3. Meglio affrontare i problemi
alla radice anziché inseguire i populisti

Il populismo offre, come si è visto, risposte sbagliate ai problemi da cui trae la propria forza. Di più: induce a pensare che i problemi più spinosi possano essere risolti semplicemente sostituendo i politici corrotti con rappresentanti del popolo, che possibilmente non abbiano alcuna esperienza di governo.

Il modo migliore di evitare nuove cocenti delusioni a chi oggi, quasi per disperazione, è disposto a scommettere su persone di cui non si sa nulla, tranne che apparentemente “sono come noi”, è affrontare i problemi alla radice anziché accettare le libere associazioni della propaganda populista. Bisogna rimuovere quelle iniquità che trasmettono all’opinione pubblica l’immagine di una classe dirigente corrotta che pensa esclusivamente ai propri interessi. Dimostrare nei fatti che le regole dello stato sociale si applicano anche a chi ha posizioni di potere. Bisogna poi rispondere in modo convincente alla richiesta di protezione, separando i problemi dello stato sociale da quelli dell’immigrazione. Si tratta di due problemi disgiunti, che vanno affrontati a un differente livello di governo. Il problema dello stato sociale riguarda principalmente le singole giurisdizioni nazionali. Quello dell’immigrazione è un problema che non può che essere affrontato a livello europeo.

Nei singoli paesi è importante che avanzi la riforma dei sistemi di protezione sociale, nella direzione di renderli sostenibili di fronte alle grandi sfide di questo secolo, dalla globalizzazione al cambiamento tecnologico. I sistemi di protezione sociale europei sono stati costruiti soprattutto per rispondere a crisi temporanee, imposte dal ciclo economico. I sussidi di disoccupazione consentono a chi perde il lavoro di cercare un impiego alternativo, evitando che si impoverisca fin dal giorno dopo il licenziamento. In questa loro funzione sociale i sussidi di disoccupazione hanno anche un ruolo importante dal punto di vista macroeconomico: impediscono che la crisi diventi più profonda e più duratura evitando che si metta in moto un circolo vizioso di calo ulteriore della domanda di beni prodotti dalle imprese e di distruzione di posti di lavoro.

Analogamente, strumenti che sussidino riduzioni dell’orario di lavoro come la Cassa Integrazione Guadagni sono adatti per recessioni relativamente brevi: tengono i lavoratori attivi e impediscono alle imprese, temporaneamente in difficoltà, di perdere il capitale umano accumulato, una forza lavoro che nel tempo ha imparato a fondo il proprio mestiere e che sarebbe difficile sostituire con altri lavoratori una volta che la recessione è finita.

Prestazioni sociali di questo tipo non possono però gestire crisi strutturali, che per lunghi anni o addirittura per sempre rendono obsolete certe lavorazioni o le spostano in altre parti del mondo. Di fronte a sfide di questa portata i sussidi di disoccupazione, inevitabilmente di durata limitata, sono, alla lunga, un’arma spuntata. I trasferimenti in costanza di rapporto di lavoro possono addirittura rivelarsi controproducenti, legando persone a lavori e imprese che non hanno prospettive.

Per trasformare la protezione sociale ciclica in protezione sociale strutturale bisogna pensare a strumenti che facilitino la ricollocazione professionale, il cambiamento di lavoro, anche quando questo comporta inizialmente un salario più basso di quello avuto in precedenza e un posto sulla carta “meno sicuro”. Assicurazioni salariali che integrino i salari nei primi anni in cui si accetta un nuovo lavoro, meno remunerato del precedente, possono svolgere questa funzione. Fondamentale è anche proteggere senza inibire la mobilità territoriale, la ricerca di lavoro altrove. Ed è importante che i regimi di protezione dell’impiego incoraggino un costante investimento in formazione sul posto di lavoro da parte del lavoratore e dell’azienda, perché è proprio il miglioramento costante dell’incontro fra domanda e offerta di competenze che può proteggere dalla competizione dei paesi a basso costo del lavoro e dall’automazione.

Per chi proprio non ce la fa e rischia di cadere in condizioni di indigenza, invece, ci vuole un paracadute, un reddito minimo, in grado di riportare il beneficiario al di sopra della soglia di povertà. L’accesso a questo reddito minimo garantito è subordinato all’accertamento che le condizioni reddituali e patrimoniali delle famiglie siano effettivamente al di sotto della soglia di povertà. Per chi è disoccupato e in condizioni di lavorare, la possibilità di continuare a ricevere il trasferimento deve essere condizionata ad un impegno attivo nella ricerca di un impiego.

Offrire protezione sociale strutturale significa anche rendere i sistemi di welfare sostenibili, in grado di mantenere nel tempo gli impegni che prendono con i cittadini e con i contribuenti. Uno stato sociale sostenibile deve essere efficace nel raggiungere chi ha davvero bisogno d’aiuto, senza disperdere risorse a favore di persone che occupano una posizione intermedia o addirittura medio-alta nella scala dei redditi. Uno stato sociale sostenibile deve basarsi in gran parte su un principio assicurativo, in cui le prestazioni vengono erogate a partire dai contributi versati, come premi assicurativi. Uno stato sociale sostenibile deve porre in essere un solido patto fra generazioni, in cui non vi siano stridenti asimmetrie fra il trattamento riservato a chi oggi è in pensione e a chi oggi entra per la prima volta nel mercato del lavoro.

La classe dirigente potrà riguadagnarsi la fiducia dei cittadini solo se si mostrerà capace di autoriforma: non può chiedere agli altri di fare ciò che non vuole o non è in grado di imporre a se stessa.

Come documentano le barre verticali della figura 5, oggi ci sono circa 2.600 vitalizi in pagamento per cariche elettive alla Camera o al Senato. Si dica quel che si vuole, ma i vitalizi sono pensioni concesse con regole molto più vantaggiose di quelle riservate agli altri lavoratori. Già da tempo, a partire da metà degli anni Settanta, la gestione delle pensioni dei parlamentari ha presentato evidenti e crescenti squilibri che sono letteralmente esplosi a partire dalla seconda metà degli anni Novanta, proprio mentre le pensioni degli italiani venivano fortemente ridimensionate. Con le regole attuali, la spesa per vitalizi (linea nera) è destinata, anche nel prossimo decennio, a continuare ad eccedere di circa 100 milioni l’anno i contributi versati da deputati e senatori (linea grigia).

Figura 5. Spesa per vitalizi, contributi e numero dei percettori

Figura 5. Spesa per vitalizi, per cariche elettive, contributi e numero dei percettori

Applicando le regole del sistema contributivo oggi in vigore per tutti gli altri lavoratori italiani all’intera carriera contributiva dei parlamentari, la spesa per vitalizi si ridurrebbe del 40%, con un risparmio di circa 57 milioni. Supponendo poi che il rapporto fra vitalizi in essere e vitalizi ricalcolati sia lo stesso per i consiglieri regionali, il risparmio complessivo in caso di ricalcolo per l’insieme delle cariche elettive salirebbe a 125 milioni di euro (e a circa un miliardo e 235 milioni nei primi dieci anni).

Non sono cifre simboliche. Non si vuole farlo? Ci si vuole trincerare dietro alla possibile censura della Corte costituzionale? Si cominci quantomeno a fare un’operazione di trasparenza, procedendo a un ricalcolo dei vitalizi col sistema contributivo oggi applicato a tutti gli italiani. Nel corso di audizioni parlamentari e di incontri con l’associazione degli ex parlamentari ho invitato gli attuali e futuri percettori di vitalizi a darci tutte le informazioni per procedere a questo ricalcolo a livello individuale. Ma sin qui nessuno, dico nessuno, ha raccolto questo invito.

Ci vuole inevitabilmente del tempo affinché le riforme dei sistemi di protezione sociale vengano portate a compimento. Mentre questo lavoro procede, è fondamentale che le esigenze di chi si sente al margine, di chi è più vulnerabile, trovino voce. C’è una ragione profonda per cui i populisti odiano i corpi intermedi: sono il miglior antidoto contro il populismo. Non solo perché resistono all’occupazione totale dei poteri, come il potere giudiziario o i sindacati che in Venezuela si sono opposti alla dittatura di Chávez, ma anche perché offrono alternative al populismo a chi sin qui non ha avuto voce in capitolo. Chi appartiene a una qualche associazione della società civile, chi ha una tessera del sindacato in tasca, difficilmente cade nella propaganda populista.

La figura 6 mostra stime di quanto vari la probabilità di votare per un qualche partito populista in base alle caratteristiche individuali e all’appartenenza a una qualche associazione della società civile. I dati sono tratti dallo European Social Survey, un’indagine condotta in Europa da ormai venti anni sulla base di un questionario armonizzato tra paesi, e sono di tipo retrospettivo (si chiede agli intervistati come hanno votato alle elezioni precedenti). I partiti populisti sono quelli della classificazione curata dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti (cfr. Appendice).

Figura 6. Variazioni percentuali nel voto per partiti populisti: caratteristiche individuali e associazionismo

Figura 6. Variazioni percentuali nel voto per partiti populisti in base alle caratteristiche individuali e all’appartenenza ad associazioni della società civile

Nota: La variabile dipendente è dicotomica: è uguale a 1 quando l’intervistato ha votato per un partito populista, e a zero altrimenti.

La figura 6 ci dice che appartenere ad associazioni della società civile riduce la probabilità di votare per un partito populista di circa il 4% a parità di altre condizioni. Anche il fatto di possedere un titolo di studio universitario o superiore sembra incidere in maniera significativa: sono infatti soprattutto i cittadini meno istruti a votare per i partiti populisti. Vi sono tanti modi di spiegare il ruolo dell’istruzione nel condizionare il voto populista. L’istruzione è, ad esempio, positivamente correlata al reddito e inversamente alle reazioni emozionali (delusione, rabbia, frustrazione, desiderio di aggressione) che, come vedremo in seguito, spiegano il voto ad outsiders sconosciuti.

Il documentato ruolo dell’associazionismo nello scoraggiare il voto populista ha spiegazioni meno ovvie. I contesti collettivi, i movimenti politici e i social network, possono diventare un’arena in cui coltivare rancori, dare fiato all’odio contro l’establishment e la “casta”. Il risultato illustrato nella figura 6 sembra allora discendere proprio dal ruolo esercitato dai corpi intermedi della società civile nello scardinare la contrapposizione fra popolo ed élite e nel rafforzare il rapporto fiduciario che deve instaurarsi in ogni democrazia rappresentativa fra elettori e classe dirigente.

È una questione di fiducia, prima ancora che di rappresentanza. Quando sei debole e insicuro cerchi qualcuno di cui poterti fidare. Se non lo trovi, non ti rimane che scommettere con la forza della disperazione sulle promesse di qualche bravo oratore, pur sapendo che molto probabilmente non verranno mantenute. La frustrazione ti spinge solo a punire chi ti ha deluso, al di là della razionalità di questo comportamento. È il desiderio di aggressione – un meccanismo psicologico studiato anche nell’ambito dell’economia comportamentale – secondo cui la frustrazione conseguente alla delusione delle aspettative porta al desiderio sfrenato di punire chi ha provocato la delusione. Questo stesso meccanismo spiega il desiderio di votare per un partito populista, indipendentemente dalle specifiche piattaforme proposte. In altre parole, chi vota populista lo fa più che altro per soddisfare il desiderio di punire una classe politica che si è dimostrata in passato inadeguata in rapporto alle aspettative.

Ovviamente, i partiti tradizionali non sono adeguati a svolgere questo ruolo punitivo nei confronti della classe politica: non per un problema di credibilità, ma perché sono essi stessi la classe politica da punire. Il partito populista, al quale è delegato il compito di punire la vecchia classe politica, deve invece necessariamente essere un nuovo partito al di fuori della vecchia classe dirigente. Occorrono, però, non solo partiti nuovi, ma anche nuovi leader alla loro guida.

Il sindacato, come tutti i corpi intermedi, potrebbe contribuire a ridurre fortemente il richiamo dei partiti populisti. Ha perciò oggi grandi responsabilità di fronte alla sua avanzata. In Italia forse ancora di più che in altri paesi. Che credibilità può avere un sindacato che si oppone all’introduzione di un salario minimo in Italia, nonostante fosse previsto dai decreti attuativi del Jobs Act? Perché non pensa innanzitutto a proteggere i più poveri, selezionando i beneficiari di assistenza in base alla situazione economica e patrimoniale della famiglia nel suo complesso? Perché ha chiesto e ottenuto, con l’incremento generalizzato della cosiddetta quattordicesima, di dare più soldi anche ai pensionati che vivono in famiglie con redditi e patrimoni elevati, invece di pensare prima di tutto ad aiutare i più poveri, quale che fosse la loro età?

In Italia solo tre euro su cento erogati per prestazioni sociali vanno al 10% più povero della popolazione, mentre spendiamo quasi cinque miliardi di euro in misure assistenziali destinate al 40% della popolazione con redditi più alti. Alla luce di queste cattive proprietà distributive del nostro sistema di protezione sociale non ci può essere giustificazione di sorta per la mancanza in Italia di una rete di protezione sociale contro la povertà, di un reddito minimo garantito, basato su criteri uniformi su tutto il territorio nazionale.

Sin qui abbiamo visto risposte nazionali al populismo. A livello europeo vanno, invece, gestiti i problemi comuni, a partire da quelli dell’immigrazione e dei rifugiati. Affinché l’Unione Europea sopravviva come area in cui vige la libera circolazione dei lavoratori occorre avere una politica dell’immigrazione a livello comunitario e una gestione comune del problema dei rifugiati, con una profonda revisione della convenzione di Dublino.

Bisognerebbe, innanzitutto, decidere sulle domande d’asilo prima che le persone in cerca d’asilo entrino nel territorio dell’Unione Europea. Questo servirebbe a frenare l’ecatombe di disperati che perdono la vita nel tentativo di raggiungere un paese in cui poter fare domanda d’asilo. A supporto di questa gestione comune delle domande ci dovrebbe essere un accordo comunitario su ciò che rende una domanda d’asilo accoglibile e investimenti comunitari volti alla creazione di strutture di prima accoglienza al di fuori dei confini dell’Unione.

Occorrerebbe, inoltre, un accordo sulla condivisione fra i singoli Stati della prima accoglienza dei rifugiati, una volta che questi siano entrati nell’Unione. Forme di compensazione fra paesi, o addirittura un sistema di quote che possano essere oggetto di negoziati bilaterali e di scambi fra i diversi paesi, servirebbero a rendere sostenibile nel tempo questa condivisione dei costi iniziali dell’accoglienza.

Inutile sottolineare che siamo molto lontani dal poter realizzare questo disegno, anche perché i partiti populisti, come si è detto, sono già al potere in cinque paesi dell’Unione (Finlandia, Grecia, Lituania, Slovacchia e Ungheria) oltre che in due paesi membri dell’Area economica europea (EEA), ovvero la Norvegia e la Svizzera.