PHILIP PULLMAN

LA PRINCIPESSA DI LATTA

(The Tin Princess, 1994) 

 

A Gordon Dennis,

con gratitudine e affetto

 

Grazie a Tom per l'aiuto con l'albero genealogico 

 

PERSONAGGI PRINCIPALI

 

Rebecca Winter (Becky), sedici anni

James Taylor (Jim), investigatore privato

Signorina Adelaide Bevan, giovane donna di St John's Wood

Herr Strauss, alias principe Rudolf di Razkavia

Sally Goldberg, consulente finanziaria

Daniel Goldberg, marito di Sally, giornalista politico

Liam, Charlie, Sean e altri membri di una banda di strada nota come le Guardie Irlandesi

Conte Thalgau, ambasciatore razkaviano presso la Corte di San Giacomo (ossia presso la Gran Bretagna)

Contessa Thalgau, moglie dell'ambasciatore

Frau Winter, mamma di Becky, artista

Carmen Isabella Ruiz y Soler, attrice

Principe Otto von Bismarck, Cancelliere di Germania

Herr Gerson von Bleichröder, banchiere berlinese

Julius, segretario di Bleichröder Re Wilhelm di Razkavia, padre del principe Rudolf

Barone Gödel, ciambellano, responsabile della Casa Reale

Karl von Gaisberg, studente, membro del Richterbund

Glatz, studente ed esagitato attivista politico

Conte Otto von Schwartzberg, cugino del principe Rudolf, cacciatore

Anton, Friedrich, Fritz, Hans, Heinrich, Jan, Michael, Willi, studenti, membri del Richterbund

Herr Alois Egger, commerciante di sigari

L'Arcivescovo di Razkavia

Frau Busch, vedova di un cacciatore

Herr Bangemann, impiegato presso il ministero razkaviano degli Affari Esteri

Principe Leopold, fratello di Rudolf

Matyas, proprietario del Café Florestan

Soldato semplice Schweigner, sentinella della Guardia dell'Aquila 

Caporale Kogler, sentinella della Guardia dell'Aquila

Miroslav e Josef, anziani fratelli, ladri fluviali

... e servitori vari, soldati, cittadini, diplomatici, dottori, bigliettai, ingegneri minerari, funzionari di Palazzo, garzoni del macellaio, capistazione della funicolare, impiegati, musicisti, telegrafisti, padroni di casa e assassini. 

 

Capitolo uno

 

LA MACCHINA INFERNALE

 

Rebecca Winter, allegra, piena di talento e povera, era arrivata all'età di sedici anni senza aver mai visto una bomba esplodere. Non che fosse tanto difficile: Londra nel 1882 non era certo più esplosiva di quanto lo è ora. Né lo era meno, a pensarci bene, perché la dinamite era già un potente strumento politico. 

In ogni caso, in quella bella mattina di maggio, Becky non stava affatto pensando alle bombe. Il sole splendeva luminoso nel cielo costellato di nubi piccole e grasse simili a pennellate di bianco su una tavolozza di blu oltremare, e Becky camminava lungo un viale alberato a St John's Wood, a nord di Londra, pensando ai verbi della lingua tedesca. Stava andando a conoscere la sua nuova allieva - la sua prima allieva, in verità, ed era ansiosa di fare una buona impressione. 

Il suo mantello era un po' logoro e la cuffietta fuori moda, e c'era un buco nella suola dello stivale destro. Ma non aveva importanza. La strada era asciutta, l'aria fresca e le era sembrato che quel giovane con la paglietta la guardasse con interesse: Becky si sentiva meravigliosamente bene, perché era una donna indipendente... o quasi. Tenendo la testa alta, ignorò il giovane curioso con il cappello di paglia, guardò il cartello con il nome della strada e svoltò in un viale fiancheggiato da spaziose ville. 

Il tedesco era la prima lingua di Becky. La seconda era l'inglese, la terza l'italiano, la quarta il francese e la quinta lo spagnolo; al momento stava imparando il russo e sapeva dire parolacce in polacco e in lituano. Viveva con sua madre e sua nonna in una pensione nell'angolino più modesto di Maida Vale, dove sua madre lavorava come illustratrice di romanzi dozzinali e riviste scandalistiche. Abitavano lì sin dal giorno in cui erano state costrette a emigrare dall'Europa centrale quando Becky aveva appena tre anni, mantenendosi grazie alla loro industriosità e alla rete locale di esuli, un gruppo di persone povere, chiassose, litigiose, generose e di enorme talento provenienti da quasi ogni paese d'Europa. Per Becky pensare in diverse lingue era naturale quanto l'idea di doversi guadagnare da vivere. Di conseguenza le era sembrato sensato mettere le due cose insieme. 

Tuttavia Becky era infastidita dalle perenni costrizioni che soffocavano la sua vita. Come tutte le persone con un aspetto poco romantico (non tanto grassoccia quanto robusta, con luminosi occhi neri avidi di sapere, guance che arrossivano troppo facilmente e riccioli scuri ribelli) era certa di avere l'animo di un brigante. Agognava l'amore sentimentale. L'unico idillio fino a quel momento era stato all'età di dodici anni, con il figlio del macellaio. Lui le aveva dato una sigaretta in cambio di un bacio, ma lei non l'aveva neppure finita, perché il ragazzo le aveva detto che per le donne era pericoloso fumare sigarette... potevano farle impazzire. Perciò si erano seduti tra i cespugli e l'avevano fumata insieme e Becky gli aveva vomitato sugli stivali, e ben gli stava. Ma questo non aveva soddisfatto la sua anima: sognava coltellacci, pistole e brandy, e invece doveva accontentarsi di caffè, matite e verbi. 

Ma c'era motivo di gioia anche nei verbi. Becky era sinceramente affascinata dal modo in cui funzionavano le lingue, e se non poteva vivere con una banda di briganti in una grotta della Sicilia, era disposta a studiare linguistica e filologia all'università. Ma studiare costava. Così lei aveva fatto ciò che facevano molti dei suoi amici esuli: aveva messo un annuncio per offrirsi come insegnante di lingue, specializzata in tedesco e italiano. 

La risposta non si era fatta attendere, ed era stata una risposta decisamente singolare. Un giovane gentiluomo, che aveva insistito per parlare inglese anche se Becky e sua madre erano sicure che sarebbe stato più a suo agio con il tedesco, l'aveva assunta per andare ogni mattina alla sua villa al numero 43 di Church Road a St John's Wood per dare lezioni a una certa signorina Bevan. Il compenso che aveva offerto era stato più che generoso e il suo imbarazzo, data la sua giovane età, piuttosto evidente. Becky e sua madre avevano trascorso ore a fantasticare su di lui dopo che se n'era andato. Lei era certa che fosse un anarchico, mentre sua madre era altrettanto sicura che fosse un nobile, o persino un principe. 

«Io ne ho visti di principi in vita mia, mentre tu no» aveva detto. «Credimi, è un principe. E in quanto a lei...»

Era difficile anche solo immaginare chi potesse essere la signorina Bevan. Era giovane? Vecchia? Una bambina? Una spia sinistra e affascinante? 

Be', pensò Becky, presto l'avrebbe scoperto. Svoltò in Church Road e stava per aprire il cancello del numero 43, una villa bianca con un viale protetto da folti cespugli di alloro, quando qualcuno disse: «Scusi, signorina». 

Becky si bloccò, sorpresa. Era il giovane con la paglietta. Come aveva fatto a precederla lì?

Aveva poco più di vent'anni, un volto dall'espressione intelligente e intensa, occhi verdi e capelli dello stesso colore del cappello. Ma c'era qualcosa in luì che Becky non riusciva a definire: era un gentiluomo, a giudicare dalle apparenze, ma qualcosa nel suo modo di fare baldanzoso e disinvolto faceva pensare a un'intima conoscenza delle stalle, degli ingressi posteriori dei teatri e dei pub di infimo ordine. 

«Sì?» chiese Becky.

«Lei conosce per caso la giovane signora che vive in questa casa?»

«La signorina Bevan? In effetti no, non ancora. Sono stata assunta per insegnarle il tedesco. Ma lei chi è? E questo perché dovrebbe riguardarla?»

Il giovane tirò fuori un biglietto da visita dalla tasca del panciotto. C'era scritto 'J. Taylor, Investigatore Privato', e sotto c'era l'indirizzo di un fotografo di Twickenham. A Becky sembrò tutto così surreale... 

«Lei è un investigatore? E su cosa starebbe investigando?»

«Credo che la sua signorina Bevan possa essere la persona che sto cercando» rispose lui. «Mi dispiace rubarle del tempo. Posso chiedere il suo nome?» 

«Signorina Rebecca Winter» replicò Becky in tono gelido. «E ora mi scusi».

L'uomo si scostò con un inchino leggermente ironico, si rimise la paglietta con fare sbarazzino e si allontanò. Becky lo guardò, perplessa, poi fece un profondo respiro, si incamminò lungo il vialetto e suonò il campanello. 

Le aprì un'impudente cameriera, che con un solo sguardo le fece capire cosa pensava di lei. Anche Becky sapeva come mostrarsi altezzosa quando voleva, e in quel momento fece del suo meglio, anche se rovinò leggermente l'effetto inciampando sul tappeto ai piedi delle scale. 

«Aspetti qui» disse la cameriera facendola accomodare in un salottino e chiudendo la porta dietro di sé.

Becky si ritrovò in una graziosa stanzetta che dava sulla facciata della casa. Dalla finestra aperta poteva vedere il cielo blu e le foglie verdi e sentire il profumo dell'aria fresca. Il mobilio era costoso, ma massiccio, e faceva sembrare la stanza ingombra e opprimente. Non c'erano libri e i quadri erano scialbi: l'unica cosa interessante in quel salotto era uno stereoscopio. Becky lo prese e guardò la lastra nella cornice. Era l'immagine di una bambina vestita di stracci seduta sulle ginocchia di un uomo magro con grossi baffi, e sul retro c'erano stampate le parole di una canzone sentimentale. 

«Cosa diavolo stai facendo?»

Becky per poco non fece cadere lo strumento. Voltandosi, vide nell'arco della porta una giovane donna, spigolosa, scura di capelli e di carnagione, e dall'aria diffidente.

«Mi dispiace» rispose Becky. «La signorina Bevan, suppongo».

«E tu chi sei?»

«La signorina Winter. Becky Winter. La sua insegnante».

«Cosa stavi facendo con quello?» chiese la giovane guardando accigliata lo stereoscopio.

«È solo che... adoro gli stereoscopi. So che non avrei dovuto toccarlo».

«Mmm» bofonchiò la signorina Bevan, ed entrò nella stanza. Squadrò Becky da capo a piedi e poi sprofondò in una poltrona accanto alla finestra aperta, appoggiandosi languidamente allo schienale e guardando la sua ospite con espressione sorniona e guardinga. 

Tutto sommato non era carina: era troppo magra e aveva una certa durezza nei tratti e una discreta arroganza nei modi. Inoltre era vestita in maniera troppo vistosa e parlava con una voce aspra dall'accento dialettale; ma c'era qualcosa in lei da cui Becky fu suo malgrado attratta, una punta di vulnerabilità, una dolcezza sotto le maniere sprezzanti. I suoi occhi poi erano bellissimi, scuri ed enormi, e lei si muoveva con la grazia di un gatto. 

«Cos'è questa sciocchezza dell'insegnante?» chiese.

«Sono stata assunta da un certo Herr Strauss per venire qui a insegnarle il tedesco».

«Dimostramelo».

Becky la guardò perplessa. «Non lo sapeva?»

«Chiunque potrebbe venire qui e raccontare una frottola del genere. Tu potresti essere un sicario o giù di lì. Potresti avere una pistola in quella tua borsetta. Come faccio a sapere chi sei?»

«Oh, suvvia... Ci sono dei libri qui dentro, guardi. Lui non le ha detto che sarei venuta?»

«Può darsi».

La signorina Bevan si stiracchiò pigramente e sembrò rilassarsi. Non era veramente sospettosa, pensò Becky; solo annoiata. Aveva probabilmente diciannove o vent'anni e ora che Becky l'aveva vista, poteva immaginare quale potesse essere il rapporto tra lei e il misterioso Herr Strauss. St John's Wood aveva fama di quartiere dove i ricchi gentiluomini erano soliti sistemare le loro amanti in case di proprietà. 

«Perché stai arrossendo?» chiese la signorina Bevan.

«Non è vero. Senta, sarà meglio che cominciamo. Ha mai studiato il tede...» 

«Pfff! Chi era quel tizio al cancello?»

«Il giovane con il cappello di paglia? Un investigatore privato. Mi ha dato il suo biglietto da visita». 

Becky glielo porse. La signorina Bevan lo guardò accigliata e poi lo gettò sul tavolino di bambù accanto a sé. 

«Investigatore privato» disse in tono annoiato. «Scempiaggini. Probabilmente era un giornalista. Dunque, sai giocare ad Halma?» 

«Sì, ma...»

«O che ne dici di questo qui? Me l'hanno portato lunedì e non ci ho ancora giocato. Non ricordo come si chiama...» 

La giovane balzò in piedi e andò verso uno scaffale pieno di scatole di cartone colorato: giochi da tavolo per bambini. 

«Ci gioco con Herr Strauss la sera» spiegò. «Mmm... che gioco è questo?» 

Lo scrutò con gli occhi socchiusi come se fosse troppo vanitosa per portare degli occhiali. 

«Si chiama Ludo o Non t'arrabbiare» disse Becky. «Ma non dovevamo...» 

«Tu sai come si gioca?»

«Be', potremmo leggere le istruzioni, ma non sarà meglio che incominci a insegnarle il tedesco? Dopo tutto Herr Strauss mi paga per questo».

«E quanto?»

«Mezza corona l'ora».

«Be', io allora ti pagherò il doppio per giocare ad Halma con me».

«No. Giocherò con lei gratuitamente, ma devo anche insegnarle il tedesco. Ho fatto un accordo con Herr Strauss».

La signorina Bevan si accigliò e tornò ad accasciarsi sul divano. Poi squadrò Becky con aria di apprezzamento. 

«Tu sei un tipo onesto, vero?» chiese.

«Non saprei. Non sono mai stata tentata dalla disonestà finora. Perché?»

«Te lo dico un segreto?»

«Se vuole. Ma lei mi conosce appena».

«Non conosco nessun altro» replicò con amarezza la signorina Bevan. «Solo la cuoca e il lustrascarpe e la cameriera, viscida cagna intrigante che non è altro, e a lei non direi neppure l'ora, sempre ammesso che la sapessi. No, mi sta facendo impazzire il fatto di starmene rintanata qui come un animale in gabbia. E poi non so leggere e non so scrivere...» 

«È questo il segreto?»

«In parte. Il principe avrebbe dovuto assumerti per insegnarmi quello, invece del tedesco».

«Il principe?» chiese Becky. «Vuol dire Herr Strauss? È questo il resto del segreto?»

«Una parte del resto. In ogni caso avevi già indovinato da sola, no?»

«L'aveva indovinato mia madre. Principe cosa, di dove?»

«Principe Rudolf di Razkavia. Scommetto che è un paese che non hai mai sentito nominare».

Becky batté le palpebre, improvvisamente senza fiato. «Sì. L'ho sentito nominare. Ma perché... voglio dire, pensavo...»

«Ed è in pericolo. Non so se ha fatto bene a fidarsi di te. E non so se dovrei farlo io. Tu potresti essere una socialista, o peggio».

«Cos'hanno che non va i socialisti?» chiese Becky frastornata.

«Io li odio. Sono conservatrice, lo sono sempre stata».

«Ma se lei non ha neppure il diritto di voto!»

«Bah! Non c'è bisogno di avere il diritto di voto per dimostrare la propria lealtà. Quelli che votano per il socialismo ovviamente non sanno quello che è bene per loro. Sono i re e le regine e i principi quelli che dovremmo avere. E i conservatori. E le principesse. Anche se non sanno leggere, porca miseria...» 

Becky fu sicura di aver sentito male. «Aspetti un attimo. Ha detto 'principessa'?» 

«Già. Siamo sposati, me e lui. Io sono una principessa».

Becky la fissò incredula.

La signorina Bevan fece una breve risata. «Aspetta, te lo dimostro» disse, e si alzò per andare ad aprire un cassetto dello scrittoio di noce. 

Ne tirò fuori un pezzo di carta piegato e lo porse a Becky. La ragazza lo aprì e vide che era un certificato di matrimonio. Le nozze avevano avuto luogo nella chiesa cattolica di St Patrick di Hickson Street, a Manchester, e gli sposi erano la signorina Adelaide Bevan e Sua Altezza Reale il principe Rudolf Eugen Wilhelm August Josef von und zu Eschten und Rittersthal. I testimoni erano un certo signor Albert Suggs e la signorina Emily Thwaite. Il principe si era firmato Rudolf, mentre lei si era firmata più semplicemente con una X. 

«È il pezzo di carta giusto? Non è che ti ho dato per sbaglio la lista della lavanderia?»

C'era amarezza nella sua voce. Becky le restituì il certificato, chiedendosi se dovesse farle la riverenza. 

«Sono sbigottita» mormorò.

«Davvero? Be', io invece ho un vero casino in testa. Non so proprio cosa fare».

«Ma come... perché...?»

«Lui ha insistito. Ed è un uomo così caro. Quando uno ha visto e fatto tutte le cose che ho visto e fatto io non dice di no quando gli capita l'opportunità di qualcosa di meglio nella vita. Ma avrei dovuto. So che avrei dovuto». 

«Ma... perché Manchester?»

«Be', perché era un posto fuori mano. Doveva essere una chiesa cattolica, ovviamente, e lui non voleva che nessuno lo scoprisse e potesse impedirlo, quindi non potevamo farlo a Londra, per ogni eventualità. Così siamo andati in questo buco di chiesa buia e polverosa dietro una fabbrica. I testimoni li abbiamo presi per strada, non sapevano niente di niente. E il prete era un vecchietto tremolante che puzzava di whisky. Continuava ad asciugarsi il naso sulla manica sperando che non l'avremmo notato. Ma è legale. Inoppugnabile. Cacchio, sono una principessa, Becky. Posso chiamarti Becky? Tu non devi chiamarmi Vostra Altezza. Adelaide andrà benone». 

«Ma... qualcun altro lo sa? La famiglia reale? La Corte? E il popolo? Cosa diranno quando lo scopriranno?»

La signorina Bevan allargò le braccia in segno di impotenza e si accasciò nuovamente sul divano. 

«Non lo so» rispose.

Becky la fissò con gli occhi sgranati. Anzi, più ci rifletteva, più gli occhi le si spalancavano. Il matrimonio di un principe era una questione di politica internazionale. C'erano di mezzo re, regine e uomini di Stato... ambasciatori da consultare, trattati da redigere, implicazioni dinastiche e diplomatiche da considerare. Ma cosa era venuto in mente a questo principe di portare una ragazzina analfabeta e ignorante su a Manchester e di sposarsela in segreto? Forse era un tipo ingenuo come lo era stata lei un tempo, quando aveva fumato quell'unica sigaretta tra i cespugli con il suo corpulento innamorato. 

E oltre tutto...

«Lei pensava che non avessi mai sentito parlare della Razkavia» mormorò Becky timidamente. «Be', invece sì, perché ci sono nata. Sono una cittadina razkaviana». 

La signorina Bevan la fissò sbalordita. Poi montò su tutte le furie.

«Allora sei una spia!» gridò, balzando su dal divano e battendo rabbiosamente i piedi sul pavimento lucido. «Sei venuta qui per ficcare il tuo maledetto naso, eh? Per chi lavori? Eh? Da quale parte stai? Dei tedeschi? Dei russi? Se avessi una pistola ti sparerei all'istante, brutta bagascia, viscida ipocrita. Ma guarda che faccia tosta! Come osi venire qui fingendoti una santarellina, mentre per tutto il tempo...» 

«Ora chiudi quella ciabatta» la interruppe Becky infuriata. Era un'espressione che aveva sentito, ma che finora non aveva mai usato, e funzionò. La signorina Bevan sgranò gli occhi e tacque, stizzita. Becky continuò su quello stesso tono: «Non ti permettere di fare l'arrabbiata con me. Io sono razkaviana, ma non avevo idea di chi fosse il principe e di certo non sono una spia. Pensi che potrei tradire il mio principe ora che so chi è?» 

«Allora cosa ci fai in questo paese?»

«Siamo in esilio».

«Perché?»

«Non sono affari tuoi».

«Certo che lo sono, perché, cacchio, io sono una principessa, no? Ho il diritto di sapere chi è la mia insegnante. Siediti e dimmi tutto. E smettila di guardarmi con quella faccia arrabbiata. Non credo che tu sia una spia, davvero, arrossisci troppo facilmente». 

Becky storse la bocca e si sedette con fare gelido: non si era resa conto di essere scattata in piedi.

«Va bene» disse, «ti dirò perché siamo in esilio. Mio padre era un avvocato e tentò di dare vita a un movimento a favore della democrazia. Fu arrestato e messo in carcere. Si ammalò di tifo e morì. Così mia madre prese me e mia nonna e venimmo a vivere qui. Questo è quanto». 

«Allora è poco probabile che tu sia dalla parte del principe, no?»

«Non è stata la famiglia reale a metterlo in prigione, ma la Corte. Io non provo alcun rancore nei confronti del principe Rudolf».

La signorina Bevan, o principessa Adelaide, sollevò un elegante sopracciglio, ma poi annuì e tornò a sedersi, strappando accigliata un filo allentato dell'abito. Poi sollevò su Becky uno sguardo triste e impotente. 

«Cosa posso fare?» chiese.

Becky rifletté, mordendosi un labbro. «Be'... per cominciare sarà meglio che impari a leggere. E a scrivere. Non puoi continuare a firmare con una X». 

«Immagino di no». La ragazza si raddrizzò sul divano. «Allora procediamo. Da dove cominciamo?» 

Becky si guardò intorno. Non c'erano libri nella stanza, ma sul tavolo di fronte a loro c'era il tabellone del Ludo. 

«Potresti cominciare imparando a leggere le regole dei giochi. Sai già come funzionano, perciò sarà più semplice. E i colori... eccoli, è facile. Qui c'è scritto 'rosso'...»

Lavorarono per mezz'ora sul tabellone, e alla fine Adelaide era in grado di leggere 'inizio', 'casa', 'fine' e i quattro colori.

«Dovremmo anche pensare alla scrittura» le disse Becky. «Questo pomeriggio andrò a cercare un manuale di calligrafia. Potrai imparare la calligrafia più elegante che c'è. E anzi, dovrai imparare anche parecchie altre cose, non credi? Ti servirà molto di più di un semplice insegnante di scrittura e lettura. Ti servirà...» 

Ma non finì mai la frase, perché fu in quel momento che la bomba scoppiò. 

Ci fu un fragoroso bang e uno spostamento d'aria che sollevò le tende e fece sbattere la finestra, mandando in frantumi i vetri. Entrambe le ragazze istintivamente si abbassarono, Becky stringendo ancora in mano le carte che c'erano sul tavolo e Adelaide accucciandosi dietro il divano, con gli occhi sgranati. 

Dopo il primo momento di shock, fu Becky la prima a raddrizzarsi di scatto per vedere cos'era accaduto. Adelaide la raggiunse alla finestra. Un attimo prima dell'esplosione Becky aveva sentito il rumore di una carrozza che si fermava davanti alla casa e un cavallo che sbuffava con forza e scuoteva la testa; ora, mentre il nuvolone di polvere che si era sollevato tornava lentamente a posarsi sulla strada asciutta e sugli allori del giardino, la vide... distrutta. Il cavallo si contorceva riverso tra le stanghe e il cocchiere era a terra, immobile. A metà vialetto del giardino, illeso e stupefatto, c'era Herr Strauss, alias il principe Rudolf di Razkavia. 

Per un istante nessuno si mosse. Poi il principe si voltò per guardare verso la finestra, cercando con gli occhi quelli di Adelaide, e l'intera strada sembrò prendere vita: le porte delle case tutto intorno a loro si aprirono, ai cancelli apparvero i servitori, una bambinaia con i due piccoli a lei affidati allungò il collo per vedere meglio, un robusto gentiluomo con un bastone corse goffamente lungo la strada, il garzone di un macellaio con un cestino pieno di carne squadrò il cavallo con occhio esperto... e poi dal nulla apparve l'investigatore con la paglietta, J. Taylor, al fianco del principe e gli parlò in tono sommesso. 

«Quello è l'investigatore» disse Becky. La voce le tremava.

Adelaide tacque. Stava studiando la scena con intensa concentrazione. J. Taylor guardò verso la strada e schioccò le dita in direzione del garzone del macellaio, che lasciò cadere il cestino all'interno del cancello e si tolse il berretto. 

«Va' a cercare uno sbirro» lo sentirono dire. «E fai in fretta. Ci servirà anche un dottore, per certificare la morte. Fa' tutto in meno di dieci minuti e ci sarà una mezza corona per te. Ora fila». 

«L'ho già visto prima» mormorò Adelaide. «Ne sono sicura».

J. Taylor sembrava sapere come gestire una situazione del genere: mise il robusto gentiluomo a guardia della carrozza distrutta, strappò una tenda dallo sportello divelto e la distese con delicatezza sopra il morto, tirò fuori un coltello a serramanico dalla tasca e fece qualcosa al cavallo, che smise di dibattersi. Poi ripulì il coltello e si alzò, fissando prima Becky e poi Adelaide; alla fine raggiunse il principe e insieme entrarono in casa. 

«Sei impallidita» commentò Adelaide in tono critico.

«Non mi pare sorprendente» rispose Becky.

«Non ti dona. Senti, quando Rudi, il principe, entrerà, tu fai finta di non sapere chi è».

Becky stava per protestare, ma poi qualcuno bussò alla porta: era il principe in persona. 

«Mia cara...» disse.

Adelaide corse da lui con fare quasi protettivo, ma all'improvviso si bloccò. Dietro il principe c'era la spavalda figura dell'investigatore con la paglietta, assolutamente serio in quel momento. Mentre si fermava sulla soglia, Becky ebbe una stranissima sensazione... perché J. Taylor e Adelaide si stavano fissando con un'intensità quasi elettrica. 

Il momento passò.

Il principe, che sembrava stordito (e che non aveva visto ciò che aveva visto Becky, quell'intenso sguardo tra i due), si ricompose e disse: «Mia cara, mi dispiace davvero di interrompere la tua lezione, ma devo chiedere alla signorina Winter di lasciarci. Come ha visto, signorina Winter, io sono in pericolo. Anche se credo che per il momento sia cessato, non voglio esporla più di quanto sia già accaduto. Questo signore la riaccompagnerà a casa». 

«No, Becky» intervenne Adelaide. «Resta per un istante. Scenderà fra poco, Rudi». E spinse la porta, chiudendo fuori i due uomini. Poi con un sussurro concitato disse: «Come si chiama? L'uomo con la paglietta... Come si chiama?» 

«Ti ho dato il suo biglietto da visita... oh, ma certo, non sai leggere» disse Becky e andò a riprenderlo dal tavolino di bambù. «J. Taylor, Investigatore Privato, presso Garland & Lockhart, fotografi, Orchard House, Twickenham... Che succede?» 

La sua alunna si era portata una mano al petto ed era impallidita. I grandi occhi scuri la fissavano sgranati. Poi Adelaide le strappò il biglietto di mano e si accasciò su una sedia mentre le sue guance tornavano a colorirsi. 

«Farai meglio ad andare» disse con voce roca. «Vai. Ti starà aspettando. Ma torna, mi hai sentito?» 

«Te lo prometto» rispose Becky.

Perplessa, uscì dalla stanza e scese di sotto, dove trovò il principe che l'aspettava ansiosamente nell'atrio. Si ricordò appena in tempo di non fare la riverenza quando lui la salutò con un cenno della testa, e uscì dalla casa per raggiungere J. Taylor, Investigatore Privato, in giardino. 

 

Capitolo due

 

LA SIGNORA GOLDBERG

 

Proprio mentre Becky raggiungeva il cancello del giardino, il garzone del macellaio arrivò ansimando, rosso in volto, e si fermò sorpreso quando la vide. 

«Oh, sei tu!» esclamò. «Allora hai visto l'esplosione, eh? Hai visto il morto? Tutte le frattaglie e le interiora che gli spuntavano dalla pancia?»

«Non fare lo schifoso».

«Ehi, ci provi ancora con le sigarette? Ti va un'altra fumatina nei cespugli? Eh?» 

Becky gli voltò le spalle. J. Taylor si avvicinò e il garzone del macellaio rivolse a lui la sua attenzione. 

«Ho trovato uno sbirro» disse. «Uno bello grasso. Sarà qui tra un minuto. Cinque scellini ha detto, vero?» 

J. Taylor gli diede un paio di monete e si allontanò con Becky.

«Non dovrebbe aspettare la polizia?» chiese Becky.

«Ci penserà Herr Strauss. Ha il mio biglietto da visita: se mi vogliono sapranno dove trovarmi. E in fondo non è che abbia visto i dinamitardi... non li ha visti nessuno. Avranno usato una macchina infernale».

«Una cosa?»

«Un meccanismo a orologeria per far esplodere la dinamite. Non c'è più bisogno di lanciare bombe oggigiorno, è una cosa antiquata. Dov'è diretta, signorina Winter? Posso accompagnarla da qualche parte?»

Erano già a metà strada lungo Church Road e Becky si ritrovò a tremare come una foglia. Non sapeva se fidarsi o meno di lui; ma il principe ovviamente si fidava, quindi... 

Cominciò a girarle la testa e il giovane la prese per un braccio.

«Ecco, si sieda su questa panchina. Appoggi la testa, così. È lo shock, è normale. Si sentirà meglio fra un minuto o due». 

«Grazie» mormorò Becky. «Mi sento molto stupida».

«Be', non lo sembra affatto. Smetta di preoccuparsi».

«Quel povero cocchiere...»

Un gruppetto sempre più folto di persone si stava radunando lungo la strada, davanti alla casa. Qualcuno stava tagliando le redini per liberare il cavallo morto dalle stanghe della carrozza; un poliziotto stava faticosamente trottando verso il luogo dello scoppio dall'altra estremità della strada. 

«Lei è davvero un investigatore privato?» chiese Becky.

«Sì. Tra le altre cose. Sto cercando quella giovane donna da... oh, sono già dieci anni, da quando eravamo ragazzini. Pensavo che fosse ormai scomparsa per sempre. Ma un mese fa ho intravisto un volto che me l'ha ricordata e ho seguito la donna fino a quella casa. Stavo per bussare e farle una sorpresa, ma poi mi sono reso conto di dove abitava e ho pensato fosse meglio essere discreto. Si chiamava Adelaide...»

«Ci si chiama ancora».

«Ma cosa ci fa insieme a un principe?»

Becky sollevò di scatto lo sguardo. «E lei come lo sa che lui è un principe?» 

«Non è stato difficile scoprirlo. I servitori parlano; e poi è facile rintracciare uno stemma araldico. Ho fatto la sua conoscenza un paio di settimane fa, ed è per questo che questa mattina sapeva chi ero. Vede, volevo essere sicuro che stesse trattando bene Adelaide. È innamorato di lei, poveraccio: innocente come un bambino. Ma io sono preoccupato, perché se lui è politicamente nei guai non voglio che la trascini in questa storia». 

«C'è già dentro» disse Becky. «L'ha sposato».

«Cosa?»

«Mi ha mostrato il certificato di matrimonio... Immagino che non abbia importanza che io ora lo stia dicendo a lei, dal momento che la conosce» aggiunse Becky dubbiosa. 

Gli occhi del giovane lampeggiarono di rabbia. «Idiota irresponsabile! Ha davvero bisogno che qualcuno badi a lui! Metterla in una situazione del genere... Sarebbe dura anche per una ragazza di nobili natali. Per l'amor di Dio, che cosa si aspetta da lei?»

«Non l'ha certo costretta a sposarlo. È stata anche una sua scelta, immagino. E a proposito, Adelaide sa chi è lei». 

Il giovane la fissò con uno sguardo intenso. Becky gli parlò della reazione di Adelaide quando le aveva letto il suo nome sul biglietto da visita e lui annuì. 

«Avrà riconosciuto anche i nomi Lockhart e Garland» disse. «Non c'è alcun dubbio che sia lei. Dopo tutto questo tempo... che mi venga un colpo!» 

«Chi sono Lockhart e Garland?»

Lui guardò verso la strada, consultò l'orologio, lo richiuse di scatto e si alzò in piedi.

«Ascolti, signorina Winter. Credo sarà meglio lavorare insieme per un po'. Se non è impegnata nella prossima ora o due, posso portarla a Twickenham e presentarle una mia vecchia amica? Lei garantirà per me, e per Adelaide, e avremo la possibilità di raccontarle l'intera storia». 

Becky non era affatto sicura che la cosa non fosse sconveniente. Ma il giovane sembrava un tipo onesto e la faccenda la incuriosiva talmente... Dopo tutto, più sapeva, più le sarebbe stato facile aiutare Adelaide. 

«Va bene» disse.

 

Sul treno il giovane le raccontò di quando, anni prima, aveva lavorato come fattorino nella City e aveva aiutato una giovane donna di nome Sally Lockhart a risolvere il mistero dell'assassinio di suo padre. Era una storia torbida, in cui erano implicate società segrete cinesi, oppio e un enorme rubino. Adelaide era la domestica (più la schiava, in realtà) di un'orribile vecchia, la signora Holland, che era stata anch'essa coinvolta nelle peripezie di Sally Lockhart, e quando il mistero era stato chiarito e i cattivi erano stati eliminati, Adelaide era sparita. Avevano temuto che fosse morta, finché J. Taylor non l'aveva intravista un mese prima, seguendola poi fino al numero 43 di Church Road, dove aveva conosciuto il principe. 

«È la signorina Lockhart l'amica che mi vuole presentare?» chiese Becky.

«Sì. Ora è la signora Goldberg».

A quanto pareva, Sally (il signor Taylor la chiamava così) era una tiratrice formidabile con la pistola. Inoltre lavorava come consulente finanziario ed era sposata con il giornalista politico Daniel Goldberg, che l'aveva aiutata a salvare la sua bambina quando era stata rapita l'anno prima. 

Il giovane aveva raccontato il tutto in modo semplice, assolutamente disinvolto, come se rapimenti e fumerie di oppio fossero all'ordine del giorno, e Becky ne fu molto più impressionata di quanto lo sarebbe stata se lui avesse tentato di gonfiare la sua storia. Poi si rese conto di quello che il signor Taylor aveva detto a proposito della bambina. 

«Lei ha detto che la signora Goldberg aveva una bambina? Prima... prima di sposarsi?» 

«Sì. Succede, sa. La piccola Harriet è figlia di Fred Garland, che è morto in un incendio. Fred era con me la notte in cui Adelaide è scomparsa. Lei lo ricorderà, ne sono certo».

Quest'ultima informazione fu decisiva: Becky era affascinata. Una donna sola doveva avere una grande forza di carattere per avere un bambino e rimanere rispettabile. Be', sì, serviva anche un amante, ma quelli non scarseggiavano: Becky l'aveva imparato dal garzone del macellaio. Fu così che si scoprì impaziente di conoscere questa intrepida pistolera che rispondeva al nome di signora Goldberg, per cercare di carpire il suo segreto... 

 

Orchard House a Twickenham sorgeva alla fine di un tranquillo viale alberato accanto al fiume: era una grande villa in stile Regency in stucco bianco, con un vialetto di ghiaia e stalle annesse alla casa sulla sinistra. I balconi avevano la ringhiera in ferro battuto e su un lato, affacciata su un ampio giardino, c'era una veranda con il tetto di vetro. Sembrava un posto strano da scegliere come sede di un'agenzia investigativa. 

«Be', in verità siamo uno strano gruppo» spiegò J. Taylor. «Ho anche un ufficio a Edgware Road, ma non ho ancora fatto stampare i biglietti da visita. Questa è casa nostra più che un luogo di lavoro». 

Fece accomodare Becky in una stanza ampia, accogliente e disordinata, un misto di studio, laboratorio e salotto, con una portafinestra spalancata sul giardino per lasciare entrare il sole. Nella stanza c'era una vetrinetta in cui facevano bella mostra oggetti di porcellana blu, un'intera parete di scaffali pieni di libri, un pianoforte a coda e... su un cavalletto vicino alla porta c'era una cosa che attirò Becky come una calamita: uno schizzo a olio di una strada di periferia in una mattina assolata, una cosina adorabile, luminosa e vivace, una ventata di primavera. 

«Pissarro!» esclamò prima di potersi trattenere. «Oh! Le chiedo scusa...»

Seduta sul divano accanto alla portafinestra c'era una giovane donna con capelli biondi e occhi marrone scuro. Era alle prese con un filo di lana blu che sbucava dal voluminoso lavoro a maglia che teneva in grembo.

«Ciao, Jim» disse la donna. «Chi è questa ragazza?»

«Questa è la signorina Winter. Mi ha portato fortuna. Signorina Winter, le presento la signora Goldberg».

La signora Goldberg si alzò per stringerle la mano. Era magra e carina e più giovane di quanto Becky si fosse aspettata. Sul suo viso c'era la stessa espressione curiosa, franca, luminosa e amichevole di J. Taylor, quasi come se fossero fratello e sorella. 

«E sì, questo è un Pissarro» disse la signora Goldberg. «L'ho comprato la settimana scorsa. Ho fatto una buona scelta?»

«È adorabile. Monsieur Pissarro sta da certi amici di mia madre quando viene a Londra e noi lo conosciamo, anche se non molto bene. Ecco perché ho riconosciuto il suo stile...»

La signora Goldberg aveva ancora in mano il suo lavoro a maglia e Becky, pur sapendo che era scortese farlo, lo fissò insistentemente, perché la donna di cui le aveva raccontato J. Taylor sul treno, l'intrepida avventuriera che sparava meglio di un uomo e sposava socialisti e aveva avuto un figlio fuori dal matrimonio, di certo non era il tipo di persona che lavorava a maglia... 

La signora Goldberg seguì lo sguardo di Becky, sorrise e gettò il fagotto a J. Taylor.

«Non ci credo» disse l'uomo, appoggiandoselo addosso: era un pullover da marinaio. «Cavoli, è pure della misura giusta».

La signora Goldberg rise. «Jim ha scommesso con me cinque sterline che non ci sarei riuscita» spiegò. «Mi ci è voluto quasi un anno, ma non avevo intenzione di perdere. Forza, paga» gli disse tendendo la mano.

Il giovane contò cinque sovrane. «Non scommetta con le donne» disse a Becky. «Ascolta, Sal, ci siamo imbattuti in una faccenda di prim'ordine qui. La ragazza è davvero Adelaide e ha sposato un principe. La signorina Winter è la sua insegnante di lingue. Oh, e qualcuno ha tentato di farlo saltare in aria questa mattina». 

«E non c'è riuscito, spero...»

«C'era una bomba sulla sua carrozza» spiegò Becky. «Una macchina infernale, o così crede il signor Taylor». 

«Una bomba?» disse la signora Goldberg. «Non ho mai sentito una bomba esplodere. Che tipo di rumore fa?»

«Sa una cosa? Non riesco a ricordarlo. Un fragore, ovviamente, ma che sia un suono acuto o profondo o sibilante proprio non saprei dirlo. Ero di sopra in salotto con la signorina Bevan e i vetri della finestra sono andati in frantumi. E c'è stato anche un gran polverone...» 

«La signorina Bevan? È così che si fa chiamare Adelaide?»

«Sì. Ma...» Becky fu nuovamente assalita dal dubbio: era il caso di rivelare i segreti di Adelaide a questi sconosciuti? Eppure di rado si era sentita così a suo agio, di rado aveva conosciuto persone di cui sentiva istintivamente di potersi fidare. 

La signora Goldberg vide la sua esitazione e prese uno stereoscopio dalla credenza. Prima di passarlo a Becky inserì una lastra. L'immagine mostrava una bambina con enormi occhi scuri vestita da sguattera, mentre nella successiva la bambina era una piccola fioraia, poi una fanciulla della Bibbia, una fata e infine la piccola Nell del libro di Dickens. Possibile che quella fosse la signorina Bevan? Era difficile dirlo. Poi la signora Goldberg le porse un'altra lastra. 

«Sì! È lei!»

Era la stessa immagine che aveva visto quella mattina nel salotto della signorina Bevan: la bambina sulle ginocchia dell'uomo e la canzone sentimentale. Lo disse alla signora Goldberg, che batté le mani felice. 

«Non posso crederci!» esclamò. «Adelaide.... Pensavamo che fosse morta, pensavamo che fosse svanita per sempre...» 

«Perché avete fatto così tante fotografie?»

«È stato agli inizi della nostra società. In principio le vendevamo singolarmente e poi creammo delle serie: Scene dalle opere di Dickens, Scene dalle opere di Shakespeare, Castelli di Britannia, Angoli della vecchia Londra e così via. Ma a quell'epoca Adelaide era già scomparsa, perciò è solo nelle prime. E ne ha tenuta una...»

Becky le disse come la ragazza aveva reagito a sentire i nomi Taylor, Garland e Lockhart.

«Non c'è più alcun dubbio» dichiarò la signora Goldberg. «Ed è sposata con il principe di Razkavia... Ma dov'è questa Razkavia? Dan lo sa di certo. Probabilmente è stato arrestato da quelle parti più di una volta. Mio marito» spiegò a Becky. «Non è un criminale, ma un politico». 

«Io so dove si trova la Razkavia» disse Becky. «Anzi, a dire il vero ci sono nata. Immagino di essere ancora una cittadina razkaviana».

Fu contenta della modesta sensazione che la sua dichiarazione suscitò. La signora Goldberg e il signor Taylor si scambiarono uno sguardo attonito, e poi sul viso del giovane apparve un simpatico ghigno e su quello della donna un caldo sorriso. 

«Be', allora questo taglia la testa al toro» disse la signora Goldberg. «Ora lei dovrà restare a pranzo con noi e raccontarci tutto. È un'opportunità troppo buona per lasciarcela sfuggire, vero, Jim?»

 

Il pranzo fu una faccenda alla buona, con grande sollievo di Becky. Dopo mezz'ora si ritrovò con la sensazione di conoscere quelle persone insolite, spiritose, allegre e amichevoli da tutta la vita e raccontò loro quello che sapeva del piccolo regno in cui era nata. 

«È poco più grande del Berkshire. Si trova tra la Prussia e la Boemia, perciò in pratica è schiacciato tra la Germania e l'Austria-Ungheria. Una volta esistevano decine di piccoli regni del genere, ma la maggior parte ora è stata fagocitata dalle grandi potenze. Tranne la Razkavia. La sua storia risale al 1253...» 

Raccontò loro ciò che ricordava della storia dell'Aquila Rossa. A quell'epoca la Razkavia era stata invasa da Ottocaro II, re di Boemia, ma un nobile di nome Walter von Eschten e un centinaio di cavalieri si asserragliarono su un'alta rupe sulla curva del fiume Eschten, combattendo sotto una bandiera su cui era dipinta un'aquila rossa, e neppure tutte le forze di Ottocaro riuscirono a scacciarli. Una notte, Walter e i suoi uomini, che conoscevano molto bene le montagne, sgattaiolarono giù dalla rupe, senza le armature indosso per non fare rumore, e distrussero tutte le provviste dei Boemi. Nei giorni successivi i cavalieri di Ottocaro non poterono far altro che vagare impotenti sotto la rupe, accaldati, affamati e del tutto frastornati, finché Walter non li attirò in battaglia presso il suo castello di Wendelstein, dove la maggior parte degli invasori fu uccisa. 

Dopo quell'esperienza Ottocaro si tenne a debita distanza dalla Razkavia e altrettanto fecero tutti gli altri, e da allora la bandiera dell'Aquila Rossa, la Adlerfahne, continuò a sventolare sulla Rupe di Eschtenburg. Fintanto che l'aquila volerà, la Razkavia sarà libera, aveva detto Walter von Eschten e così era stato. La bandiera veniva tirata giù solo per due ragioni: quando aveva bisogno di riparazioni (ormai non c'era più neppure un filo originale dell'epoca di von Eschten, pur essendo sempre la stessa bandiera), e durante un'incoronazione, quando veniva portata alla Cattedrale per essere benedetta e poi riportata dal nuovo re attraverso l'antico ponte fino alla Rupe di Eschtenburg, per sventolare di nuovo. Ecco perché il re di Razkavia veniva anche chiamato l'Adlerträger, il portatore dell'Aquila. Per i Razkaviani l'Aquila Rossa non era semplicemente una bandiera: era la loro vera identità. Se fosse caduta, se avesse toccato il suolo... Nessuno osava neppure pensare a una simile eventualità. 

Il paese non era particolarmente prosperoso. Una volta c'erano ricche miniere sui monti Karlstein da cui si estraeva rame e un po' d'argento, ma già due secoli prima avevano cominciato a esaurirsi, soprattutto per quanto riguardava il rame. C'era ancora una certa abbondanza di un minerale che assomigliava al rame, ma non lo era e avvelenava i minatori che lo estraevano. Era stato giudicato talmente inutile e nocivo da essere battezzato Kupfer-Nickel o Rame del Diavolo e per decenni i razkaviani se ne tennero ben alla larga. 

Fu solo molti anni dopo che qualcuno scoprì che il Kupfer-Nickel era un composto di arsenico e di un nuovo metallo, che fu chiamato nichel, e quando all'inizio del Diciannovesimo secolo si trovò il modo per usarlo le miniere di Karlstein ripresero a funzionare.

Ma per secoli non ci fu niente di prezioso in Razkavia, perciò le nazioni circostanti la lasciarono in pace. Il popolo mungeva le mucche che pascolavano sugli altopiani, produceva il vino con l'uva che cresceva sulle pendici della valle dell'Elpenbach e cacciava nelle ricche foreste. Nella capitale, Eschtenburg, c'era un teatro dell'Opera, dove il compositore Weber una volta aveva diretto l'orchestra; c'erano un teatro, una cattedrale e un bel palazzo barocco, con stravaganti colonne e fontane e intonaco bianco. C'era anche un elegante padiglione fatto costruire da un re folle, un tipo piuttosto innocuo come lo sono di solito i re folli. Intorno al 1840 un gruppo di giovani aristocratici, stanchi della vita noiosa che si conduceva presso la Corte conservatrice del re, tentò di trasformare Andersbad, una piccola stazione termale situata nella valle dell'Elpenbach, in un posto alla moda. Fu costruito un casinò; Johan Strauss andò a suonare lì con la sua orchestra e fu persino pagato per scrivere un valzer in onore di Andersbad, anche se non fu uno dei suoi migliori. Arrivò qualche turista e di tanto in tanto anche un re o un granduca in visita, ma non troppi da rovinare la bellezza del luogo. 

In effetti la Razkavia era uno dei luoghi più piacevoli d'Europa. Le foreste erano folte e pittoresche, la valle dell'Elpenbach suggestiva. Eschtenburg, con la Rupe e la bandiera, era medioevale, barocca e artistica, Andersbad dissoluta e divertente, la birra buona, la cacciagione abbondante e la gente ospitale. 

«Sembra un posto delizioso» disse la signora Goldberg. «Ma lei ora non ci vive più...»

«Siamo in esilio, la mamma, la nonna e io. Vede, quando ero piccola mio padre e alcuni dei suoi amici, lui era un avvocato, tentarono di fondare un partito politico. Un partito liberale. Volevano dare vita a un sistema più democratico, perché non c'era il parlamento né il senato né niente del genere. Ma lo misero in prigione, dove si prese il tifo e morì. Così la mamma portò via me e la nonna e da allora viviamo qui. Lei non vuole tornare. A quanto pare oggi c'è più democrazia, ma anche il pericolo delle due Grandi Potenze». 

«E cosa vogliono?» chiese il signor Taylor.

«Il nichel delle miniere. Credo che ci si faccia una lega, per le canne dei fucili o la blindatura o qualcosa del genere. Entrambi i paesi sono in attesa, pronti a colpire. La Germania potrebbe conquistare il regno nel giro di un'oretta e mezzo e anche l'Austria-Ungheria, ma se una delle due lo facesse avrebbe guai dall'altra, perciò si stanno trattenendo, finora. La mamma pensa che qui siamo più al sicuro». 

«E probabilmente ha ragione» disse la signora Goldberg. «E Adelaide... la piccola Adelaide! Sposata col principe...» Scosse la testa ancora incredula. 

«Dev'essere un matrimonio morganatico» disse Becky.

«E cosa sarebbe?» chiese il signor Taylor.

«Legale» spiegò la signora Goldberg, «ma limitato. Se lei avrà dei figli, non potranno succedere al padre. È così, non è vero?»

Becky annuì. «C'è stato un re di Razkavia, Michele II, che era pazzo. Voleva sposare un cigno. Perciò glielo lasciarono fare, ma fu un matrimonio morganatico». 

«Mi pare giusto» commentò il signor Taylor. «Non era il caso di far salire al trono un uovo. Ma è una strana coincidenza, no? Il fatto che il principe Rudolf abbia scelto uno dei suoi sudditi come insegnante di lingue di sua moglie, voglio dire». 

«Non così tanto, in realtà. Ce ne sono parecchi di noi a Maida Vale, gente che ha lasciato la Razkavia per una ragione o per l'altra. Io ne conosco almeno una dozzina. Scrittori, pittori, persone del genere. Uno dei modi in cui possiamo guadagnarci da vivere è insegnare il tedesco e Maida Vale non è molto lontana da Church Road. Il principe avrebbe potuto scegliere uno qualsiasi di noi senza sapere da dove proveniva». 

«E lei...» disse la signora Goldberg. «Cosa vuole fare nella vita?»

Era una domanda che, in base all'esperienza di Becky, non veniva posta molto spesso alle ragazze e lei non era sicura di cosa rispondere. Le piaceva l'idea di entrare in una sala conferenze, austera, maestosa, con un bell'abito indosso e venire chiamata 'dottoressa Winter'. Ma l'attirava ugualmente il pensiero di gestire un bar in una baraccopoli, con un sigaro in bocca, un diamante come orecchino e una pistola alla cintola. Era difficile decidere. 

«Devo guadagnare» disse. «Voglio andare all'università, ma devo anche aiutare la mamma. Lei illustra le storie per alcune riviste. Ma ora sono coinvolta in questa faccenda... Ho promesso che sarei tornata dalla signorina Bevan. Da Adelaide... la principessa. Ha molto da imparare e io voglio aiutarla. E inoltre sono curiosa. Vedete, il principe Rudolf è un discendente di Walter von Eschten. E questo significa molto per me. Perché io sono razkaviana dopo tutto, nonostante quello che hanno fatto a mio padre, e se c'è qualcuno che sta tentando di far saltare in aria la mia famiglia reale...» 

«Sì?» la incalzò il signor Taylor.

«Be', io voglio cercare di fermarlo».

«Buon per lei» replicò il giovane. «Ma immagino che vorrà tenersi alla larga dalla dinamite».

«Sapete, mi piacerebbe tanto sapere come andrà a finire questa faccenda» disse la signora Goldberg in tono dispiaciuto. «Ma devo partire per l'America con mio marito dopodomani. Lui andrà a studiare i rapporti tra i sindacati e i datori di lavoro a Chicago e io voglio dare un'occhiata alla borsa di New York. Staremo via per diverso tempo... Ascolta, Rebecca... posso chiamarti Rebecca?» 

«Becky».

«Becky allora. Salutami tanto Adelaide. E fidati di Jim, il signor Taylor, e segui i suoi consigli. Mi ha salvato la vita già tre volte. Spero che non dovrà mai salvare la tua, ma se dovesse capitare, puoi star certa che lo farà. Ti auguro tutta la fortuna del mondo!»

 

Capitolo tre

 

LE GUARDIE IRLANDESI

 

Jim Taylor aveva ventitré anni. Come aveva raccontato a Becky, lui e Sally Goldberg avevano vissuto insieme parecchie avventure e affrontato una notevole dose di pericolo; inoltre era davvero un investigatore privato, anche se quello era solo uno dei molti modi in cui si guadagnava da vivere. Scriveva anche racconti per giornaletti scandalistici e riviste di quart'ordine del tipo per i quali la madre di Becky curava le illustrazioni, pur avendo ambizioni letterarie ben più elevate; giocava d'azzardo, era stato corriere europeo e aveva lavorato come guardia del corpo: in pratica aveva parecchi mezzi di sostentamento e una grande conoscenza della Londra più pittoresca, o per meglio dire meno rispettosa della legge. 

Ma sapeva molto poco della politica europea. Dopo aver riaccompagnato Becky a Maida Vale, Jim prese l'omnibus per Soho e a Dean Street salì al terzo piano di una squallida pensione che fungeva anche da sede di un'associazione socialista, dove trovò il marito di Sally, Daniel Goldberg, con un puzzolente sigaro tra i denti a impacchettare libri per il viaggio in America. 

«Mai stato in Razkavia, Dan?»

«Ci sono passato una volta. Non bere l'acqua termale da quelle parti se non vuoi avere delle coliche da tenerti a letto per una settimana. Perché?» 

Jim gli raccontò tutto. Goldberg smise di fare le valigie per ascoltare.

«Be', che mi venga un colpo» disse alla fine. «Come ci riesci? Come fai ad andarti a cercare i guai in questo modo?»

«Pura fortuna. Ma quello che voglio sapere è: chi potrebbe volerlo uccidere? Che dici, sono gli anarchici?»

«Mah... Chi può dirlo? Metà di loro è folle e l'altra metà chiacchiera tanto, ma non agisce. Tu mi hai detto di aver parlato con il principe in persona... Lui chi pensa che sia stato?» 

«Crede che possa essere suo cugino Otto. Il conte Otto von Schwartzberg. Mi ha dato una sua foto...» 

Jim infilò una mano nella tasca del gilè e tirò fuori la foto di un gruppo di uomini, tra cui il principe stesso, con indosso delle giacche corte in stile australiano e cappelli adorni di penne e ciuffi di pelo di tasso, in posa fuori da un casino di caccia con una serie di cervi morti ai loro piedi. Alcuni di loro tenevano in mano dei fucili. 

«Quello è Otto, quello con l'arco» disse, indicando un uomo alto con le sopracciglia scure e folti baffi, un luccichio crudele negli occhi e una cicatrice su una guancia. «Gira voce che una volta abbia ucciso un orso... a mani nude. Aveva sparato a un cucciolo e la madre lo attaccò prima che avesse il tempo di ricaricare il fucile. Lui le strappò la mandibola e poi le fece schizzare fuori il cervello con un sasso. Era ricoperto di orribili ferite, ma rimase in piedi, a ridere. È secondo dopo Rudolf nella linea di successione. Il principe ha paura di lui, è piuttosto evidente, ma non saprei... c'è qualcosa che non ha senso in questa storia». 

«Sono d'accordo» disse Goldberg. «Per prima cosa bisogna sempre cercare una motivazione politica. Il paese prima o poi cadrà in mano a una delle due Grandi Potenze e, dai retta a me, è di questo che si tratta. E in quanto al folle che strappa la testa agli orsi... no, non mi sembra un dinamitardo. Passami quel libro, quello sotto i tuoi piedi. Quello costoso con l'elegante rilegatura». 

Jim tolse i piedi dal tavolo e passò a Goldberg un tomo tutto sciupato. L'uomo lo sfogliò e fece scorrere il dito lungo la colonna di una pagina.

«Ecco qui» disse. «Questo è di un paio d'anni fa, ma quel posto non è una democrazia, perciò ci saranno ancora gli stessi uomini al potere».

Passò il libro a Jim. Sfruttando tutto il tedesco che conosceva, il giovane lesse una breve descrizione del regno di Razkavia, con i nomi e le residenze del re, del principe ereditario e del principe Rudolf e i nomi di vari funzionari come il Cancelliere, il Sindaco di Eschtenburg, l'Ispettore delle Miniere, il Capo della Polizia e così via. 

«Il tuo principe non è il primo in linea di successione al trono?» chiese Goldberg.

«No. C'è suo fratello maggiore Wilhelm, che è sposato, ma senza figli, quindi gli succederà il principe Rudolf. Ma solo per intenderci bene, Dan: tu chi sospetteresti di aver messo una bomba nella sua carrozza? A chi dovrei stare attento?» 

«Be', puoi scordarti di quel lupo mannaro di Schwartzberg. È un tipo interessante, ma dal punto di vista antropologico, non politico. Non può essere lui. Sarà senz'altro qualche illustre sconosciuto che agisce nell'ombra per provocare una crisi, in modo da dare al principe Bismarck di Berlino o all'imperatore Francesco Giuseppe di Vienna la scusa per mandare un reggimento e annettersi questo staterello. E una volta accaduto, non cambierà poi molto. Il re diventerà un duca di qualche tipo e manterrà il suo palazzo e il suo casino di caccia, Otto von Schwartzberg continuerà a fare a pezzi gli animali con i denti, ma tutto il nichel delle miniere verrà alacremente spedito via treno in un posto o nell'altro. Io scommetto che sarà la Germania. Finirà alla Krupp, a Essen». 

«Sei un gran bell'ottimista, vero?»

«Realistico, mio caro ragazzo. È il fatto di avere sempre ragione che mi mantiene così allegro. Vuoi quel libro? Non mi servirà a Chicago. Per inciso, conosco una storiella su Eschtenburg, la capitale della Razkavia. Le strade lì sono così contorte, antiche e strette che non hanno nomi e le case sono numerate non in base alla loro ubicazione, ma secondo l'anno in cui sono state costruite, perciò troverai un numero tre accanto a un quarantasei e così via. A ogni modo sembra che il Diavolo una volta l'abbia visitata e non sia riuscito a trovare la via d'uscita. Il che significa, ovviamente, che è ancora lì. E io preferisco andarmene a Chicago». 

 

Un paio d'anni prima Jim aveva fatto la conoscenza di una banda di ragazzini irlandesi di Lambeth. Erano un gruppo rissoso, sporco e sboccato, ma quando c'era da combattere lui non aveva mai visto gente migliore in quanto ad astuzia e tenacia: se i ratti si accoppiassero con i terrier, produrrebbero di certo frutti del genere. Jim li aveva usati per un certo numero di lavoretti diversi e li aveva sempre pagati bene, perciò era naturale che lo rispettassero come un buon giudice del valore altrui, e che lo ammirassero per il suo vestire sempre alla moda e la sua aria da donnaiolo. 

Non appena aveva sospettato che la ragazza potesse essere Adelaide, Jim li aveva messi a guardia della villa di St John's Wood... all'insaputa di tutti, naturalmente. L'ordine era di nascondersi tra gli arbusti di una villa vuota di fronte alla casa di Adelaide e in caso di guai armare un gran casino. Quella stessa mattina subito dopo l'esplosione Jim era andato prima da loro: i ragazzi non avevano visto nessuno tirare una bomba e da questo aveva ricavato la certezza che dovesse essere un ordigno a orologeria. 

Più tardi quella sera, mentre il principe era fuori per un ricevimento all'ambasciata del Brasile, Jim fece una visita d'ispezione alle Guardie Irlandesi. Li trovò in gran forma. Anche troppo, a dir la verità: avevano scoperto che i furfanti della zona non potevano competere con loro e quando Jim arrivò al loro nascondiglio, stavano cantando vittoria per aver fregato il garzone del macellaio e arrostivano delle appetitose salsicce su un fuoco fumoso. 

«Ma noi viviamo dei frutti della terra!» protestò Liam quando Jim li rimproverò. «Sicuro... e poi non è quello che dovrebbero fare tutti i guerriglieri?» 

«Voi dovreste solo tenervi nascosti. Risparmiatevi i raid per quando questo lavoro sarà finito. La signora è in casa?»

«È stata fuori a spasso» disse un ragazzino di nome Charlie. «È tornata un'oretta fa. Senti, signore, sapevi della serva?» 

«Che cosa?»

«Ha un amichetto».

«È un pappone!»

«È un magnaccia come ne ho visti pochi!»

«Va bene, ma parlate a bassa voce» li ammonì Jim. «Cosa fa questo tizio?» 

«Va a trovarla ogni sera quando fa buio» disse Liam. «Lei sgattaiola fuori e si fanno una chiacchierata tra i cespugli. Pensavo che forse potremmo dargli una bottarella sulla zucca, che dici? Frugargli nelle tasche». 

«Dico di no. Perché invece non lo seguite per vedere da dove viene?»

«Psst!» disse la sentinella, e Jim superò a fatica l'intrico di gambe per vedere cosa stesse indicando il ragazzo. «Eccolo lì...» 

La strada era illuminata dai lampioni a gas, ma gli allori che sporgevano dal giardino di Adelaide proiettavano una forte ombra. Jim riuscì a malapena a intravedere una figura scura che si aggirava furtiva lungo il lato della casa e poi svaniva nell'oscurità. Dopo un paio di secondi un debole bagliore filtrò dalla porta della cucina, che si aprì e poi si richiuse. 

«Bene» disse Jim. «Andiamo a sentire cosa dicono. Io, Liam, Charlie e Sean. Se urlo, allora lo prendiamo. Altrimenti tenetevi nascosti e non fatevi sentire». 

Le Guardie Irlandesi erano brave. Attraversarono la strada furtivi come gatti e in pochi secondi Jim e i ragazzi furono sotto gli alberi nel giardino di Adelaide. Jim sentì una mano sul braccio e Liam gli sussurrò: «Ascolta». 

C'era un mormorio nelle vicinanze: due voci. La ragazza stava dicendo: «...E lei ha detto a quella ragazzetta presuntuosa che era sposata con lui!»

«Sposata?» disse l'altra voce. Jim sentì uno strano brivido lungo la schiena, perché c'era qualcosa che non andava in quella voce... forse un accento straniero? O era qualcos'altro?

«E io ho preso questo».

Ci fu un fruscio di carte e un piccolo lampo di luce quando l'uomo accese un fiammifero. Jim vide gli occhi di Liam brillare accanto sé. 

«Un certificato di matrimonio...» disse l'uomo. «Cos'è questo segno?»

«Una X. È la sua firma. Cavoli, è talmente ignorante che non sa né leggere né scrivere, perciò deve firmare con una X. Ma quello è il suo nome, guarda, è tutto legale». 

«Ahh...» disse l'uomo.

Ci fu un tintinnare di monete. Mentre i due erano distratti, Jim sussurrò: «Non appena lei rientra in casa, lo prendiamo. Voglio quel documento: è vitale. E non voglio che lui urli».

Non dovette dire una parola di più. Come la maggior parte dei ragazzi della sua età, Liam portava al collo un fazzoletto di seta che aveva una grande varietà di utilizzi. Se lo tolse, si chinò e cercò a tentoni un sasso, poi lo legò a un'estremità in modo da poter lanciare il fazzoletto intorno al collo dell'uomo e usarlo come una garrotta. Gli altri ragazzi sgattaiolarono via e si nascosero vicino al cancello. 

Non dovettero attendere a lungo. L'uomo sussurrò: «Alla stessa ora domani?» 

«Va bene. Vedrò cos'altro riesco a scoprire. Ma voglio più soldi la prossima volta». 

«Li avrai» disse l'uomo.

La serva si voltò e se la svignò lungo il lato della casa. L'uomo rimase dov'era per qualche istante ad accendersi una sigaretta, mentre Liam si agitava irrequieto accanto a Jim; poi si mosse verso il cancello del giardino. 

Due passi e Liam fu dietro di lui, con il fazzoletto che roteava nell'aria con un leggero sibilo. Lo fece scattare intorno alla gola dell'uomo e lo tirò verso di sé, mentre Jim gli si gettava addosso stringendolo alle ginocchia. Per qualche secondo ci fu una gran confusione di sibili, gemiti, calci e mugolii finché l'uomo non finì a faccia in giù sul prato buio sotto gli allori, con le ginocchia di Liam sulla schiena e gli altri due ragazzi che gli bloccavano braccia e gambe. 

«Bene, ascolta» sussurrò Jim. «Il mio amico smetterà di strangolarti non appena farai di sì con la testa».

La testa dell'uomo si sollevò e si abbassò freneticamente e Liam allentò il fazzoletto.

«Cosa volete?» sussurrò con voce gracchiante il prigioniero.

«Quel documento che ti ha appena dato la serva. Giratelo, ragazzi».

Lo girarono sulla schiena e Jim gli frugò nelle tasche. Mentre si muoveva su di lui, la sensazione che qualcosa non andava si trasformò improvvisamente in uno strano sospetto. Esitò e gli occhi dell'uomo, grandi, scuri ed espressivi, lampeggiarono nell'oscurità. Poi Jim trovò il documento infilato nella tasca del panciotto e se lo mise in tasca prima di risollevarsi e accovacciarsi accanto all'uomo. 

Liam si alzò e si rimise il fazzoletto intorno al collo. Gli altri ragazzi lasciarono la presa. La spia si rimise lentamente in piedi, si accucciò e indietreggiò con grazia felina. E poi ci fu un luccichio nella sua mano. 

Jim ebbe il tempo di saltare all'indietro, ma non di evitare la lama del coltello. Lo prese sulle nocche della mano destra, un dolore forte e sordo che si trasformò quasi all'istante in un fuoco lancinante. Il giovane imprecò e rotolò da una parte mentre l'altro gli balzava addosso, e poi saltò su di nuovo, tirando fuori il braccio destro dalla giacca e avvolgendola automaticamente intorno al sinistro, come si fa per difendersi da un coltello; ma lui non aveva un'arma. 

Liam fece nuovamente roteare il fazzoletto. La spia la schivò e poi Jim udì diverse cose contemporaneamente: rumore di zoccoli, lo sferragliare di una carrozza dalla strada, una finestra che si apriva sopra di lui. A quel punto la spia si voltò e si precipitò fuori dal giardino. 

«Inseguitelo, ragazzi!» gridò Jim. «Stategli dietro!»

Liam chiamò gli altri dal loro nascondiglio e Jim raggiunse il cancello in tempo per vedere l'uomo che correva lungo la strada, inseguito da una fila di ragazzini che lanciavano grida di guerra. 

E poi si rese conto che il principe era in piedi accanto a lui. Era appena uscito dalla carrozza ed era in pompa magna: cravatta bianca, frac, decorazioni luccicanti intorno al collo e un'espressione distrutta sul volto. 

«Cos'è successo?» chiese. «Lei è al sicuro?»

«Era una spia. Sì, lei è al sicuro... per ora. Ma dobbiamo parlare, lei e io».

«Sta sanguinando» disse il principe e Jim scoprì che il taglio sulle nocche sanguinava copiosamente. E faceva pure un male del diavolo. 

«Pensavo che lei fosse all'Ambasciata Brasiliana, signore» disse avvolgendosi un fazzoletto intorno alla mano. 

«Sì, ero lì, ma poi è successa una cosa... e ora una spia? Questo è troppo...» 

«Andiamo dentro» disse Jim e poi, rivolgendosi al cocchiere che lo fissava dalla cassetta con gli occhi spalancati, «vada a cercare un poliziotto, e in fretta». 

L'uomo fece schioccare la frusta e partì. Non appena furono in casa, Jim portò il principe in salotto e mandò a chiamare la serva. La ragazza era spaventata e guardò dall'uno all'altro con gli occhi stretti, calcolatori. Jim capì immediatamente che tipo era. 

«Tu sei una ladra» le disse, «e da un minuto all'altro verrà uno sbirro a portarti via. Ma quanto tempo passerai in prigione dipenderà dal fatto che tu ci dica o meno la verità ora. Chi era quella persona con cui stavi parlando?» 

«Non lo so» disse la ragazza, sollevando sprezzante il mento. «Non mi manderanno in prigione».

«Forse no. Dopo tutto questo è alto tradimento e c'è l'impiccagione per un reato del genere. Ti ci vedi in piedi sul patibolo mentre il boia ti mette il cappuccio nero, eh?»

Un bluff, ma funzionò. La ragazza sgranò gli occhi e le sfuggì di bocca un gemito di sgomento. «Io... io non so chi è... mi ha dato cinque sovrane, ma non avevo cattive intenzioni... pensavo che non fosse importante...»

Non era sincera, ma aveva ben poco da dire. Jim la chiuse a chiave nel retrocucina e quando tornò trovò il principe che camminava nervosamente avanti e indietro, mordicchiandosi un'unghia. 

«Cosa ha rubato?» disse.

«Questo» rispose Jim, tirando fuori dalla tasca il certificato di matrimonio. 

Il principe si portò le mani alla testa. Sembrava stravolto, disperato... ma a ripensarci, rifletté Jim, il poveraccio aveva già quell'aspetto quando era arrivato: doveva essere accaduto qualcos'altro.

«Perché non me l'ha detto, signore?» chiese Jim. «Perché tenermi all'oscuro? Io lavoro per lei, ricorda?» 

Il principe rimase fermo lì, come paralizzato, splendente nel suo abito da sera, con la Croce di San Qualcosa e l'Ordine di Qualcos'altro che brillavano alla luce della lampada, e sembrò sopraffatto dagli eventi. Era troppo per lui. E fu allora che disse a Jim perché era tornato a casa prima. 

«Ho dovuto lasciare il ricevimento. Ho ricevuto un messaggio... una notizia terribile. Mio fratello il principe ereditario e sua moglie la principessa Anna... hanno sparato a entrambi. Lui è morto e lei pare che non vivrà. Devo rientrare immediatamente. Sono venuto qui per... avvertire mia moglie... Ho chiesto all'ambasciatore e a sua moglie di raggiungerci tra venti minuti. Loro non sanno ancora perché». 

In quel momento la porta si aprì ed entrò Adelaide. Jim sentì un tuffo al cuore... fu come se l'anima gli balzasse via dal corpo per volare verso di lei. Quei grandi occhi scuri, quel corpo snello, quel viso espressivo pieno di malizia e curiosità e velato di malinconia o di preoccupazione... Jim capì in quell'istante che dovunque l'avesse portato quella faccenda, lui sarebbe andato fino in fondo. Un'ondata di entusiasmo lo travolse, seguita da una depressione profonda quando ricordò che lei era sposata, che era una principessa, che lui lavorava per suo marito. 

«Ciao, Jim» disse lei a voce bassa.

«Piccola Adelaide» mormorò lui, e la voce gli tremava. «Dove sei stata tutto questo tempo?»

Lei guardò verso il principe, vide la sua espressione e poi abbassò lo sguardo sulla mano di Jim.

«Sei ferito» disse preoccupata e andò da lui per guardare più da vicino e slegare il fazzoletto che Jim aveva sistemato alla bell'e meglio intorno alla ferita. «Aspetta, ci penso io... bisogna lavare la ferita. Rudi, che succede? Cosa c'è che non va?»

Mentre suonava il campanello e mandava la cuoca a prendere una bacinella d'acqua calda, il principe le raccontò ciò che era accaduto in Razkavia. 

«Perciò ora sono io l'erede al trono» concluse. «Quando mio padre morirà sarò re. Fra pochi minuti l'ambasciatore sarà qui. Gli ho chiesto di portare sua moglie: entrambi devono sapere. E poi dobbiamo partire, immediatamente». 

«Per la Razkavia?»

«Naturalmente. Non andrò senza di te. Tu devi venire, Adelaide. E anche lei, signor Taylor». 

Adelaide lanciò un'occhiata cupa a Jim, poi tornò a fissare suo marito. «Voglio anche Becky con me».

E poi accadde tutto contemporaneamente. La cuoca portò l'acqua e delle pezzuole pulite e in quello stesso istante qualcuno bussò alla porta, e quando guardò fuori dalla finestra, Jim vide un poliziotto in piedi sul vialetto e le luci di una carrozza che si fermava al cancello. 

«Vieni di sopra» disse Adelaide prendendo la bacinella, e Jim la seguì, lasciando il principe a riferire al poliziotto le accuse contro la serva e a ricevere l'ambasciatore e sua moglie in salotto. 'Dio solo sa cosa staranno pensando', rifletté Jim, 'be', fra poco sapranno tutto...' 

Adelaide si inginocchiò e gli ripulì la ferita dolorante per poi avvolgerla con bende pulite e nel frattempo parlarono a bassa voce e in tono concitato, come bambini che si sentono in colpa. 

«Che succederà, Jim? Maledizione, non posso diventare una principessa...» 

«Lo sei già. Ora piantala. Ma dove sei stata? Cos'è successo dopo che sei sparita? Quella notte quando stavamo scappando dalla signora Holland...»

«Sul molo... tu e il signor Garland che lottavate contro quell'energumeno...» 

«L'abbiamo ucciso. Ma, cavolo, per poco non ci ha fatti fuori lui. Perché tu sei scappata?»

«Non lo so. È solo che avevo tanta paura... Oh, Jim, ho fatto delle cose terribili...»

«Come ti sei impelagata in questa faccenda?»

«Mi ha chiesto lui di sposarlo. È innamorato di me».

«Questo si vede. Ma come l'hai conosciuto?»

«Io ero... lavoravo... mi vergogno tanto, non riesco a dirtelo...»

«Questa è l'unica opportunità che avrai, Adelaide, perché gli altri saliranno qui da un minuto all'altro e noi non saremo mai più da soli, te ne rendi conto? Facevi la vita, vero?» 

La giovane annuì. Il suo viso minuto era rosso di dispiacere e Jim aveva così tanta voglia di baciarla... Ma un istante dopo giurò a se stesso che finché il principe fosse stato vivo lui non avrebbe mai permesso che ciò accadesse, non avrebbe mai più permesso che le loro mani si toccassero come si stavano toccando in quel momento, non si sarebbe mai più avvicinato a meno di un metro da lei. Esisteva l'amore ed esisteva l'onore e quando le due cose si scontravano potevano spezzare il cuore. 

«Mi sono persa, Jim. Non sapevo più quello che facevo. Ho chiesto l'elemosina, ho rubato, sono quasi morta di fame... E alla fine sono finita in una casa a Shepherd Market. Sai che tipo di casa intendo. Questa vecchia che si faceva chiamare signora Catlett aveva una mezza dozzina di ragazze. Non era cattiva, aveva persino un dottore che chiamava ogni mese per mantenerci in buona salute... E un giorno arriva questo nobile tedesco con un gruppo di amici. Sembrava una visita turistica la loro... Nel gruppo c'era il principe. Si vedeva che era a disagio, non gli piacevano quel genere di cose, ma è stato carino e abbiamo parlato e... Immagino che si sia innamorato all'istante. Non aveva avuto molto affetto in vita sua, poveraccio. Perciò ha dato alla signora Catlett un sacco di soldi, per portarmi via, immagino, e poi mi ha fatto stabilire qui. E ci siamo sposati. Lui non ha voluto sentire ragioni. Io... io andavo sempre su a Bloomsbury all'inizio, sai... Mi mettevo dall'altra parte della strada e guardavo i Garland, la loro bottega...» 

«E perché non sei mai entrata, sciocchina che non sei altro? Sapevi che avevamo messo degli investigatori a setacciare tutta Londra per cercarti?» 

«Avevo paura di aver fatto qualcosa di male. E poi quando alla fine mi sono fatta coraggio e sono tornata, era bruciato tutto...» 

«Fred è morto nell'incendio».

«Lui... Oh, Dio... E la signorina Lockhart? E Trembler?»

«La signorina Lockhart ora è sposata. È diventata la signora Goldberg. E il vecchio Trembler ha sposato una ricca vedova. Hanno una pensione a Islington». 

Poi lei ripeté: «Jim, cosa succederà ora? Io non posso diventare una principessa, non posso farlo...» 

«L'hai sposato e devi affrontare la situazione. Non ci si tira indietro da una cosa del genere... Ma io sarò con te, e Becky...»

«Pensi che verrà? Io non vado senza di lei, lo giuro».

«Sì, certo che verrà» disse Jim, che non ne era poi tanto sicuro. «Ascolta, ora stanno salendo, li senti? Fatti coraggio, ragazza mia. Ci siamo trovati in situazioni peggiori di questa. Ricordi il macello della fabbrica di carbone animale?» 

Adelaide fece un sorrisetto nervoso e il cuore di Jim mancò un battito.

Qualcuno bussò brevemente e la porta si aprì. Jim si alzò per accogliere il principe. L'uomo anziano che lo seguiva sbatté le palpebre sorpreso alla vista del giovane con i capelli in disordine e la giacca strappata, della ragazza che si rassettava la gonna e della bacinella d'acqua sporca di sangue sul pavimento; poi batté i tacchi e si inchinò. Era il classico tipo del militare, un uomo robusto col viso rosso e i capelli a spazzola, una cicatrice da duello sulla guancia, folti baffi e un petto pieno di medaglie. La moglie, imponente e glaciale, luccicava come un lampadario. 

Il principe chiuse la porta.

«Parleremo in inglese» cominciò. Era pallido e sembrava nervoso, ma continuò con voce ferma. «Non è questo il modo in cui avrei voluto darvi tali notizie. Tuttavia è impossibile fare altrimenti. Adelaide, questo è l'ambasciatore di Razkavia, il conte Thalgau, e Sua Grazia la contessa». 

Jim notò che entrambi si resero immediatamente conto del modo in cui il principe aveva fatto le presentazioni: erano stati loro a essere presentati a lei e non viceversa, quindi la ragazza doveva essere di rango superiore al loro. Ci fu un moto di sorpresa, ma poi fu la volta di Jim. 

«Conte Thalgau, questo è il mio fidato segretario e consigliere, il signor James Taylor. Come potete vedere, questa sera è stato ferito mentre era al mio servizio». 

Un moto di approvazione questa volta, seguito da un battere di tacchi e un cenno del capo. Jim non poteva stringergli la mano, ma chinò e risollevò rispettosamente la testa alla maniera prussiana. Sentiva che dietro tutta quella cortesia c'era un'enorme curiosità che ribolliva come vapore in una caldaia. 

Il principe prese la mano di Adelaide e se la strinse al petto, facendola passare sotto il braccio.

«E questa è mia moglie, Adelaide, e la vostra principessa» disse.

Il conte fece un passo indietro; la contessa rimase senza fiato. Poi il vecchio esplose. 

«Dio del cielo! Sposato! Sposato! Ma siete impazzito, mio signore? Avete perduto la testa? Il matrimonio di un principe - e di un principe ereditario, ora, per Giove! L'erede al trono! - non è una faccenda da adolescenti innamorati o da spensierati poeti! È una faccenda che coinvolge diplomatici e uomini di stato! Buon Dio! Il futuro stesso della Razkavia dipende dall'alleanza che voi stringerete con il vostro matrimonio... Ach! Mein Gott!» 

«E questa è un'ottima ragione» disse il principe, pallido ma imperturbato dall'attacco, «se mai ne servisse un'altra oltre il mio amore per lei, per giustificare il mio matrimonio con questa signora. Qualunque matrimonio diplomatico avessi contratto sarebbe stato interpretato come un segno della mia posizione politica e questo sarebbe stato fatale. Ora ho la libertà di agire nel modo migliore per la Razkavia, senza essere vincolato a un'alleanza che dividerebbe il paese». 

«Ach! Sancta simplicitas!» gemette il conte. «Ma... la famiglia della signora... chi è?» 

Il principe guardò verso Adelaide e rispose: «Mia moglie è di sangue inglese. A quanto ricordo, non c'è mai stata altro che amicizia tra il popolo d'Inghilterra e quello della Razkavia. Non c'è niente ormai che possa impedire il nostro matrimonio». 

«Impedire no. Annullare sì. Presenteremo immediatamente istanza presso il Vaticano. Il cardinale arcivescovo di certo...» 

«Mai!» protestò il principe e passò al tedesco. Con voce alta e infuriata proseguì: «Non è compito vostro, conte Thalgau, tentare di modificare le decisioni prese da un principe. Se avessi chiesto il vostro consiglio, vi avrei ascoltato con rispetto... ma non l'ho chiesto. Non cerco consigli da voi. Cerco la vostra lealtà. Voi siete sempre stato un amico fedele della mia famiglia: non mi tradite proprio ora. Io amo questa signora quanto la mia stessa anima. Niente ci separerà tranne la morte, e di certo non una qualche squallida macchinazione ordita con il Vaticano. Avete capito?» 

Per la prima volta Jim vide qualcosa di veramente regale nel principe. Il conte chiuse gli occhi. Poi si strofinò le tempie e disse: «Be', quel che è fatto è fatto. Ma ovviamente sarà morganatico. La discendenza reale degli Eschtenburg finirà con voi. Re Augusto II...» 

«Non può essere morganatico».

«Perché mai?»

«Perché ci siamo sposati in questo paese. La legge inglese non prevede il matrimonio morganatico. Mia moglie ha il rango di principessa». 

Solo il fatto che il principe era ancora in piedi impedì all'ambasciatore di accasciarsi su una sedia. Non potendo far altro, vacillò, e fu allora che intervenne Adelaide. 

«Vostra Eccellenza» disse con la sua vocetta dall'accento popolano, «capisco la vostra sorpresa. Sono molto felice di conoscervi: mio marito mi ha parlato spesso della sua ammirazione per voi e delle vostre imprese in battaglia. Sono impaziente di sentire tutti i particolari. Vorreste sedervi, voi e la contessa? E forse il signor Taylor potrebbe essere così gentile da ordinare qualcosa di ristoratore...» 

Ben fatto, ragazza mia, pensò Jim mentre prendeva la bacinella con l'acqua sporca di sangue e andava a esplorare la cucina. Trovò la cuoca e il lustrascarpe frementi di curiosità e disse loro di mandare su un piatto di tramezzini e del vino il più presto possibile. 

Quando tornò di sopra stavano discutendo di Becky, perciò decise di intromettersi. 

«Posso suggerirvi, signore, di andare subito insieme a Sua Altezza Reale e alla contessa dalla madre di Rebecca, Frau Winter? È vitale che lei venga con noi, sono d'accordo con Ad... ehm, con la principessa, ma ha solo sedici anni e sarà necessario rassicurare sua madre circa la... ehm... la...» 

«Die Richtigkeit» disse la contessa. 

«Ja. Il decoro» convenne l'ambasciatore. «Verissimo. Ja». 

Entrambi erano ancora sotto shock. Jim li capiva bene, ma la mano aveva cominciato a fargli un male del diavolo e quando il lustrascarpe portò su del vino, ne mandò giù tre bicchieri per alleviare il dolore. Poi il principe si alzò per uscire con Adelaide e la contessa e andare a comunicare la sorprendente notizia a Frau Winter, lasciando Jim da solo con l'ambasciatore. 

«Dunque, signor Taylor» disse l'uomo, fissando Jim con uno sguardo che avrebbe disarcionato un ussaro. «Voglio che mi dica la verità. Com'è coinvolto lei in questa faccenda? E chi era la spia che questa sera ha dovuto tenere lontano a costo del suo stesso sangue? La avverto, signor Taylor. Ho già avuto un forte shock questa sera, ma amo il mio paese e onoro il mio principe e ora» fece un profondo respiro, «sono anche il più fedele servitore della... della principessa. Ci sono molte cose in questa faccenda che trovo alquanto misteriose. Mi dica tutto o se ne pentirà». 

Così Jim cominciò.

 

Capitolo quattro

 

IL TEATRO ALHAMBRA

 

Becky era china sul tavolo, immersa in una grammatica di italiano. Il libro era al margine del cerchio di luce al centro del quale la mano di sua madre stava pazientemente disegnando Deadwood Dick che sparava con due grosse pistole a un enorme fuorilegge con la barba, che si trovava a un paio di metri di distanza e gli stava sparando addosso con due pistole altrettanto enormi. Forse le pallottole si erano scontrate a mezz'aria tra di loro, perché nessuno dei due era rimasto ferito. Un altro tuffo della penna nel calamaio, un altro ricciolo della barba del fuorilegge che veniva colorato... e poi la mamma ripulì il pennino, si portò le mani alle reni e si stiracchiò. 

«Basta per il momento» disse sbadigliando.

«Una cioccolata calda?» chiese Becky mettendo un segnalibro nella sua grammatica. Il bollitore sibilava piano sulla mensola del camino e un piccolo orologio di legno di Elpenbach stava per battere le dieci. 

Ma prima che la ragazza potesse alzarsi, qualcuno bussò al portone. Becky e sua madre si guardarono: la pensione dove alloggiavano era un posto serio e rispettabile e raramente gli inquilini ricevevano visite dopo le sei del pomeriggio. Sentirono la signora Page, la padrona di casa, zoppicare lungo il corridoio per andare ad aprire. 

Un mormorio di voci; i passi di diverse persone; poi qualcuno bussò alla porta del loro salotto.

Becky corse ad aprire, con sua madre in piedi dietro di lei, preoccupata. «Un gentiluomo e, ehm, due signore per te, cara...» disse una perplessa signora Page. «Non sono riuscita a capire i loro nomi» concluse in un sussurro. 

Becky riconobbe immediatamente Adelaide, con cappello e mantello; poi vide il principe e dietro di lei una signora così imponente, fredda e monumentale che sembrava fatta di marmo.

«Oh! Ad... il principe... Vostra Altezza... signora... mamma, è... per favore entrate» balbettò in preda alla confusione.

La mamma era perplessa, ma ansiosa di essere cortese e al tempo stesso imbarazzata dallo squallore della stanza. Mio Dio, aveva solo quattro sedie! Ma la signora Page l'aveva notato e andò a prenderne un'altra in soggiorno. 

Becky stava cercando di capire chi avrebbe dovuto presentare per primo e a chi, e se era il caso di ammettere che sapeva chi era il principe e che l'aveva detto a sua madre... ma Adelaide parlò per prima.

«Rudolf» disse, «tu conosci la signorina Winter e sua madre. Becky, credo che tua madre sappia che Herr Strauss è il principe Rudolf».

La mamma fece la riverenza al principe, arrossendo fino alla radice dei capelli. Becky seguì il suo esempio, anche se in maniera un po' rigida, e poi Adelaide si rivolse all'altra signora.

«Contessa» disse, «posso presentarvi Frau e... und Fräulein Winter. Questa è la contessa von Thalgau, la moglie dell'ambasciatore razkaviano». 

Altre riverenze; una gelida stretta di mano. La contessa si guardò intorno e chiuse gli occhi: un gesto tremendamente eloquente.

Quando la signora Page arrivò con l'altra sedia e furono tutti seduti, il principe cominciò a parlare. Prima raccontò loro dell'uccisione del principe ereditario e poi del suo matrimonio. In principio parlò in inglese, una lingua di cui aveva una notevole padronanza, ma che non lo faceva sentire a suo agio, ma a un certo punto si voltò verso Adelaide e le disse: «Scusami, cara, ma ora devo parlare in tedesco, altrimenti non potrò essere preciso». 

Con il volto da sognatore pallidamente illuminato dalla luce della lampada, il principe si rivolse alla madre di Becky: «Frau Winter, quando mia moglie mi ha detto che l'insegnante che avevo assunto era una cittadina del nostro paese, ho sentito che la mano del fato stava guidando le mie scelte. Poi ho saputo chi era suo padre e ne sono stato certo. Una volta ho avuto il privilegio di conoscere il suo defunto marito. Era venuto a Palazzo per parlare con me dell'evoluzione delle nostre leggi, una visita organizzata come parte della mia istruzione. Mi creda, sono davvero dispiaciuto della sua morte. Una delle cose che desidero di più è modificare la nostra costituzione per consentire la creazione di partiti democratici, proprio come voleva suo marito. 

«Ma come con ogni altra cosa che desidero realizzare, farò affidamento sul giudizio e l'assennatezza di mia moglie. La sua esperienza del mondo le ha dato una saggezza ben oltre i suoi anni e una forza e una percezione dell'indole altrui su cui spero di contare molto in futuro». 

Becky vide la contessa voltarsi e fissare Adelaide con freddezza. La giovane era seduta in silenzio con le mani in grembo e guardava il principe, quindi non lo notò. 

«Ma mia moglie avrà bisogno di aiuto» continuò il principe. «Avrà bisogno di guida e compagnia. Avrà bisogno di istruzione. E lei stessa mi ha detto che Fräulein Winter può soddisfare tutte queste necessità in un modo che nessun altro potrebbe fare. 

«Frau Winter, mi sono dilungato troppo e me ne scuso. Se lei non può consentire a Fräulein Winter di accompagnare la principessa in Razkavia in qualità di sua dama di compagnia, io lo capirò e rispetterò la sua decisione, e le augurerò una buona serata. In ogni caso, signora, chiedo umilmente il suo perdono per averla disturbata». 

La mamma guardò Becky, fece un profondo respiro, poi giunse le mani come se stesse pregando. Un istante dopo le batté leggermente come se avesse preso la sua decisione. 

«Altezza» disse, «per prima cosa voglio dirvi quanto siamo onorati. E quanto vorrei potervi ricevere con maggiori comodità. Ricordo bene la visita di mio marito a Palazzo. Lui mi raccontò con quanta attenzione voi l'avevate ascoltato e gli avevate posto delle argute domande. Se fosse vissuto, voi non avreste potuto trovare un consigliere più saggio o più leale. 

«E sono onorata che abbiate avuto fiducia in noi. Ma voi mi chiedete molto... Io sono una vedova in un paese straniero e devo faticare per guadagnarmi da vivere. Le uniche persone che ho qui sono la mia anziana mamma e mia figlia, e le amo molto entrambe. Se dovesse accadere qualcosa a Rebecca, la mia vita sarebbe finita. 

«Ma la mia Rebecca è una giovane donna di grande forza e onestà e con molti talenti. Io ho tentato di crescerla buona, onesta, lavoratrice e caritatevole. E sono orgogliosa di lei. Credo che la vostra principessa avrà bisogno di una buona amica. Be', non potrà trovarne una più sincera e più preziosa della mia Rebecca. Signore, noi siamo onorate dalla vostra richiesta. Ma dovete consentirmi di dire che la principessa Adelaide sarà ancora più onorata dall'amicizia di mia figlia. 

«Perciò la mia risposta è sì, Rebecca può andare, con la mia benedizione. Ma vi avverto: se le verrà torto anche un solo capello, non ci sarà un posto sulla terra in cui chi le ha fatto del male potrà nascondersi, perché io lo troverò e gli strapperò il cuore come lui avrà strappato il mio. Rebecca, liebchen...» 

E si voltò di scatto verso Becky, la voce rotta dal pianto, le braccia tese. Madre e figlia si abbracciarono così forte che Becky sentì uno scricchiolio di ossa e non riuscì a capire se erano le sue costole o il corsetto della mamma. Ma non importava, perché anche lei stava piangendo disperata. 

Quando si ricomposero un po', il principe Rudolf disse: «Partiremo fra trentasei ore. Le serviranno degli abiti, Fräulein... da lutto e non solo. La contessa Thalgau la consiglierà. Frau Winter, le darò del denaro per coprire le spese. La prego di far sapere alla contessa se ne dovesse servire dell'altro...» 

E ci fu dell'oro sul tavolo, più di quanto in famiglia se ne vedeva da anni. Adelaide incontrò lo sguardo di Becky e abbozzò un sorrisetto carico d'ansia, che le fu restituito con uguale trepidazione. Becky si domandò chi delle due avrebbe avuto più bisogno dell'altra.

 

Le Guardie Irlandesi avevano inseguito la spia lungo Marylebone e per tutta Baker Street, raccogliendo rinforzi lungo la strada, finché l'uomo si ritrovò tallonato da più di un centinaio di ragazzini urlanti. All'angolo con Oxford Street, però, saltò su una carrozza pubblica. Liam e Charlie erano abbastanza vicini da sentire l'indirizzo che l'uomo sussurrò ansimando al guidatore e quando la carrozza svoltò per Mayfair gridarono: «Da questa parte! Seguiteci!» e corsero per tutta Oxford Street prima di infilarsi nelle strade di Soho. 

Senza fiato, corsero a precipizio tra i vicoli e arrivarono a Leicester Square proprio mentre una carrozza si fermava davanti all'ingresso degli artisti del Teatro Alhambra.

«È lui quello?» chiese Liam, e «Eccolo!» gridò Charlie e «Inseguiamolo, ragazzi!» strillò Dermot. 

Il guardiano all'ingresso non ebbe alcuna possibilità: i ragazzini si riversarono dentro come vespe impazzite. Lo spettacolo di varietà della serata stava per finire e il retroscena, i corridoi e i camerini brulicavano di artisti, falegnami, tecnici delle luci e tecnici di scena; ma nel giro di un minuto non ci fu un angolo del teatro, dal ridotto alla graticcia, che non fosse infestato da monelli. 

«Eccolo!»

«Lo vedo... là sulla scala!»

«È sceso in quella botola! Stiamogli dietro!»

«Lungo quel corridoio... eccolo!»

Cinque uomini diversi, acrobati, direttori di scena e camerieri, furono inseguiti, messi con le spalle al muro, interrogati e lasciati andare prima che Liam, Charlie e Dermot riuscissero a individuare la loro preda in un corridoio vicino alla Sala Verde. 

Con grande determinazione gli corsero dietro, ma era troppo tardi per impedirgli di infilarsi in un camerino. Arrivarono in tempo per sentire la chiave girare nella toppa e allora presero a picchiare con violenza sulla porta rivestita di pannelli.

«Esci fuori, viscido buono a nulla! Codardo di una spia! Vieni fuori e combatti, brutto diavolo!»

Silenzio dall'interno; ma le grida e il clamore alle loro spalle si stavano facendo sempre più forti.

«Dovremo abbattere la porta, ragazzi» disse Liam, e tutti indietreggiarono nello stretto corridoio, preparandosi a caricare. «Uno, due...» 

E la porta si aprì.

Sbilanciati, i ragazzi inciamparono e finirono uno sull'altro, e rialzandosi si ritrovarono a fissare il volto di una donna: bella, con gli occhi scuri, le spalle nude e i folti capelli corvini, un'attrice dalle fattezze di una spagnola con indosso un abito rosso scarlatto. Sembrava spaventata; riusciva a malapena a parlare per quanto le batteva forte il cuore. 

«Dov'è l'uomo?» chiese Liam. «Dov'è andato?»

La donna indicò debolmente la finestra aperta.

«Da questa parte!» gridò Liam nell'istante in cui la restante orda di monelli raggiungeva la porta del camerino. Con lui in testa, si riversarono tutti nella stanza e poi fuori dalla finestra, calandosi giù nell'oscurità lungo il muro per poi disperdersi tra il caos di un cantiere a Castle Street, mattoni, assi, mucchi di pietrisco, come tafani all'inseguimento di un toro inferocito. 

Un toro immaginario.

L'attrice chiuse la finestra e con un lungo sospiro tremante lasciò uscire il respiro che aveva trattenuto. Era esausta, a malapena riusciva a stare in piedi. Ansimando, richiuse a chiave la porta, tirò le tende e alzò una mano per togliersi la parrucca. Poi sollevò l'abito, slacciò un bottone alla vita, si tolse i pantaloni nascosti sotto la gonna e li gettò sopra la giacca, il panciotto e la camicia che si era tolta in tutta fretta e aveva nascosto dietro la porta. Infine si accasciò sulla sedia davanti alla toletta. Lentamente il respiro si calmò. La donna sciolse i capelli neri raccolti sul capo e tirò fuori il coltello insanguinato dal fodero legato al polpaccio per ripulirlo con un fazzoletto di seta. Sorrise debolmente e studiò il proprio riflesso nello specchio. 

L'assurdo sospetto di Jim era giusto.

 

«Una donna? Come si chiama?»

«Carmen Isabella Ruiz y Soler, signore. Un'attrice».

«Affidabile?»

«Credo di sapere come controllarla, signore».

«Per Dio, lo spero. Be', finora non mi ha deluso, devo ammetterlo, anche se questa è una delle macchinazioni più folli che abbia mai sentito. Vada avanti, Bleichröder. E mi tenga informato».

Siamo a più di novecento chilometri di distanza, a Berlino. Chi parla è un uomo anziano dall'aspetto crudele: una testa tonda, calva, occhi sporgenti ed enormi baffi. Si guarda intorno con occhi lampeggianti, saluta con un breve cenno del capo ed esce dalla stanza per andare verso la sua carrozza. I funzionari nell'anticamera si inchinano, i servitori gli aprono le porte, i suoi assistenti gli corrono dietro portando dei documenti e tutti si muovono intorno a lui con più di una punta di nervosismo, perché l'uomo è il grande Cancelliere, il principe Otto von Bismarck. 

L'uomo nell'ufficio appoggia le mani sui braccioli della sedia e si siede lentamente. È un banchiere, della stessa età di Bismarck, ma completamente privo dell'autoritaria energia del cancelliere. Bleichröder ha un'aria di studiata svagatezza: una nobile testa con incipiente calvizie, folte basette, occhi socchiusi, un naso sottile e ricurvo. L'uomo aspetta che il suo segretario abbia chiuso la porta. 

«Allora, Julius?» dice. «Come interpreti la faccenda?»

È un gioco a cui amano giocare. Il giovane segretario deve basarsi sulle conoscenze che ha, tirare a indovinare su ciò che non sa e tentare di capire il funzionamento della mente subdola e impenetrabile del suo datore di lavoro. 

«La Razkavia... Non è quel posto dove oggi è stato assassinato il principe ereditario, signore? Ho visto qualcosa nei telegrammi di mezzogiorno... Un piccolo regno simile alla Boemia. Una cerimonia pittoresca... qualcosa che ha a che vedere con una bandiera». 

«Sì. Tutto esatto finora».

«Ah. Ora ricordo. Non estraggono qualcosa dalle miniere da quelle parti? Stagno o qualcosa del genere?» 

«Nichel. Molto bene, Julius».

«Ma non vedo cosa abbia a che fare un'attrice spagnola con tutto questo. Troppo astruso per me, signore».

«Allora te lo dirò io. Vai all'armadietto blu, per favore, e tira fuori il fascicolo con l'intestazione 'Thalgau'».

Mentre il segretario apre l'armadietto, le mani del banchiere si muovono delicatamente sulla scrivania, risistemando una penna, raddrizzando il tampone di carta assorbente, spolverando immaginari granelli di polvere, soffermandosi carezzevoli su una piccola, ma pesante palla di vetro. 

Il segretario ritorna con il fascicolo e Bleichröder si appoggia di nuovo allo schienale della sedia, le mani dietro la testa, gli occhi socchiusi.

«Comincia, allora» dice, ricomponendo i propri pensieri.

 

Capitolo cinque

 

GALATEO

 

Il giorno successivo trascorse in un turbinio di compere per Becky. Non c'era tempo per farsi fare degli abiti su misura, perciò dovettero comprarli già fatti e farli modificare. La contessa guardava il tutto con espressione corrucciata, dando di tanto in tanto un secco ordine a Frau Winter, che lo riferiva in inglese alle modiste, alle commesse, alle sarte. Poi ci furono le valige da comprare e un baule; e Becky, ricordando il motivo principale per cui stava per partire, insistette per acquistare libri di calligrafia e dizionari. Con cosa avrebbe potuto insegnare a leggere ad Adelaide? Non c'era tempo per dilungarsi nelle ricerche: i due libri di Alice, Black Beauty... E un nuovo gioco chiamato Go e una scacchiera con un set di pedine da dama e uno di scacchi, più una manciata di Penny Dreadful dal tavolo da lavoro della mamma... Se li sarebbe fatti bastare. 

La nonna, debole di comprendonio e costretta a letto, capì che stava succedendo qualcosa e cominciò ad agitarsi finché Becky non le si sedette accanto e le parlò alla luce del giorno che moriva. L'anziana donna non riuscì a capire molto, ma la sua mano ruvida e delicata strinse con gioia quella della nipote finché non si addormentò. E poi ci furono ancora valige da preparare, altri elenchi dell'ultimo minuto di cose da non dimenticare, una breve dormita, una veloce colazione, un abbraccio fin troppo frettoloso e lacrime... e il viaggio di Becky cominciò. 

 

Il mare della Manica era piuttosto turbolento, ma il mal di mare non è un argomento adatto a una discussione: è scritto su qualunque libro di galateo. E il galateo divenne l'incubo di Becky non appena raggiunsero la terraferma, perché una volta saliti sul treno la contessa cominciò a insegnare a lei e ad Adelaide un migliaio di cose che non avevano neppure mai sognato: come rivolgersi al cancelliere, la differenza esatta di rango tra il figlio minore di un conte e il figlio maggiore di un barone, come sbucciare un'arancia a tavola, il modo giusto di iniziare una conversazione con un vescovo... ogni possibile argomento di galateo, finché non si sentirono entrambe frastornate. 

E quando non c'era la contessa a insegnare eleganza e galateo, c'era Becky a insegnare ad Adelaide a leggere e a scrivere e un po' di tedesco. Chiunque altro si sarebbe avvilito, ma lei era forte: l'unico segno di stanchezza era un leggero cipiglio che aveva cominciato a insediarsi in permanenza sulla sua fronte, ma persino quello svaniva quando il principe o Becky giocavano ad Halma, a Go, all'Assedio di Parigi o a Spyrol con lei. Con grande sorpresa di Becky, Adelaide non aveva mai imparato a giocare a dama, ma il gioco le piacque immediatamente e già alla terza partita riuscì a battere la sua insegnante. Poi insistette per imparare gli scacchi, perché i pezzi avevano un aspetto più interessante... e così il tempo passava. 

La sera della prima giornata di viaggio attraversarono Essen, dove c'erano le grandi fabbriche della Krupp, rosse e fumose contro il tramonto infuocato. Dal treno si sentivano persino i potenti martelli che forgiavano cannoni e acciaio e corazze, e Jim Taylor, che era andato a sedersi vicino a Becky, disse: «È questa la ragione di tutto, sai? Alfred Krupp vuole il loro nichel. Come sta la principessa?» 

«Fatica come un operaio della Krupp. Le verrà un esaurimento».

«Be', è compito tuo farla riposare. Falla giocare un po' a Ludo, forza».

«Ti va di giocare?»

«Io? Scherzi? Ho cose più importanti da fare, come oziare insieme al conte e fumare sigari».

A quel punto non era più il signor Taylor, era Jim. E più cose Becky scopriva su di lui, più le piaceva. Stava tentando di comporre mentalmente una sua descrizione per la prossima lettera da spedire alla mamma, ma le riusciva difficile trovare le parole, perché lui era diverso da qualunque giovane uomo di cui avesse mai sentito parlare (quelli che conosceva personalmente erano troppo pochi per avere importanza). C'era sempre quella prima impressione di spavalderia e dissolutezza, che si rafforzava ogni volta che lo vedeva. Ma contrastava curiosamente con la sensibilità e il tatto che dimostrava in compagnia degli aristocratici, privi però di qualunque traccia di servile deferenza o adulazione. Jim sembrava considerarsi un loro pari: una pretesa inconcepibile, a giudicare dalle apparenze, ma lui la portava avanti con successo. Becky supponeva che in parte fosse dovuto al suo aspetto fisico, al modo elegante con cui indossava abiti alla moda, alla grazia atletica dei movimenti, al pizzico di tracotanza nella camminata; ma per la maggior parte era l'intensa luce nei suoi felini occhi verdi, il luccichio pigro e divertito che emanavano, quell'aria di essere semplicemente molto più intelligente di chiunque altro avesse intorno. E infine (anche se questo, pensò Becky, non l'avrebbe detto alla mamma) c'era un'aura di pericolo che sembrava circondarlo sempre, l'impressione che se fosse stato necessario avrebbe combattuto e avrebbe ucciso, divertendosi anche. 

Perciò non era un gentiluomo: era molto più interessante. L'unica cosa che impediva a Becky di perdere completamente la testa per lui era l'ovvio fatto che lui era innamorato di Adelaide... una ragione in più per preoccuparsi. Ma neppure questo avrebbe menzionato nella sua lettera. 

Mentre il sole tramontava sul secondo giorno di viaggio, il paesaggio cominciò a cambiare. Il treno ora avanzava scoppiettando attraverso le montagne e più andavano verso sud più queste diventavano alte, finché dai finestrini della carrozza fu sempre più difficile vederne le cime, quelle frastagliate estremità di calcare colorate di rosa alla luce della sera e avvolte da nubi d'albicocca e arancio e giallo pastello. Più in basso spiccavano le rigogliose pendici, con pini verde scuro che coprivano ogni cosa; e una volta, in una radura, videro un cacciatore con il suo moschetto, il corno e un cane saltellante al seguito. L'uomo sollevò il cappello con la piuma quando lo salutarono. Becky si sentì improvvisamente felice: questo era il suo paese, il suo paesaggio, il luogo a cui apparteneva. Stava tornando a casa. 

 

Sbuffi di vapore in una stazione ammantata d'oscurità, un tappeto rosso, funzionari che si inchinano levandosi i cappelli a cilindro, servitori che si affrettano a scaricare bauli e valige e a caricarli sulle carrozze. Il lutto: tutti in nero, bandiere a mezz'asta per la morte del principe ereditario; ma anche, dalle pubbliche piazze e dai giardini, dal Labirinto delle Rose nei Giardini Spagnoli sull'ansa del fiume, il suono di allegre arie di Weber, Strauss e Suppé eseguite dalle numerose bande sovvenzionate con un'apposita tassa turistica per la musica; e la grande campana della Cattedrale che batteva i suoi lugubri rintocchi, all'infinito, e altre campane che battevano le ore dalle antiche chiese nelle stradine e nelle piazze. Odore di sigaro nell'aria e profumo di fiori di primavera, e l'aroma di stufati piccanti e crauti e carne alla griglia. Gli enormi cornicioni sporgenti dei vecchi palazzi sotto i quali passavano; i balconi straripanti di gerani scarlatti; le finestre illuminate delle birrerie e dei caffè dalle pareti tappezzate di corna di cervo, tassi impagliati e ogni altro tipo di trofeo da caccia. Il fiume, scuro e impetuoso, con la Rupe di Eschtenburg dall'altro lato e la sua Aquila Rossa, l'Adlerfahne, che sventolava sulla città come aveva fatto negli ultimi seicento anni. 

Poi il Palazzo: colonne di zucchero filato alla luce della luna, fontane che tintinnavano nei giardini all'italiana. 

Servitori che si inchinavano; scale di marmo; statue, quadri, arazzi, tappeti, porcellane. Adelaide accanto a Becky, scura in volto, nervosa, ma rivestita di una solenne dignità. 

E la lunga attesa in anticamera dove decine di candele ardevano su candelieri dorati di fronte a vecchi specchi scuri, mentre il principe spiegava tutto a suo padre il re. Adelaide, Becky e la contessa rimasero sedute lì per un'ora... Becky lo notò guardando l'orologio di bronzo dorato sul caminetto. 

Alla fine, a mezzanotte meno un quarto, la porta si aprì e un maggiordomo o un ciambellano di un qualche tipo si inchinò rigidamente e disse: «Sua Maestà ora vi "riceverà. Quando entrerete nella stanza dovrete fare una riverenza subito, sull'arco della porta, andare verso il re e fare un'altra riverenza. Se lascerete la stanza prima di lui, camminerete all'indietro, seguendo la linea del tappeto fino ad arrivare al punto in cui sarò io. Poi farete nuovamente la riverenza, vi volterete e ve ne andrete. Ora vi prego di seguirmi». 

Becky tradusse per Adelaide, che entrò per prima, con Becky e la contessa al seguito. Si ritrovarono in un ampio salotto molto illuminato, dove il principe era in piedi con aria nervosa accanto a un camino acceso. C'era anche il conte, con un aspetto solenne, mentre su un divano sedeva un uomo anziano e severo vestito a lutto, con lunghe basette grigie, la testa pelata e un'espressione di incommensurabile malinconia sul volto. Aveva la mano destra appoggiata sul bracciolo del divano e Becky notò che le sue dita non la smettevano di tremare. Un piede poggiava su uno sgabello. 

Fecero la riverenza, andarono verso il divano e fecero nuovamente la riverenza. Il maggiordomo se ne andò in silenzio. 

«Contessa» disse il re con una voce roca e affannosa, «spero che questo viaggio non vi abbia stancato...»

«Niente affatto, vostra Maestà, vi ringrazio».

«Questi sono tempi difficili. Come sta vostra cugina, Lady Godstow?»

Come molti monarchi, l'anziano re aveva una memoria prodigiosa per i legami di parentela, e in questo caso sapeva che la contessa aveva una cugina di quarto o quinto grado, una nobildonna inglese sposata con uno dei gentiluomini della Corte della regina Vittoria. La contessa arrossì di piacere e parlarono della cugina e del resto della famiglia per dieci minuti buoni prima che il re si voltasse verso Becky. 

Ma non verso Adelaide, non ancora. Erano tutti ancora in piedi e Adelaide era tremendamente stanca; ma il re la ignorò e si voltò verso Becky.

«Fräulein Winter» disse. «Lei è molto giovane per aver coltivato tutti i talenti di cui mi parlano. L'istruzione delle giovani donne deve essere molto progredita in Inghilterra. Qui in Razkavia siamo più all'antica. Non c'è niente che apprezziamo più della modestia in una ragazza; forse ci troverà lenti a riconoscere il suo vero valore». 

Becky impiegò qualche istante a rendersi conto di cosa le stava dicendo e quando lo fece provò un immediato odio per lui. Non poté fare a meno di ricordare che quello era l'uomo responsabile, sia pure indirettamente, della morte di suo padre; e lei lo odiava anche per il modo deliberato in cui stava snobbando Adelaide, per il fatto che non si fosse ancora degnato di parlarle, lasciandola per ultima, dopo una semplice interprete. E anche lei era stanca e affamata e capì che non avrebbe dovuto reagire non appena aprì bocca, ma non poté impedirselo. 

Disse: «Vostra Maestà è molto benigno. Ma sono razkaviana anch'io e mia madre mi ha sempre detto che, per quanto il nostro paese possa essere povero di alcune cose, è sempre stato ricco di cortesia e gentilezza. Sono felice di avere la possibilità di imparare tali qualità dall'esempio rappresentato da Vostra Maestà». 

E fece la riverenza più umile che le riuscì di fare, fin quasi a toccare il tappeto col naso. Fu subito consapevole della contessa raggelata al suo fianco, del conte in preda all'ira, del principe che tremava, ma più di tutto di Adelaide all'erta e perplessa accanto a lei. E quando alzò lo sguardo vide un'antica freddezza negli occhi del re. 

Lui la fissò a lungo e lei sostenne il suo sguardo; poi il re la ignorò e si rivolse ad Adelaide. La squadrò una o due volte e poi parlò. Becky tradusse nella maniera che le aveva insegnato la contessa, a bassa voce e nel modo più veloce e più discreto possibile, mantenendosi fedele alle parole pronunciate dai due. 

Il re disse: «Allora questa è la sposa che mio figlio ha scelto». 

«Sono onorata di conoscere vostra Maestà» rispose Adelaide.

«Il vostro cognome è Bevan, mi pare. Parlatemi della vostra famiglia».

«Mia madre era una sartina, vostra Maestà. Morì in un ricovero di mendicità a Wapping. Mio padre era un sergente di reclutamento, ma non l'ho mai conosciuto. È tutto ciò che so».

Lo disse con estrema semplicità. Il volto del re mentre Becky traduceva era privo di qualunque espressione; solo le sue dita, che tremavano più che mai, tradivano le sue emozioni.

Poi continuò: «Mi dicono che siete diventata una principessa».

«Sono diventata la moglie di un principe. Ma è tutto ciò che posso scegliere di essere. Se qualcun altro desidera che io diventi una principessa, cercherò di esserne degna, per amor suo». 

Poi ci fu una lunga pausa, punteggiata dal crepitio del legno nel camino e dall'orologio sulla mensola che batteva la mezzanotte. Le dita del re tremarono con più intensità una, due, tre volte, mentre il vecchio tentava di sollevare il braccio destro senza riuscirci. Becky pensò che doveva aver avuto un qualche tipo di colpo apoplettico e che era davvero molto vecchio e molto malato.

Alla fine il monarca riuscì a muovere il braccio sinistro e diede dei colpetti sul divano accanto a sé. Guardando Adelaide, disse con gentilezza: «Venite a sedervi accanto a me» e per un istante, curiosamente, ricordò a Becky il suo caro nonno, tanto che dovette sforzarsi di controllare la voce quando tradusse. Così Adelaide si sedette accanto al re e lui fece portare del vino. Quando fu versato, il monarca ne prese un bicchiere e con un enorme sforzo lo porse ad Adelaide con la mano tremante senza versarne una goccia e poi ne prese uno per sé. 

«Adelaide» disse. «È un bel nome. Somiglia a quello della nostra aquila, la nostra Adler. Avete visto l'Aquila Rossa che sventola sulla Rupe? Pensavo che al momento giusto mio figlio Wilhelm l'avrebbe portata dalla Cattedrale alla Rupe, ma il nostro Padre Celeste ha deciso altrimenti. Così sia. Rudolf è un uomo di valore. Assicuratevi che resti sulla retta via, Adelaide». 

Il re bevve un solo sorso di vino, poi rimase in silenzio accanto a lei per un minuto o due, tenendole la mano. Alla fine fece un sospiro che sembrò scuotergli dolorosamente il petto e lanciò un'occhiata a suo figlio. 

Il principe capì, tolse lo sgabello da sotto il piede del vecchio e lo aiutò ad alzarsi.

Anche Adelaide si alzò e il re si chinò per darle un bacio.

«Buonanotte, Adelaide» disse.

Poi augurò la buonanotte al principe, al conte e alla contessa, e il maggiordomo gli prese il braccio per aiutarlo a uscire. Becky si rese conto di essere tutta rossa in viso, dal collo fino alla radice dei capelli, ma sapeva che doveva dirgli qualcosa. 

«Vostra Maestà» cominciò, lui si fermò e lei gli fece una profonda riverenza. «Sono terribilmente dispiaciuta, mio signore. Sono stata molto scortese con voi e ve ne chiedo perdono». 

Non riusciva a guardarlo negli occhi. Dopo una breve pausa lui disse: «Buonanotte, bambina. Quando rivedrai tua madre, dille che la ringrazio».

Poi molto lentamente, con passo tremante, uscì dalla stanza. Un servitore chiuse la porta. 

 

Capitolo sei

 

AQUILE E PANIA

 

Becky aveva ragione riguardo a Jim, almeno su un punto: lui si considerava pari a chiunque altro, in una maniera rozzamente democratica. Si sentiva a suo agio in compagnia di stallieri e borseggiatori quanto tra artisti, attori e conti... ma non aveva mai visto una Corte reale prima, e ne era affascinato. 

La mattina del primo giorno della loro permanenza in Razkavia fu convocato nell'ufficio del ciambellano. Il barone Gödel era il responsabile della Casa Reale e si occupava della gestione di tutte le cerimonie e dei ricevimenti di Corte, di fissare gli appuntamenti per tutti i Reali e di amministrare i conti della famiglia reale. Jim entrò nel suo ufficio con una certa curiosità. 

Il barone era sulla cinquantina: pallido, con la pelle del viso flaccida e cascante, gli occhi chiari sporgenti e denti inclinati all'indietro come quelli dei ratti. Era di una bruttezza così impressionante che Jim si sentì immediatamente dispiaciuto per lui. Poi vide l'espressione nei suoi occhi e capì che quell'uomo sapeva bene l'effetto che il suo aspetto faceva sugli altri e lo stava osservando per vedere come avrebbe reagito. Un lampo di trionfo sembrò guizzare nel suo sguardo per poi scomparire nell'acquoso pallore di quegli occhi. Poi Jim notò la cura meticolosa con cui l'uomo era vestito: il taglio perfetto della giacca, il bianco immacolato del colletto, il nero lucido dei capelli, così impomatati da sembrare incollati sul cranio. Quell'uomo era tanto vanitoso quanto brutto: interessante... 

«Herr Taylor» disse il ciambellano senza prima chiedergli di sedersi. «Mi dicono che Sua Altezza Reale l'ha assunta al suo servizio a titolo personale. Ovviamente non vorrei mai interferire con le sue decisioni. Ma devo informarla che lei non ha alcuna posizione all'interno della Casa Reale. L'ufficio di Sua Altezza è al completo, non c'è carenza di personale tra la servitù e la sicurezza di Sua Altezza è giorno e notte sotto l'attento controllo delle Guardie di Palazzo. Capisce cosa sto dicendo? Non c'è alcun lavoro per lei qui, nessun posto da occupare e quindi non ci sarà alcuna remunerazione. Sua Altezza Reale ha informato il mio ufficio che desidera che lei sia alloggiato con la servitù. La stanza in cui ha dormito la scorsa notte è necessaria a uno dei miei segretari. Senza dubbio se chiederà all'ufficio del maggiordomo le troveranno un altro alloggio. I suoi doveri e la sua remunerazione sono una questione che riguarda esclusivamente Sua Altezza Reale. Tutto ciò che le chiedo è di comportarsi in maniera appropriata mentre si trova nel Palazzo e di non essere in alcun modo d'impaccio al normale andamento della Casa Reale. Buongiorno». 

«Buongiorno a lei» rispose Jim e se ne andò.

Quindi era così che stavano le cose. Be', sarebbe potuta andare peggio: Gödel avrebbe potuto assegnargli un'infinità di piccole incombenze che non gli avrebbero lasciato il tempo per fare quello che era venuto a fare. 

E cosa era venuto a fare esattamente?

Il principe non lo sapeva. Come un bambino si era legato alla prima persona amica che aveva incontrato, proprio come aveva sposato Adelaide perché lei era stata gentile con lui. Si aspettava che Jim lo proteggesse, ma anche che sapesse da cosa proteggerlo e come farlo. E Jim si sentiva obbligato a farlo e non solo per il bene di Adelaide, ma perché il principe gli piaceva davvero: in fondo era solo un bambino impaurito, ma che desiderava fare il proprio dovere, qualunque esso fosse. Era come Pierrot in una arlecchinata: innocente, folle, tenero e troppo ingenuo per vivere in questo mondo. Il che faceva di Jim l'astuto servitore della farsa, con il compito di toglierlo dai guai. 

Niente affatto un brutto ruolo, tutto considerato. Ma significava che Jim avrebbe dovuto prima di tutto esplorare il territorio in cui avrebbe agito: qui non era a casa sua. Perciò, dopo aver trascorso una lunga e faticosa giornata a discutere con l'ufficio del maggiordomo e a insediarsi in un'angusta stanza nella mansarda accanto agli altri domestici, proprio sopra la più comoda stanza di Becky al piano sottostante, Jim decise di dare un'occhiata in giro; così quel pomeriggio tardi indossò un elegante completo di tweed, il suo berretto da caccia e una cravatta verde scuro e si avviò con tutta calma verso il centro della città. 

Era un posto strano, Eschtenburg: mezza tedesca e mezza boema, mezza medioevale e mezza barocca, mezza moderna e razionale e mezza... assolutamente assurda. Sul lato occidentale del fiume c'erano il Palazzo, gli edifici governativi, le banche, le ambasciate e gli alberghi, l'università e la Cattedrale. Sul lato orientale, abbarbicata intorno alla Rupe sulla quale sventolava l'Aquila Rossa, c'era la città vecchia... e un posto meno salubre, più scricchiolante e più traballante di quello Jim non l'aveva mai visto da nessuna parte in Europa, perlomeno da quando avevano buttato giù le baraccopoli intorno a Seven Dials per far posto a Charing Cross Road. Nelle parti più antiche non c'erano neppure le strade: gli edifici erano tutti accatastati l'uno sull'altro. Secondo una leggenda, di notte le case si davano una bella scrollata e la mattina dopo ricomparivano in un posto completamente diverso. Un'altra leggenda raccontava invece che le nebbie che sorgevano dal fiume ingannavano la vista: facevano svanire le statue, cambiavano i nomi delle case, incidevano nuovi disegni sugli stipiti delle porte e sui telai delle finestre. 

Jim, incuriosito, pensava di attraversare uno degli eleganti e antichi ponti per vedere se era davvero così facile perdersi, ma ben prima di arrivarci fu attirato in uno scantinato nel quartiere universitario dal più buon odore di salsicce alla griglia e birra che avesse mai sentito. C'era anche musica là dentro: tromboni che suonavano un'esuberante polka. Era impossibile resistere, perciò Jim aprì la porta e scese i gradini. 

Il locale era piccolo e fumoso e la maggior parte degli avventori erano studenti. Indossavano un'uniforme, una tunica di foggia militare con pantaloni stretti, spalline e nastrini sul bavero per indicare la confraternita a cui appartenevano. Ce n'erano ottanta o novanta in uno spazio che ne avrebbe potuti accogliere forse trenta. Una banda di luccicanti ottoni dietro i quali s'intravedevano visi rubicondi suonava pomposa su un minuscolo palco in fondo alla stanza, e tra lo spesso fumo di sigaro Jim intravide sulle pareti corna e animali impagliati sufficienti a popolare una piccola foresta. 

Jim si mise in un angolo, ordinò dei würst con crauti e un boccale di birra e scoprì che aveva scelto il posto migliore di Eschtenburg per sapere come la pensavano i razkaviani sulla politica, perché a non più di un paio di metri di distanza c'era in corso una lite furiosa. 

L'argomento sembrava essere la famiglia reale e il loro atteggiamento verso la questione tedesca. Uno studente in uniforme con spalline rosse e nere stava battendo i pugni sul tavolo e sbraitando con voce aspra e monotona per farsi sentire sopra il rumore. Aveva gli occhi accesi, il viso cadaverico e delle disgustose goccioline di bava agli angoli della bocca che lo identificavano come l'ultima persona con la quale Jim avrebbe voluto trascorrere il suo tempo. 

Un buon numero di studenti con spalline rosse e nere lo incitava a gran voce a continuare, mentre un gruppetto più piccolo in verde e giallo tentava di zittire i rivali. Jim stava cercando di capire cosa stesse dicendo l'oratore quando la cameriera portò la birra, un buon paio di litri a giudicare dalla grandezza del boccale, in un elegante recipiente in cotto con il coperchio di peltro. Il giovane lo sollevò per bere e all'improvviso ricevette una tale spinta nella schiena che una pinta di schiuma finì sul pavimento di segatura. 

«Ach! Mein Herr! Le chiedo scusa... Maledizione, Reiner! Fammi un po' di spazio, va bene? Mi permetta di offrirle un'altra birra, signore...» 

Jim si voltò e si ritrovò faccia a faccia con un giovane robusto dai capelli ricci e gli occhi azzurri che si stava facendo strada a fatica verso una sedia. Era uno del gruppo dei verdi e gialli.

«Niente di grave» rispose Jim. «Era solo schiuma».

«Allora le offrirò dell'altra schiuma. Lei è inglese?»

«Jim Taylor» gli rispose tendendogli la mano. «E lei?»

«Karl von Gaisberg, studente di filosofia. Mi dispiace che debba sopportare le ciance di questi mistici hegeliani... come Glatz laggiù» e indicò l'oratore. 

«Cosa sta dicendo?» chiese Jim. «Mi pare di aver sentito l'espressione 'sangue e ferro'... Non è una delle frasi famose del principe Bismarck quella?» 

Karl von Gaisberg fece un'espressione disgustata. «Balordaggini. C'è un gruppo di studenti che adora Bismarck e tutto quanto c'è di tedesco. La razza, il sangue e il sacro destino di una 'Più Grande Razkavia'. Robaccia senza senso, se vuole sapere il mio parere». 

«Quindi lei è dalla parte del principe Rudolf e della democrazia, eh?»

«Certamente!» esclamò von Gaisberg. «Non è perfetto, ma è la nostra unica possibilità. Questa gente non ci penserebbe due volte a correre tra le braccia di Bismarck: un errore fatale. Persino Francesco Giuseppe sarebbe meglio per noi».

Poiché quello era più o meno il punto di vista di Daniel Goldberg e poiché Karl von Gaisberg sembrava il tipo di persona allegra, rumorosa, impulsiva e onesta che gli piaceva frequentare, Jim ordinò altre due birre. E mentre lui mangiava i suoi würst con crauti, Karl gli raccontò qualcosa di più sui retroscena delle discussioni in corso. 

«Chi è questo Leopold che quel tizio ha nominato un paio di volte?» chiese Jim.

«Il principe Leopold. Il figlio maggiore del re...»

«Pensavo che fosse Wilhelm, il principe ereditario che è stato assassinato...» 

«Leopold era suo fratello maggiore. Morto anche lui, molti anni fa. Ma ci fu qualcosa di strano nella sua morte... uno scandalo che fu messo a tacere. Oggigiorno nessuno parla più di lui: sembra quasi che vogliano che sia dimenticato. Glatz e la sua combriccola si sono aggrappati all'idea di Leopold come a una sorta di leader perduto, il sant'uomo tradito dalla sua stessa gente... È un buon metodo per non affrontare la realtà». 

A quel punto l'oratore con la schiuma alla bocca aveva raggiunto il culmine dell'esaltazione e la maggior parte degli studenti pendeva dalle sue labbra. Jim si mise in ascolto per tentare di capire quello che stava dicendo, anche se la sua voce aspra e acuta rendeva la cosa alquanto difficile. 

Poi qualcuno gridò: «Ma tu non vuoi un re razkaviano! Vuoi una marionetta nelle mani dei tedeschi!» 

«Questa è una bugia!» urlò Glatz. «Io voglio un re di pura nobiltà razkaviana! Un re degno di Walter von Eschten... non questo lezioso pagliaccio di un principe con la sua puttana inglese!»

Le sue parole rimbombarono nel silenzio. Persino la banda aveva smesso di suonare. Tutti restarono immobili... e poi Jim spinse da parte il suo piatto e si alzò. 

Lentamente cominciò a togliersi la giacca. Karl von Gaisberg sussurrò: «Siediti, pazzo di un inglese! Glatz è un buono spadaccino... ti infilzerà come un pollo...» 

Jim sentì un piccolo brivido di trionfo quando tutti gli occhi si voltarono verso di lui, ma al tempo stesso si diede dello sciocco: era venuto lì per spiare, non per giocare a fare D'Artagnan. 

«Cosa vorresti fare?» gli disse Glatz in tono sprezzante. «Questa faccenda non ha niente a che fare con te. Tu sei uno straniero. Tieniti fuori dalle questioni razkaviane». 

«Ti sbagli» replicò Jim. «Prima di tutto tu hai appena detto una cosa riguardo a una signora inglese che esige soddisfazione. In secondo luogo, anche se sono uno straniero sono un uomo del principe Rudolf, leale fino in fondo. Perciò se questi altri gentiluomini vorranno accettare il mio aiuto, io sarò lieto di offrirglielo». 

E si arrotolò le maniche, circondato dalle acclamazioni e dai pugni battuti sul tavolo dei verdi e gialli e dei fischi e delle proteste dei rossi e neri. Con la coda dell'occhio vide la banda che si affrettava a riporre gli strumenti e capì che il divertimento stava per cominciare. E poi Glatz si chinò sul tavolo e lo schiaffeggiò con il palmo della mano aperto. 

In una frazione di secondo Jim vide l'intera sequenza di ciò che sarebbe dovuto accadere: la sfida formale, i secondi, la scelta delle armi, i dottori... e lui stesso portato via con una ferita mortale. E non per la prima volta in vita sua ringraziò gli dei di non essere nato gentiluomo. Strinse la mano a pugno e colpì Glatz dritto sul naso.

Lo studente cadde come un ciocco e fu allora che cominciò la migliore rissa che Jim avesse mai visto da quella sera che era stato buttato fuori dal Rose and Crown dopo una lite per duemila ghinee. Tavoli rovesciati, panche sfasciate, boccali di birra che volavano come palle di cannone. Questi razkaviani ci sapevano fare e Jim capì dalla furia che si era scatenata nel piccolo scantinato che una buona dose di fanatica esaltazione si stava accumulando tra quei giovani già da parecchio tempo. Avrebbe potuto essere pericoloso, ma in una rissa di quel genere un ragazzo cresciuto in strada come lui aveva un certo vantaggio rispetto a un gentiluomo addestrato con metodi più scientifici: perciò dopo solo mezzo minuto Jim lasciò i primi tre rossi e neri ammaccati e confusi e si allontanò per cercarne degli altri. 

A quel punto vide Glatz, con il naso che sanguinava come un rubinetto aperto, che si accaniva su un verde e giallo disteso a terra. Jim lo atterrò con un calcio alle gambe e stava per occuparsi di lui con maggiore attenzione quando sentì un rumore che riconobbe all'istante. La polizia emetteva gli stessi suoni in tutto il mondo: passi pesanti, fischietti, colpi insistenti alla porta... E il modo migliore per cavarsi d'impaccio era svanire all'istante. Jim recuperò la giacca, afferrò il braccio di von Gaisberg e lo trascinò verso la cucina. La robusta cameriera si tolse di mezzo saltellando via come una pulce e in un istante si ritrovarono in un cortile buio e poi in un vicolo e dopo ancora in una specie di parco con ciliegi ornamentali, dove crollarono su una panchina. Karl stava ridendo a crepapelle. 

«Hai visto la faccia di Glatz quando gli hai dato quel pugno? Non riusciva a crederci! E Scheiber... quando è saltato sulla panca e l'altra estremità è scattata verso l'alto e ha colpito Vranitzky alla mascella... meraviglioso! Be', signor Taylor» continuò, «c'è da dire che tu sei uno che ci sa fare in queste cose. Ma chi sei veramente? E come mai sei così interessato al principe Rudolf?» 

Jim si fasciò la mano, la vecchia ferita aveva ricominciato a sanguinare. La luce della luna era abbastanza forte da consentirgli di vedere i riccioli arruffati e gli occhi luminosi del giovane studente, gli strappi sulla tunica, la spallina staccata. Tutto intorno a loro rimbombava il traffico delle strade della capitale e dall'altra parte del fiume, che luccicava come fosse di peltro, la Grande Rupe si stagliava contro il cielo con la Adlerfahne immobile sotto le stelle. Jim prese la sua decisione. 

«Va bene, te lo dirò» disse. «È cominciato tutto a Londra, dieci anni fa...»

 

Raccontò a von Gaisberg ogni cosa, dalla prima apparizione di Adelaide, una bambina magra e sparuta con ancora addosso l'odore della pensione della Holland fino alla sua accettazione da parte del re la notte precedente, che Becky gli aveva riferito in ogni particolare.

Karl rimase a fissarlo per tutto il tempo, sbalordito. Quando Jim ebbe finito, lo studente si diede una pacca sul ginocchio, si appoggiò allo schienale della panca e fece un lungo fischio. 

«Non c'è bisogno di dirti che ho corso un grosso rischio» disse Jim, «a raccontarti tutto questo. Ma ho visto il modo in cui ti batti e non credo che nuocerà agli interessi del principe il fatto che tu conosca tutta la verità. Ci saranno pettegolezzi di ogni genere, e difatti Glatz ne sta già diffondendo uno, ma la cosa peggiore è che alcuni sono veri. Lei proviene davvero dai più umili bassifondi di Londra; a malapena sa leggere o scrivere. Però è una dura, è appassionata, astuta e intelligente e combatterà per il principe fino alla morte.

«Quindi le cose stanno così. Questa è la tua principessa ed ecco cosa ci faccio io qui al suo servizio. Posso contare su di te?» 

Senza esitare neppure per un istante Karl von Gaisberg gli strinse calorosamente la mano e giurò di fare in modo che tutti i Richterbund, ossia la confraternita dei verdi e gialli, si unissero in difesa del principe e della principessa. 

«Mi fido della tua parola» disse Jim mentre l'orologio della Cattedrale batteva la mezzanotte. Fu in quel momento che si rese conto che la maggior parte degli eccellenti salsicciotti e quasi tutta la birra erano stati usati come proiettili prima che avesse il tempo di consumarli e che aveva una fame da lupi. Le zuffe avevano sempre avuto quell'effetto su di lui. A Londra avrebbe trovato un chiosco o avrebbe fatto una passeggiata fino a Smithfield, dove le trattorie facevano affari d'oro nelle prime ore del mattino con i trasportatori di carne. Ma non conosceva altrettanto bene Eschtenburg e quando chiese a Karl se c'era un posto dove mangiare, lo studente scosse la testa. 

«Andiamo a letto presto da queste parti» disse. «Ma non preoccuparti. Vieni con me nella mia stanza: ho del pane e del formaggio e una bottiglia di qualcosa...»

Perciò salirono le quattro rampe di scale fino alla stanza di Karl che si affacciava sulla piazza dell'Università, dove, gli assicurò lo studente, se si fosse appeso fuori dalla finestra e si fosse sporto sulla sinistra mettendosi in punta di piedi sulla grondaia, avrebbe goduto di una bella vista delle colline boscose del nord. Jim gli credette sulla parola. Lì sopra, alla luce di una candela, cenarono con pane duro, formaggio ancora più duro e brandy di prugne, mentre Karl gli parlava di politica razkaviana e di duelli, del bere e di quanto fosse dura la vita di uno studente, e i due iniziarono a piacersi parecchio. 

Il giorno dopo Jim ebbe un colloquio privato con il principe e gli raccontò della zuffa nella birreria. 

«Il punto è, signore, che la gente sa del vostro matrimonio, ma è necessario che vedano la principessa riconosciuta pubblicamente. Più la terrete nascosta alla gente più i pettegolezzi cresceranno e la vostra posizione peggiorerà. Non potreste parlare a Sua Maestà e suggerirgli un qualche tipo di annuncio? E magari una funzione nella Cattedrale?» 

«È molto difficile in questo momento... La Corte è ancora in lutto per mio fratello e sua moglie... Taylor, chi ci sta uccidendo tutti?»

«È quello che sto tentando di scoprire. Non credo che dovremmo preoccuparci di Glatz e della sua cricca di studentelli. Ma, vedete, sono un sintomo. Sono più interessato alla donna». 

«Donna? Quale donna?»

«La spia in giardino, quella notte. Ricordate?»

«Una donna?»

«Non ne ero sicuro. Ma quando le Guardie Irlandesi mi hanno raccontato di aver seguito la spia fino a un teatro e di essere stati depistati da un'attrice, ho cominciato a capire com'era andata... Non ve l'ho mai chiesto prima, signore, e non ve lo chiederò un'altra volta, ma... siete mai stato coinvolto con una donna del genere? Una donna che potrebbe volersi vendicare di voi per qualche ragione?» 

Il principe era talmente sconcertato che Jim credette al suo diniego.

«Ma dovete comunque fare un annuncio riguardo al vostro matrimonio il più presto possibile» disse. «Lutto o no, è l'unico modo per portare la gente dalla vostra parte».

 

Un'altra cosa tormentava Jim ed era il principe morto, Leopold. C'erano stati tributi di ogni genere per il principe ereditario Wilhelm e la sua principessa: articoli sui giornali che lodavano il rigore di lui e la bellezza di lei, fotografie e incisioni della coppia in vendita dappertutto, complete di bordo nero, rapporti sulla ricerca dei malvagi assassini, che erano stati scovati, a seconda dei giornali, a Bruxelles o a San Pietroburgo o a Budapest, ma le cui tracce si erano poi invariabilmente perdute. Il principe Wilhelm veniva propinato ovunque fino alla nausea... ma di suo fratello maggiore, il primo figlio del re, neppure una parola. Era come se fosse stato cancellato dalla storia. 

Inoltre ogni volta che chiedeva di lui Jim non otteneva altro che reazioni piuttosto gelide: sguardi accigliati, moti di sorpresa e paura. Persino il conte Thalgau era riluttante a parlarne. 

«È successo tutto molto tempo fa» disse. «Non c'è motivo di rivangare antichi scandali. Quel principe è morto; il nostro lavoro è proteggere questo. Dove si è fatto quell'occhio nero, ragazzo mio?»

Jim raccontò al conte della zuffa nella birreria e il vecchio ridacchiò contento, battendo il pugno nel palmo della mano.

«Per Giove!» esclamò. «Quanto mi sarebbe piaciuto esserci! Ecco lo spirito che ci serve intorno al Palazzo, giovani canaglie come il suo von Gaisberg. Conoscevo suo padre, sa? Mi sono ubriacato con lui più di una volta».

«Mi è venuta l'idea» spiegò Jim, «di istituire una specie di guardia privata con l'aiuto dei Richterbund. Una sorta di guardie del corpo in borghese per il principe e la principessa». 

«Eccellente idea. Ma qualunque cosa faccia non lo dica a Gödel: lo proibirebbe all'istante. Quanto vorrei essere ancora giovane, Taylor. Mi unirei alle sue guardie private all'istante...» 

Jim si stava affezionando molto a quel vecchio e chiassoso guerriero: c'era astuzia sotto tutta quella spavalderia e un cuore d'oro sotto l'apparente ferocia. Il conte non era affatto ricco, o almeno così gli era parso di capire: le vecchie tenute di famiglia erano in rovina e, cosa piuttosto insolita per un uomo del suo rango, aveva dovuto vivere con il suo stipendio di ambasciatore. Era rimasto con il principe Rudolf al suo rientro in patria non solo perché la contessa stava guidando Adelaide negli usi e costumi di Corte, ma principalmente perché Rudolf gli aveva dato un posto nel suo staff personale. 

In ogni caso era chiaro che il conte non avrebbe detto niente del principe Leopold. Jim andò perciò in cerca di informazioni altrove e verso la fine della settimana si ritrovò in una parte del Palazzo che non aveva ancora visitato: la Pinacoteca. 

In quelle sale trascorse mezz'ora a guardare le rappresentazioni di battaglie ormai dimenticate e incomprensibili scene di mitologia, robuste donne nude e muscolosi eroi che gesticolavano in maniera esagerata e che sarebbero stati perfetti al Victoria Theatre di Lambeth, dove alla gente piaceva la recitazione sopra le righe. C'erano anche i ritratti dei monarchi del passato: ce n'era uno del povero re Michele il Folle con il cigno che aveva sposato, Jim lo fissò a bocca aperta; e in alto, nell'angolo più buio della sala, c'era un giovane con l'uniforme da colonnello degli ussari che somigliava molto a Rudolf. E anzi, gli somigliava così tanto che Jim non riuscì a soffocare un'esclamazione di sorpresa, che fu udita dall'anziano soprintendente che stava passando in rassegna alcune acquetinte su un tavolo in fondo alla sala. 

Il vecchio si avvicinò per vedere cosa stesse guardando Jim.

«Il defunto principe Leopold» disse a voce bassa. «Un esempio direi notevole dell'opera del grande Winterhalter. Le andrebbe di esaminarlo più da vicino?»