio di mia madre, ma con l’impegno di caricarlo sempre perché quando si ferma...

Ci fu un rumore all’esterno.

Se nella stanza ci fosse stato anche qualcun altro Nonna Weatherwax avrebbe aperto audacemente la porta, ma era sola. Prese molto cautamente l’attizzatoio, andò alla porta assai silenziosamente, considerato il genere di stivali che portava, e rimase in ascolto.

C’era qualcosa in giardino.

Non era proprio un giardino. C’erano le erbe, e i frutti di bosco, un po’ di prato e naturalmente le arnie. Ed era aperto verso il bosco. La fauna locale si guardava bene dall’invadere il giardino di una strega.

Nonna aprì la porta con circospezione.

La luna stava calando. La luce pallida e argentea rendeva il mondo monocromo.

Nel prato c’era un unicorno. Il puzzo le arrivò dritto nel naso.

Nonna avanzò, tenendo l’attizzatoio sollevato. L’unicorno indietreggiò, scalpitando.

Nonna vedeva chiaramente il futuro. Sapeva già quando. Ora cominciava a capire come.

«Allora» disse in un sussurro, «so da dove vieni. E ti ci rimando a calci nel sedere».

La cosa fece una finta, ma Nonna la respinse con l’attizzatoio.

«Non ti piace il ferro, eh? Allora tornatene dalla tua padrona e dille che noi a Lancre sappiamo tutto sul ferro. E io so tutto di lei. Deve stare alla larga, è chiaro? Questa è casa mia!»

 

Allora c’era la luna. Adesso era giorno.

C’era un bel po’ di gente in quella che si spacciava per la piazza principale di Lancre. Da quelle parti non succedeva mai granché e un duello di streghe era una cosa che valeva la pena di vedere.

Nonna Weatherwax arrivò a mezzogiorno meno un quarto. Tata Ogg aspettava su una panchina vicino alla taverna. Aveva un asciugamano intorno al collo e portava un secchio d’acqua in cui galleggiava una spugna.

«E quello a che serve?» chiese Nonna.

«Per l’intervallo. E ti ho portato delle arance».

Sollevò un piatto. Nonna sbuffò.

«Comunque faresti bene a mangiare qualcosa» disse Tata. «A vederti direi che non hai mangiato niente oggi...»

Guardò gli stivali di Nonna e l’orlo sporco del lungo vestito nero. C’erano impigliati pezzetti di felce ed erica.

«Vecchia scema!» sibilò. «Che cosa hai fatto?»

«Ho dovuto...»

«Sei stata alle Pietre, eh? A cercare di respingere i Nobili!»

«Certo» disse Nonna. La voce era ferma e lei era salda sulle gambe. Ma Tata Ogg sapeva che la voce era ferma e lei era salda sulle gambe solo perché il suo corpo era nella morsa della sua mente.

«Qualcuno doveva farlo» aggiunse.

«Potevi venire a chiederlo a me!»

«Tu mi avresti convinta a non farlo».

Tata Ogg si sporse in avanti.

«Ti senti bene, Esme?»

«Sì! Sto benissimo!»

«Hai dormito?» chiese Tata.

«Be’...»

«Non hai dormito, eh? E pensi di poter venire qui a confondere quella ragazza come se niente fosse?»

«Non lo so» rispose Nonna Weatherwax.

Tata Ogg la guardò intensamente.

«Ah, non lo sai, eh?» disse, in tono più gentile. «Ah... è meglio che ti siedi, prima di cadere. Mangia un’arancia. Saranno qui tra poco».

«No, lei no» disse Nonna. «Arriverà più tardi».

«Come lo sai?»

«A che serve un’entrata a effetto se nessuno se ne accorge? Psicofesserie».

In effetti la giovane congrega arrivò a mezzogiorno e venti e prese posizione sui gradini del pentagono del mercato, dall’altra parte della piazza.

«Guardale» disse Nonna. «Di nuovo tutte in nero».

«Be’, anche noi ci vestiamo di nero» disse Tata Ogg, la ragionevole.

«Solo perché è decoroso e funzionale» disse Nonna imbronciata. «Non perché è romantico. I Signori potrebbero essere già qui».

Dopo uno scambio di occhiate, Tata Ogg avanzò verso il centro della piazza, dove raggiunse Perdita. La giovane aspirante strega era preoccupata sotto il fondotinta. Tra le mani rigirava nervosamente un fazzoletto di pizzo nero.

«’Giorno, signora Ogg» disse.

«Buon pomeriggio, Agnes».

«Ehm. Ora che succede?»

Tata Ogg tirò fuori la pipa e la usò per grattarsi un orecchio.

«Non lo so. Dipende da voi, direi».

«Diamanda vuole sapere perché bisogna farlo proprio qui e ora».

«In modo che tutti vedano» rispose Tata Ogg. «È questo il punto, no? Niente segreti. Tutti devono sapere chi è la strega migliore. Tutta la città. Tutti vedono vincere la vincitrice e perdere la sconfitta. Così non ci sono discussioni, no?»

Perdita lanciò un’occhiata alla taverna. Nonna Weatherwax si era appisolata.

«Tranquilla e sicura di sé» disse Tata, incrociando le dita dietro la schiena.

«Ehm. E che succede a chi perde?» chiese Perdita.

«Niente» disse Tata Ogg. «Di solito se ne va. Non puoi più essere una strega, se ti hanno vista perdere».

«Diamanda dice che non vuole fare del male alla signora, non più di tanto» disse Perdita. «Solo darle una lezione».

«Ma che carina. Esme è una che impara in fretta».

«Ehm. Vorrei che non succedesse niente, signora Ogg».

«Ma che carina».

«Diamanda dice che Comare Weatherwax ha uno sguardo che colpisce».

«Ma che carina».

«E quindi la prova consiste nel... guardarsi, signora Ogg».

Tata si mise la pipa in bocca.

«Cioè, una sfida a chi batte per prima le palpebre o guarda altrove?»

«Ehm. Sì».

«Bene». Tata ci pensò su e scrollò le spalle. «Bene. Ma è meglio che prima facciamo un cerchio magico. Non vogliamo che qualcun altro si faccia male, no?»

«Con le Rune Skorhiane o con l’ottogramma della Tripla Invocazione?» chiese Perdita.

Tata Ogg inclinò la testa di lato.

«Mai sentiti nominare, cara» disse. «Io il cerchio magico lo faccio sempre così...»

Si allontanò dalla ragazza grassa camminando di lato come un granchio, trascinando la punta del piede nella polvere. Tracciò un cerchio approssimativo di circa quattro metri e mezzo di diametro, sempre con lo stivale, finché andò a sbattere di schiena contro Perdita.

«Scusa. Ecco fatto».

«Quello è un cerchio magico?»

«Esatto. Altrimenti qualcuno potrebbe farsi male. Durante un duello di streghe la magia schizza dappertutto».

«Ma non ha pronunciato l’incantesimo».

«No?»

«Un incantesimo ci deve essere, no?»

«Non lo so, non l’ho mai fatto».

«Ah».

«Posso cantarti una canzone buffa, se preferisci» disse Tata, volenterosa.

«Ehm, no. Ehm». Perdita non aveva mai sentito cantare Tata, ma le voci girano.

«Mi piace quel fazzoletto di pizzo nero» disse Tata, per nulla scoraggiata. «Così non si vedono le caccole».

Perdita fissava il cerchio, come ipnotizzata. «Ehm. Cominciamo, allora?»

«Certo».

Tata Ogg tornò alla panchina e diede a Nonna una gomitata nelle costole.

«Sveglia!»

Nonna aprì un occhio.

«Non stavo dormendo. Stavo solo facendo riposare gli occhi».

«Non devi fare altro che guardarla male!»

«Almeno si renderà conto dell’importanza dello sguardo. Ah! Chi si crede di essere? È tutta la vita che guardo male la gente».

«È proprio quello che mi preoccupa... aaah... chi è l’amore di nonna?»

Era arrivato il resto del clan Ogg.

Nonna Weatherwax aveva un’avversione personale per il piccolo Pewsey. Non le piacevano per niente i bambini piccoli, motivo per cui ci andava così d’accordo. Nel caso di Pewsey, era convinta che a nessuno dovrebbe essere consentito andare in giro in canottiera, anche se aveva solo quattro anni. Il bambino aveva anche il naso che colava continuamente, per cui gli serviva sempre un fazzoletto; in mancanza di quello, anche un tappo di sughero.

Tata Ogg, invece, diventava di colpo creta nelle mani di qualsiasi nipote, perfino di quelli appiccicosi come Pewsey.

«Voglio una caramella» ringhiò Pewsey con la voce stranamente profonda che hanno certi bambini piccoli.

«Un minuto, paperotto. Sto parlando con la signora» cinguettò Tata Ogg.

«Voglio una caramella adesso».

«Sparisci, gioia, nonna ora ha da fare».

Pewsey le si attaccò alle gonne e tirò forte.

«Caramella! Adesso!»

Nonna Weatherwax si chinò fino a portare il suo formidabile naso all’altezza di quello gocciolante di Pewsey.

«Se non te ne vai» disse in tono serio, «ti strappo la testa con le mie mani e la riempio di serpenti».

«Ecco!» disse Tata Ogg. «Pensa a tutti quei bambini poveri di Klatch che sarebbero felici di una maledizione del genere».

Il faccino di Pewsey, dopo un paio di secondi di incertezza, si aprì in un sorrisone.

«Che buffa che sei» disse.

«Senti, senti» disse Tata, accarezzandogli la testa. Poi si pulì distrattamente la mano sul vestito e proseguì: «Vedi quelle signorine dall’altra parte della piazza? Hanno un sacco di caramelle».

Pewsey si allontanò ondeggiando.

«Guerra batteriologica» disse Nonna Weatherwax.

«Forza» disse Tata. «Jason ha messo un paio di sedie nel cerchio. Sei sicura di stare bene?»

«Ce la faccio».

Perdita Nitt scarpinò verso di loro.

«Ehm... signora Ogg?»

«Sì, cara?»

«Ehm. Diamanda dice che non avete capito, dice che non si tratta di chi abbasserà prima gli occhi...»

 

Magrat si annoiava. Da strega non si era mai annoiata. Costantemente sconcertata e stremata, sì, ma annoiata mai.

Continuava a ripetersi che le cose sarebbero migliorate quando fosse diventata regina, anche se non sapeva proprio come.

Nel frattempo vagava senza meta fra le molte stanze del castello; il fruscio dell’abito era quasi inudibile nel frastuono delle turbine del tedio:

Pallepallepallepallepallepalle.

Aveva passato tutta la mattina a cercare di imparare a fare l’arazzo, perché Millie le aveva assicurato che le regine lo fanno, e il risultato con la scritta ‘Gli dèi benedicano questa casa’ era rimasto abbandonato sulla poltrona.

Nella Galleria Lunga c’erano arazzi enormi con scene di antiche battaglie, fatti da antiche sovrane annoiate: chissà come erano riusciti a convincere i combattenti a stare fermi tanto tempo. E aveva guardato i numerosi ritratti delle regine, tutte carine, tutte ben vestite secondo i canoni del loro tempo, e tutte apparentemente morte di noia da un bel po’.

Alla fine tornò al solario, che era la stanza in cima alla torre principale. In teoria era fatta per prendere il sole, e in effetti lo prendeva. Prendeva anche il vento e la pioggia. Era una specie di rete a strascico per tutto ciò che il cielo aveva voglia di scaricare.

Suonò il campanello che in teoria chiamava un domestico. Non successe nulla. Dopo un paio di altre scampanellate, rallegrandosi in cuor suo per la camminata, scese in cucina. Le sarebbe piaciuto passarci più tempo. Era sempre calda e di solito c’era qualcuno con cui parlare. Ma nobblessobliig, le regine dovevano vivere Di Sopra.

Di Sotto c’era solo Shawn Ogg, che stava pulendo il forno dell’enorme stufa di ferro e pensava che non fosse un lavoro per un militare.

«Dove sono andati tutti?»

Shawn saltò su e batté la testa sulla stufa. «Ahi! Scusi, signorina! Eh! Sono tutti... tutti in piazza. Io sto qui perché la signora Scorbic ha detto che mi leva la pelle se non pulisco tutta la morchia».

«Perché, che succede in piazza?»

«Dice che ci sono due streghe che si azzuffano, signorina».

«Cosa? Mica tua madre e Nonna Weatherwax, vero?»

«Oh, no. Una strega nuova».

«Una nuova strega? A Lancre?»

«Mamma ha detto così, mi pare».

«Vado a dare un’occhiata».

«Oh, non credo sia una buona idea, signorina» disse Shawn.

Magrat raddrizzò la schiena in modo regale.

«Si dà il caso che noi siamo la regina» disse. «O quasi. Perciò non dire alla regina cosa non deve fare, altrimenti ti mette a pulire i gabinetti».

«Ma io li pulisco» disse Shawn, ragionevole. «E anche la sedia col buco...»

«Quella deve sparire, tanto per cominciare» disse Magrat rabbrividendo. «L’abbiamo vista».

«A me non dà fastidio, signorina, mi ci prendo il mercoledì pomeriggio libero» disse Shawn, «ma quello che volevo dire è che deve aspettare che vado giù all’armeria a prendere il corno per la fanfara».

«Non abbiamo bisogno della fanfara, grazie molte».

«Ma deve avere una fanfara, signorina».

«La tromba ce la suoniamo da sole, grazie».

«Sì, signorina».

«Signorina cosa?»

«Signorina regina».

«E non te lo dimenticare».

 

Magrat arrivò quasi di corsa, per quanto fosse possibile correre con addosso un abito da regina, che dovrebbe avere delle rotelle.

Trovò delle persone disposte in circolo. Quasi all’esterno c’era una pensierosa Tata Ogg.

«Che succede, Tata?»

Tata si voltò.

«Uuuh, scusa. Non ho sentito la fanfara» disse. «Ti farei la riverenza, ma sai, le mie ginocchia...»

Magrat guardò le due figure sedute all’interno del cerchio.

«Che stanno facendo?»

«Gara di sguardi».

«Ma guardano il cielo».

«È stata quella Diamanda, che le venisse un colpo! Ha sfidato Esme a chi resiste di più a guardare il sole» disse Tata Ogg. «Non bisogna battere le palpebre né guardare altrove».

«E da quanto stanno così?»

«Un’ora circa» rispose Tata in tono cupo.

«Ma è terribile!»

«È una cretinata, ecco cos’è» disse Tata. «Non capisco cosa le sia preso, a Esme. Come se essere una strega fosse una questione di potere! Lei lo sa, il potere non c’entra. È come lo gestisci».

Una pallida nebbia dorata aleggiava sul cerchio, provocata dalla ricaduta di materiale magico.

«Al tramonto dovranno smettere» disse Magrat.

«Esme non ce la farà fino al tramonto» disse Tata. «Guardala, è già crollata».

«Immagino che non si possa usare la magia per...» cominciò Magrat.

«Sii seria» disse Tata. «Se Esme lo scoprisse mi prenderebbe a calci per tutto il regno. E poi le altre se ne accorgerebbero».

«Magari potremmo creare, che so, una nuvoletta?» disse Magrat.

«No! Così sarebbe barare!»

«Be’, tu lo fai sempre».

«Lo faccio per me. Non puoi barare per qualcun altro».

Nonna Weatherwax si accasciò di nuovo.

«Io potrei costringerle a fermarsi» disse Magrat.

«Ti faresti una nemica per la vita».

«Credevo che Nonna fosse già mia nemica».

«Se pensi questo, ragazza mia, non hai capito niente» disse Tata. «Un giorno scoprirai che Esme Weatherwax è la migliore amica che tu abbia mai avuto».

«Ma dobbiamo fare qualcosa! Non ti viene in mente nulla?»

Tata Ogg guardò pensierosamente il cerchio. Di tanto in tanto un filo di fumo si levava dalla sua pipa.

 

Il duello di magia fu riportato successivamente nel libro di Birdwhistle Leggende e antichità delle Ramtop come segue:

«Il duello andava avanti da novanta minuti, quando un bimbo piccolo all’improvviso attraversò di corsa la piazza ed entrò nel cerchio magico, dove cadde con uno strillo terribile e un lampo. La strega vecchia si voltò, si alzò, lo prese e lo riportò alla di lui nonna, poi tornò a sedersi, mentre la giovine strega mai distolse lo sguardo dal sole. Ma le altre giovini streghe fermarono il duello affermando, Guardate, Diamanda ha vinto, poiché Weatherwax ha guardato altrove. Allora la nonna dell’infante disse con voce tonante, Ah sì? Avete gli occhi foderati di prosciutto? Qui non si tratta di vedere chi è la più forte, è un duello di magia, non sapete nemmeno che cosa VUOL DIRE essere una strega? È una strega una che si volta quando un bambino urla?

«E i cittadini risposero Sììììì!».

 

«È stato meraviglioso» disse la signora Quamey, la moglie del negoziante. «È piaciuto a tutti. Una vera zuffa».

Erano nel retro della taverna. Nonna Weatherwax era stesa su una panca, con un asciugamano bagnato sul viso.

«Eh, già. Una bellezza» disse Magrat.

«Dicono che quella ragazza non aveva manco più una gamba sana».

«Già» disse Magrat.

«Se n’è andata con il naso in una fionda, dicono».

«Già» disse Magrat.

«Il bimbo sta bene?»

Tutti si voltarono a guardare Pewsey, che se ne stava in un angolo, seduto sul pavimento in una pozza sospetta in compagnia di un sacchetto di caramelle e dei baffi appiccicosi.

«Sta come un pascià» disse Tata Ogg. «Un po’ di sole non ha mai fatto male a nessuno. Lui strilla per qualsiasi cosa, amore di nonna» disse con orgoglio, come se fosse stato una specie di talento raro.

«Gytha?» disse Nonna da sotto l’asciugamano.

«Sì?»

«Di solito non tocco i liquori, lo sai, ma hai detto qualcosa di un brandy in funzione terapeutica?»

«Arriva subito».

Nonna sollevò l’asciugamano e fissò un occhio su Magrat.

«Buon pomeriggio, pre-maestà» disse. «Sei venuta a mostrarmi benevolenza?»

«Ben fatto» disse freddamente Magrat. «Possiamo parlare, Ta... signora Ogg? Fuori?»

«Ma certo, sua regina» disse Tata.

Nel vicolo, Magrat si voltò con la bocca aperta.

«Tu...»

Tata alzò la mano.

«So cosa stai per dire» disse. «Ma il piccino non è mai stato in pericolo».

«Ma tu...»

«Io?» disse Tata. «Non ho fatto niente, io. Mica lo sapevano che lui sarebbe entrato nel cerchio, no? Hanno reagito come avrebbero fatto di solito, no? Quello che è giusto è giusto».

«Be’, in un certo senso, ma...»

«Non ha barato nessuno» disse Tata.

Magrat si afflosciò. Tata le batté sulla spalla.

«Perciò non dirai a nessuno che mi hai visto agitare verso di lui il sacchetto delle caramelle, vero?» disse.

«No, Tata».

«Sei proprio una brava quasi-regina».

«Tata?»

«Sì, cara?»

Magrat respirò a fondo.

«Come faceva Verence a sapere quando saremmo tornate?»

Le sembrò che Tata ci pensasse su qualche secondo di troppo.

«Non saprei» disse alla fine. «Bada bene, i re sono un po’ magici. Possono curare la forfora e altra roba. Probabilmente una mattina si è svegliato con le prerogative reali che gli prudevano».

Il problema con Tata Ogg è che aveva sempre l’aria di mentire. Tata Ogg aveva un approccio pragmatico alla verità: la diceva se le conveniva e se non aveva voglia di inventare qualcosa di più interessante.

«Hai parecchio da fare lassù, eh?» disse.

«Stiamo molto bene, grazie» disse Magrat in tono che sperava pieno di regale altezzosità.

«Tu e chi?» disse Tata.

«Come, chi?»

«Chi altro sta bene?»

«No, sempre io!»

«Ah» disse Tata, serissima. «L’importante è tenersi occupati».

«Lui sapeva che stavamo per tornare» disse Magrat con fermezza. «Ha perfino spedito gli inviti. Ah, a proposito, ce n’è uno per te...»

«Lo so, è arrivato stamattina» disse Tata. «Con il bordo con le ondine, l’oro e tutto quanto. Chi è Ruservup?»

Già da tempo Magrat si era fatta un’idea su come Tata Ogg vedesse il mondo.

«RSVP» disse Magrat. «Vuol dire che devi dire se verrai».

«Oh, veniamo di sicuro, non se ne parla proprio di non venire» disse Tata. «Voialtre avete già avuto l’invito di Jason? Mi sa di no. Non ci sa fare granché con la penna, il nostro Jason».

«L’invito per cosa?» disse Magrat. Si stava scocciando di tutti quei plurali.

«Verence non ve l’ha detto?» disse Tata. «È una commedia scritta apposta per voi».

«Ah, sì» disse Magrat. «Lo Spettacolo».

«Esatto» disse Tata. «La sera di mezza estate».

«Sarà speciale, la sera di mezza estate» disse Jason Ogg.

La porta della fucina era stata chiusa col paletto. All’interno c’erano otto membri della Moresca di Lancre, sei volte vincitrice del Campionato Universale delle Quindici Montagne di Danza Moresca,9 ora alle prese con una nuova forma d’arte.

«Mi sento proprio un cretino» disse Bestia Carter, l’unico fornaio di Lancre. «Un travestimento! Spero solo che mia moglie non mi veda!»

«Qui dice» disse Jason Ogg, facendo scorrere l’enorme indice sulla pagina, «che è una me-ra-vi-glio-sa storia d’amore tra la Regina delle Fate... che sei tu, Bestia...»

«... grazie, eh...»

«... e un mortale. Più un in-ter-mez-zo co-mi-co con gli Artigiani Comici...»

«Che cos’è un artigiano?» chiese Weaver, quello che faceva i tetti di paglia.

«Boh. Un tipo di pozzo, mi sa». Jason si grattò la testa. «Sì, sì. Ce l’hanno giù in pianura. Una volta ho dovuto riparare una pompa. Pozzi artigiani».

«E che c’è da ridere?»

«Forse perché la gente ci casca dentro?»

«Ma perché non facciamo una Moresca come al solito?» disse Obidiah Carpenter, il sarto.10

«La Moresca è per tutti i giorni» disse Jason. «Dobbiamo fare qualcosa di culturale. Questo viene addirittura da Ankh-Morpork».

«Potremmo fare la Danza del Bastone e del Secchio» disse Baker il tessitore.

«Nessuno farà mai più la Danza del Bastone e del Secchio» disse Jason. «Il vecchio Thrum zoppica ancora, e sono passati tre mesi».

Weaver, quello dei tetti di paglia, guardò il copione stringendo gli occhi.

«E chi è ’sto Exeunt Omnes?» chiese.

«La mia parte non mi piace molto» disse Carpenter. «È troppo piccola».

«È per la moglie, che mi dispiace» disse di riflesso Weaver.

«Perché?» disse Jason.11

«Ma perché ci dev’essere un leone?» chiese Baker il tessitore.

«Perché è una commedia!» disse Jason. «Non la vedrebbe nessuno se ci fosse un... asino! Io non ce la vedo la gente a venire a vedere una commedia perché c’è un asino. Questa l’ha scritta un vero macinaparole! Ah, ce lo vedrei proprio a metterci un asino! Dice che gli interessa molto sapere come ce la caviamo! E ora chiudete quelle boccacce!»

«Io non mi sento molto la Regina delle Fate» si lagnò Bestia Carter.12

«Ti ci abituerai» disse Weaver.

«Spero di no».

«E devi provare la parte» disse Jason.

«Non c’è spazio» disse Thatcher il carrettiere.

«Be’, non lo faccio dove mi possono vedere» disse Bestia. «Anche se andiamo nei boschi, la gente mi vedrà! Con un vestito da donna!»

«Non ti riconosceranno nemmeno, con il trucco» disse Weaver.

«Trucco?»

«E con la parrucca» disse Tailor, l’altro tessitore.

«Ha ragione, però» disse Weaver. «Se dobbiamo renderci ridicoli, non voglio che qualcuno mi veda finché non lo sappiamo fare come si deve».

«Da qualche parte fuori città, tipo» disse Thatcher il carrettiere.

«Un posto dove non passa nessuno» disse Carter.

Jason si grattò il mento che sembrava una grattugia. Doveva pensare a un posto.

«E chi lo fa Exeunt Omnes?» chiese Weaver. «Non dice granché, eh?»

 

La carrozza attraversava sferragliando anonime pianure. Il territorio tra Ankh-Morpork e le Ramtop era fertile, ben coltivato e noiosissimo. Viaggiare allarga la mente. Quel paesaggio allargava la mente perché il cervello ti usciva dalle orecchie come porridge. Era il tipo di paesaggio in cui, se vedevi qualcuno in lontananza che raccoglieva cavolfiori, lo guardavi finché era possibile, semplicemente perché non c’era altro con cui occupare gli occhi.

«Io vedo...» disse il Tesoriere «qualcosa che inizia con... O».

«Oookay».

«No».

«Orizzonte» disse Ponder.

«Ha tirato a indovinare!»

«Certo che ho tirato a indovinare, è così che funziona. Abbiamo già avuto la C di Cielo, la V di Verza, la O di Ookay, e non c’è altro».

«Non gioco più se tira a indovinare». Il Tesoriere si tirò il cappello sulle orecchie e cercò di raggomitolarsi sul sedile rigido.

«Ci sono un sacco di cose da vedere a Lancre» disse l’Arcicancelliere. «L’unico pezzo di terreno piatto che c’è lo tengono in un museo».

Ponder non disse nulla.

«Ci passavo tutte le estati, quassù» disse Ridcully e sospirò. «Sapete... le cose avrebbero potuto essere molto diverse».

Ridcully si guardò intorno. Se devi condividere un pezzo di storia personale, assicurati che ti stiano a sentire.

Il Bibliotecario guardò lo scenario sobbalzante. Era imbronciato. Soprattutto perché aveva un collare di colore azzurro acceso, con su scritto ‘PONGO’. Qualcuno l’avrebbe pagata cara.

Il Tesoriere stava cercando di usare il cappello come una patella usa il guscio.

«C’era una ragazza».

Ponder Stibbons, che un destino crudele aveva eletto a unico ascoltatore, rimase sorpreso. Era cosciente del fatto che tecnicamente anche l’Arcicancelliere doveva essere stato giovane, una volta. Dopotutto era solo una questione di tempo. Il buonsenso suggeriva che i maghi non comparivano improvvisamente dal nulla, già settantenni e con un quintale di peso. Ma anche al buonsenso bisognava rinfrescare la memoria.

Sentì che doveva dire qualcosa.

«Era bella, signore?» disse.

«No. No, non si può dire che fosse bella. Ti colpiva, questo sì. Alta. Con dei capelli così biondi da essere quasi bianchi. E occhi come due trivelle, glielo dico io».

Ponder cercò di elaborare.

«Non parla di quel nano che ha la rosticceria a...» cominciò.

«Ecco, avevi l’impressione che potesse guardarti attraverso» disse Ridcully, in tono un po’ più tagliente di quanto intendesse. «E correva...»

Tacque di nuovo, rivedendo il notiziario della memoria.

«L’avrei sposata» disse.

Ponder non disse nulla. Quando sei un tappo di sughero nel flusso della coscienza altrui, non puoi fare altro che galleggiare.

«Che estate» mormorò Ridcully. «Molto simile a questa, in realtà. Cerchi nel grano che spuntavano ovunque. E... sì, io avevo dei dubbi. Mi sembrava che la magia non bastasse. Ero un po’... smarrito. Avrei mollato tutto per lei. I maledetti incantesimi, gli ottogrammi e tutto, senza pensarci due volte. Sa come si dice, ‘aveva una risata che sembrava un ruscello di montagna’?»

«No, non mi è molto familiare» disse Ponder, «ma ho letto delle poesie in cui...»

«Fesserie» disse Ridcully. «Io li ho sentiti, i ruscelli di montagna, e fanno gurgle. E poi dentro ci sono quelle cose, quegli insetti con... insomma. Quello che dico io è che non sembra per niente una risata. I poeti non ne azzeccano una. ‘Aveva le labbra come una ciliegia’. Piccole, tonde e con il nocciolo? Ah!»

Chiuse gli occhi. Dopo un po’ Ponder disse: «E poi cosa successe, signore?».

«Cosa?»

«La ragazza di cui mi parlava».

«Quale ragazza?»

«Quella ragazza».

«Ah, quella ragazza. Oh, mi disse di no. Disse che c’erano cose che voleva fare. Disse che ci sarebbe stato tempo a sufficienza».

Ci fu un’altra pausa.

«E poi cosa successe?»

«Secondo lei cosa successe? Me ne andai a studiare. Era cominciato l’anno accademico. Le scrissi molte lettere, ma non rispose mai. Probabilmente non le ha mai neanche ricevute, secondo me lassù se le mangiano. L’anno successivo studiai tutta l’estate e non ho mai più avuto il tempo di tornare. Non sono mai più tornato, con gli esami e tutto il resto. Immagino che sia morta, o che sia una cicciona con dodici figli. L’avrei sposata di corsa. Ma di corsa». Ridcully si grattò la testa. «Ah... se solo mi ricordassi come si chiamava...»

Si stiracchiò, allungando i piedi sul Tesoriere.

«È buffo» disse. «Non mi ricordo nemmeno il suo nome. Ah! Correva più veloce di un cavallo...»

«In ginocchio! O la borsa o la vita!»

La carrozza frenò rumorosamente.

Ridcully aprì un occhio.

«Che succede?» chiese.

Ponder si riscosse da una fantasticheria in cui erano coinvolte labbra che ridevano come ruscelli di montagna e guardò fuori dal finestrino.

«Credo» disse «che sia un bandito. Molto piccolo».

Il cocchiere guardò la figura in mezzo alla strada. Era difficile distinguere qualcosa da dove si trovava lui, per via delle dimensioni ridotte e del cappellone. Era come se stesse guardando un fungo molto ben vestito con una piuma sopra.

«Porgo le mie scuse» disse il minuscolo bandito. «In effetti sono un po’ basso».

Il cocchiere sospirò e posò le redini. Un conto erano gli agguati organizzati dalla Gilda dei Banditi, ma che gli venisse un colpo se si faceva minacciare da uno che non gli arrivava nemmeno alla vita e non aveva neanche una balestra.

«Bastardino» disse. «Te la stacco, quella testa». Guardò meglio. «Che cos’hai dietro la schiena? Una gobba?»

«Ah, ha notato la scaletta» disse il bandito basso. «Le faccio vedere...»

«Che succede?» disse Ridcully nella carrozza.

«Uhm. Un nano è salito su una scaletta e ha spinto giù il cocchiere con un calcio» disse Ponder.

«Non è una cosa che si vede tutti i giorni» disse Ridcully. Sembrava contento. Finora il viaggio era stato piuttosto noioso.

«Sta venendo qui».

«Oh, bene». Il bandito scavalcò il cocchiere gemente e si avviò alla portiera, trascinandosi dietro la scaletta.

Aprì la portiera.

«O la borsa o... mi rincresce... la...»

Una fiammata ottarina gli fece cadere il cappello. Il nano non cambiò espressione. «Con permesso, potrei riformulare la domanda?»

Ridcully squadrò quello sconosciuto ben vestito da capo a piedi. Non ci mise molto.

«Lei non ha l’aspetto di un nano» disse, «a parte l’altezza, si capisce».

«Non ho l’aspetto di un nano a parte l’altezza?»

«Voglio dire, mi sembra carente sul lato ‘elmo e stivali di ferro’» disse Ridcully.

Il nano s’inchinò e tirò fuori un pezzetto di cartoncino dalla manica sporca ma bordata di pizzo.

«Il mio biglietto» disse.

C’era scritto:

biglietto.jpg

Ponder sbirciò da sopra la spalla di Ridcully.

«È davvero un bugiardo patentato?»

«No».

«Allora perché rapina le carrozze?»

«Temo di essere caduto in un’imboscata dei banditi».

«Ma qui» disse Ridcully «dice che è uno spadaccino esperto».

«Erano troppi».

«Quanti erano?»

«Tre milioni».

«Salga su» disse Ridcully.

Casavechia gettò nella carrozza la scaletta e sbirciò nella penombra.

«È un primate quello che dorme lì?»

«Sì».

Il Bibliotecario aprì un occhio.

«E la puzza?»

«Lui non ci fa caso».

«Non sarebbe meglio scusarsi con il cocchiere?» disse Ponder.

«No, ma se gli fa piacere posso tirargli un calcio più forte».

«E quello è il Tesoriere» disse Ridcully, indicando il Reperto B, che dormiva il sonno concessogli da un’overdose quasi fatale di pillole di rana essiccata.

«Ehi, Tesoriere? Tesorieeeere? No, è andato. Lo spinga sotto il sedile. Sa giocare a Storpio Signor Cipolla?»

«Non molto bene».

«Ottimo!»

Mezz’ora dopo Ridcully doveva al nano ottomila dollari.

«Ma sul mio biglietto c’è scritto» osservò Casavechia «bugiardo patentato. Ecco, è proprio qui».

«Sì, ma pensavo che fosse una bugia!»

Ridcully sospirò e con grande meraviglia di Ponder tirò fuori un sacchetto di monete da qualche oscuro recesso. Erano grandi, d’oro e avevano un’aria sospettosamente realistica.

Casavechia sarà anche stato un libidinoso soldato di ventura, ma i geni erano quelli di un nano, e ci sono un paio di cose che i nani conoscono bene.

«Mmh» disse. «Lei sul suo biglietto non ha scritto ‘bugiardo patentato’, per caso?»

«No!» disse Ridcully con forza.

«No, è che riconosco le monete di cioccolato quando le vedo».

«Ma guarda» disse Ponder, mentre la carrozza costeggiava sobbalzando un canyon, «questo mi fa ricordare un famoso rompicapo logico».

«Quale?» chiese l’Arcicancelliere.

«Allora» disse Ponder, gratificato dall’attenzione, «a quanto pare c’era un uomo che stava davanti a due porte e doveva scegliere quale aprire, e la guardia di una diceva sempre la verità mentre la guardia dell’altra diceva sempre bugie; senonché dietro una delle porte c’era la morte sicura, e dietro l’altra la libertà, e lui non sapeva quale guardia diceva la verità e poteva porre solo una domanda: che cosa ha chiesto?»

La carrozza prese una buca. Il Bibliotecario si rigirò nel sonno.

«Mi sembra una cosa di Lord Hargon lo Psicopatico di Quirm» disse Ridcully dopo un po’.

«Esatto» disse Casavechia. «Era un vulcano di scherzi del genere. Tipo quanti studenti puoi mettere in una Vergine di Ferro».

«Quindi questa cosa è successa a lui?» disse Ridcully.

«Che? Ah, non lo so» disse Ponder.

«Perché? Mi sembrava che sapesse già tutto».

«Non credo che sia successo davvero. È un rompicapo».

«Aspetti» disse Casavechia. «Mi sa che ho capito. Una sola domanda, giusto?»

«Sì» disse Ponder, sollevato.

«E può chiedere a una qualsiasi delle guardie?»

«Sì».

«Oh, bene. In questo caso lui va dalla guardia più bassa e dice: dimmi qual è la porta per la libertà se non vuoi vedere il colore dei tuoi reni. E fra parentesi ci entrerò dopo di te, per cui se vuoi vincere il premio per Mister Astuzia ricordati chi entrerà per primo».

«No, no, no!»

«A me pare logico» disse Ridcully. «Ottimo ragionamento».

«Ma non ha armi!»

«Sì che ce l’ho. L’ho tolta alla guardia mentre lui rifletteva sulla domanda» disse Casavechia.

«Molto astuto» disse Ridcully. «Signor Stibbons, questo sì che è pensiero logico. Può imparare molto da quest’uomo...»

«... nano...»

«... nano, sì, mi scusi. Lui non parla soltanto di universi parassiti».

«Paralleli!» sbottò Ponder, il quale sospettava fortemente che Ridcully sbagliasse apposta.

«Allora i parassiti quali sono?»

«Non ce ne sono! Cioè, non ce ne sono, Arcicancelliere.13 Io parlavo di universi paralleli. Universi in cui le cose non sono successe come...» esitò. «Ha presente quella ragazza?»

«Quale ragazza?»

«La ragazza che voleva sposare?»

«E lei come lo sa?»

«Ne ha parlato dopo pranzo».

«Davvero? Pensa che scemo. Be’, cosa c’entra?»

«Ecco... in un certo senso, lei l’ha sposata» disse Ponder.

Ridcully scosse la testa. «No. Ne sono sicurissimo. Certe cose me le ricordo».

«Ah, ma non in questo universo...»

Il Bibliotecario aprì un occhio.

«Sta dicendo che ho fatto un salto in qualche altro universo e mi sono sposato?» disse Ridcully.

«No! Voglio dire che si è sposato in quell’universo ma non in questo» disse Ponder.

«Davvero? Con la cerimonia e tutto?»

«Sì!»

«Mmmh». Ridcully si accarezzò la barba. «Sicuro?»

«Certo, Arcicancelliere».

«Perbacco! Non lo sapevo».

Ponder ebbe la sensazione di stare arrivando a qualcosa.

«Ma allora...»

«Sì?»

«Perché non me lo ricordo?»

Ponder era preparato anche a questo.

«Perché lei nell’altro universo è diverso da lei qui» disse. «Era un altro lei quello che si è sposato. Probabilmente ora è sistemato da qualche parte, magari è bisnonno».

«Non scrive mai, lo so» disse Ridcully. «E non mi ha invitato al matrimonio, quel bastardo».

«Chi?»

«Lui».

«Ma lui è lei!»

«Ah, sì? Be’, io ci avrei pensato a me, no? Che bastardo!»

Non che Ridcully fosse stupido. I maghi veramente stupidi hanno l’aspettativa di vita di un martello di vetro. Aveva un intelletto potente, ma potente come una locomotiva: correva sui binari ed era quasi impossibile sterzare.

Gli universi paralleli esistono davvero, anche se paralleli non è proprio la parola giusta: gli universi ondeggiano e si avvolgono a spirale l’uno intorno all’altro come telai impazziti o uno squadrone di Yossarian con disturbi dell’orecchio medio.

E si ramificano. Ma non sempre, e questo è importante. All’universo non importa granché se calpestate una farfalla. Ce ne sono a bizzeffe, di farfalle. Gli dèi possono accorgersi della caduta di un passero, ma non fanno alcun tentativo di acchiapparlo.

Sparare al dittatore ed evitare la guerra? Ma il dittatore è solo la punta di quella massa suppurata di pus sociale da cui emergono i dittatori: abbattine uno e ne arriva un altro nel giro di un minuto. Spari anche a lui? Perché non sparare a tutti e invadere la Polonia? Nel giro di cinquanta, trenta, dieci anni il mondo tornerà sulla vecchia strada. La storia ha sempre una considerevole massa inerziale.

Quasi sempre...

Nel periodo dei cerchi, in cui i muri tra questo e quello si assottigliano e filtrano le cose più strane... Ah, è allora che vengono compiute le scelte e l’universo può essere spedito in una gamba diversa dei ben noti Pantaloni del Tempo.

Ma ci sono anche pozze stagnanti, universi tagliati fuori dal passato e dal futuro. Devono rubarli dagli altri universi; la loro unica speranza è ingozzarsi a spese degli universi dinamici durante la loro fase fragile, come fa la remora con gli squali di passaggio. Questi sono gli universi parassiti; quando i cerchi nel grano esplodono come gocce di pioggia, colgono la loro occasione...

 

* * *

 

Il castello di Lancre era molto più grande del necessario. Non che Lancre potesse allargarsi; era circondato su tre lati da montagne inospitali e una goccia occupava quello che sarebbe stato il quarto lato se non ci fosse stata la goccia. Per quanto se ne sapeva, le montagne non erano di nessuno, erano solo montagne. Il castello si allargava ovunque: nessuno sapeva fin dove arrivassero le cantine.

Di questi tempi tutti abitavano nelle torrette e nelle sale accanto al cancello.

«Voglio dire, guarda le merlature» disse Magrat.

«Le che?»

«Quei cosi a zigzag in cima alle mura. Da lassù puoi respingere un esercito».

«È a questo che servono i castelli, signo’».

Magrat sospirò. «Possiamo smetterla con questo ‘signo”, per favore? Sembra che hai il singhiozzo».

«Va bene, signo’».

«Quello che voglio dire è: chi va a combattere lassù? Nemmeno i troll possono valicare le montagne, e chiunque arrivi dalla strada è come se chiedesse una sassata in testa. Oltretutto bisogna solo tagliare il ponte di Lancre».

«Non lo so, signo’. Secondo me un re ce lo deve avere, un castello».

«Che stupida! Non ti poni mai delle domande?»

‘Le ho dato della stupida’ pensò Magrat. ‘La regalità mi si sta attaccando addosso.’

«Oh, non importa» disse. «Dove eravamo rimaste?»

«Ci servono duemila iarde di chintz azzurro con i fiorellini bianchi» disse Millie.

«E non abbiamo misurato nemmeno metà delle finestre» disse Magrat, arrotolando il metro da sarto.

Guardò la Galleria Lunga. Quello che la rendeva così caratteristica, la prima cosa che tutti notavano, era la lunghezza. Era molto lunga. Condivideva certi tratti distintivi con la Sala Grande e la Segreta Profonda: il suo nome ne costituiva anche una descrizione perfettamente accurata. E come avrebbe detto Tata Ogg, tappezzarla sarebbe stato un lavoro del cavolo.

«Perché? A che serve un castello a Lancre?» disse, perlopiù a se stessa, visto che parlare con Millie era come parlare fra sé. «Non ci sono mai stati combattimenti, a parte fuori dalla taverna il sabato sera».

«Non saprei, signo’» disse Millie.

Magrat sospirò.

«Oggi dov’è il re?»

«Apre il Parlamento, signo’».

«Aha! Il Parlamento!»

Un’altra delle idee di Verence. Aveva cercato di introdurre a Lancre la democrazia Efebiana dando a tutti il diritto di voto, o perlomeno a ‘tutti coloro di buona nomea, maschi, di quarant’anni e più e che possiedano14 una casa che renda più di tre capre e mezza all’anno’ perché non aveva senso fare stupidaggini e dare il voto a gente che fosse povera, criminale, pazza o femmina, che l’avrebbe usato in modo irresponsabile. Più o meno funzionava, anche se i Membri del Parlamento si presentavano solo quando ne avevano voglia, nessuno prendeva mai appunti e oltretutto nessuno contraddiceva mai Verence perché era il re. Che senso ha avere un re, pensavano, se poi devi governare tu? Che facesse il suo dovere, anche se ignorava l’ortografia. Nessuno gli chiedeva di costruire tetti di paglia o mungere mucche, no?

«Mi annoio, Millie. Mi annoio a morte. Vado a fare una passeggiata in giardino».

«Chiamo Shawn con la tromba?»

«No, se vuoi continuare a vivere».

Non tutti i giardini erano stati arati per gli esperimenti agricoli. Per esempio c’era il giardino dei semplici. All’occhio esperto di Magrat era un giardino piuttosto misero, visto che conteneva solo aromi per la cucina. E visto il repertorio della signora Scorbic, si limitava a menta e salvia. Non c’era un solo germoglio di verbena o di achillea o Pantaloni del Nonno.

Poi c’era il famoso labirinto, o quantomeno quello che doveva essere un famoso labirinto. Verence l’aveva piantato perché aveva sentito dire che tutti i castelli che si rispettino hanno un labirinto, e tutti si erano detti d’accordo sul fatto che quando le siepi fossero state un po’ più alte degli attuali trenta centimetri quello sarebbe diventato un labirinto famosissimo e la gente ci si sarebbe persa senza bisogno di chiudere gli occhi e chinarsi.

Magrat vagava sconsolata sul vialetto di ghiaia, lasciandosi dietro una leggera scia con l’abito enorme.

Qualcuno gridò dall’altra parte della siepe, ma Magrat riconobbe la voce. Al castello di Lancre c’erano tradizioni che aveva imparato a conoscere.

«Buongiorno, Hodgesaargh» disse.

Il falconiere del castello sbucò da dietro l’angolo, tamponandosi il viso con un fazzoletto. Sull’altro braccio aveva un uccello, con gli artigli come strumenti di tortura e gli occhi rossi che lanciarono a Magrat un’occhiataccia al di sopra di un becco affilato come un rasoio.

«Ho un falco nuovo» disse con orgoglio Hodgesaargh. «È un falco corvo di Lancre. Non sono mai stati addomesticati prima, e lo sto facendo io. Sono già riuscito a non farmi beccare ilaaaaaaaaah!»

Sbatté ripetutamente il falco contro il muro finché quello non gli mollò il naso.

In senso stretto, Hodgesaargh non era il suo vero nome. D’altra parte, se il vero nome di una persona è quello con cui si presenta, lui era senz’altro Hodgesaargh.

Il motivo era che i falchi del castello erano tutti uccelli di Lancre, e pertanto possedevano per natura una certa indipendenza di pensiero, di quella che ti manda a morire ammazzato. Dopo un paziente lavoro di allevamento e addestramento Hodgesaargh era riuscito a convincerli a mollare il polso di qualcuno, e ora stava cercando di impedire loro di attaccare con estrema cattiveria la persona che li teneva sul braccio, che invariabilmente era lui, Hodgesaargh. Tuttavia era un inguaribile ottimista e una persona di buon cuore, che viveva per il giorno in cui i suoi falchi sarebbero stati i migliori del mondo. I falchi vivevano per il giorno in cui gli avrebbero mangiato l’altro orecchio.

«Vedo che procede bene» disse Magrat. «Lei non crede che magari reagirebbero meglio alla crudeltà?»

«Oh, no, signorina» disse Hodgesaargh, «bisogna essere gentili. Bisogna creare un legame. Se no non si fidanoaaaaaagh!»

«Allora la lascio al suo lavoro, eh?» disse Magrat, mentre l’aria si riempiva di piume.

Magrat purtroppo non era rimasta per nulla sorpresa quando aveva scoperto che nella falconeria vigeva una precisa distinzione di genere e di classe: Verence, in quanto re, poteva avere un girifalco (qualsiasi cosa fosse); i conti del vicinato potevano far volare un falco pellegrino e ai preti erano concessi gli sparvieri. Ai cittadini comuni era permesso solo lanciare un bastone.15 Magrat si domandò cosa fosse consentito a Tata Ogg: un polletto su una molla, probabilmente.

Non c’erano rapaci specifici per le streghe, ma in quanto regina le regole della falconeria di Lancre le consentivano un caspitafalco o un gheppio-ansioso-dal-bargiglio. Era piccolo, miope e andava preferibilmente a piedi. Sveniva alla vista del sangue. E ci volevano circa venti caspitafalchi per uccidere un piccione, se il piccione non stava molto bene. Magrat aveva passato un’ora con uno di quei cosi sul braccio. Lui le aveva ansimato contro e alla fine si era appisolato a testa in giù.

Ma almeno Hodgesaargh aveva un lavoro. Il castello era pieno di gente che lavorava. Tutti avevano qualcosa di utile da fare tranne Magrat: lei doveva solo esistere. Naturalmente tutti parlavano con lei, purché fosse lei a rivolgere loro la parola. Ma guarda caso, li interrompeva sempre mentre facevano qualcosa di importante. A parte assicurare la discendenza reale, cosa per cui Verence aveva mandato a prendere un libro, lei...

«Stai indietro, ragazza. Non fare un altro passo» disse una voce. Magrat si risentì.

«Ragazza? Si dà il caso che siamo prossime per matrimonio al sangue reale!»

«Può darsi, ma le api non lo sanno» disse la voce. Magrat si fermò.

Aveva superato il punto di vista della famiglia reale sui giardini e ora li vedeva come chiunque altro: oltre le siepi e le erbe aromatiche, nel mondo dei capanni degli attrezzi, dei mucchi di vasi, del compost e, appunto, degli alveari.

Una delle arnie aveva il coperchio sollevato. Accanto, in mezzo a una nube marrone, intento a fumare la sua speciale pipa da api, c’era il signor Brooks.

«Oh» disse Magrat, «è lei, signor Brooks».

Tecnicamente il signor Brooks era l’Apicoltore Reale. Ma attenzione. Tanto per cominciare, nonostante la maggior parte del personale venisse chiamata per cognome e basta, il signor Brooks condivideva con la cuoca e con il maggiordomo il privilegio di un titolo. Perché il signor Brooks aveva dei poteri segreti. Sapeva tutto dei flussi di miele e dell’accoppiamento delle regine. Sapeva tutto degli sciami e come distruggere i nidi di vespe. Godeva del rispetto che generalmente si dimostra a coloro, come le streghe e i fabbri, le cui responsabilità non appartengono interamente al mondo della realtà quotidiana... persone che in effetti sanno cose che gli altri non sanno su cose che gli altri non immaginano nemmeno. Di solito lo si vedeva fare cose complicate con gli alveari; attraversava il regno inseguendo uno sciame, o fumava la pipa nel suo capanno segreto che odorava di miele vecchio e veleno per vespe. Non dovevi offendere il signor Brooks, a meno che non volessi uno sciame nel gabinetto mentre lui se la rideva nel capanno.

Ripose con cura il coperchio sull’arnia e si allontanò. Alcune api sfuggirono dai buchi nel velo della maschera.

«Buon pomeriggio, vostra signoria» concesse.

«Salve, signor Brooks. Che stava facendo?»

Il signor Brooks aprì la porta del capanno segreto e rovistò all’interno.

«Sciamano in ritardo» disse l’apicoltore. «Sono venuto a controllare. Un tè, ragazza?»

Non si potevano fare cerimonie con il signor Brooks. Lui trattava tutti alla pari, o con leggera condiscendenza, probabilmente perché era abituato a governare su migliaia, ogni giorno. E almeno con lui Magrat poteva parlare. Il signor Brooks le era sembrato la cosa più simile a una strega che un maschio potesse diventare.

Il capanno era stipato di pezzi di alveare, misteriosi strumenti di tortura per estrarre il miele, vecchi barattoli e una piccola stufa sulla quale una teiera sporca sbuffava vapore accanto a un’enorme padella.

Lui prese il silenzio di lei come un sì e riempì due tazze.

«È tisana?» chiese con voce tremula.

«E che ne so. Sono delle foglie marroni che stavano in un barattolo».

Magrat guardò incerta nella tazza, macchiata di marrone da tannino allo stato puro. Ma si riprese. Una delle cose che devi fare quando sei regina è mettere i cittadini comuni a loro agio. Cercò una domanda adatta.

«Dev’essere molto interessante, l’apicoltura» disse.

«Infatti».

«Ci siamo domandate spesso...»

«Cosa?»

«Come le munge?»