PARTE TERZA

1

Il sole tramontava scivolando lento dietro i monti, quasi lieto di coricarsi, finalmente, dentro soffici nuvole.

Le ombre s’erano allungate sul prato davanti alla casa quando Eleanor e Theodora sbucarono dal sentiero e puntarono verso la terrazza di Hill House che nascondeva il volto nelle tenebre incipienti.

— C’è qualcuno in attesa — disse Eleanor, affrettandosi.

Era Luke. Eleanor lo vedeva per la prima volta, ma pensò subito che ogni viaggio termina in un incontro d’amore e riuscì soltanto a dire banalmente: — Chi cercava?

Luke si era appoggiato alla ringhiera della terrazza e le osservava nella penombra della sera. Inchinatosi, con un ampio gesto di benvenuto, le salutò piuttosto stranamente: — Se queste sono morte vuol dire che sono morto anch’io. Signorina, se siete le spettrali abitatrici di Hill House rimango qui in eterno.

“È proprio sciocco” pensò Eleanor, risentita.

— Ci rincresce di non averla aspettata — disse Theodora.

— Eravamo andate in esplorazione.

— Grazie, ma sono stato ricevuto da una megera inacidita che m’ha detto: “Piacere, spero di trovarla ancora vivo domattina quando ritorno e la sua cena è sulla credenza” — rispose Luke. — Detto questo, se l’è filata in una convertibile ultimo modello col primo e col secondo assassino.

— La signora Dudley — disse Theodora. — Il primo assassino dev’essere Dudley-del-cancello. Il secondo assassino, per me, doveva essere il conte Dracula.

— Visto che stiamo elencando i tratti salienti del nostro carattere, io sono Luke Sanderson.

Eleanor fu tanto sorpresa da ritrovare la favella. — E così lei è uno della famiglia? Voglio dire uno dei proprietari e non un ospite del dottor Montague?

— Sono della famiglia, e un giorno questo imponente ammasso di pietrame sarà mio. Ma sino ad allora, però, sono ospite del dottor Montague.

Theodora rise.

— Noi — disse — siamo Eleanor e Theodora, due povere piccole ragazze che facevano progetti per un picnic giù al ruscello, ma un coniglietto le ha spaventate.

— Io ho un terrore mortale dei coniglietti — replicò gentilmente Luke. — Potrei venire anch’io se portassi il cestino della merenda?

— Può portare il suo ukulele e strimpellare mentre noi divoriamo panini col pollo. Il dottor Montague è arrivato?

— È dentro ad ammirare cupidamente la sua casa stregata — rispose Luke.

Tacquero per un minuto buono, trattenendo il desiderio che li spingeva più vicini, finché Theodora disse piano: — Non sembra che ci sia tanto da ridere quando fa buio, non le pare?

— Signorine, benvenute. — Il grande portone si era aperto silenziosamente. — Entrate, prego. Io sono il dottor Montague.

2

Era la prima volta che si trovavano riuniti, tutti e quattro, nel grande atrio di Hill House.

Attorno a loro, la casa stava come in agguato e li studiava, là fuori i monti dormivano di un sonno sempre vigile, piccoli vortici d’aria e di suoni e di movimento s’agitavano, sussurravano, attendevano e il centro di consapevolezza era, in qualche modo, il breve spazio nel quale sostavano, quattro persone distinte che si fissavano fiduciose.

— Sono veramente lieto che siate arrivati sani e salvi e in tempo — disse Montague. — Benvenuti, tutti quanti, benvenuti a Hill House… Ma forse il benvenuto avrebbe dovuto darcelo lei, giovanotto… In ogni caso, benvenuti. Benvenuti! Luke, ragazzo mio, non potrebbe prepararci un Martini?

3

Il dottor Montague alzò il bicchiere e sorseggiò appena, speranzoso. — Onesto — disse poi, dopo aver assaporato. — Solo onesto, ragazzo mio. Comunque, al nostro successo, qui a Hill House.

— E come si fa a riconoscere il successo in un’impresa come questa? — domandò Luke, curioso.

Montague rise: — E allora diciamo così: spero che noi tutti troviamo eccitante la nostra permanenza qui e che il mio libro scuota dalla testa ai piedi i miei colleghi. Non posso definire vacanza la vostra visita, anche se a qualcuno potrà sembrare che lo sia, perché conto molto sul vostro lavoro… anche se per lavoro bisogna intenderci e vedere cosa ci sarà da fare, non vi pare? Appunti, note! — spiegò con un senso di sollievo, quasi che quello fosse il solo punto incrollabilmente solido in un mare di nebbia. — Appunti. Prenderemo appunti… di qualcuno. Non è un compito insopportabile.

— Finché nessuno farà bisticci di parole fra spiriti e spiriti — disse Theodora, avvicinando il bicchiere a Luke perché glielo riempisse.

— Spiriti… — mormorò Montague, fissandola. — Spiriti?… Oh sì, giusto. Nessuno di noi… — esitò un poco, con la fronte aggrottata. — Certo che no — disse ancora, trangugiando tre sorsi del suo cocktail uno dietro l’altro.

— È tutto così strano — disse Eleanor. — Questa mattina cercavo d’immaginarmi come fosse Hill House, adesso che son qui non riesco a convincermi che sia una realtà, questa casa.

Sedevano in un salottino scelto da Montague che ve li aveva condotti passando per uno stretto corridoio, sulle prime esitando un poco, ma poi aveva ritrovato la strada. Non era certo una stanzetta che si potesse definire intima con quel soffitto troppo alto e con quel caminetto troppo stretto che pareva freddo a dispetto del fuoco che Luke aveva acceso appena erano entrati; le sedie sulle quali sedevano erano arrotondate e scivolose, la luce che filtrava dai paralumi gettava ombre negli angoli. La luce opprimente della stanza era di color porpora, il tappeto rifletteva debolmente i ghirigori del disegno, le pareti erano tappezzate con carta da parati dorata, un cupido di marmo li sbirciava fatuo da sopra il caminetto. Non appena tacevano il silenzio della casa li opprimeva improvviso da ogni parte. Eleanor si chiedeva se si trovasse veramente lì, se non stesse sognando di Hill House da qualche angolino sicuro impossibilmente remoto; si guardava intorno lentamente, attenta e si diceva che quanto vedeva era concreto, reale, che quelle cose esistevano, dai mattoni del caminetto sino al cupido di marmo, che quelle persone sarebbero diventate sue amiche. Il dottore era rotondo, roseo e barbuto; vedendolo, lo si sarebbe immaginato più a suo agio seduto accanto al caminetto in un salottino, col micio sulle ginocchia, con una mogliettina rosea che gli portava i pasticcini farciti. Invece era innegabilmente il dottor Montague che l’aveva guidata sin lì, un ometto intelligente e ostinato. Oltre il caminetto, di fronte al dottore, stava Theodora, che appena entrata aveva puntato d’istinto, senza sbagliare, sulla sedia più comoda e in qualche modo ci si era incastrata con le gambe sul bracciolo e la testa posata contro lo schienale. Eleanor pensava che era come un gatto, un gatto che aspettava la cena. Luke non restava fermo un istante; andava e veniva riempiendo bicchieri, attizzava il fuoco, toccava il cupido di marmo irrequieto come i chiaroscuri della fiamma che gli si riflettevano sul volto. Tacevano tutti e fissavano la fiamma, pigri, dopo il lungo viaggio per giungere sin lì ed Eleanor pensava: “Sono la quarta del gruppo, sono una di loro. Faccio parte del gruppo”.

— Visto che ci siamo tutti — disse Luke all’improvviso, come se la conversazione non si fosse mai interrotta — non dovremmo conoscerci meglio? Ci conosciamo solo di nome. Io so che questa è Eleanor perché ha il maglioncino rosso, e quindi quest’altra dev’essere Theodora che indossa i pantaloni gialli…

— Il dottor Montague ha la barba, perciò lei dev’essere Luke — replicò Theodora.

— E tu sei Theodora perché io sono Eleanor! — “Un’Eleanor” pensava intanto “che appartiene al gruppo, che conversa senza sforzo, seduta accanto al fuoco coi suoi amici.”

— Di conseguenza, tu indossi il maglioncino rosso — le spiegò brevemente Theodora.

— Io non ho la barba — disse il dottore, sorridendo e fissandoli contento. — Mia moglie preferisce gli uomini con la barba, mentre tante altre la trovano insopportabile — spiegò. — Un uomo ben sbarbato… mi voglia scusare, giovanotto, non sembra mai completamente vestito, mi ripete mia moglie.

Montague porse il bicchiere a Luke. — Ora che so chi di noi quattro è Luke Sanderson — disse il giovanotto — permettete che cerchi di identificarmi meglio. Io sono, nella vita privata… posto che questa sia vita pubblica e che il resto del mondo sia davvero privato, io sono, dicevo… un torero… Sì, un torero.

— Io amo il mio amore con la B — disse Eleanor, suo malgrado. — Perché ha la barba.

— Verissimo — rispose pronto Luke. — E ciò fa di me il dottore Montague. Io vivo a Bangkok e il mio passatempo è molestare le donne.

— Ma niente affatto — protestò Montague. — Io abito a Belmont.

Theodora rise e scambiò con Luke una di quelle occhiate penetranti come quelle che aveva rivolto a Eleanor. Questa, che osservava, pensò turbata che poteva diventare opprimente restare troppo a lungo a stretto contatto con una persona così pronta a intonarsi con tutti, così percettiva come Theodora. — Io, di mestiere, faccio la modella per gli artisti — si affrettò a dire per mettere a tacere i propri pensieri. — Vivo una vita pazza, volubile, drappeggiata in uno scialle e passo da uno studio a una soffitta.

— Sei senza cuore e licenziosa? — domandò Luke. — Oppure sei una creatura fragile che s’innamora del figlio del signore e langue sino allo struggimento?

— Che consumi la tua bellezza e tossisci parecchio? — aggiunse Theodora.

— Io, invece, penso d’avere un cuore d’oro — rispose Eleanor, fingendo di riflettere. — In ogni caso, mi occupo delle chiacchiere dei café. — E intanto pensava: “Povera me! Povera me!”

— Purtroppo, io sono la figlia di un gran signore — disse Theodora. — Normalmente, vado coperta di seta, di trine e ricami d’oro, ma per apparire fra voi mi sono fatta prestare le raffinatezze della mia cameriera. Può anche darsi che m’innamori tanto della vita ordinaria da decidere di non tornare, e la povera ragazza dovrà comprarsi altri abiti. E lei, dottor Montague?

Montague sorrise, fissando il fuoco: — Un pellegrino. Un vagabondo.

— Proprio un gruppetto affiatato — commentò Luke, approvando. — È destino che si diventi amici inseparabili, direi. Una cortigiana, un pellegrino, una principessa e un torero. Hill House non ha visto niente che ci somigliasse.

— Io non voglio rendere onore a Hill House — disse Theodora. — Non ho visto mai niente che le somigliasse. — Alzatasi senza posare il bicchiere, andò a esaminare un vaso di fiori di vetro e domandò: — Secondo voi, che nome avranno dato a questa stanza?

— Salottino, forse — disse Montague. — Forse boudoir. Ho pensato che ci saremmo trovati meglio qui che in una delle altre sale. Anzi, penso che dovremmo considerarla come il nostro centro operativo, una specie di sala comune. Forse non sarà allegra…

— Ma sì che è allegra! — disse Theodora, sicura. — Non c’è nulla di più esilarante della tappezzeria color marrone rossastro e del rivestimento in legno di quercia. E cos’è quella, lì nell’angolo? Una portantina?

— Domani le mostrerò le altre stanze — le rispose Montague.

— Se dobbiamo tenere questa come sala di baldoria — disse Luke — io propongo di portarci qualcosa su cui ci si possa sedere. Non posso stare appollaiato a lungo su niente di quanto c’è qui dentro. Scivolo — aggiunse confidenzialmente a Eleanor.

— Domani — rispose il dottore. — Domani, tanto per incominciare, esploreremo tutta la casa e sistemeremo le cose per stare più comodi che si può. Ed ora, se avete terminato tutti quanti, io suggerirei di vedere che cosa ci ha preparato per cena la signora Dudley.

Theodora si alzò subito, ma si fermò di botto, confusa.

— Qualcuno dovrà farmi da guida. Non riesco a capire dove sia la sala da pranzo — spiegò. — Quell’uscio si apre sul corridoio lungo che va nell’atrio d’ingresso.

— Sbagliato, mia cara — rispose Montague, ridendo. Poi, alzandosi e facendo strada: — Di lì si va nella serra. Ho studiato la pianta della casa — disse compiaciuto — e penso che basti uscire da quella porta, percorrere il corridoio, attraversare l’ingresso, l’atrio e la sala del bigliardo per trovare la sala da pranzo. Non è difficile, con un po’ di pratica.

— Perché l’hanno costruita così? — domandò Theodora. — Perché tutte queste stanzette e stanzine?

— Forse andavano matti per il gioco del nascondino — spiegò Luke.

— Non riesco a capire perché abbiano scelto dei colori così scuri — disse ancora Theodora, che assieme a Eleanor seguiva Montague e Luke chiudeva il corteo indugiando a guardare nel cassetto di un tavolino, commentando ad alta voce sul valore delle teste di cupido e sulle ghirlande che ornavano il rivestimento della grande sala.

— Alcune di queste stanze sono interne — spiegava Montague, precedendoli. — Non hanno finestre, nessuna comunicazione con l’esterno. Comunque, una serie di stanze chiuse non desta sorpresa in una casa di quel periodo, particolarmente se si tiene presente che le finestre erano pesantemente chiuse da drappi e tendaggi all’interno, mascherate dalla vegetazione all’esterno. Ah! — esclamò, aprendo l’uscio e conducendoli nell’ingresso, fermandosi per studiare le porte che aveva di fronte, due piccole a fianco di una più grande, centrale, a due battenti. — Ecco — aggiunse, scegliendo la più vicina e tirandosi da parte per lasciarli passare. — La casa ha le sue stranezze. Luke, tenga aperto questo uscio mentre io cerco la sala da pranzo.

Muovendosi cautamente, Montague attraversò la stanza buia e aprì un uscio. Gli altri lo seguirono nella sala più gradevole fra quelle viste fino a quel momento, certamente grazie alle luci, all’aspetto e all’odore dei cibi.

— Mi congratulo con me stesso — disse Montague, sfregandosi le mani soddisfatto. — Vi ho condotti alla civiltà attraverso i non esplorati meandri di Hill House.

— Dovremmo prendere l’abitudine di lasciare ogni porta spalancata — disse Theodora, guardandosi nervosamente alle spalle. — Odio essere costretta ad aggirarmi a tastoni nel buio.

— Allora bisognerà trovare qualcosa per tenerle spalancate — disse Eleanor. — Tutte le porte di questa casa si richiudono da sole appena lasci la maniglia.

— Domattina. Intanto prendo nota: fermi per le porte — disse Montague, puntando allegramente verso la credenza, sulla quale la Dudley aveva messo uno scaldavivande e una serie impressionante di vassoi. La tavola era apparecchiata per quattro, con uno spreco di candele, damaschino e argenteria massiccia.

— Niente economie — disse Luke, brandendo una forchetta con un gesto che poteva confermare le previsioni più pessimistiche di sua zia. — Ci hanno dato anche l’argenteria di famiglia!

— Credo che la signora Dudley sia orgogliosa di questa casa — disse Eleanor.

— In ogni caso non vuole offrirci una cattiva tavola — disse Montague, guardando nello scaldavivande. — Mi sembra una sistemazione eccellente. La signora se ne va prima che faccia buio, il che ci permette di cenare senza la sua non allettante compagnia.

— Forse — disse Luke, osservando il piatto che stava riempiendo generosamente. — Forse sono stato ingiusto con la buona signora Dudley. Ma perché poi devo perversamente pensare a lei come alla buona signora Dudley? Insomma, forse le ho fatto torto: quando m’ha detto che sperava di ritrovarmi ancora vivo domattina, e che la cena era sulla credenza, forse pensava che sarei morto per l’ingordigia.

— Cos’è che la trattiene qui? — domandò Eleanor, a Montague. — Perché lei e suo marito restano in questa casa, così soli soletti?

— Per quello che ne so io, i Dudley si sono presi cura di questa casa da tempo immemorabile. I Sanderson hanno avuto fortuna che siano rimasti. Ma domattina…

Theodora rise. — È probabile che la signora Dudley sia davvero l’unico superstite che possa vantare un diritto di proprietà su Hill House. Secondo me, aspetta soltanto che tutti gli eredi Sanderson, ossia tu Luke, moriate di morte orribile in un modo o nell’altro; dopo, lei si prende la casa e i tesori in gioielli sepolti nelle cantine. Oppure i Dudley nascondono il loro oro in qualche stanza segreta, o sotto la casa c’è il petrolio.

— Non ci sono stanze segrete a Hill House — disse recisamente Montague. — Naturalmente, questa possibilità è stata avanzata in precedenza, ma credo di poter dire con certezza che aggeggi così romantici non esistono, qui. Però domani…

— In ogni caso, è roba fritta e rifritta anche il petrolio — disse Luke, rivolto a Theodora. — Non c’è assolutamente più nulla da scoprire su questa proprietà. La signora Dudley potrebbe assassinarmi a sangue freddo, forse per l’uranio.

— Oppure per il puro e semplice gusto di farlo — rintuzzò Theodora.

— Sì — intervenne Eleanor. — Ma perché siamo qui, noi?

Per un minuto buono gli altri tre rimasero a fissarla: Luke e Theodora incuriositi, Montague serio, finché fu Theodora a rompere il silenzio: — Sì, proprio quello che stavo per chiedere anch’io: perché siamo venuti qui? Cosa c’è che non va in questa casa? Cosa accadrà?…

— Domani…

— No — replicò Theodora, quasi seccamente. — Siamo tre adulti, tre persone intelligenti. Di strada ne abbiamo fatta parecchia, dottor Montague, per farle visita proprio qui. Ora Eleanor vuol sapere perché, e anch’io voglio saperlo.

— Anch’io — disse Luke.

— Dottore, perché ci ha fatti venir qui? Perché è venuto anche lei? Com’è venuto a sapere di Hill House, perché questa casa ha questa pessima reputazione e cosa accadrà veramente qui? E che cosa sta per accadere?

Montague aveva aggrottato la fronte e pareva a disagio.

— Non lo so — rispose. E quando Theodora fece un gesto brusco, irritato, continuò: — Su questa casa io ne so poco più di quello che sapete voi. Naturalmente, vi avrei detto tutto comunque. Quanto a quel che accadrà, anch’io lo scoprirò quando lo scoprirete voi, ma domani mi sembra abbastanza vicino per parlarne. Con la luce del sole…

— Non fa per me — replicò Theodora.

— Posso assicurare che Hill House resterà tranquilla, questa notte — disse Montague. — C’è uno schema in queste cose, come se i fenomeni psichici fossero soggetti a leggi assai particolari.

— Io penso davvero che dovremmo parlarne questa sera — disse Luke.

— Non abbiamo paura — disse Eleanor.

Montague sospirò ancora e disse, piano: — Supponiamo che udiate la storia di Hill House e decidiate di non rimanere. Come fareste per andarvene, questa notte? Il cancello è chiuso. Hill House ha una reputazione basata su un’ospitalità insistente: si direbbe che se ne abbia a male se i suoi ospiti se ne vanno. L’ultima persona che aveva tentato di andarsene col favore delle tenebre, diciotto anni fa… non è un fatto recente, badate, è stata uccisa alla svolta del vialetto, dove il cavallo, sgroppando, l’ha sbattuta contro un grosso albero. Supponiamo che vi racconti tutto, ora, e che uno di voi decida di andarsene… Domani, se non altro, potremmo accompagnarlo sano e salvo fino al villaggio.

— Ma noi non scapperemo — disse Theodora. — Io non fuggirò, e nemmeno Eleanor, e nemmeno Luke.

— Resteremo eroicamente sulla breccia! — proclamò Luke.

— Siete un gruppo d’assistenti ammutinati — rispose il dottore, rassegnato. — Dopo cena, dunque. Ci ritireremo nel nostro piccolo boudoir per prendere il caffè e un goccio di quel brandy che Luke ha nella valigia, che è eccellente, e io vi racconterò tutto di Hill House. Ora, però, parliamo di musica, di pittura… Magari di politica.

4

— Non ho ancora deciso il modo migliore per mettervi al corrente — stava dicendo Montague, rigirando il brandy nel bicchiere. — Certo che non potevo scrivervi tutto di Hill House e anche ora sono poco propenso a influenzarvi con la sua storia completa prima che abbiate avuto la possibilità di vedere coi vostri occhi.

Erano tornati nel salottino, caldo e quasi sonnolento a quell’ora. Theodora aveva rinunciato a ogni tentativo per conquistarsi una sedia e si era accomodata sul tappeto e stava a gambe incrociate, piuttosto intorpidita. Eleanor, che avrebbe preferito sedersi per terra accanto a lei, non era stata abbastanza svelta e si era condannata su una delle solite sedie scivolose e, non volendo attirare l’attenzione muovendosi per scivolar giù sul tappeto, restava in quella scomoda posizione. L’ottima cena della signora Dudley e un’ora di conversazione tranquilla erano bastate a far evaporare quella sottile aria d’irrealtà, di soggezione. In quel breve tempo avevano incominciato a conoscersi, a capirsi per quel che concerneva il modo di pensare, le maniere, il carattere e l’allegria di ciascuno. Eleanor pensava, non senza sorpresa, che era lì da quattro, cinque ore appena e sorrideva fissando il fuoco; sentiva il gambo sottile del calice fra le dita, lo schienale duro della sedia contro le spalle, i fievoli movimenti dell’aria nella stanza, appena avvertibili, mentre le ombre erano in agguato negli angoli e il cupido di marmo li fissava da lassù con un certo umorismo nel volto paffuto.

— Che momento per una storia di fantasmi — disse Theodora.

— Se non le spiace — replicò Montague, piuttosto severo — non siamo bambini che tentano di spaventarsi a vicenda.

— Chiedo scusa — disse Theodora, sorridendogli. — Sto solo cercando d’abituarmi a tutto questo.

— Cerchiamo di avere molta cautela col linguaggio che useremo. Nozioni preconcette sui fantasmi e sulle apparizioni…

— Come la mano senza corpo dentro la zuppa — disse Luke.

— Mio caro ragazzo, se non le spiace. Stavo tentando di spiegare che il nostro scopo, qui, essendo di natura scientifica ed esplorativa, non dovrebbe essere influenzato, e forse anche compromesso, da storie mal ricordate di apparizioni che appartengono più propriamente a… Mi lasci pensare… a beffe per i gonzi. — Soddisfatto della similitudine, si guardò intorno per accertarsi che anche gli altri la trovassero azzeccata, poi continuò. — In effetti, le ricerche che ho effettuato negli ultimi anni mi hanno condotto a formulare alcune teorie per quel che concerne i fenomeni psichici e solo ora, per la prima volta, mi si offre l’occasione di sottoporle a una prova. Per poter operare nelle condizioni ideali, è ovvio, voi non dovreste sapere nulla sul conto di Hill House. Dovreste essere all’oscuro di tutto, ignoranti e ricettivi.

— E prendere appunti — disse Theodora.

— Appunti, precisamente. Appunti. Comunque, comprendo che è impossibile lasciarvi completamente all’oscuro, soprattutto perché non siete abituati a far fronte a una situazione improvvisa senza alcuna preparazione — replicò Montague, osservandoli con aria scaltra. — Siete tre ragazzi ostinati, viziati, pronti a tormentarvi se non vi racconto la favola prima di coricarvi.

Theodora ridacchiò, e Montague annuì, contento. Alzatosi, andò ad appoggiarsi al caminetto nella posa inconfondibile del docente che si prepara a tenere una lezione; pareva che sentisse la mancanza di una lavagna, perché due o tre volte si volse, come se la cercasse. Non trovandola, ricominciò a raccontare. — E adesso riprendiamo la storia di Hill House.

“Come vorrei avere un blocco per appunti e una penna” pensava Eleanor. “Se non altro, per farlo sentire a suo agio.” Sbirciò Theodora e Luke e li vide buoni e diligenti come scolaretti pronti ad ascoltare la lezione e pensò: “Serietà e concentrazione. Entriamo in un altro stadio della nostra avventura”.

— Ognuno di voi ricorderà certamente la casa che nel Levitico è descritta come lebbrosa: Tsaraas, o la frase che Omero usa per definire il mondo sotterraneo: Aidao domos, ossia la “casa dell’Ade”. Penso non sia il caso di rammentarvi che il concetto di certe case come sporche o proibite, forse consacrate, è vecchio quanto la mente umana. Certo ci sono luoghi che s’appiccicano un’atmosfera inevitabile di santità e di virtù. In considerazione di questo non sembrerà troppo azzardato dire che alcune case sono nate cattive. Quale ne sia la causa, Hill House non è adatta ad essere abitata da circa vent’anni. Come fosse prima, o se la sua personalità sia stata modellata dalla gente che l’ha abitata o dalle cose che ha fatto quella gente, o se qualcosa di malvagio esistesse sin dall’inizio, sono domande alle quali non saprei dare una risposta. Ovviamente, spero che ne sapremo molto di più quando ce ne andremo. E come se non bastasse, nessuno sa spiegare perché certe case vengono definite “Stregate”.

— E come altro si potrebbe definire Hill House? — domandò Luke.

— Be’… forse disturbata, lebbrosa, malata o con ogni altro eufemismo popolare atto a definire l’insania. La casa della follia, forse può rendere l’idea. Comunque, ci sono teorie popolari che danno per scontato il soprannaturale, il misterioso; c’è gente pronta a giurare che i disturbi che io chiamo psichici sono veramente il risultato delle acque sotterranee, della corrente elettrica oppure allucinazioni causate dall’aria inquinata; la pressione atmosferica, le macchie solari, i terremoti hanno tutti i loro avvocati fra gli scettici. La gente è sempre così ansiosa di dare un nome alle cose, di metterle allo scoperto, quando può, indipendentemente dal significato e purché abbia appena appena un qualche addentellato immaginario nella scienza — disse il dottore, quasi rattristato da quella consapevolezza. Poi, rilassandosi, proseguì. — Una casa stregata! È un concetto che fa ridere. Io stesso, non so perché, ho detto ai miei colleghi all’Università che quest’estate andavo in un campeggio.

— Io ho detto agli amici che avrei partecipato a un esperimento scientifico — disse Theodora, pronta a dare una mano. — Naturalmente, non ho detto dove, né di cosa si trattava.

— Presumibilmente, i suoi amici hanno un concetto diverso da quello che hanno i miei quando si tratta di esperimenti scientifici — ripeté Montague, sospirando ancora — ho detto che andavo in campeggio… Alla mia età! Eppure l’hanno creduto. Comunque — disse ancora, aggiustandosi meglio sulla sua sedia — ho saputo di Hill House circa un anno fa, da uno che l’aveva affittata in precedenza. Ha cominciato con l’assicurarmi che la sua famiglia non voleva saperne di trascorrere le vacanze in un posto così remoto per terminare che, secondo lui, sarebbe stato meglio bruciarla, distruggerla dalle fondamenta e cospargere di sale il terreno sul quale sorgeva. Ho saputo di altre persone che l’avevano presa in affitto e ho scoperto che nessuna era rimasta più di qualche giorno appena, mai per tutta la durata dell’affitto, accampando mille pretesti che andavano dall’umidità, cosa tra l’altro non vera, alla necessità urgente di recarsi altrove per motivi d’affari. Tutti gli affittuari che hanno lasciato Hill House in fretta e furia si sono sforzati di fornire un motivo personale per la loro fuga, però sono fuggiti, tutti quanti. Ovviamente, ho tentato di scoprirne di più, ma in nessun caso ero riuscito a persuaderli a parlare della casa. Parevano propensi a non darmi alcuna informazione, tutti, come se non volessero rivangare i particolari del loro soggiorno. Solo su un punto concordavano in pieno: ognuno di loro, senza eccezione, mi consigliava caldamente di star lontano da questa casa, ma nessuno voleva ammettere che era una casa abitata dai fantasmi. Però, quando sono andato a Hillsdale e ho spulciato i vecchi giornali negli archivi…

— I giornali?! — esclamò Theodora. — Perché? Ci fu uno scandalo?

— Oh sì! — rispose Montague. — Uno scandalo coi fiocchi, un suicidio, la pazzia e uno strascico giudiziario. Solo allora seppi che la gente del posto non nutriva dubbi sulla casa. Mi hanno raccontato una dozzina di storie, tutte diverse naturalmente. È proprio impossibile ottenere informazioni accurate su una casa abitata dai fantasmi. Vi sorprenderebbe sapere cos’ho fatto per scoprire il poco che ho scoperto. Insomma, come risultato, sono andato a trovare la signora Sanderson, la zia di Luke, e ho preso in affitto Hill House. La signora è stata molto schietta sulla situazione indesiderabile che avrei trovato qui…

— Non è facile dar fuoco a una casa — disse Luke.

— Ma ha accettato di affittarmela per un breve periodo perché potessi effettuare le mie ricerche, a condizione che un membro della sua famiglia facesse parte del gruppo.

— Sperano che riesca a dissuaderla dal riportare alla luce del sole il caro, vecchio scandalo — disse solennemente Luke.

— Ecco, vi ho spiegato come mai sono qui e perché ci è venuto anche Luke. Quanto a voi due, signorine, ormai lo sappiamo tutti quanti che ci siete venute perché vi ho scritto e voi avete accettato il mio invito. Speravo e spero che ciascuno di voi, a modo suo, intensifichi le forze che sono all’opera in questa casa. Theodora ha dimostrato di essere in possesso di alcune capacità telepatiche; Eleanor, in passato, è stata coinvolta direttamente in fenomeni di spiritismo…

— Io?!

— Certo — rispose Montague, fissandola stranamente. — Tanti anni fa, quand’era una bambina. Quelle piogge di sassi…

Eleanor aggrottò la fronte e scosse la testa. La mano che stringeva il bicchiere tremava. — Ma quelli erano i vicini! La mamma diceva che erano stati loro, che la gente è sempre gelosa.

— Forse — rispose Montague, sorridendole. — L’incidente è caduto nel dimenticatoio da tanto tempo. Se ne parlo, è soltanto per spiegare il motivo che mi ha indotto a volerla qui.

— Quando ero bambina io — disse pigramente Theodora — tanti anni fa, come ha fatto notare lei, dottore, con tatto squisito, mi hanno picchiata perché avevo tirato un mattone sui vetri d’una serra. Ricordo d’averci pensato per un pezzo, ricordando le botte, ma anche quel fracasso di vetri rotti che m’affascinava. Dopo averci pensato e ripensato molto seriamente, sono uscita di casa e l’ho rifatto.

— Non ricordo bene — disse Eleanor, incerta.

— Ma perché, dico io! — domandò Theodora. — Voglio dire, posso anche accettare che si pensi che Hill House è stregata e che lei ci desideri qui per aiutarla a registrare quello che accade… E ci scommetterei che nemmeno lei se la sentiva di restar qui da solo. Però non comprendo proprio. È una vecchia casa orribile e, se l’avessi presa in affitto io, piangerei lacrime roventi sul denaro speso e chiederei il rimborso dopo aver dato la prima occhiata dall’esterno. Ma cosa c’è davvero qui? Cos’è che spaventa tanto la gente?

— Non tenterò di dare un nome a ciò che non ha un nome — rispose Montague. — Dirò solo che non lo so.

— A me non hanno mai detto nulla — disse Eleanor, ansiosa di spiegare. — La mamma mi diceva che erano stati i vicini che ce l’avevano con noi perché lei non voleva mescolarsi con gli altri. La mamma…

Luke la interruppe, calmo, ma inflessibile. — Credo che tutti quanti siamo qui desideriamo fatti e soltanto fatti. Qualcosa che possiamo capire e mettere assieme.

— Primo — disse Montague — rivolgerò a tutti quanti una domanda: volete andarvene? Consigliate di fare i bagagli adesso, in questo momento, e che abbandoniamo Hill House al suo destino, senza immischiarci oltre in quello che ci accade?

Fissò Eleanor, che intrecciò le mani ben strette, e intanto pensava che era un’altra occasione che le si offriva per filarsela. — No — rispose, fissando imbarazzata Theodora. — Mi sono comportata come una bambina questo pomeriggio — ammise. — Mi sono lasciata spaventare.

— Non dice tutta la verità — disse lealmente Theodora. — Non era affatto più spaventata di me. Ci siamo spaventate da morire, a vicenda, per un coniglio.

— I conigli sono creature orribili — confermò Luke.

Montague scoppiò a ridere. — Forse eravamo tutti nervosi, questo pomeriggio. Voltare l’angolo del viale e trovarsi di fronte Hill House, è un colpo piuttosto forte per tutti quanti.

— Per un istante ho pensato che mi volesse spiaccicare l’auto contro un albero — disse Luke.

— Adesso sono molto coraggiosa, in una stanza calda, col fuoco acceso e in compagnia — disse Theodora.

— Non credo che potremmo andarcene ora, nemmeno se lo volessimo — disse Eleanor, prima ancora di rendersi conto di quel che stava dicendo o di quel che avrebbero pensato gli altri. Vedendo che la fissavano e ridevano, balbettò banalmente: — La signora Dudley non ce lo perdonerebbe mai.

Eleanor si chiedeva se gli altri avrebbero creduto a quella scusa, e intanto pensava che quella casa li teneva in pugno, che, forse, non li avrebbe lasciati andar via.

— Prendiamoci un altro goccio di brandy e vi racconterò la storia di Hill House — disse Montague, ritornando alla sua posa da professore accanto al caminetto, mettendosi a parlare lentamente, come uno che voglia imprimere bene nella mente altrui ciò che sta per dire narrando fatti accaduti tanto tempo prima. — Hill House è stata costruita più di ottant’anni fa. A farla costruire era stato un certo Hugh Crain, che voleva farne una bella casa di campagna nella quale sperava di veder crescere i figlioli e i nipoti nel lusso e nell’agio e nella quale sperava di chiudere gli occhi. Disgraziatamente, Hill House si rivelò funesta sin dall’inizio: la giovane moglie di Hugh Crain morì improvvisamente qualche minuto prima di vederla per la prima volta, quando la carrozza che la portava si rovesciò nel viale e la signora venne portata, priva di vita, nella casa che suo marito aveva fatto costruire per lei. Rimasto solo, con due bimbe da allevare, Hugh Crain divenne triste e amareggiato, ma non abbandonò Hill House.

— Le bimbe sono cresciute qui? — domandò Eleanor, incredula.

— Come ho detto, la casa è asciutta — rispose Montague, sorridendo. — Qui non c’erano paludi che dessero le febbri e si pensava che l’aria di questi posti giovasse alla loro salute, la casa era considerata lussuosa. Non dubito affatto che le due bimbe potessero giocare, qui; forse erano sole, ma non infelici.

— Mi auguro che siano andate a sguazzare nel ruscello — disse Theodora, fissando intensamente il fuoco. — Povere piccine. Spero che qualcuno le abbia lasciate correre sul prato, raccogliere i fiori selvatici.

— Il padre si risposò — riprese a dire Montague. — Due volte ancora, per l’esattezza. Sembrerebbe che fosse sfortunato… con le donne. La seconda moglie morì per una caduta, ma non sono riuscito a scoprire né come né perché. La sua morte sembrerebbe tragicamente inaspettata come la morte della prima sposa. La terza moglie morì di quella che allora chiamavano consunzione, non so dove, in Europa. Nella biblioteca c’è una collezione di cartoline scritte alle due bimbe, rimaste a casa, dal padre e dalla matrigna che viaggiavano da un sanatorio all’altro. Le bimbe rimasero qui con la governante sino a quando la matrigna morì. Dopo quel decesso, Hugh Crain proclamò che voleva chiudere Hill House e rimanere all’estero; le figlie vennero mandate a vivere con una cugina della loro madre, con la quale rimasero sino alla maggiore età.

— Spero che la cugina di mammà fosse un tantino più allegra del vecchio Hugh — disse Theodora, gli occhi sempre cupamente fissi nella fiamma. — Non è bello pensare alle bimbe cresciute come i funghi, al buio.

— Loro la pensavano diversamente — spiegò Montague. — Le due sorelle trascorsero la vita litigando per il possesso di Hill House. Dopo le grandi speranze di iniziare una dinastia incentrata qui, Hugh Crain morì da qualche parte in Europa dopo essere sopravvissuto brevemente all’ultima moglie. Hill House rimase alle due sorelle, che dovevano essere molto giovani allora. Però la più grandicella aveva fatto il suo debutto in società.

“E aveva messo su arie da signora, aveva imparato a bere champagne e a portare il ventaglio…

Hill House rimase vuota per un certo numero d’anni, ma tenuta sempre in ordine per la famiglia, se avesse deciso di tornarci. Prima avevano aspettato il ritorno di Hugh Crain, poi dell’una o dell’altra figlia se avessero deciso di venire a stabilirsi qui. Fu più o meno in quel periodo che fra le due sorelle dovette intervenire un accordo, in base al quale Hill House sarebbe toccata alla più anziana. La più giovane si era sposata.”

— Ah! — esclamò Theodora. — La sorella più giovane che si sposa! Avrà rubato il bellimbusto alla più anziana, ci scommetterei.

— Si diceva che la più anziana fosse sfortunata in amore — ammise Montague — ma questo lo si dice di ogni signorina che, per una ragione o per l’altra, preferisce restare nubile. Comunque, fu la sorella più anziana che tornò ad abitare qui. Sembra che somigliasse assai al padre. Visse qui, sola, per un certo numero d’anni, quasi come una reclusa, benché a Hillsdale la conoscessero. Per incredibile che possa sembrarvi… amava sinceramente Hill House e la considerava la sua casa. In seguito prese una ragazza del villaggio e la tenne con sé, per avere compagnia. Per quello che ho potuto appurare, all’epoca la gente del villaggio non nutriva alcuna ostilità verso Hill House, anche perché la vecchia signorina Crain, come la chiamavano, prendeva i domestici scegliendoli fra la gente del villaggio stesso. Il fatto che avesse scelto quella ragazza a tenerle compagnia l’aveva resa più simpatica ancora. La vecchia signorina Crain era costantemente in disaccordo con la sorella più giovane per quel che riguardava la casa; la più giovane insisteva affermando che aveva rinunciato ai suoi diritti in cambio di alcuni beni mobili dell’eredità paterna, fra i quali alcuni di valore considerevole che l’altra si rifiutava di cederle. C’erano, nell’elenco, alcuni gioielli, parecchi pezzi di mobilio antico, un servizio di piatti dorati che pareva desiderasse in modo particolare. La signora Sanderson mi ha permesso di frugare in una cassa di carte della famiglia, così ho visto alcune delle lettere che la signorina Crain aveva ricevuto dalla sorella. In tutte quante il servizio di piatti balza in evidenza come il vero punto dolente. Comunque, la sorella anziana morì di polmonite proprio qui, con la sola compagnia di quella ragazzina. In seguito ci furono storie di un medico chiamato troppo tardi, dell’anziana signora che giaceva trascurata al primo piano mentre la ragazzina si trastullava in giardino con qualche zotico del villaggio, ma io penso che siano soltanto calunnie. In proposito, ho scoperto che, all’epoca dei fatti, nessuno credeva a queste storie. Per la verità, sembra che quelle calunnie scaturissero dal veleno accumulato dalla sorella più giovane, che voleva vendicarsi e non sapeva darsi pace.

— La sorella più giovane mi è antipatica — disse Theodora. — Prima ruba l’innamorato alla sorella più anziana, poi tenta di rubarle il servizio buono. Decisamente, mi è antipatica.

Hill House è collegata a un’impressionante serie di tragedie, ma questo si può dire di molte case antiche. La gente deve pur vivere e morire in qualche posto, e nessuna casa può esistere per ottant’anni senza che qualcuno muoia fra le sue pareti. Dopo la morte della sorella più anziana ci fu un processo per l’eredità della casa. La ragazzina insisteva affermando che la sorella più anziana l’aveva lasciata a lei; la più giovane, assieme al marito, sostenevano con foga quasi violenta che spettava legittimamente a loro e affermavano che la ragazza aveva raggirato l’anziana signora convincendola a donarle ciò che la defunta aveva sempre voluto lasciare alla sorella. Fu una lite profondamente antipatica. Come tutte le liti di famiglia fu incredibilmente aspra e cose crudeli furono dette dall’una all’altra parte. In tribunale, la ragazza giurò che la sorella più giovane entrava di notte e rubava in casa, e credo che proprio qui debba ricercarsi la prima traccia della fama sinistra accumulata in seguito da Hill House. Messa alle strette perché circostanziasse le accuse, la ragazza s’innervosì, il racconto divenne incoerente. Costretta a fornire prove dettagliate delle sue accuse, disse che era venuto meno un servizio d’argento, una preziosa serie di smalti e il famoso servizio dorato, che non doveva essere facile rubare, se vogliamo. Da parte sua, la sorella più giovane si spinse al punto da far balenare l’ipotesi dell’omicidio e chiese che s’investigasse sulla morte della sorella più anziana, avanzando i primi sospetti di negligenza e di trascuratezza. Non ho potuto scoprire se quelle accuse furono prese sul serio, perché della morte dell’anziana signora restano soltanto le notizie ufficiali, ma senza dubbio gli abitanti del villaggio sarebbero stati i primi a mormorare se fosse accaduto qualcosa di strano. La ragazza, dopo le lungaggini processuali, vinse la causa e secondo me avrebbe potuto vincere anche una eventuale causa per diffamazione; la casa divenne legalmente sua, anche se la sorella sopravvissuta non mise mai fine ai tentativi di rientrarne in possesso; tormentò quella donna con lettere e minacce, la accusò e calunniò dovunque e negli archivi locali c’è traccia almeno d’un caso nel quale la poveretta fu costretta a ricorrere alla protezione della polizia dopo che l’altra l’aveva presa a botte col manico della scopa. Sembrerebbe che vivesse nel terrore, le entravano in casa di notte… E a questo proposito, non smise mai di affermare che le rubavano la roba in casa. Ho letto una lettera patetica nella quale affermava di non aver mai potuto trascorrere una notte tranquilla in questa casa, dopo la morte della sua benefattrice. Strano ma vero, le simpatie della gente del villaggio andavano quasi tutte alla sorella sopravvissuta, forse per invidia della fortuna toccata a quella che un giorno era stata una di loro e adesso era la signora del maniero. Comunque, quella gente pensava, e forse lo pensa ancora, che la sorella superstite fosse stata defraudata dell’eredità che le toccava di diritto ad opera di una ragazza scaltra, di un’imbrogliona. Non credettero che avesse assassinato l’amica, ma furono lieti di poterla credere disonesta, forse perché intimamente erano disonesti anche loro quando se ne presentava l’occasione. Insomma, la maldicenza è sempre un nemico pericoloso, e quando la poveretta si suicidò…

— Si suicidò!? — esclamò Eleanor, sbigottita. — La costrinsero al suicidio?

— Vuol dire, forse, se non c’era un altro modo per sottrarsi ai suoi persecutori? Quella poveretta dovette pensarla diversamente. La gente del posto pensò che si era suicidata per una crisi di coscienza, ma io sono incline a credere che fosse una di quelle donne tenaci e maldestre, che s’aggrappano disperatamente a ciò che credono, ma mentalmente non possono sopportare una persecuzione continua. Certo non aveva alcun’arma di ritorsione verso la sua nemica, non poteva rintuzzare quella campagna d’odio. Anche i suoi amici, nel villaggio, si erano schierati contro di lei e sembra che alla fine fosse quasi impazzita per l’ossessione che chiavistelli e serrature non erano in grado di tener fuori la nemica che entrava in casa sua a rubare, di notte.

— Ma avrebbe potuto andarsene — disse Eleanor. — Avrebbe potuto lasciare la casa e fuggire chissà dove.

— È quello che fece. Penso proprio che la odiassero a morte. S’impiccò. Si dice che s’impiccò nella torre, ma, quando si ha una casa come questa, le chiacchiere non troverebbero un posto migliore per vederci un impiccato. Dopo la sua morte, la casa passò legalmente alla famiglia Sanderson, cugini della poveretta, ma assolutamente impervi alle persecuzioni della sorella diseredata, che all’epoca doveva essere diventata un poco pazza anche lei. Dalla signora Sanderson ho saputo che quando i suoi, e cioè i parenti di suo marito, vennero qui per visitare la casa la prima volta, quella donna li attese lungo la strada per coprirli d’insulti e di contumelie, tanto che i poliziotti la prelevarono e l’accompagnarono al posto di polizia. Con questo episodio sembra conclusa la parte di quella donna nelle vicende di Hill House: dal giorno in cui i Sanderson la mandarono a quel paese sino al giorno della sua morte, trascorsero pochi anni soltanto, durante i quali rimase taciturna a rimuginare sui torti subiti, ma ben distante dai Sanderson. È abbastanza strano, ma sino all’ultimo, in tutto il suo farneticare, mantenne fermo un punto: lei non era mai entrata qui dentro di notte, e non ci sarebbe entrata nemmeno se avesse potuto, per rubare o per qualunque altro motivo.

— Ma ci furono veramente dei furti, qui? — domandò Luke.

— Come ho già detto, quella ragazza fu costretta, alla fine, ad ammettere che pareva mancassero due o tre cose, ma non poté mai dimostrare le accuse. Come potete comprendere, la storia degli intrusi notturni influì parecchio sulla pessima reputazione di Hill House. Di più: i Sanderson non abitavano qui; dopo esserci venuti per la prima volta, ci rimasero soltanto pochi giorni. Nel villaggio avevano sparso la voce che preparavano la casa per potercisi trasferire, ma poi partirono all’improvviso chiudendola come stava. Sparsero la voce che affari urgenti li costringevano ad abitare in città, ma la gente del posto credeva di saperla più lunga. Nessuno ha resistito per più di qualche giorno soltanto qui dentro ed è rimasta in vendita o da affittare sin da allora. Ma… la storia è lunga. Mi ci vuole un altro goccio di brandy.

— Quelle povere bambine — disse Eleanor, senza fissare nessuno in faccia. — Non mi riesce di dimenticarle. Mi sembra di vederle vagare in questa casa tetra, giocare con le bambole in quelle stanze.

— E perciò la vecchia casa è rimasta qui — disse Luke, allungando una mano e sfiorando il cupido con un dito. — Nessuno ha toccato nulla di quanto contiene, nessuno ha più usato nulla, nessuno ha desiderato nulla. Sono rimasti inermi, tutti quanti a pensare.

— E aspettare — disse Eleanor.

— E aspettare — confermò Montague, lentamente. — Essenzialmente, aspettare. Forse, che il male della casa si mostrasse. Quel male che aveva incatenato e distrutto i suoi occupanti e le loro vite. È un posto dove la malvagità aleggia nell’aria… Be’, domani la vedrete tutta. I Sanderson vi hanno fatto portare l’acqua corrente, la luce elettrica e hanno messo il telefono sin dalla prima visita. Per il resto, non è cambiato nulla.

— Be’ — disse Luke, dopo un breve silenzio — sono convinto che staremo comodissimi, qui.

5

Eleanor rimase sorpresa quando s’accorse che stava rimirandosi i piedi. Theodora fissava con sguardo sognante la fiamma pochi centimetri più oltre e Eleanor si ripeteva soddisfatta che i suoi piedi erano belli dentro i sandali rossi e pensava: “Che cosa completa e separata che sono, dalla punta dei piedi sino alla cima dei capelli, io come individuo e come parte, con cose e attributi che sono soltanto miei. Ho scarpe rosse, e questo significa che sono Eleanor; mi ripugnano le aragoste, dormo sul fianco sinistro, mi faccio crocchiare le nocche quando sono nervosa e risparmio i bottoni. Tengo in mano un bicchiere di brandy che è mio perché sono qui e mi serve e ho un posto in questa saletta. Ho le scarpe rosse e domattina mi sveglierò e sarò ancora qui”.

— Ho le scarpe rosse — disse, piano.

Theodora si volse e le sorrise.

— Volevo chiedere… — incominciò il dottore, sbirciandole con una certa aspettativa — volevo chiedere se sapete giocare a bridge, tutti quanti.

— Certo — rispose Eleanor. E subito pensò: “Io so giocare a bridge. Una volta avevo un gatto che si chiamava Ballerino. E so nuotare”.

— Temo di no — disse Theodora.

Gli altri tre si volsero e la fissarono sgomenti.

— Proprio per niente? — domandò Montague.

— Io ho giocato a bridge due volte alla settimana per undici anni, con mia madre, col suo avvocato e con la moglie dell’avvocato — disse Eleanor. — Sono sicura che puoi riuscirci anche tu.

— Potresti insegnarmi? — disse Theodora. — Sono svelta a imparare i giochi.

— Oh che cara! — esclamò Montague.

Eleanor e Luke risero. — Invece faremo qualcosa di diverso — disse Eleanor. E intanto pensava: “Posso giocare a bridge, mi piace la torta di mele con la crema inacidita e sono venuta qui in macchina, da sola”.

— Tavola reale — propose Montague.

— Io gioco abbastanza bene a scacchi — disse Luke.

Montague accettò subito.

Theodora assunse un’aria ostinata e brontolò: — Non pensavo che fossimo venuti qui per giocare.

— Distensione — disse vagamente Montague.

Theodora si strinse nelle spalle, imbronciata, e tornò a fissare la fiamma.

— Se mi dice dov’è, vado a prendere la scacchiera — disse Luke.

Montague sorrise. — Sarà meglio che ci vada io. Non dimentichi che ho studiato la disposizione delle stanze. Se la lasciassimo andar solo, quasi sicuramente non riusciremmo più a trovarla.

Dopo che il dottore era uscito, Luke sbirciò brevemente Theodora con espressione strana, poi andò accanto a Eleanor: — Non sei nervosa, vero? Il racconto di Montague non ti ha spaventata?

Eleanor scosse enfaticamente la testa.

— Però eri pallida — disse Luke.

— Forse avrei fatto bene a coricarmi — rispose Eleanor. — Non sono abituata a guidare così a lungo come oggi.

— Brandy! — raccomandò il giovanotto. — Ti fa dormire meglio. Anche tu — disse, voltandosi verso Theodora, che gli voltava le spalle.

— Grazie — rispose la ragazza freddamente, senza voltarsi.

— M’accade molto raramente d’aver problemi col sonno.

Luke sorrise con aria d’intesa a Eleanor, poi, vedendo Montague che rientrava, si volse. — La mia immaginazione sfrenata — disse il medico, posando la scacchiera. — Che razza di casa!

— È accaduto qualcosa? — domandò Eleanor.

Montague scosse la testa. — Questo, forse, dovrebbe convincerci a non andare mai in giro da soli, quando siamo in casa.

— Che cosa è successo? — tornò a chiedere Eleanor.

— È stata la mia immaginazione — replicò freddamente Montague. — Questo tavolino, Luke. Va bene?

— È una bellissima scacchiera — disse Luke. — Mi meraviglia che la sorella giovane non se la sia presa.

— Io posso dirle una cosa — rispose il dottore. — Se era la sorella giovane che veniva in questa casa di soppiatto, durante la notte, doveva avere i nervi d’acciaio. Ti spia — aggiunse quasi brusco. — La casa, voglio dire. Spia ogni mossa che fai. — Poi, come ripensandoci: — È la mia immaginazione, naturalmente.

Theodora sedeva rigida e impermalita, la fiamma le illuminava il volto. “Le piace attirare l’attenzione” si disse giudiziosamente Eleanor. E, senza ripensarci, andò a sedere accanto a lei sul tappeto. Dietro di sé udiva il lieve rumore dei pezzi disposti sulla scacchiera, il fruscio confortante di Luke e del dottore che giocavano pensando attentamente alle mosse, studiandosi a vicenda; dal caminetto veniva il riverbero della fiamma accompagnato da piccoli scoppiettii.

Eleanor attese un poco che Theodora dicesse qualcosa, poi prese l’iniziativa. — Stenti ancora a credere d’esser qui?

— Non immaginavo che sarebbe stato così monotono — rispose Theodora.

— Avremo tanto di quel daffare, domattina.

— A casa ci sarebbe stata tanta gente intorno, e tanta conversazione, tanta allegria, e luci, eccitazione…

— Forse io non sento la necessità di queste cose — disse Eleanor, quasi in tono di scusa. — Non c’è stata mai molta eccitazione, per me. Dovevo rimanere con mia madre, ovviamente, e quando dormiva, io facevo solitali, oppure ascoltavo la radio. Non ho mai sopportato di leggere la sera, perché dovevo farlo ad alta voce per lei almeno per due ore ogni pomeriggio. Racconti d’amore — aggiunse, sorridendo appena, pensando sbalordita: “Però non è tutto. Non dico come mi sentivo, nemmeno se volessi… Ma perché poi racconto queste cose?”

— Sono insopportabile, vero? — disse Theodora, avvicinandosi e posandole una mano sulla sua. — Me ne sto seduta qui, col muso lungo perché non c’è nulla che mi diverte. Sono egoista. Dimmelo che sono insopportabile.

— Sei insopportabile — rispose Eleanor, obbediente. Quella mano sulla sua la imbarazzava, non le piaceva essere toccata, ma pareva che un piccolo gesto fisico fosse, per Theodora, il modo migliore per chiedere perdono o per dimostrare piacere o simpatia. “Chissà se ho le unghie pulite?” pensò, levando lentamente la mano.

— Sono insopportabile — disse Theodora, ritornata improvvisamente di buonumore. — Sono tremenda, sono una bestia e nessuno riesce a sopportarmi. Ecco, adesso raccontami di te.

— Sono tremenda, sono una bestia e nessuno riesce a sopportarmi.

Theodora rise. — Non prendermi in giro. Tu sei buona e simpatica e tutti ti adorano. Luke è innamorato cotto di te e io sono gelosa. Adesso voglio saperne di più sul tuo conto. È proprio vero che ti sei presa cura di tua madre per tanti anni?

— Sì — rispose Eleanor. Le sue unghie erano proprio sporche, le sue mani erano brutte e la gente scherzava sull’amore perché certe volte fa ridere. — Per undici anni, sino a tre mesi fa, quand’è morta.

— Ti è dispiaciuto quand’è morta? Dovrei farti le condoglianze?

— No. Non ha avuto una vita molto felice.

— E nemmeno tu?

— Nemmeno io.

— Ma adesso? Cos’hai fatto dopo, quando finalmente eri libera?

— Ho venduto la casa — rispose Eleanor. — Io e mia sorella abbiamo preso ciascuna ciò che volevamo, cose da poco. C’erano soltanto cosucce di poco valore, tutto quello che aveva messo da parte la mamma: l’orologio del babbo e qualche gioiello. Non è stato come per le sorelle di Hill House.

— E hai venduto tutto il resto?

— Tutto. Appena ho potuto.

— Poi, naturalmente, hai incominciato a far vita spensierata. Una vita che, inevitabilmente, doveva portarti a Hill House?

— Non proprio — rispose Eleanor, ridendo.

— Ma tutti quegli anni sciupati… Hai fatto una crociera? Hai cercato d’incontrare uomini affascinanti? Hai comprato abiti nuovi?…

— Disgraziatamente il denaro non era molto — rispose seccamente Eleanor. — Mia sorella ha messo in banca la sua parte per provvedere all’istruzione della figlia, io ho comprato qualche abito per venir qui.

“Alla gente piace parlare di sé” pensava intanto. “Che strana soddisfazione. Io non voglio rispondere più a queste domande.”

— Cosa farai quando tornerai a casa? Hai un lavoro?

— No, niente per ora. Non so ancora cosa farò quando tornerò a casa.

— Io lo so cosa farò — disse Theodora, stiracchiandosi voluttuosamente. — Accenderò tutte le luci che abbiamo in casa e mi rosolerò.

— Com’è il tuo appartamento?

— Carino — rispose Theodora, stringendosi noncurante nelle spalle. — Abbiamo trovato una casa vecchia e ce la siamo messa a posto da soli. C’è una grande sala e due camerette piccole, una bella cucina… L’abbiamo dipinta di bianco e di rosso, poi l’abbiamo arredata con un mucchio di mobili vecchi che abbiamo trovato dagli antiquari… Abbiamo trovato una tavola bella davvero, col piano di marmo. Ci piace rimettere a nuovo le cose vecchie.

— Sei sposata?

Seguì un breve silenzio, poi Theodora rise e rispose: — No.

— Scusa — disse Eleanor, imbarazzata. — Non volevo essere curiosa.

— Sei buffa — disse Theodora, sfiorandole la guancia con la punta della dita. “Ho le rughe attorno agli occhi” pensò subito Eleanor, distogliendo gli occhi dalla fiamma.

— Dimmi dove abiti — disse Theodora.

Guardandosi le mani, brutte e screpolate, Eleanor pensava: “Avremmo potuto prenderci una lavandaia. Non è stato onesto; le mie mani sono orribili”. — Ho un posticino tutto mio — rispose piano. — Un appartamento come il tuo, però io vivo da sola. Più piccolo del tuo, credo, e devo ancora finire d’arredarlo. Compro una cosa alla volta, sai, per essere sicura di non sbagliare. Tende bianche. E ho dovuto girare per settimane prima di trovare i due leoni di pietra da mettere ai lati del camino, poi ho un gatto bianco e i miei libri, i miei dischi, i miei quadri. Tutto dev’essere esattamente come voglio io, perché lo uso io soltanto. Una volta avevo una tazza azzurra con dipinte dentro le stelle. Quando guardavo il tè nella tazza lo vedevo pieno di stelle. Voglio trovarne un’altra come quella.

— Forse ne capiterà una, prima o poi, nella mia bottega — rispose Theodora. — Se la troverò, te la manderò. Riceverai un pacchettino e un biglietto che ti dirà: “A Eleanor, con affetto, dalla sua amica Theodora” e dentro ci sarà una tazza azzurra piena di stelle.

— Io li avrei rubati davvero quei piatti orlati d’oro — disse Eleanor, ridendo.

— Scacco matto — disse Luke.

— Povero me! Povero me! — ripeté Luke. — Ragazze, vi siete addormentate accanto al fuoco?

— Quasi — rispose Theodora.

Attraversata la saletta, Luke prese la mano ad entrambe, per aiutarle a rialzarsi. Eleanor, goffa, vacillò; Theodora si alzò agile e flessuosa, e appena in piedi si stiracchiò e sbadigliò: — Theo ha sonno — disse.

— Dovrò accompagnarvi di sopra — disse Montague. — Domani dovremo davvero imparare a conoscere la casa. Luke, le dispiace coprire il fuoco?

— Non sarebbe meglio accertarci che le porte siano chiuse? — propose il giovanotto. — Immagino che prima di andarsene, la signora abbia chiuso la porta sul retro, ma le altre?

— Non me lo posso immaginare che qualcuno venga a intrufolarsi qui — disse Theodora. — E poi, la giovane compagna della signora chiudeva, sprangava tutte le porte, ma a cosa le è servito?

— E se noi volessimo uscire? — disse Eleanor.

Montague la guardò in fretta e distolse subito lo sguardo.

— Non vedo alcuna necessità di chiudere gli usci — disse piano.

— Sì, è vero che non c’è il pericolo delle visite dei ladri dal villaggio — ammise Luke.

— In ogni caso, io resterò sveglio ancora per un’oretta almeno — disse Montague. — Alla mia età, un’ora di lettura prima di dormire è quello che ci vuole e io, saggiamente, mi sono portato Pamela. Se qualcuno di voi stenta a prendere sonno, posso leggere ad alta voce. Non ho conosciuto nessuno che riuscisse a star desto se gli leggevano ad alta voce i libri di Richardson…

Erano usciti dalla saletta e Montague li accompagnava lungo il corridoio, sino alla scala, e continuava: — Ho provato molte volte coi bimbi piccoli…

Eleanor saliva la scala dietro a Theodora e solo in quel momento s’accorgeva d’essere sfinita, ogni gradino le costava uno sforzo. Rammentava con un certo fastidio di essere a Hill House, ma anche la stanza azzurra rappresentava, in quel momento, soltanto il letto con la coperta e il plaid dello stesso colore. E Montague, dietro di lei, continuava: — Del resto, un romanzo di Fielding comparabile per lunghezza, anche se non per l’argomento, non andrebbe mai bene per i bimbi piccoli. Ho i miei dubbi anche sul conto di Sterne…

Raggiunta la stanza verde, Theodora si volse con la mano sulla maniglia e sorrise a Eleanor: — Se ti sentissi nervosa, anche un pochino soltanto, corri nella mia camera — disse.

— Lo farò senz’altro, grazie — rispose Eleanor. — Buona notte.

— …e certo non sceglierei Smollett — concluse il dottore. — Signorine, io e Luke siamo qui, dall’altra parte del pianerottolo…

— Di che colore sono le vostre stanze? — domandò Eleanor, incapace di resistere.

— Gialla — disse il dottore, sorpreso.

— Rosa — rispose Luke con una smorfia di disgusto.

— Noi, qui, siamo azzurre e verdi — disse Theodora.

— Io resterò sveglio, per leggere — disse Montague. — Terrò la porta spalancata in modo da udire ogni rumore. Buona notte e buon riposo.

Richiudendo l’uscio, Eleanor pensava che forse erano il buio e l’oppressione di Hill House che la facevano sentire così stanca, ma poi tutto svanì: il letto azzurro era così soffice e lei, assonnata, pensava alla stranezza di quella casa paurosa eppure sotto molti aspetti così confortevole: il letto soffice, il bel prato sul davanti, il fuoco nel caminetto, la cucina della signora Dudley. E anche la compagnia, pensava. “Adesso posso riflettere sugli altri, sono sola. Perché Luke è venuto qui? Perché ci sono venuta io? I viaggi terminano in incontri d’amore. Lo hanno capito tutti che sono spaventata.”

Ebbe un brivido e, sedutasi sul letto, allungò la mano per distendere la coperta ripiegata sui piedi, ma, mezzo divertita e mezzo infreddolita, scalza e silenziosa andò alla porta e girò la chiave pensando, mentre chiudeva, che nessuno se ne sarebbe accorto, poi tornò a letto. Con la coperta rialzata, si ritrovò a lanciare rapide occhiate alla finestra che s’intravedeva più pallida nel buio, poi a voltarsi per guardare la porta. “Vorrei avere una pillola, un sonnifero” pensava, tornando a guardarsi alle spalle spinta da un impulso irresistibile, prima alla porta, poi ancora alla finestra. “Si muove?” pensava. “Però l’ho chiusa a chiave. Si muove?… Forse andrà meglio se metto la testa sotto le coperte.”

Con la testa sotto le coperte rise contenta, tanto gli altri non potevano udirla. In città non dormiva mai con la testa sotto le coperte. “Quanta strada ho fatto, oggi!” pensava.

Poi s’addormentò rassicurata. Nella stanza accanto Theodora dormiva e nel sonno sorrideva. Oltre la scala, Montague leggeva Pamela e ogni tanto sollevava la testa e ascoltava; una volta scese persino e, avvicinatosi all’uscio, rimase a origliare per qualche minuto, sbirciò alcune volte a destra e a sinistra nel corridoio prima di tornare a coricarsi per riprendere la lettura. Una lampada da notte era accesa in cima alla scala e la sua luce forava il pozzo di tenebre che era l’atrio sottostante. Luke dormiva con una torcia elettrica posata sul comodino, accanto al portafortuna che non abbandonava mai. Accanto a loro la casa covava, rimuginava, si stirava con un fremito come una cosa viva.

A sei miglia da lì, la signora Dudley si destò, guardò l’orologio e pensò a Hill House, poi richiuse gli occhi in fretta. La signora Gloria Sanderson, proprietaria di Hill House, che abitava a trecento miglia da lì, chiuse il romanzo poliziesco che stava leggendo, sbadigliò e allungò la mano per spegnere la luce chiedendosi se si era ricordata di mettere la catenella di sicurezza all’uscio. L’amico di Theodora dormiva; dormivano pure la moglie del dottore e la sorella di Eleanor.

Lontano, ma non tanto, nei boschi di Hill House, un gufo faceva sentire il suo lamento tetro. Sul far del mattino incominciò a piovere: dal cielo cadeva una pioggerella uggiosa, cupa.