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Le strane notti dell’ispettore Lognon e i malanni di Solange

Era passata da poco l’una del mattino quando il commissario Maigret spense la luce nel suo ufficio e con gli occhi gonfi di stanchezza aprì la porta della stanza degli ispettori, dove erano rimasti in servizio il giovane Lapointe e Bonfils.

«Buonanotte, ragazzi» borbottò.

Le donne delle pulizie stavano spazzando l’ampio corridoio, e lui rivolse loro un cenno di saluto. Nell’edificio c’era una gran corrente d’aria, come sempre a quell’ora, e le scale, che scese in compagnia di Janvier, erano umide e gelide.

Era metà novembre. Aveva piovuto tutto il giorno e prima di attraversare il cortile Maigret, che dalle otto del mattino non si era mai mosso dall’ambiente surriscaldato del suo ufficio, si rialzò il bavero del cappotto.

«Dove vuoi che ti lasci?».

Avevano chiamato un taxi per telefono, e davanti all’entrata del Quai des Orfèvres trovarono ad attenderli una vettura.

«A una qualsiasi stazione del métro, capo».

Pioveva a dirotto e l’acqua rimbalzava sul selciato. Giunti in place du Châtelet, l’ispettore scese dalla macchina.

«Buonanotte, capo».

«Buonanotte, Janvier».

Ne avevano vissuti centinaia, insieme, di momenti come quelli, e ogni volta provavano un senso di soddisfazione un po’ malinconica.

Pochi minuti dopo Maigret saliva, senza far rumore, le scale di boulevard Richard-Lenoir. Prese di tasca la chiave, la infilò delicatamente nella toppa e quasi subito sentì la moglie che si rigirava nel letto.

«Sei tu?».

Centinaia, forse persino migliaia di volte si era ripetuta quella scena: quando lui rientrava nel cuore della notte, lei faceva quella domanda con la voce intorpidita, poi cercava a tastoni la lampada sul comodino, la accendeva, quindi si alzava, in camicia da notte, e dava un’occhiata al marito per capire di che umore fosse.

«È finita?».

«Sì».

«Il ragazzo si è deciso a parlare?».

Lui annuì.

«Hai fame? Vuoi che ti prepari qualcosa?».

Maigret aveva appeso all’attaccapanni il cappotto bagnato e si stava slacciando la cravatta.

«C’è della birra in frigo?».

Era stato tentato di far fermare il taxi in place de la République per mandarne giù un bicchiere in una brasserie ancora aperta.

«Era come pensavi?».

Un caso di poco conto, per quanto si possa definire di poco conto una faccenda in cui è in gioco la sorte di diversi uomini. I giornali avevano trovato un titolo sensazionale: «La banda delle motociclette».

La prima volta, due moto si erano fermate, in pieno giorno, davanti a una gioielleria di rue de Rennes. Due tizi scesi da una delle motociclette e uno dall’altra, con il volto coperto da un foulard rosso, si erano precipitati nel negozio, uscendone di lì a poco con le pistole puntate e il bottino di gioielli e orologi arraffato dalla vetrina e dal banco.

A tutta prima la folla non aveva reagito e quando, una volta passato l’iniziale stupore, alcuni automobilisti avevano preso l’iniziativa di inseguire i ladri, si era creato un ingorgo gigantesco, che aveva facilitato la fuga dei malviventi.

«Lo rifaranno» aveva previsto Maigret.

Non si era trattato di un grosso colpo, poiché la gioielleria, gestita da una vedova, aveva solo merce di poco valore.

«Quello che volevano era mettere a punto la tecnica».

Non era mai successo che per una rapina si usassero delle moto.

Il commissario non si sbagliava, tant’è che a distanza di tre giorni si era ripetuta la stessa scena, questa volta in una gioielleria di lusso di faubourg Saint-Honoré. E con lo stesso risultato, tranne che da lì i banditi avevano portato via gioielli per svariati milioni di vecchi franchi: duecento, stando ai giornali, un centinaio in base alla perizia dell’assicurazione.

Però, durante la fuga, uno dei ladri aveva perso il foulard e due giorni dopo era stato arrestato nella bottega di un fabbro ferraio di rue Saint-Paul, dove lavorava.

La sera stessa ce n’erano tre sotto chiave: il più grande aveva ventidue anni, mentre il più giovane, Jean Bauche, detto Jeannot, ne aveva appena compiuti diciotto.

Era un ragazzo con i capelli biondi e lunghi sino alle spalle, figlio di una donna delle pulizie di rue Saint-Antoine, e anche lui lavorava nella bottega del fabbro.

«Io e Janvier ci siamo dati il cambio per tutta la giornata» disse Maigret alla moglie con aria cupa.

Intanto beveva birra e mangiava un panino.

«Senti, Jeannot, tu credi di essere un duro. Te l’hanno fatto credere. Ma l’idea delle rapine non è stata né tua né dei tuoi due amichetti. C’è qualcun altro dietro, qualcuno che ha organizzato tutto, stando bene attento a non esporsi. Qualcuno che è uscito dal carcere di Fresnes un paio di mesi fa e non ha nessuna intenzione di tornarci. Confessa che si trovava sul posto pure lui, in un’auto rubata, e che, bloccando il traffico con una manovra sbagliata, vi ha coperto la fuga...».

Bevendo ancora qualche sorso di birra e mettendo al corrente la moglie con brevi frasi, Maigret prese a spogliarsi.

«Questi ragazzini sono i più tosti... Gli hanno inculcato un senso dell’onore tutto particolare...».

Aveva fatto arrestare tre pregiudicati, tra cui un certo Gaston Nouveau. Come da copione, l’uomo aveva un alibi perfetto: due persone affermavano che, al momento della rapina, si trovava in un bar di avenue des Ternes.

Per ore e ore gli interrogatori non avevano condotto a nulla. Il più vecchio dei tre motociclisti, Victor Sidon, detto Ciccia perché era corpulento, guardava il commissario con aria beffarda. Saugier, detto Petardo, piangeva giurando di non sapere niente.

«Io e Janvier ci siamo concentrati esclusivamente sul giovane Bauche. Abbiamo convocato la madre, che lo ha implorato:

«“Parla, Jeannot! Lo vedi che questi signori non ce l’hanno con te. Capiscono che ti sei lasciato trascinare...”».

Venti spiacevoli ore passate a spingere implacabilmente un ragazzino fino al limite della resistenza umana. Non è piacevole nemmeno vederlo crollare all’improvviso.

«E va bene! Dirò tutto. Sì, è stato Nouveau che ci ha pescati al Lotus e ci ha proposto l’affare...».

Il Lotus era un baretto di rue Saint-Antoine, dove si ritrovavano ragazzi e ragazze per ascoltare i juke-box.

«Grazie a voi, quando uscirò di prigione, manderà i suoi amici a farmi secco...».

Ecco fatto! Un’altra giornata era finita. Maigret si mise a letto, con la testa pesante.

«A che ora devi essere in ufficio?».

«Alle nove».

«Non puoi riposare un po’ di più?».

«Svegliami alle otto».

Gli sembrò che non ci fosse soluzione di continuità. Ebbe l’impressione di non aver dormito, e che fossero passati solo pochi minuti da che aveva chiuso gli occhi, quando qualcuno suonò alla porta e sua moglie si alzò dal letto senza far rumore.

Dall’ingresso provenne un bisbiglio e a lui parve anche di riconoscere la voce, ma si disse che stava sognando e affondò la testa nel cuscino.

Di nuovo rumore di passi, la moglie che tornava in camera. Si sarebbe rimessa a letto? Avevano sbagliato porta? No. Lei gli toccò la spalla, poi aprì le tende e finalmente Maigret, senza aver bisogno di sollevare le palpebre, si rese conto che era giorno. Con voce impastata domandò:

«Che ore sono?».

«Le sette».

«Chi è?».

«Lapointe. Ti aspetta in sala da pranzo».

«Che vuole?».

«Non lo so. Rimani ancora un po’ a letto, ti preparo un caffè».

Perché sua moglie gli parlava come se le avessero appena dato una brutta notizia? Perché prima di rispondere aveva avuto un attimo di esitazione? Fuori la luce era di un grigio sporco e continuava a piovere.

La prima cosa che gli venne in mente fu che Jean Bauche, spaventato per la confessione resa, si fosse impiccato nella cella del carcere provvisorio. Non aspettò il caffè. Si alzò, s’infilò i pantaloni, si diede una pettinata e, ancora intontito da quel sonno troppo pesante, aprì la porta della sala da pranzo.

Lapointe stava in piedi davanti alla finestra. Indossava un cappotto scuro, come il cappello che teneva in mano, e aveva la barba lunga per via della notte di guardia.

Maigret si limitò a rivolgergli uno sguardo interrogativo.

«Mi scusi se l’ho svegliata in questo modo, capo... Stanotte è successo qualcosa a una persona a cui lei tiene molto...».

«Janvier?».

«No... Non è uno dei nostri...».

La signora Maigret entrò con due belle tazze di caffè.

«Lognon...».

«È morto?».

«Gravemente ferito. L’hanno portato al Bichat, il professor Mingault lo sta operando da tre ore... Ho preferito non venire prima, né telefonarle, perché, vista la giornata e la serata di ieri, lei aveva bisogno di riposare... E poi, all’inizio, lo davano per spacciato...».

«Che cosa gli è successo?».

«Due pallottole, una all’addome e l’altra appena sotto la spalla...».

«Dove?».

«In avenue Junot, sul marciapiede...».

«Era solo?».

«Sì. Per il momento stanno indagando i suoi colleghi del XVIII arrondissement...».

Maigret beveva il caffè a piccoli sorsi, senza ricavarne il piacere di tutte le altre mattine.

«Ho pensato che qualora riprendesse conoscenza lei avrebbe voluto esserci. C’è giù la macchina...».

«Si sa niente dell’aggressione?».

«Quasi niente. Non sappiamo neanche che cosa ci facesse Lognon in avenue Junot. È stata una portinaia che ha sentito gli spari a telefonare al Pronto Intervento: una pallottola ha perforato la persiana di casa sua, ha rotto il vetro e si è conficcata nella parete appena sopra il letto...».

«Vado a vestirmi...».

Si chiuse in bagno, mentre la signora Maigret apparecchiava la tavola per la colazione e Lapointe, dopo essersi tolto il cappotto, stava lì ad aspettare.

Anche se Lognon, che pure lo avrebbe desiderato, non lavorava al Quai, Maigret aveva collaborato spesso con lui, quasi ogni volta che si era verificato un delitto grave nel XVIII arrondissement.

Era uno dei venti ispettori in borghese che prestavano servizio presso il municipio di Montmartre, all’angolo fra rue Ordener e rue du Mont-Cenis.

Alcuni lo chiamavano il Lagnoso, per via della sua aria imbronciata. Per Maigret, invece, era lo Iellato, e in effetti sembrava proprio che il povero Lognon avesse il dono di attirarsi tutte le disgrazie.

Basso e magro, aveva il raffreddore tutto l’anno, e di conseguenza il naso rosso e gli occhi lucidi da ubriaco, quando in realtà era probabilmente l’uomo più sobrio della polizia.

Era tormentato da una moglie malata, che si trascinava dal letto alla poltrona accanto alla finestra, sicché, dopo il lavoro, Lognon doveva occuparsi della casa, della spesa e della cucina. A malapena poteva permettersi una domestica a ore una volta alla settimana per le pulizie generali.

Si era presentato al concorso della Polizia giudiziaria ben quattro volte, e ogni volta gli era andata male, per degli errori stupidi, lui che sul piano professionale era un eccellente poliziotto. Una specie di segugio che, una volta individuata una pista, non la mollava più. Era ostinato. Scrupoloso. Il tipo che fiutava subito se c’era qualcosa di losco in una persona anche solo incrociandola per strada.

«Ci sono speranze che si salvi?».

«Pare che al Bichat gli diano tre possibilità su dieci...».

Per uno che si era meritato il soprannome di Iellato, non era incoraggiante.

«È riuscito a dire qualcosa?».

Maigret, la moglie e Lapointe mangiavano i croissant che il garzone della panetteria aveva appena lasciato davanti alla porta di casa.

«I suoi colleghi non me l’hanno detto e io ho preferito non insistere...».

Lognon non era l’unico ad avere complessi d’inferiorità. La maggior parte degli ispettori di quartiere guarda con invidia alla Casa Madre, come viene chiamato il Quai des Orfèvres, e quando seguono un caso interessante, destinato a finire sulle prime pagine dei giornali, detestano farselo soffiare.

«Andiamo!» sospirò Maigret infilandosi il cappotto ancora umido dalla sera prima.

Il suo sguardo incrociò quello della moglie: era chiaro che lei voleva dirgli qualcosa, e lui intuì che avevano avuto la stessa idea.

«Conti di rientrare per pranzo?».

«È improbabile...».

«In tal caso, non credi che...».

Il suo pensiero andava alla signora Lognon, sola e invalida nel suo appartamento.

«Dài, vestiti! Ti lasceremo in place Constantin-Pecqueur».

I Lognon abitavano lì da vent’anni, in un edificio di mattoni rossi con le finestre incorniciate da mattoni gialli. Maigret non era mai riuscito a ricordare il numero civico.

Lapointe si mise al volante dell’utilitaria della Polizia. Era la seconda volta, in tanti anni, che la signora Maigret saliva su una di quelle auto insieme al marito.

Superarono autobus sovraffollati. Sui marciapiedi i passanti, tutti curvi e ben attaccati all’ombrello per non farselo strappare dal vento, camminavano svelti.

Raggiunsero Montmartre e imboccarono rue Caulaincourt.

«Siamo arrivati...».

Al centro della piazza si ergeva una scultura di pietra raffigurante una coppia: dai drappeggi del vestito della donna spuntava un seno. Il lato battuto dalla pioggia era scuro.

«Telefonami in ufficio, dovrei esserci nella tarda mattinata...».

Un caso era appena concluso e già se ne presentava un altro, di cui non sapeva ancora nulla. Era affezionato a Lognon. Più volte ne aveva sottolineato i meriti nei rapporti ufficiali, attribuendogli anche suoi successi personali. Ma non era servito a niente. Povero Iellato!

«Andiamo prima al Bichat...».

Una scalinata. Dei corridoi. Porte aperte su grandi camerate e sguardi fissi di pazienti che dai letti attiravano l’attenzione dei due uomini.

A causa di un’indicazione sbagliata, dovettero ridiscendere nel cortile e fare un’altra scalinata, finché, davanti a una porta con la targa «Chirurgia», trovarono un ispettore del XVIII arrondissement che conoscevano, un certo Créac, con una sigaretta spenta fra le labbra.

«Credo che farebbe meglio a spegnere la pipa, signor commissario. C’è in giro una specie di cerbero pronto a saltarle addosso, come ha fatto con me quando ho avuto l’idea di accendermi una sigaretta...».

Passavano infermiere con catini, brocche, vassoi carichi di fiale e strumenti smaltati.

«È ancora dentro?».

Mancava un quarto alle nove.

«È dalle quattro che è sotto i ferri...».

«Si sa qualcosa?».

«No... Ho cercato di chiedere nell’ufficio qui a sinistra, ma la vecchia...».

Era la stanza della caposala, quella che Créac aveva definito un «cerbero». Maigret bussò alla porta. Una voce poco gradevole gli gridò di entrare.

«Che cosa c’è?».

«Mi scusi se la disturbo, signora. Sono il capo della Squadra Omicidi della Polizia giudiziaria...».

Lo sguardo impassibile della donna sembrava dire:

«E con ciò?».

«Volevo sapere se ha notizie dell’ispettore che stanno operando in questo momento...».

«Ne avrò quando l’intervento sarà terminato... Posso solo dirle che non è morto, visto che il professore non è ancora uscito...».

«Era in grado di parlare quando è arrivato qui?».

Questa volta lei lo guardò come se le avesse fatto una domanda stupida.

«Gli era rimasta sì e no la metà del sangue e abbiamo dovuto procedere d’urgenza a una trasfusione».

«Secondo lei quando potrebbe riprendere conoscenza?».

«Questo deve chiederlo al professor Mingault».

«Se è disponibile una camera privata, le sarei grato di volergliela riservare. È importante. Con lui resterà di guardia un ispettore...».

La donna tese l’orecchio, perché la porta della sala operatoria si era appena aperta. In corridoio apparve un uomo con una bustina da chirurgo in testa e un grembiule macchiato di sangue sopra il camice bianco.

«Professore, qui c’è una persona che...».

«Commissario Maigret...».

«Molto lieto».

«È vivo?».

«Per il momento... Ma, salvo complicazioni, se la caverà, sono fiducioso...».

Aveva la fronte imperlata di sudore e gli occhi tradivano la stanchezza.

«Ancora una cosa... Sarebbe importante metterlo in una camera privata...».

«Ci pensi lei, signora Drasse... Con permesso...».

S’incamminò a grandi passi verso il suo studio. La porta della sala operatoria si riaprì. Un infermiere spingeva una barella sulla quale, sotto un lenzuolo, si profilava la sagoma di un corpo. Di Lognon, rigido ed esangue, era visibile soltanto la parte alta del volto.

«Lo porti nella 218, Bernard...».

«Va bene, signora».

La donna seguì la barella. Dietro di lei, Maigret, Lapointe e Créac chiudevano la lugubre processione che, nella pallida luce proveniente dalle alte finestre, sfilava davanti alle camerate con i letti allineati. Sembrava di essere in un incubo.

Un interno, uscito anche lui dalla sala operatoria, si unì al corteo.

«Lei è un parente?».

«No... Sono il commissario Maigret...».

«Ah! È proprio lei?» e lo guardò incuriosito, come per accertarsi che corrispondesse all’immagine che si era fatto di lui.

«Il professore dice che se la può cavare...».

Era un mondo a parte, un mondo in cui le voci non avevano lo stesso suono che altrove e in cui le domande non trovavano risposte.

«Se lo dice lui...».

«Non ha idea di quanto tempo ci vorrà perché riprenda conoscenza?».

La domanda di Maigret era proprio così assurda da fargli meritare un simile sguardo? Davanti alla porta della camera la caposala bloccò i poliziotti.

«No. Non adesso».

Dovevano sistemare il ferito e probabilmente somministrargli delle cure, visto che erano arrivate due infermiere con materiale di vario genere, tra cui una tenda a ossigeno.

«Se proprio volete, potete restare in corridoio, anche se la cosa non mi piace. Ci sono orari prestabiliti per le visite».

Maigret guardò l’orologio.

«Magari adesso io vado, Créac. Cerchi di essere presente quando si riavrà e, se sarà in grado di parlare, prenda scrupolosamente nota di tutto ciò che dice...».

Non si sentiva umiliato, certo, ma a disagio, perché non era abituato a essere accolto così male. In quel luogo, la sua fama non aveva alcun effetto su persone per le quali la vita e la morte assumevano un significato ben diverso da quello ordinario.

Nel cortile poté finalmente fumarsi una pipa, mentre Lapointe si accendeva una sigaretta. Si sentì subito meglio.

«Dovresti riposarti un po’, tu. Ti chiedo solo di lasciarmi al municipio del XVIII arrondissement».

«Non vuole che resti con lei, capo?».

«Hai fatto la notte...».

«Alla mia età...».

Non erano lontani. Nell’ufficio degli ispettori trovarono tre agenti in borghese intenti a stendere dei rapporti, i quali, chini com’erano sulle macchine per scrivere, avevano tutta l’aria di impiegati zelanti.

«Buongiorno, signori... Chi di voi è al corrente?...».

Anche quei poliziotti, che intanto si erano alzati in piedi tutti e tre, Maigret li conosceva, se non di nome, almeno di vista.

«Tutti e nessuno...».

«Qualcuno è andato ad avvertire la signora Lognon?».

«Se n’è incaricato Durantel...».

Sul pavimento c’erano impronte di suole bagnate e si sentiva odore di tabacco stantio.

«Lognon stava seguendo un caso?».

Si guardarono l’un l’altro, incerti. Alla fine uno di loro, un piccoletto tarchiato, esordì:

«Ce lo siamo chiesti anche noi... Lei sa com’è fatto Lognon, signor commissario... Quando credeva di essere su una pista giusta, non era il tipo che si sbottonava... Spesso lavorava a un caso per settimane senza farne parola con nessuno di noi...».

Già, perché al povero Lognon capitava sempre che i meriti se li prendessero gli altri al posto suo!

«Da almeno quindici giorni faceva il misterioso, e a volte, quando rientrava in ufficio, aveva il tipico atteggiamento di uno che sta preparando qualcosa di sensazionale...».

«Ve ne aveva fatto cenno?».

«No, però sceglieva quasi sempre il turno di notte...».

«Sapete in che zona stesse lavorando?».

«Le pattuglie lo hanno notato diverse volte in avenue Junot, non lontano dal luogo dell’aggressione... Ma non negli ultimi tempi... Usciva da qui verso le nove di sera e rientrava alle tre o alle quattro del mattino... A volte non si faceva vedere per tutta la notte...».

«Non ha mai fatto rapporto?».

«Ho consultato il registro. Si limitava a scrivere “niente da segnalare”...».

«C’è qualcuno dei vostri sul posto?».

«Sono in tre, più Chinquier che dirige l’operazione».

«E i giornalisti?».

«È difficile nascondere un attentato contro un ispettore... Vuole parlare con il commissario?».

«No, non adesso...».

Maigret si fece portare, sempre da Lapointe, in avenue Junot. Gli alberi stavano perdendo le ultime foglie, che rimanevano incollate alla strada bagnata. La pioggia continuava a cadere senza sosta, ma questo non impediva a una cinquantina di persone di accalcarsi a metà del viale.

Alcuni poliziotti in uniforme sbarravano l’accesso a un tratto di marciapiede prospiciente un edificio di quattro piani. Maigret, una volta sceso dalla macchina, fu costretto ad aprirsi un varco tra curiosi e ombrelli, e i fotografi non se lo lasciarono sfuggire.

«Di nuovo, commissario... Rifaccia qualche passo tra la folla...».

Lanciò loro lo stesso sguardo che la caposala del Bichat aveva rivolto a lui. Sulla zona sgombra del marciapiede, nell’impossibilità di utilizzare il gesso, era stata abbozzata alla meno peggio con dei pezzetti di legno la sagoma di un corpo là dove una pozza di sangue, che la pioggia non era ancora riuscita a cancellare, andava via via diluendosi.

L’ispettore Deliot, anche lui del commissariato del XVIII arrondissement, si tolse il cappello fradicio per salutare Maigret.

«Chinquier è dalla portinaia, signor commissario capo. È stato il primo ad arrivare sul posto».

Il commissario entrò nello stabile, vecchiotto ma molto ben tenuto, e aprì la porta a vetri della portineria proprio nel momento in cui l’ispettore Chinquier si stava rimettendo in tasca il taccuino.

«Immaginavo che sarebbe venuto. Ero stupito di non vedere nessuno del Quai».

«Sono passato al Bichat».

«L’intervento?».

«Pare che sia riuscito. Secondo il professore, se la può cavare».

Anche la guardiola era pulita, graziosa. La portinaia, che doveva avere suppergiù quarantacinque anni, era una donna dall’aria simpatica, e piuttosto carina.

«Accomodatevi, signori... Ho appena raccontato all’ispettore tutto quello che so... Guardate per terra...».

Il pavimento di linoleum verde era cosparso delle schegge di vetro saltate dalla finestra.

«E lì...».

E indicò verso il fondo della stanza dove, a un metro circa sopra il letto, si vedeva un foro.

«Era qui da sola?».

«Sì, mio marito fa il portiere di notte al Palace, in avenue des Champs-Élysées, e non rientra prima delle otto del mattino».

«Dov’è ora?».

«In cucina...».

Fece un cenno verso una porta chiusa.

«Sta cercando di riposare, perché, malgrado tutto, stasera dovrà pur tornare al lavoro».

«Immagino che lei, Chinquier, avrà raccolto tutte le informazioni necessarie. Ma non si offenda se faccio anch’io qualche domanda».

«Ha bisogno di me?».

«Non subito».

«Allora, salgo un attimo...».

Maigret aggrottò le sopracciglia chiedendosi perché l’altro salisse, ma non insistette, per non urtare la suscettibilità dell’ispettore di quartiere.

«Le chiedo scusa, signora...».

«Signora Sauget, ma gli inquilini mi chiamano Angèle».

«Si sieda, la prego».

«Sono talmente abituata a stare in piedi!».

La donna richiuse la tenda che, di giorno, nascondeva il letto trasformando la stanza in una specie di salottino.

«Desiderate qualcosa? Un caffè?».

«No, grazie. Dunque, stanotte mentre dormiva...».

«Esatto. Ho sentito una voce che diceva:

«“Il portone, per favore...”».

«Sa che ore erano?».

«Erano le due e venti. Ho una sveglia con i numeri fosforescenti...».

«Era un suo inquilino che usciva?».

«No. Era quel signore...».

Ora sembrava imbarazzata, come chi è costretto a commettere un’indiscrezione.

«Quale signore?».

«Quello che è stato aggredito...».

Maigret e Lapointe si guardarono sbalorditi.

«Intende dire l’ispettore Lognon?».

La donna fece di sì con la testa, poi aggiunse:

«Alla polizia si deve dire tutto, vero? Non è mia abitudine parlare dei miei inquilini, di quello che fanno o di chi ricevono. La loro vita privata non mi riguarda, ma dopo quello che è successo...».

«È da molto che conosce l’ispettore?».

«Sì, da anni... Da quando io e mio marito ci siamo trasferiti qui... Ma non sapevo come si chiamava... Lo vedevo passare e sapevo anche che era un poliziotto perché è venuto diverse volte qui in portineria per degli accertamenti di identità. Non era un chiacchierone...».

«In quali circostanze l’ha conosciuto meglio?».

«Quando ha cominciato a frequentare la signorina del quarto piano...».

Questa volta Maigret restò a bocca aperta. Anche Lapointe era al colmo dello stupore. I poliziotti non sono necessariamente dei santi, e Maigret non ignorava che, persino fra i suoi uomini, c’era chi si concedeva qualche avventura extraconiugale.

Ma Lognon!... Il Lagnoso che va a trovare una ragazza, di notte, e per di più a soli duecento metri da casa sua!...

«È proprio sicura che si tratti dello stesso uomo?».

«Non è un tipo che si può confondere facilmente, no?».

«Era da molto che... andava da questa persona?».

«Un paio di settimane...».

«Quindi una sera, immagino, è rientrato in compagnia della donna?».

«Sì».

«Si è coperto il volto mentre passava davanti alla portineria?».

«Mi sembra di sì».

«È tornato spesso?».

«Quasi ogni sera...».

«Andava via molto tardi?».

«All’inizio, cioè i primi tre o quattro giorni, se ne andava poco dopo mezzanotte... Poi ha cominciato a trattenersi più a lungo, fino alle due o alle tre del mattino...».

«Come si chiama la donna?».

«Marinette... Marinette Augier... Una ragazza di venticinque anni molto carina, una persona a modo...».

«Riceve abitualmente degli uomini?».

«Credo di poterle rispondere, visto che anche lei non ha mai tentato di nasconderlo. Veniva a trovarla due o tre volte alla settimana un bel ragazzo, il suo fidanzato, mi ha detto lei. La cosa è andata avanti un anno...».

«Passava la notte da lei?».

«Tanto verrà a saperlo comunque... Sì... Quando poi non è più venuto, lei mi è parsa un po’ giù di corda... Una mattina che era da me per ritirare la posta, le ho domandato se avessero rotto il fidanzamento, al che ha risposto:

«“Non me ne parli, cara Angèle. Gli uomini... Non vale proprio la pena farsi cattivo sangue per loro”.

«Non deve aver pensato a lui tanto a lungo, perché ha presto ritrovato il suo sorriso... È una ragazza allegra, piena di salute».

«Ha un lavoro?».

«Mi ha detto che fa l’estetista in un salone di bellezza in avenue Matignon... Per questo è sempre così ben curata e vestita con gusto...».

«E il suo amico?».

«Il ragazzo che non si è più fatto vivo? Doveva avere una trentina d’anni. Non so cosa facesse, conosco solo il suo nome. Per me era il signor Henri, perché così si annunciava passando, di notte, davanti alla portineria...».

«A quando risale la rottura?».

«All’inverno scorso, intorno a Natale...».

«Sicché, per circa un anno, questa signorina... Come ha detto che si chiama? Marinette?...».

«Marinette Augier...».

«Per circa un anno, dunque, non ha ricevuto visite?».

«Viene solo il fratello, di tanto in tanto. Abita in periferia con la moglie e i tre figli».

«E una sera, un paio di settimane fa, è rientrata in compagnia dell’ispettore Lognon?».

«Sì, gliel’ho detto».

«E da allora è tornato tutte le sere?».

«Tranne la domenica, sempre che io non l’abbia visto né entrare né uscire».

«E durante il giorno non passava mai?».

«No. Però mi fa venire in mente un particolare. Una volta è arrivato come al solito verso le nove, ma io gli sono corsa dietro prima che si avviasse su per le scale e gli ho detto:

«“Marinette non è in casa”.

«“Lo so,” mi ha risposto “è dal fratello...”.

«Ma è salito lo stesso, senza dare spiegazioni, per cui penso che lei doveva avergli dato la chiave...».

Adesso Maigret capiva il motivo per cui l’ispettore Chinquier era salito.

«La sua inquilina è di sopra in questo momento?».

«No».

«È al lavoro?».

«Non lo so, ma quando sono salita da lei per informarla dell’accaduto con tutte le precauzioni del caso...».

«A che ora?».

«Dopo aver telefonato alla polizia...».

«Quindi prima delle tre del mattino?».

«Sì... Ho pensato che aveva sicuramente sentito gli spari... Li avevano sentiti tutti gli inquilini... Ce n’erano alcuni affacciati alle finestre, altri che stavano scendendo in vestaglia per capire cosa stava succedendo...

«Quello sul marciapiede non era un bello spettacolo... Così mi sono precipitata di sopra e ho bussato alla sua porta... Non ha risposto nessuno... Sono entrata e l’appartamento era vuoto...».

Guardò il commissario con una certa soddisfazione, come se volesse dire:

«Chissà quante ne ha viste nella sua carriera, ma, lo ammetta, questa non se l’aspettava proprio!».

E non aveva torto. Maigret e Lapointe non riuscivano a fare altro che scambiarsi sguardi vacui. Il commissario pensò che a quella stessa ora, a casa dei Lognon, sua moglie stava consolando la signora Solange, e molto probabilmente si era messa a sbrigare le faccende.

«Secondo lei, è possibile che siano usciti insieme?».

«Sono sicura di no. Ho un ottimo udito e sono certa che c’era una sola persona, ed era un uomo...».

«Ha dato il suo nome quando è passato?».

«No. Lui aveva l’abitudine di gridare: “Quarto!”. Riconoscevo la voce, e poi era l’unico che usava quell’espressione».

«Magari la ragazza è uscita prima...».

«Non è possibile. Ho aperto il portone una sola volta ieri notte, ed è stato alle undici e mezzo, per i signori del terzo piano che rientravano dal cinema».

«Potrebbe essere uscita dopo gli spari?».

«È l’unica spiegazione possibile. Quando ho visto il corpo sul marciapiede, sono corsa dentro per telefonare al Pronto Intervento... Non ho voluto richiudere il portone... Non ho osato... Sarebbe stato come abbandonare quel poveraccio...».

«Si è chinata su di lui per verificare se era morto?».

«È stata dura, perché il sangue mi fa molta impressione, ma l’ho fatto...».

«Era cosciente?».

«Non saprei...».

«Ha detto qualcosa?».

«Ha mosso le labbra... Si capiva che voleva parlare... Mi è sembrato di sentire una parola, ma devo essermi sbagliata, perché è una cosa senza senso... Forse delirava...».

«Che parola era?».

«Fantasma...».

E arrossì, come se temesse che il commissario e l’ispettore potessero prenderla in giro, o accusarla di raccontare balle.