CAPITOLO PRIMO
Quante volte era venuto qui, duecento, trecento? più ancora? Non aveva voglia di contarle, né di riandare con la mente a ogni singolo caso, neppure ai più celebri, quelli che erano entrati nella storia giudiziaria, perché era il lato più penoso della sua professione.
Eppure, la maggior parte delle sue inchieste non finivano in corte d'assise, come oggi, o davanti al tribunale correzionale? Avrebbe preferito ignorarlo, e in ogni modo restare lontano da quegli ultimi riti ai quali non si era mai del tutto abituato.
Nel suo ufficio del quai des Orfèvres, la lotta che quasi sempre si concludeva all'alba era ancora, in fondo, una lotta da uomo a uomo, per così dire una lotta alla pari.
Bastava superare qualche corridoio, qualche scala, e lo scenario era tutto diverso, un altro mondo, dove le parole non avevano più lo stesso senso, un universo astratto, ieratico, solenne e nello stesso tempo strampalato.
Aveva lasciato, insieme ad altri testimoni, la pretura dalle pareti in legno scuro dove la luce delle lampade elettriche si mescolava al grigiore di un pomeriggio piovigginoso.
L'usciere, che Maigret avrebbe giurato di aver visto sempre così vecchio, li guidava verso una stanza più piccola, come un maestro di scuola guida i suoi alunni e gli indica i banchi fissati al muro.
Si sarebbero seduti docilmente e, ubbidendo alle raccomandazioni del presidente, non avrebbero pronunciato parola, esitando perfino a sbirciare verso i loro compagni.
Essi guardavano diritto davanti a sé, tesi, chiusi, conservando il segreto per l'istante solenne in cui, tra poco, soli al centro di uno spazio impressionante, sarebbero stati interrogati.
Era come in sagrestia. Quando, da bambino, andava tutte le mattine a servire messa nella chiesa del paese, Maigret provava la stessa emozione mentre aspettava di seguire il curato verso l'altare illuminato da ceri tremolanti. Sentiva i passi dei fedeli invisibili che prendevano posto, l'andirivieni del sagrestano.
così, adesso, poteva seguire la cerimonia rituale che si svolgeva dall'altro lato della porta. Riconosceva la voce del presidente Bernerie, il più minuzioso, il più pignolo dei magistrati, ma forse anche il più scrupoloso e appassionato nella ricerca della verità.
Magro e malaticcio, con gli occhi febbricitanti, la tosse secca, sembrava uno di quei santi dipinti sulle vetrate delle chiese.
Ecco la voce del procuratore Aillevard, che occupava la cattedra del pubblico ministero.
Finalmente si sentirono dei passi, quelli dell'usciere che, socchiudendo la porta, chiamò:
«Il signor Segré, commissario di polizia».
Segré, che non si era seduto, rivolse un'occhiata a Maigret ed entrò nell'aula, con il soprabito e il cappello grigio in mano. Gli altri lo seguirono per un momento con gli occhi, pensando che presto sarebbe toccato a loro e domandandosi con angoscia come si sarebbero comportati.
Si vedeva un po' di cielo incolore attraverso le finestre inaccessibili, tanto alte che venivano aperte e chiuse mediante una corda, e la luce elettrica scolpiva i volti con gli occhi vuoti. Faceva caldo, ma sarebbe stato sconveniente togliersi il soprabito. Esisteva una serie di riti che tutti quelli al di là della porta osservavano con attenzione, e poco importava se Maigret arrivava da vicino di casa, attraverso i corridoi del cupo palazzo: aveva un cappotto come gli altri, e teneva il cappello in mano.
Era ottobre. Il commissario era tornato dalle vacanze solo da due giorni, in una Parigi allagata da una pioggia che pareva non dovesse finire mai. Aveva raggiunto il boulevard Richard-Lenoir, poi il suo ufficio, in preda ad un sentimento che gli sarebbe riuscito difficile definire e nel quale rientravano sicuramente piacere e malinconia.
Tra poco, quando il presidente gli avrebbe chiesto la sua età, avrebbe risposto: «Cinquantatré anni».
Ciò significava che, secondo i regolamenti, sarebbe andato in pensione tra due anni.
Ci aveva pensato spesso e spesso per rallegrarsene.
Ma questa volta, al ritorno dalle vacanze, la pensione non era più un concetto vago o remoto; era una conclusione logica, ineluttabile, quasi immediata.
Durante le tre settimane passate nella Loire, il futuro si era concretizzato nel momento in cui i Maigret avevano finalmente acquistato la casa dove avrebbero consumato gli anni della vecchiaia.
Era accaduto quasi loro malgrado. Come gli anni precedenti, erano scesi in un Hôtel di Meung-sur-Loire di cui erano clienti abituali e dove i padroni, i Fayet, li consideravano quasi di famiglia.
Sui muri della cittadina alcuni manifesti annunciavano la messa all'asta di una casa ai margini della campagna. Erano andati a vederla, la signora Maigret e lui. Era una costruzione molto vecchia, con un giardino circondato da un muro grigio, che faceva pensare a una canonica.
Erano rimasti incantati dai corridoi a piastrelle blu, dalla cucina con le grosse travi, interrata di tre gradini e che aveva ancora la sua pompa in un angolo; il salotto sapeva di parlatorio di convento, e dovunque le finestre quadrettate traforavano misteriosamente i raggi del sole.
All'asta, i Maigret, in piedi in fondo alla sala, si erano più di una volta interrogati con gli occhi ed erano rimasti sorpresi allorché il commissario aveva alzato la mano mentre qualche contadino si voltava...
«Due... Tre... Aggiudicato!»
Per la prima volta nella loro vita erano proprietari e, già il giorno dopo, avevano chiamato l'idraulico e il falegname.
Negli ultimi giorni si erano perfino messi a setacciare gli antiquari della regione. Tra l'altro avevano comprato una cassapanca con le armi di Francesco Primo, che avevano messo nel corridoio del pianterreno, vicino alla porta del salotto, dove c'era un camino di pietra.
Maigret non ne aveva parlato né con Janvier, né con Lucas, con nessuno, quasi si vergognasse di prepararsi così il futuro, come fosse stato un tradimento verso il quai des Orfèvres.
Il giorno prima gli era sembrato che il suo ufficio non fosse più lo stesso e, quel mattino, nella stanza dei testimoni, ascoltando le voci che provenivano dall'aula, cominciava a sentirsi un estraneo. Di lì a due anni sarebbe andato a pesca e, certamente, nei pomeriggi d'inverno, avrebbe giocato al biliardo con qualche cliente del caffè che aveva già cominciato a frequentare.
Il presidente Bernerie faceva domande precise, alle quali il commissario di polizia del distretto rispondeva con altrettanta precisione.
I testimoni, sui banchi, intorno a Maigret, uomini e donne, erano tutti sfilati nel suo ufficio e alcuni ci erano rimasti per diverse ore. Era la solennità del luogo che impediva loro di riconoscerlo?
È vero che non sarebbe stato più lui a interrogarli.
Non si sarebbero più trovati di fronte a un uomo come loro, ma davanti a un apparato impersonale, e non era neppure sicuro che avrebbero capito le domande che gli avrebbero fatto.
La porta si socchiuse. Toccava a lui.
Come il suo collega del Nono, teneva il cappello in mano e, senza guardare né a destra né a sinistra, si diresse verso la balaustra a semiluna destinata ai testimoni.
«Il suo nome, cognome, età e professione...»
«Maigret, Jules, cinquantatré anni, commissario capo della polizia giudiziaria di Parigi».
«Non è parente dell'accusato né al suo servizio...
Alzi la mano destra... Giuri di dire la verità, tutta la verità...»
«Lo giuro...»
Scorgeva alla sua destra le figure dei giurati, volti che uscivano più chiari dalla penombra e a sinistra, dietro le toghe nere degli avvocati, l'accusato, seduto tra due guardie in uniforme, il mento appoggiato sulle mani incrociate che lo fissava intensamente.
Avevano passato molte ore, loro due soli, nell'ufficio surriscaldato del quai des Orfèvres, e gli era anche capitato d'interrompere un interrogatorio per mangiare panini e bere birra chiacchierando come se fossero amici.
«Senta, Meurant...» forse qualche volta Maigret gli aveva dato del tu?
Qui, una barriera insuperabile si alzava tra loro e lo sguardo di Gaston Meurant era neutro come quello del commissario.
Anche il presidente Bernerie e Maigret si conoscevano, non solo per aver chiacchierato nei corridoi, ma perché era il trentesimo interrogatorio che l'uno faceva subire all'altro.
Non ne rimanevano tracce. Ciascuno recitava la sua parte come se fossero degli sconosciuti, gli officianti di una cerimonia antica e rituale quanto la messa.
«È stato lei, signor commissario, a dirigere l'inchiesta sugli avvenimenti di cui si occupa ora questa corte?»
«Sì, signor presidente».
«Si volti verso i signori giurati, e dica loro quello che sa».
«Il 28 febbraio scorso, verso l'una del pomeriggio, mi trovavo nel mio ufficio al quai des Orfèvres quando ho ricevuto una telefonata dal commissario di polizia del Nono distretto. Egli mi annunciava che era stato scoperto un delitto in rue Manuel, a due passi da rue des Martyrs, e che si recava sul luogo. Poco dopo, una telefonata dalla procura mi ingiungeva di recarmi a mia volta sul luogo e di inviarvi gli specialisti dell'identità giudiziaria e del laboratorio».
Maigret sentiva qualche colpo di tosse, dietro di lui, qualche scarpa che strusciava sul pavimento. Era il primo processo della stagione giudiziaria e tutti i posti erano occupati. Probabilmente c'erano degli spettatori in piedi in fondo, accanto alla grande porta sorvegliata da uomini in uniforme.
Il presidente Bernerie apparteneva a quella minoranza di magistrati che, applicando alla lettera il codice di procedura penale, non si accontentano di sentire, alla corte di assise, un riassunto dell'istruttoria, ma la ricostruiscono nei minimi particolari.
«Ha trovato il procuratore sul luogo?»
«Sono arrivato alcuni minuti prima del sostituto.
Ho trovato il commissario Segré, accompagnato dal suo segretario e da due ispettori del quartiere. Né l'uno né l'altro avevano toccato la minima cosa».
«Ci dica quello che ha visto».
«Rue Manuel è una via tranquilla, borghese, poco frequentata che dà sulla parte inferiore di rue des
Martyrs. L'edificio che reca il numero 27 bis si trova più o meno a metà della strada. La portineria non è al pianterreno, ma all'ammezzato. L'ispettore che mi aspettava mi ha condotto al secondo piano dove ho visto due porte che davano sul pianerottolo. Quella di destra era socchiusa e, su una targhetta d'ottone, si leggeva: "Mme Faverges"».
Maigret sapeva che, per il presidente Bernerie, tutto aveva importanza e che non doveva omettere nulla se non voleva farsi richiamare seccamente all'ordine.
«Nell'ingresso, illuminato da una lampada elettrica dal vetro smerigliato, non ho notato niente di speciale».
«Un momento. Sulla porta c'erano tracce di scasso?»
«No. È stata esaminata più tardi dagli specialisti.
La serratura è stata smontata. È certo che non si è fatto uso degli strumenti generalmente adoperati per le effrazioni».
«La ringrazio. Continui».
«L'appartamento si compone di quattro stanze, oltre l'anticamera. Davanti a questa c'è un salotto con porta a vetri ornata di tende color crema. È in questa stanza, che comunica mediante un'altra porta a vetri con la sala da pranzo, che ho visto i due cadaveri».
«Dove si trovavano esattamente?»
«Quello della donna, che poi ho saputo chiamarsi Léontine Faverges, era steso sul tappeto con la testa voltata verso la finestra. La gola era stata tagliata con un oggetto che non si trovava più nella stanza e si vedeva sul tappeto una pozza di sangue di oltre cinquanta centimetri di diametro. Quanto al corpo della bambina...»
«Si tratta, vero, della giovane Cécile Perrin, dell'età di quattro anni, la quale viveva abitualmente con Léontine Faverges?»
«Sì, signor presidente. Il corpo era piegato su se stesso sopra un divano Luigi Quindici, con il volto sepolto fra i cuscini di seta. Come è stato constatato dal medico del quartiere e, poco dopo, dal dottor Paul, la bambina, dopo aver subìto un tentativo di strangolamento, è stata soffocata dai cuscini...»
Ci fu un brusio nell'aula ma bastò che il presidente alzasse la testa, percorresse con gli occhi le file degli spettatori, perché tornasse il silenzio.
«Dopo la venuta del procuratore, è rimasto nell'appartamento fino a sera con i suoi collaboratori?»
«Sì, signor presidente».
«Dica che cos'ha constatato».
Maigret ebbe solo un attimo di esitazione.
«Intanto, sono stato colpito dal mobilio e dalle suppellettili. Léontine Faverges risultava senza professione.
Viveva come una piccola benestante, prendendosi cura di Cécile Perrin di cui la madre, entraîneuse in un locale notturno, non poteva occuparsi personalmente».
Quella madre, Juliette Perrin, l'aveva vista entrando nell'aula, seduta nella prima fila degli spettatori, dato che si era costituita parte civile. I suoi capelli erano di un rosso artificiale ed indossava una pelliccia.
«Ci dica esattamente ciò che, nell'appartamento, l'ha sorpresa».
«Una ricercatezza insolita, uno stile particolare che mi ha ricordato certi appartamenti prima che venissero emanate le leggi sulla prostituzione. Il salotto, per esempio, era troppo felpato, troppo morbido, con una profusione di tappeti, di cuscini, e sulle pareti delle stampe galanti. I paralumi avevano un colore delicato, come nelle due stanze da letto, dove c'erano più specchi di quanti se ne vedano di solito. Ho saputo in séguito che, in effetti, Léontine Faverges si serviva un tempo del suo appartamento come casa di appuntamenti.
Dopo la promulgazione delle nuove leggi, ha continuato per un certo tempo. La polizia del buon costume ha dovuto occuparsene, e la Faverges soltanto dopo diverse multe si è rassegnata a cessare ogni attività».
«Ha potuto accertare quali erano le sue risorse?»
«Secondo la portinaia, i vicini e tutti coloro che la conoscevano, aveva del denaro da parte, perché non è mai stata una sperperatrice. Nata Meurant, sorella della madre dell'accusato, è venuta a Parigi all'età di diciotto anni e ha lavorato per qualche tempo come commessa in un grande magazzino. A vent'anni ha conosciuto un certo Faverges, rappresentante di commercio, che è morto tre anni dopo in un incidente d'auto. La coppia abitava allora ad Asnières. Per qualche tempo la giovane donna è stata vista frequentare i locali di rue Royale e risulta schedata dalla polizia del buon costume».
«Ha indagato se tra le sue amicizie di allora non ci fosse qualcuno che, recentemente, poteva ricordarsi di lei e giocarle un brutto tiro?»
«Nel suo ambiente la donna passava per una solitaria, cosa abbastanza rara. Metteva da parte del denaro, e così ha potuto più tardi stabilirsi in rue Manuel».
«Aveva sessantadue anni al momento della morte?»
«Sì. Era diventata grassa ma, da quanto ho potuto giudicare, aveva conservato una certa parvenza di giovinezza e una certa civetteria. Secondo i testimoni interrogati, era molto attaccata alla bambina che aveva preso a pensione, sembra più per paura della solitudine che per lo scarso guadagno che ne ricavava».
«Aveva un conto in banca o alla cassa di risparmio?»
«No. La donna diffidava degli istituti di credito, dei notai, degli investimenti in generale, e teneva in casa tutti i suoi averi».
«È stato trovato del denaro?»
«Poco: qualche spicciolo, alcuni biglietti di piccolo taglio in una borsetta e poi ancora qualche soldo in un cassetto della cucina».
«C'era un nascondiglio che ha scoperto?»
«Pare di sì. Quando Léontine Faverges si ammalava, cosa che negli ultimi anni si era verificata due o tre volte, la portinaia saliva per fare le pulizie ed occuparsi della bambina. Sopra un cassettone del salotto c'era un vaso cinese con dei fiori artificiali. Un giorno la portinaia ha tolto i fiori dal vaso per spolverarli e ha trovato sul fondo una borsa di tela che le è sembrato contenesse delle monete d'oro. Dal volume e dal peso, la portinaia è sicura che fossero più di mille.
Abbiamo fatto la prova nel mio ufficio, con una borsa di tela e un migliaio di monete. Sembra sia stata decisiva.
Ho fatto interrogare gli impiegati delle varie banche dei dintorni. Alla succursale del Crédit Lyonnais ricordano una donna rispondente ai connotati di Léontine Faverges che avrebbe acquistato, a più riprese, azioni al portatore. Uno dei cassieri, di nome Durat, l'ha formalmente riconosciuta dalla fotografia».
«È quindi probabile che tali azioni si trovassero, come le monete d'oro, nell'appartamento. Lei ha trovato qualcosa?»
«No, signor presidente. Naturalmente abbiamo cercato le impronte digitali sul vaso cinese, sui cassetti e un po' dappertutto».
«Senza risultato?»
«Soltanto le impronte delle due inquiline e, in cucina, quelle di un fattorino di cui abbiamo controllato i movimenti. La sua ultima consegna ha avuto luogo la mattina del 27. Ora, secondo il dottor Paul, che ha proceduto alla duplice autopsia, il delitto risale al 27 febbraio tra le cinque e le otto di sera».
«Ha interrogato tutti gli inquilini dello stabile?»
«Sì, signor presidente. Mi hanno confermato ciò che mi aveva già detto la portinaia, ossia che Léontine Faverges non riceveva uomini tranne i suoi due nipoti».
«Intende parlare dell'imputato Gaston Meurant e di suo fratello Alfred?»
«Secondo la portinaia, Gaston Meurant andava a trovarla con una certa regolarità, una o due volte al mese, e la sua ultima visita risaliva circa a tre settimane prima. Quanto al fratello, Alfred Meurant, si faceva vedere raramente in rue Manuel, poiché non era ben visto dalla zia. Interrogando la vicina di pianerottolo, la signora Solange Lorris, sarta, ho saputo che una delle sue clienti era andata da lei per una prova il 27 febbraio, alle cinque e mezzo. Questa persona è la signora Ernie e abita in rue Saint-Georges. Essa afferma che, mentre saliva le scale, dall'appartamento della morta è uscito un uomo che, scorgendola, è sembrato cambiare idea. Invece di scendere, si è diretto verso il terzo piano. Non ha potuto distinguerne il volto, perché la scala è male illuminata. Secondo la signora, l'uomo indossava un abito blu e un impermeabile marrone con cintura».
«Ci dica come è entrato in rapporto con l'imputato».
«Mentre i miei uomini e io stavamo esaminando l'appartamento, nel pomeriggio del 28 febbraio, e incominciavamo l'interrogatorio degli inquilini, i giornali della sera annunciavano il delitto e fornivano alcuni particolari».
«Un momento. Come è stato scoperto il delitto?»
«Verso mezzogiorno, quella mattina, voglio dire il 28 febbraio, la portinaia si è stupita di non avere visto né Léontine Faverges, né la bambina che, di solito, frequentava una scuola materna del rione. È andata a suonare alla porta. Non ricevendo risposta, è risalita poco dopo, sempre senza risultato, e finalmente ha telefonato al commissariato. Per tornare a Gaston Meurant, la portinaia sapeva soltanto che faceva il corniciaio e che abitava verso il Père-Lachaise. Non ho avuto bisogno di mandarlo a prendere, poiché la mattina dopo...»
«Quindi, il 1º marzo...»
«Sì. La mattina dopo, dicevo, si è presentato spontaneamente al commissariato del Nono distretto dicendo che era il nipote della vittima. Il commissariato lo ha mandato da me...»
Il presidente Bernerie non era uno di quei giudici che prendono appunti personali oppure che, durante l'udienza, sbrigava la posta. Non sonnecchiava e il suo sguardo andava incessantemente al testimone ed all'accusato, con qualche rapida occhiata ai giurati.
«Ci racconti con la maggiore esattezza possibile il primo colloquio che ha avuto con Gaston Meurant».
«Indossava un abito grigio e un impermeabile nocciola piuttosto consunto. Sembrava emozionato di trovarsi nel mio ufficio e mi è parso che fosse stata la moglie ad averlo spinto a venire da me».
«Lei lo accompagnava?»
«Era rimasta nella sala d'aspetto. Uno dei miei ispettori me lo ha detto e l'ho pregata d'entrare.
Meurant mi dichiarò che aveva letto i giornali, che Léontine Faverges era sua zia e che ritenendo di rappresentare, insieme a suo fratello, tutta la famiglia della vittima, si era creduto in dovere di presentarsi. Gli ho chiesto quali fossero i suoi rapporti con la vecchia signora e mi ha risposto che erano ottimi. Sempre rispondendo alle mie domande, ha aggiunto che la sua ultima visita alla zia risaliva al 23 gennaio. Non ha potuto fornirmi l'indirizzo del fratello, con il quale aveva troncato ogni rapporto».
«Quindi, il 1º marzo, l'accusato ha categoricamente negato di essersi trovato nell'appartamento della vittima il 27 febbraio, giorno del delitto».
«Sì, signor presidente. Interrogato su cosa avesse fatto quel giorno, mi ha detto di aver lavorato nel suo laboratorio di rue de la Roquette fino alle sei e mezzo di sera. Ho visitato in séguito il laboratorio e anche il negozio. Quest'ultimo ha una vetrina piccola ed è ingombro di cornici e di stampe. Dietro la porta a vetri c'è un gancio a ventosa per appendervi un cartello con la scritta: "Se non ci sono, recarsi in fondo al cortile".
Un vialetto interno non illuminato conduce in effetti al laboratorio dove Meurant lavorava alle sue cornici».
«C'è una portinaia?»
«No. La casa ha soltanto due piani ai quali si accede mediante una scala che dà sul cortile. È un edificio molto vecchio, stretto tra due immobili d'affitto».
Uno dei giudici a latere, che Maigret non conosceva poiché era arrivato da poco dalla provincia, fissava il pubblico con l'aria di non sentire niente. L'altro invece, dal colorito roseo e i capelli bianchi, approvava scuotendo il capo tutte le parole di Maigret, alcune delle quali gli strappavano, Dio sa perché, un sorriso.
Quanto ai giurati, erano immobili come le statuine di gesso di un presepe. L'avvocato difensore, Pierre Duché, era giovane e quella era la sua prima causa importante. Nervoso, sempre sul punto di scattare, si chinava ogni tanto sul suo incartamento che costellava di note.
Si sarebbe detto che soltanto Gaston Meurant si disinteressasse di ciò che avveniva intorno a lui o, più esattamente, che assistesse a quello spettacolo come se non lo riguardasse.
Era un uomo di trentotto anni, piuttosto alto, con le spalle larghe, i capelli ricci e di un biondo rossastro, la carnagione da rosso, gli occhi azzurri.
Tutti i testimoni lo descrivevano come un essere dolce e calmo, poco socievole, che passava tutto il suo tempo tra il laboratorio di rue de la Roquette e l'appartamento in boulevard de Charonne, con le finestre da cui si vedevano le tombe del Père-Lachaise.
Rispondeva bene al tipo dell'artigiano solitario, e l'unico dato che stupiva era la donna che aveva scelto.
Ginette Meurant era piccola, ben fatta, con quello sguardo, quella smorfia delle labbra e quel genere di corpo che fanno subito pensare alle cose d'amore.
Più giovane del marito di dieci anni, dimostrava anche meno della sua età e aveva il vezzo infantile di battere le ciglia con l'aria di non capire.
«Come ha detto l'imputato di aver passato le ore dalle cinque alle otto del pomeriggio del 27 Febbraio?»
«Mi ha detto di aver lasciato il laboratorio verso le sei e mezzo, di aver spento le luci del negozio e di essere tornato a casa a piedi, come di solito. Sua moglie non si trovava nell'appartamento. Era andata al cinema, allo spettacolo delle cinque, cosa abbastanza frequente. Abbiamo la testimonianza della cassiera. Si tratta di un cinema del faubourg Saint-Antoine, di cui è assidua. Quando è tornata a casa, un po' prima delle otto, il marito aveva apparecchiato la tavola e preparato la cena».
«Era una cosa consueta?»
«Pare di sì».
«La portinaia del boulevard de Charonne ha visto rientrare il suo inquilino?»
«Non se ne ricorda. Nell'edificio ci sono una ventina di appartamenti e verso sera è un continuo viavai».
«Ha parlato all'accusato del vaso, delle monete d'oro e dei titoli al portatore?»
«Non quel giorno, ma il giorno dopo, 2 marzo, quando l'ho convocato nel mio ufficio. Avevo appena sentito parlare di quel denaro dalla portinaia di rue Manuel».
«Le è parso che l'accusato ne fosse al corrente?»
«Dopo avere esitato, ha finito per dirmi di sì».
«Sua zia glielo aveva confidato?»
«Indirettamente. Qui sono costretto ad aprire una parentesi. Circa cinque anni fa, Gaston Meurant, pare dietro insistenza della moglie, ha abbandonato il suo mestiere per rilevare un caffè-ristorante in rue du Chemin-Vert».
«Perché dice "dietro insistenza della moglie"?»
«Perché costei, quando Meurant l'ha conosciuta otto anni fa, faceva la cameriera in un ristorante del faubourg
Saint-Antoine. Meurant l'ha conosciuta perché andava a mangiare lì. Poi l'ha sposata e, secondo lei, ha insistito perché smettesse di lavorare. Anche Meurant lo ammette. Tuttavia l'ambizione di Ginette Meurant seguitava ad essere quella di possedere un caffè-ristorante e, quando l'occasione si è presentata, ha insistito con il marito...»
«Hanno fatto un cattivo affare?...»
«Sì. Fin dai primi mesi Meurant è stato costretto a rivolgersi a sua zia per chiederle del denaro in prestito».
«Lei gliene ha prestato?»
«Diverse volte. Secondo suo nipote, nel vaso cinese c'erano non solo il sacchetto con le monete d'oro, ma un vecchio portafoglio che conteneva dei biglietti di banca. La donna prendeva da quel portafoglio le somme che gli dava. Ridendo, chiamava quel vaso la sua "cassaforte cinese"».
«Ha trovato il fratello dell'accusato, Alfred Meurant?»
«Non allora. Sapevo soltanto, dai nostri schedari, che conduceva un'esistenza irregolare e che era stato condannato due volte per favoreggiamento alla prostituzione».
«Ci sono testimoni che hanno dichiarato di avere visto l'accusato nel suo laboratorio nel pomeriggio del delitto, dopo le cinque?»
«Non in quel momento».
«Indossava, secondo lui, un abito blu e un impermeabile marrone?»
«No. Il vestito di tutti i giorni, che è grigio, e un impermeabile beige chiaro che mette di solito per andare al lavoro».
«Se capisco bene, non aveva alcun elemento preciso per accusarlo».
«Esattamente».
«Può dirci su che cosa, nei giorni che seguirono il delitto, si è indirizzata la sua inchiesta?»
«Inizialmente, sul passato della vittima, Léontine Faverges, e sugli uomini che aveva conosciuto. Ci siamo occupati anche delle amicizie della madre della bambina, Juliette Perrin, la quale, conoscendo il contenuto del vaso cinese, avrebbe potuto parlarne ad amici».
«Tali ricerche sono state negative?»
«Sì. Abbiamo interrogato anche tutti gli abitanti della strada, tutti coloro che avrebbero potuto veder passare l'assassino».
«Senza risultati?»
«Senza risultati».
«Così, la mattina del 6 marzo, l'inchiesta era ancora a un punto morto».
«Esattamente».
«Che cosa è avvenuto la mattina del 6 marzo?»
«Mi trovavo nel mio ufficio, verso le dieci, quando ho ricevuto una telefonata».
«Chi si trovava all'altro capo del filo?»
«Non lo so. Quella persona non ha voluto dire il suo nome e io ho fatto segno all'ispettore Janvier, che mi stava accanto, perché cercasse di individuare la provenienza della chiamata».
«Ci siete riusciti?»
«No. La comunicazione è stata troppo breve. Ho riconosciuto soltanto il clic caratteristico di un telefono pubblico».
«Era un uomo od una donna a parlare?»
«Un uomo. Giurerei che parlasse attraverso un fazzoletto per attutire la voce».
«Che cosa le ha detto?»
«Testualmente: "Se vuole scoprire l'assassino di rue Manuel, chieda a Meurant di farle vedere il suo abito blu. Vi troverà delle macchie di sangue"».
«Che cos'ha fatto?»
«Sono andato dal giudice istruttore che mi ha rimesso un mandato di perquisizione. Accompagnato dall'ispettore Janvier, sono giunto alle undici e dieci in boulevard de Charonne e, al terzo piano, ho suonato all'appartamento dei Meurant. La signora Meurant ci ha aperto. Era in vestaglia e portava delle pantofole.
Ci ha detto che suo marito era al laboratorio e le ho chiesto se possedeva un abito blu».
«"Naturalmente" ha risposto lei. "È quello che porta la domenica".
«Ho chiesto di vederlo. L'alloggio è confortevole, grazioso, piuttosto gaio ma, a quell'ora, era ancora in disordine.
«"Perché vuole vedere quell'abito?"
«"Soltanto un controllo..."
«L'ho seguita nella camera da letto dove ha preso un abito blu nell'armadio. Allora le ho mostrato il mandato di perquisizione. L'abito è stato chiuso in un sacco speciale che avevo portato con me e l'ispettore Janvier si è occupato dei consueti documenti.
«Mezz'ora dopo, l'abito era tra le mani degli specialisti del laboratorio. Durante il pomeriggio mi hanno comunicato che effettivamente recava tracce di sangue sulla manica destra e sui risvolti, ma che dovevo aspettare l'indomani per sapere se si trattasse di sangue umano. Comunque, fin dal mezzogiorno, ho fatto sorvegliare con discrezione Gaston Meurant e la moglie.
«Il giorno dopo, 7 marzo, due dei miei uomini, gli ispettori Janvier e Lapointe, muniti di un mandato di cattura, si sono presentati al laboratorio di rue de la Roquette ed hanno proceduto all'arresto di Gaston Meurant.
«Quest'ultimo è apparso sorpreso. Ha detto, senza ribellarsi:
«"È sicuramente un equivoco".
«Io lo aspettavo nel mio ufficio. Sua moglie, in un ufficio vicino, pareva più nervosa di lui».
«Può, senza far uso di appunti, ripeterci approssimativamente il colloquio da lei avuto con l'accusato quel giorno?»
«Credo di sì, signor presidente. Ero seduto nel mio ufficio e l'avevo lasciato in piedi. L'ispettore Janvier stava accanto a lui mentre l'ispettore Lapointe era seduto per stenografare l'interrogatorio.
«Io ero occupato a firmare la posta e questo ha richiesto un certo tempo. Infine ho alzato la testa per dirgli con tono di rimprovero:
«"Non è bello, Meurant. Perché mi ha mentito?"
«Le sue orecchie sono diventate rosse. Le sue labbra si sono mosse.
«"Finora", ho continuato, "non pensavo a lei come a un possibile colpevole, neppure come a un sospetto.
Ma che cosa vuole che pensi ora, sapendo che è andato in rue Manuel il 27 febbraio? Che cosa ci è andato a fare? Per quale ragione lo ha nascosto?"»
Il presidente si chinava per non perdere nulla di ciò che sarebbe seguito.
«Che cosa le ha risposto?»
«Ha balbettato, abbassando la testa:
«"Sono innocente. Erano già morte"».