A me il rotolo della zia Margherita non è mai riuscito. Bisognerebbe stendere uno strato sottile di un materiale affine al pan di spagna, e rotolarci dentro la panna montata. Il risultato ha l’aspetto di una grossa Girella e il sapore del Paradiso.

Quando provo a farlo io, viene fuori un agglomerato di briciole e panna. Mia cugina Veronica, invece, lo esegue alla perfezione. La stessa zia Margherita ammette che il rotolo di Veronica potrebbe servire da modello alle giovani generazioni. La cosa sotto sotto la scoccia, perché Veronica non è sua figlia: è sua nipote, come me. La figlia della zia Margherita è mia cugina Irene, che a quanto mi risulta non ha mai nemmeno tentato di preparare il famoso rotolo. Quando gliene serve uno, lo chiede a mamma.

Sofia è in grado di farlo, e in passato ha ottenuto risultati eccellenti, ma di recente di cucinare non se ne parla, e i dolci si limita a consumarli in eccesso. E così restiamo io e Bibi. Di me ho detto. In quanto a Bibi, al rotolo della zia Margherita non si avvicina neanche, per timore che qualche caloria volante le salti addosso, figuriamoci prepararlo. Ma stasera dovrà perlomeno guardarlo, perché anche lei sarà qui, insieme alle altre tre, per la Cena delle Cugine. La Cena delle Cugine è una ricorrenza periodica, a cadenza variabile, che si svolge a turno in casa di tutte tranne Veronica.

Perché Veronica ha qualcosa che la distingue da noi quattro, un suo tratto caratteristico che la rende unica nel panorama delle cugine: è sposata, e suo marito non l’ha ancora piantata. E personalmente dubito che la pianterà mai. La costante presenza di questo marito ci impedisce di radunarci a casa loro. La Cena delle Cugine, infatti, prevede esclusivamente la presenza delle cugine. Niente mariti, e fin lì è facile perché come s’è visto ne abbiamo uno in cinque, e niente figli. Qui diventa più difficile. Complessivamente, di figli ne abbiamo otto. Non dovrei dire ‘abbiamo’, perché il mio contributo è zero, ma parlando a nome della categoria, sì, ne abbiamo otto. Va detto, però, che la sola Veronica ne conta quattro, che i due di Bibi vivono, o almeno ci auguriamo che vivano, a Vancouver, che la figlia di Sofia ha diciotto anni, e che Irene suo figlio lo fa viaggiare come un’onda magnetica tra casa sua e quella di sua madre, alias zia Margherita. Abitano sullo stesso pianerottolo, e il bambino rotola da una porta all’altra come un terzino di spinta. Stasera è rotolato in direzione nonna, e tutte quante vengono da me.

MENU: risotto ai carciofi, pollo piccante, insalata e rotolo della zia Margherita. Io preparo risotto e insalata, Sofia, Bibi e Irene procurano pollo e vino, e Veronica, è evidente, provvede al rotolo. Stasera è di scena Sofia. La procedura della Cena delle Cugine è semplice: ci si aggiorna rapidamente sugli affari delle cugine in generale, e poi si passa a esaminare con accanimento dialettico una particolare cugina. Il mese scorso, a casa di Bibi, toccava a me, e quindi è stata una serata allegra, perché sinceramente non sanno più cosa dirmi, e io le capisco, ma non posso farci niente, e comunque il tempo mi darà ragione.

Ma con Sofia è diverso: è una piantata recente, e siamo ancora in piena fase abbrutimento.

ORE 21.30. CASA MIA

«Comunque l’avvocato ha detto che se la casa è intestata a lui, non c’è niente da fare, è sua». Questa è appunto Sofia, alle prese con un piccolo problema: suo marito non soltanto l’ha piantata per mettersi con una collega d’ufficio, ma pretenderebbe anche di toglierle la casa. Un uomo veramente pulp.

«Complimenti. Una mente legale di primissimo ordine. Passami il parmigiano». Sto mantecando il risotto. Le cugine sono schierate nel mio living con angolo cottura, e sembrano inclini a favorire l’angolo cottura rispetto al living. Stanno tutte in piedi, assiepate in pochi centimetri quadrati, mentre alle loro spalle si stende una vasta distesa di divani. Cerco di spingerle via.

«Andate a sedervi a tavola, arrivo».

Niente. Restano lì. In famiglia siamo così: tendiamo all’assembramento, e ci allontaniamo dalle cucine con estrema riluttanza. È un fatto genetico. Perfino Bibi, che ignora l’uso di qualunque attrezzo culinario tranne l’apriscatole e il telefono per chiamare Pizza Day, a casa sua vive in cucina, e per la precisione in cucina fa i suoi esercizi di Ginnastica Interiore. Finalmente, eccoci tutte quante attorno al tavolo. Veronica, alta e bionda, gonna a pieghe, twin set, perle, calze blu e mocassini. Bibi è in tuta. Da circa un anno non indossa altro. Si è presentata in tuta perfino al funerale della zia Susanna, inducendo, credo, la povera signora a una seconda e più dolorosa morte. Irene indossa come sempre qualcosa di caro e chic. Sofia non si può nemmeno dire che sia vestita. È coperta da indumenti sformati, unica decorazione i capelli grigi, che sempre più abbondanti si mischiano a quelli neri. A ogni Cena, ne avrà cinquanta in più. Irene se ne accorge.

«Quand’è che ti decidi a tingerti?»

«Ma cosa vuoi che mi tinga... guardami!»

«Allora, cambia almeno avvocato».

E qui le tre separate o separande, Sofia, Bibi e Irene, iniziano una gustosa aneddotica sugli avvocati che ci accompagna senza sforzo fino all’insalata. Io più che altro ascolto: non sono separata perché non mi sono mai sposata, e non mi sono mai sposata perché da sedici anni sono l’amante di un uomo sposato che da un momento all’altro, ormai è questione di settimane, lascerà sua moglie per me. E stanotte, forse, tardi, molto tardi, quando anche l’ultima cugina sarà volata al suo nido, Alex verrà a trovarmi. Per questo, sotto il camicione indiano di felpatino a righe indosso biancheria di cotone a paperette. Ad Alex piace lo stile ragazzina. Se lo vedo di malumore, mi toccherà farmi pure i codini, ma speriamo di no.

Va detto che la mia condizione di amante di un uomo sposato ultimamente mi crea qualche problema con Sofia. Dice che mi guarda e vede in me l’emblema dell’ALTRA, quella che le ha fregato Amedeo.

Io ho la difesa facile: ma come, le dico, proprio io, che da sedici anni sto salvando il matrimonio di Alex? Sai quante volte l’avrebbe lasciata, quella coniglia piagnucolosa di sua moglie, se non ci fossi io? Se invece di me avesse trovato una donna bella, in gamba, irresistibile e definitiva, sua moglie sarebbe archiviata da almeno tredici o quattordici anni. Se Amedeo avesse incontrato una come me, lei ce l’avrebbe ancora in casa a giocare con l’autopista.

«E non si è ancora preso quella maledetta autopista» sta dicendo Sofia, per l’appunto. Una intera stanza di casa sua, che purtroppo sua non è, è occupata dall’autopista di Amedeo.

«Sfasciala ad accettate» propone Irene.

«E non ti basta entrare in quella stanza e vedere l’autopista per accendere un cero di ringraziamento sulla tomba della Madonna?»

Veronica rabbrividisce. Colpa mia. Mi scordo sempre quant’è cattolica. Se pensate che ha solo trentasei anni e non è stata allevata dalle suore, non vi pare possibile che sia così tanto cattolica. Eppure. Uno dei suoi numeri più grandiosi consiste nel portare i quattro figli a Messa. Gliel’ho visto fare più di una volta, perché in famiglia ogni momento qualcuno nasce, muore o si sposa, e dunque le riunioni in chiesa sono frequenti. All’inizio il figlio era uno, poi due, tre, e voilà, al già citato funerale della prozia Susanna c’erano tutti e quattro, dagli undici ai tre anni, maschi e femmine che durante la funzione hanno corso, pianto, urlato, rubato medagliette, mangiato candele, offerto un orsino di pelouche al celebrante che l’ha rifiutato con sobrietà. E in mezzo a tutto questo, Veronica ha mantenuto la serena compostezza di una Madonna di Raffaello. Quello che si arrabattava in mezzo ai bambini era Eugenio, suo marito. Un uomo che noi cugine non siamo mai riuscite a capire. Belloccio, cardiochirurgo, cattolico anche lui; non abbiamo ancora scoperto dov’è quella chiavetta che, opportunamente girata, lo mette in moto. Eppure deve averla. Veronica non può limitarsi a spolverarlo, quando sono a casa soli, la sera.

Esaurito il tema ‘avvocati’, Sofia passa a lamentarsi di sua figlia Rebecca, una dimostrazione lampante di quant’è misteriosa l’ereditarietà. Sofia è bassa, bruna e carina. Amedeo è medio, bruno e insignificante. Rebecca è alta, bionda e norvegese. Sembra norvegese, cioè. Tipo Fata dei Fiordi. Si chiama Rebecca perché La prima moglie di Daphne Du Maurier è il secondo libro preferito di sua madre, dopo La ricerca del tempo perduto di Proust, ma Sofia non se l’è sentita di chiamarla Albertina.

«Rebecca vuole andare a New York» annuncia, cupamente.

«Quando?»

«Nelle vacanze. Però dice che magari non torna. Che si ferma a fare la cameriera. Dice che l’università non le interessa».

«E le 150 Ore? Molla pure quelle?»

Le 150 Ore sono il gruppo in cui Rebecca suona il basso.

«Sì. Dice che non hanno sbocchi professionali».

«Chi è lui?» chiediamo praticamente tutte in coro.

«Un suo compagno, Peter. I suoi hanno finito di lavorare in Italia, e tornano a New York».

«Avevi solo da non mandarla alla scuola americana».

«Se la mandavi in un liceo statale, per le vacanze vorrebbe andare in Marocco con Youssuf Alì».

E questa è Irene, una vera snob. Ma non ci si può arrabbiare con lei. È così bellina. Piccolina, capelli ricci, aria da elfo. Solo mezz’ora dopo che è andata via ti rendi conto di quanto avresti voluto picchiarla con il batticarne.

«Non divagare, Sofia. L’argomento della serata non è Rebecca. Sei tu. Le ragazze qui vorrebbero sapere se ci sono novità nella tua vita sentimentale».

Io le so già, le novità. Infatti ho un punto di osservazione privilegiato sulla vita sentimentale di Sofia: la vedo tutti i giorni almeno per cinque ore, esclusa la domenica, compreso il sabato, escluso il lunedì mattina. Lei, io e la nostra amica Carolina gestiamo insieme un negozio, Carta e Cuci, il paradiso della donna che non ha tempo ma il poco che ha adora perderlo.

Sofia si serve abbondantemente di pollo piccante e scantona: «Nella mia vita sentimentale non ci sono novità. E non ne voglio. Voglio solo raggomitolarmi su me stessa inerte come un fuco».

Conosco le mie cugine. So che qualcuna di loro, Irene e forse Veronica, sanno che cos’è un fuco. Ma sicuramente tutte e tre, almeno per un attimo, hanno pensato di chiedere a Sofia di raggomitolarsi subito, per vedere come fa. L’ho pensato anch’io. Ma esattamente in quel momento, a grandi maiuscole minacciose, squilla il mio telefono...

DRIIN.

Corro a rispondere in camera da letto. E chiudo la porta. Le conosco.

«Pronto».

«Costy?»

Non mi piace essere chiamata Costy. In famiglia abbiamo questa passione per i nomi letterari, e mia madre considera I tre moschettieri il più bel libro che sia mai stato scritto, da cui Costanza. Me la sono sempre un po’ presa perché mi ha chiamata come un personaggio che muore a ventisei anni, ma lei ha giustamente sempre obiettato che non poteva mica chiamarmi Milady, e comunque anche Milady muore a ventisei anni.

«Ciao, Alex».

«Ciao, stella splendente che brilli lassù. Sono qui sotto... faccio un salto lì?»

Panico. Orribile panico strisciante che mi ghiaccia il cuore.

«Adesso? Lo sai che ho la Cena delle Cugine...»

«Ma sono ancora lì? Quanto mangiate?»

«Siamo al dolce. Avevi detto che passavi tardissimo. Sono le 10 e 40 sì e no».

«Lo so... ma ho dei problemi... posso passare dieci minuti adesso oppure niente».

Lo so troppo bene, cosa significa «dieci minuti adesso». Significa sesso velocissimo, rivestimento fulmineo, bacio di striscio e due settimane senza vederlo. Io avevo in mente tre o quattro ore incandescenti, al termine delle quali avrebbe forse capito che non può più vivere se non con me.

«Costy? Sei lì?»

«Sì... ma non dovevi essere solo, stanotte? Non è andata a Milano coi bambini?»

«No».

«Ci è andata senza bambini? Devi tornare da loro?»

«Non ci è andata. Salgo o no?»

Io per Alex ho fatto troppo di tutto, meno che interrompere villanamente la Cena delle Cugine.

«Non posso buttarle fuori, Alex, mi spiace».

«Grazie... sono quindici giorni che non stiamo insieme come si deve e tu mi cacci per quelle galline?»

«E per te dieci minuti di corsa sarebbero stare insieme come si deve?»

«Si può fare molto, in dieci minuti».

«Non posso. Davvero. Ci vediamo domani?»

«Ah, non so. Non credo, però».

«Allora ciao...»

Desolata.

«Ciao».

Freddo.

Ecco fatto. Torno di là.

«Bene, care. Mi sono appena persa una visita di Alex».

Reazione unanime. Alzano le braccia ed esplodono in grida entusiastiche e applausi.

«Quando Alex e io ci sposeremo, faticherete parecchio per ottenere un invito a cena a casa nostra» le informo.

ORE 00.30. CASA MIA

Abbiamo bevuto anche il caffè, e siamo lì, tutte un po’ sfatte. Io continuo a pensare che mi sono persa una visita di Alex. Mi chiedo se adesso è a casa, o è andato a trovare un’altra. E in questo caso, chi? Quale delle tre o quattro sgualdrinelle che gli stanno dietro? Intanto, Sofia ci sta esponendo la sua teoria della colazione: secondo lei, il succo e il significato del matrimonio stanno nel fare colazione insieme la domenica. È circondata da un muro di incomprensione. Nessuna di noi tranne Irene ha mai fatto colazione insieme la domenica, e Irene non la ricorda come un’esperienza piacevole.

«Sai che estasi mistica. Marco leggeva il giornale grugnendo».

Il nostro interesse è risvegliato. Come, Marco grugniva?

Veronica dice che la domenica, come ogni altro giorno, lei fa colazione all’alba con Betta, la più mattiniera dei suoi figli. Adesso però per lei è tardi. La salutiamo, la guardiamo allontanarsi, luminoso faro della normalità, e restiamo noi quattro, le disastrate.

Come sempre, appena se ne va Veronica, entriamo nel vivo.

«Allora? Come va a sesso, ragazze?»

«Sesso? Una parola che dovrei conoscere, ma...»

Irene da anni esaurisce tutta se stessa nella lotta per la separazione, e non le resta energia per cercarsi un nuovo fidanzato. Odiare Marco, telefonare agli avvocati, lamentarsi con sua madre, farlo spiare da suo fratello e ordire complicate vendette sono attività che le riempiono le giornate. Nei ritagli di tempo, alleva suo figlio e disegna gioielli per una ditta che ha invaso il mercato con orsacchiottini d’oro a prezzi popolari.

«E tu, Sofia?»

«Non diciamo idiozie. Non lo facevo con Amedeo, figuriamoci senza».

«Sofia, finché non la smetterai di star dietro a quel gay, non otterrai molto in questo campo».

«Alfredo non è gay!»

Alfredo è gay. È un baritono, oltretutto. Infatti nello sfacelo che ha travolto il mondo di Sofia, solo una cosa si è salvata: il coro. Ogni mercoledì, imbacuccata nei suoi capi senza senso, Sofia va a cantare salmi, o messe, od oratori, chissà, insieme a un’altra trentina di belle voci. Una delle più belle appartiene ad Alfredo. E da anni, stancamente, Sofia afferma di essere innamorata di lui. Un amore che vincerebbe le Olimpiadi del Platonico con largo margine sugli avversari. Infatti Alfredo è appunto gay. Proprio per questo, dà una leggerissima corda a Sofia. Vanno al cinema. Al ristorante. In qualsiasi posto dove ci siano sempre almeno altre cinquanta persone. Tutte noi cugine abbiamo conosciuto Alfredo, e tutte noi cugine siamo certe che sia gay.

«Dai, su... è gayissimo!»

«Ma smettetela! Purtroppo gli piacciono giovani, però. Come a tutti».

«Giovani e maschi».

«Siete delle cretine. Solo perché è un uomo sensibile...»

«Ma dai!» esplode Bibi. «Cammina come se avesse dodici centimetri di tacchi!»

«E tu come vai a sesso?» ritorce Sofia.

«Alla grande. Walter non smetterebbe mai. Purtroppo io sono frigida. Ma questo è un altro discorso».

Walter, il fidanzato di Bibi, lavora nei giocattoli. È uno di quelli che trovano i nomi alle cose, tipo ‘Miniville luminose’ di Polly Pocket. Potevano chiamarle in molti altri modi, ad esempio ‘Casette luccicanti’, e invece no, ‘Miniville luminose’ perché così ha deciso Walter. Un bellissimo lavoro. Walter, invece, è brutto.

«E tu, Costanza? Sei frigida anche tu?»

«Chi può dirlo? Faccio sesso talmente di rado, che mi manca un riscontro obiettivo».

«E smettila di perdere tempo con quel criminale!»

Sofia odia Alex così intensamente che un paio di volte l’ho vista vicina a chiedere il porto d’armi per ammazzarlo. È una delle pochissime donne che conosco che non subisce per niente il suo fascino. Con lei, tutti quegli occhi verdi, e la bella bocca cattiva, e i riccioli biondo ramati, e la faccia da angelo guerriero, niente, tutto sprecato.

«Lo sapete anche voi che non posso. È come se uno mi dovesse dei soldi. Tipo cento milioni. Non potrei far altro che continuare a prestargliene, sperando che prima o poi si rimetta in sesto e mi paghi. Se lascio Alex adesso, ho buttato sedici anni della mia vita».

Sedici anni. Per un attimo, ci guardiamo spaventate. Sedici anni sono un casino di tempo.

Alt. Ci vuole una bottiglia di limoncello, fredda e piena. E io ce l’ho. Ce l’ho! Una soave bottiglia di limoncello profumato costruito a mano dal padre della mia socia Carolina. Ne verso un ampio bicchierino a tutte ed è qui, in questo momento sospeso sul precipizio del discorso serio, che Sofia ci informa.

«Non sarebbero fatti vostri, ma visto che siamo tutte qui, vi informo che dalla settimana scorsa vado da una psicologa».

La notizia fa decisamente sensazione. La nostra famiglia, infatti, è parecchio al di sotto della media per quanto riguarda la frequentazione di psicologi e analisti. Noi abbiamo le zie.

Squadriamo Sofia a occhi sgranati. Psicologa? Paga qualcuno per raccontarle quello che a noi dice gratis da trent’anni?

«Mi serve. Mi serve tantissimo. Perché lei non mi dice niente. Con voi, come apro bocca, la sapete subito più lunga. Siete tanto furbe, avete sempre il consiglio giusto, la soluzione pronta, però chissà perché quello che va bene a voi a me non serve a un tubo. In più, mi sembra che neanche voi ve la passiate poi così bene, e allora tutta questa furbizia a cosa vi serve? Invece di lei non so niente, mi posso immaginare che a lei nella vita tutto fila alla perfezione, e così mi fido. E poi sta zitta. Lascia parlare me. Mi fa mettere su due sedie».

Sarà l’effetto del limoncello? Sofia non ha mai retto bene l’alcol. Su due sedie?

«Sì... sai quelle cose che tu devi fare te stessa e un’altra persona... tu parli e ti rispondi, passando da una sedia all’altra».

A me sembra più un numero da cabaret che una terapia, ma non dico niente. Mi spiace un po’ per lei. Per ridursi a mettere piede da una psicologa, dev’essere veramente al lumicino. E ci si può ridurre al lumicino per aver perso Amedeo? Per di più, a un tale lumicino da inghiottirsi tutto dentro e non avermi detto niente di questa faccenda della psicologa anche se ci vediamo tutti i giorni dalle alle, escluso il, compreso l’eccetera? Ho da riflettere.

Bibi, invece, non si tiene.

«Con gli stessi soldi, ti conveniva iscriverti a una palestra».

«Ecco. Vedi? Avete sempre qualcosa da dire».

In effetti. Seguono venti minuti in cui cerchiamo di convincere Sofia a sbarazzarsi della psicologa. Così, per esercizio dialettico. In fondo, che ci importa? Se a lei fa piacere, perché accanirsi? Eppure, la cosa non ci va proprio giù. Continuiamo a bere limoncello, e affiorano altri segretucci.

«Sapete... sabato ho rivisto Andrea» butta lì Irene, leggermente offuscata.

Altro choc collettivo.

«Ma chi? Il tuo antico amore?»

«Già, lui. È tornato dall’Ungheria».

«Come mai? A Budapest non c’erano più gatti malati?»

«Si è separato».

Uau. Andrea Maffei, l’unico uomo che Irene abbia mai amato di vera passione umana, acquisendo, per un breve periodo della sua vita, la terza dimensione. Andrea, seducente veterinario che l’ha lasciata per sposare un ingegnere ungherese. Femmina. Un ingegnere femmina ungherese. Attirato dalle orde di animalini con salute cagionevole presenti a Budapest, si era trasferito lì, evitando così di restare in giro a spezzare il cuore di Irene. La nostra città è piccola, anche se non sembra.

«E?»

«E? cosa?»

«E. Hai rivisto Andrea e...»

«Niente. L’ho incontrato da Dezzuto. Sono andata a prendere un aperitivo con la mia avvocatessa ed entra lui, con una specie di top model... sempre il solito stronzo. Ci siamo salutati, sai, con tutto quel vomitevole entusiasmo degli ex, e mi ha detto che si è separato ed è tornato qui. Niente figli».

«Probabilmente lei era un operato e lui se n’è accorto troppo tardi».

«Credo anch’io. Ecco. Ciao ciao, sono tornata al mio Campari».

«Ah. Ed è scattata l’antica fiamma?»

«No. Però sono svenuta».

ORE 1.35. CASA MIA

C’è un momento in cui ti accorgi di non essere più una ragazza. La mezza età, di lontano, comincia a sbracciarsi: «Eccomi! Arrivo!» È quando, dopo una cena o una serata con gli amici a casa tua, riordini prima di andare a letto. La ragazza si lascia beatamente alle spalle castelli rococò di piatti e pentolini ammontellati, distese infinite di bucce d’arancia e gusci di noce. La zitellina, invece, pensa: no, domattina non voglio svegliarmi in mezzo a questo caos, e riordina almeno il più grosso.

E infatti eccomi qui, che accatasto stoviglie nel lavandino, quando sento l’esplosione del citofono.

A QUEST’ORA! E CHI È?

Questi citofoni che trapassano il cuore della notte sono una delle peggiori iatture per le amanti. Le visite che ti sconvolgono i ritmi naturali della vita. E per me, lasciata proprio a me stessa pura e semplice, il ritmo naturale è dormire alle dieci e un quarto di sera.

A QUEST’ORA!

CHI È?

«Sono io. Apri».

Piuttosto che aprire, mi taglierei le mani, così, flop flop, tutte e due per terra. E invece apro. Perché è Alex. Un pochino ubriaco.

Entra, e come sempre mi toglie il fiato. Quando l’ho conosciuto aveva ventisette anni, e a incontrarlo per strada ti mandava a sbattere contro i pali. Adesso ha quarantatré anni, e la sua smodata bellezza comincia a farti male al cuore, tanto si è affinata per adattarsi al passare del tempo. Uomo bellissimo, ti amo. Ma perché puzzi?

«Contenta? Sono venuto lo stesso...»

«Da dove?»

«Lexostar».

Il Lexostar è il locale giusto da un paio di mesi. Io ci sono stata una volta, durante uno dei miei tentativi di fidanzarmi con altri uomini. Alex ci va quasi tutte le sere. Che lavoro fa, per poter reggere questi orari? Semplice. Il critico cinematografico.

«E come mai? Non avevi solo dieci minuti?»

«Oh Cristo, se sapevo che passavo al commissariato, lasciavo perdere. Dammi qualcosa da bere e un po’ d’amore, dai... niente domande».

Niente domande. Niente da bere. Niente amore. Ci scambiamo soltanto un tentativo di sesso, nemmeno del tutto riuscito. Ma Alex domani non se ne ricorderà.

ORE 10.00. CARTA E CUCI

C’è movimento, stamattina. Entrano frotte di signore e signorine che vogliono ricamare, vogliono decoupare, stencillare, foderare i cassetti, bordare l’abat-jour. La creatività femminile fa la voce grossa. Fantastico. Purtroppo, le mie socie Carolina e Sofia oggi non sono presenti a se stesse. Sofia insiste con il suo look da donna delle pulizie, e risponde a monosillabi ingrugniti alle clienti.

Le clienti, da parte loro, non aiutano.

«Senta, ce le ha quelle letterine della DMC

«Quali letterine?»

«Quelle della DMC, da ricamare. Sa quelle iniziali col kit, era tutto in un pacchettino, la stoffa, i fili, la lettera... dei pacchettini rettangolari grossi più o meno così. Erano così carine... ne ho comprate due nell’87».

«Noi abbiamo aperto nel ’93».

«Infatti non le ho comprate qui. Se le ricorda? Erano disegnate da quell’inglese... Mary Poppins...»

«Sicura?»

«Un nome così. Vorrei una A, se ce l’ha».

Sarà mica la fidanzata di Amedeo, penso in un soprassalto di sospetto. Nessuno di noi l’ha mai vista, la buongustaia che ha avuto il fegato di rimorchiarsi Amedeo ma non quello di sbarazzare Sofia anche dell’autopista. L’unica informazione precisa che abbiamo sul suo conto è che è PURA, perché Amedeo ne ha informato il circondario con lunghe e appassionate perorazioni. Sarà lei, questa biondina gnecca che vuole la A disegnata da Mary Poppins? Avrà escogitato questa sottile forma di tormento per la moglie del suo fidanzato?

«Carolina... di’ un po’... quella sarà mica la fidanzata di Amedeo?»

«Non credo. È la moglie dell’avvocato Zancan».

«Sicura?»

«Come no. Viene alla mia palestra, e sbraita sempre: ‘Sono la moglie dell’avvocato Zancan, sono la moglie dell’avvocato Zancan!’»

«E allora, se non è la fidanzata di Amedeo, perché rompe così?»

«Perché questo è un negozio per donne portate a rompere, ecco perché».

Non è da Carolina, tanta amarezza. Di solito è entusiasta di Carta e Cuci, e sprizza orgoglio proprietarico a man bassa.

In più, è tutta la mattina che, contrariamente al normale, è di poche parole. Anche adesso, invece di sommergermi con succosi aneddoti sulla signora Zancan, ammutolisce e va a riordinare una fila di agendine. La gestione di Carta e Cuci prevede che Sofia si occupi del reparto Lavori femminili, io della cartoleria, e Carolina di conti, ordini, fatture, cassa, bolle, ricevute, eccetera. Sembrerebbe che a lei tocchi la parte peggiore, ma non è così. Carolina è un grande matematico napoletano come quello là che è morto nel film di Martone, coso, Caccioppoli, e sbroglia la parte commerciale con la grazia della Fracci che fa un plié. Tanto poco, ci mette, che le avanza anche il tempo di aiutare noi due, sempre chiacchierando con una remota traccia di profumo nell’accento. I suoi si sono trasferiti qui da Napoli quando lei aveva tre anni, e a casa sua vanno ancora fortissimo il gattò di patate e i friarielli.

Oggi, però, Carolina è strana.

«Uei. Che ti succede?»

«Perché?»

«Non sei normale. Sei silenziosa e introversa».

«Una mica può sempre fare casino».

«Lo vedi? Non sei normale. Forza, su, che ti succede?»

Ma entra una ex amante di Alex, e Carolina è salva. Nel senso che deve servirla lei per forza. Io non servo mai le ex amanti di Alex. Lo farei senza charme. Le taglierei con le forbici, le macchierei con gli inchiostri, le assorbirei con le carte assorbenti... Così evito. E sono tante, eh? In questi sedici anni, non è che siamo stati lì con le mani in mano. Ci siamo guardati parecchio in giro. Lui, sempre, da sempre. Credo che giusto i primi sei mesi fosse così imbambolito da non guardare le altre. Poi ha ricominciato a cedere. Sì, perché lui non cerca, lui accetta. E neanche sempre. Diciamo che su dieci che gli muoiono dietro, ne tira su quattro. Storielle veloci, tranne un paio di casi in cui ho rischiato di essere spodestata. E una è proprio questa che è entrata adesso. Una ragazza brutta e goffa con gli occhiali. Pensa un po’.

Io invece per i primi quattro anni non ho visto che lui. O meglio, vedevo lui e quelle con cui mi tradiva, ma non potevo farci niente, perché ho una specie di coazione spontanea alla fedeltà, e per superarla ci ho messo un po’. Quando finalmente ce l’ho fatta, e ho cominciato anch’io a lasciarmi sedurre, ho sempre scelto solo uomini altrettanto sposati, per non avere casini. Con uno libero, c’era il rischio che volesse fare sul serio, e io magari avrei potuto finire col dirgli di sì. Un pomeriggio d’inverno, sogni di fare la spesa al supermercato per una vera famiglia, ed è la fine. Ti ritrovi sposata. E AVREI PERSO ALEX!

«Costanza... la signora vuole una rubrica da tavolo in carta di Varese. Ne abbiamo?»

La signora? Quale signora? Io vedo solo una serpentessa che nove anni fa per un pelo si sposava lei il mio amore, sì, perché ci è mancato veramente un niente che per lei lui lasciasse moglie e gli allora solo due figli. Se la bambina per fortuna non si fosse mezza fulminata infilando due dita nella presa della corrente, non so come sarebbe andata a finire.

«No. Non ne abbiamo. La carta di Varese è roba dozzinale».

Esco a prendermi un caffè.

ORE 13.30. BIRILLI

Ma nell’intervallo del pranzo, finalmente, becco Carolina. Sofia è andata a fare il Muppet Show dalla psicologa, e noi due ci mangiamo un panino nel dehors di Birilli. Siamo in aprile inoltrato, vola il polline, la bresaola è deliziosa e io non sono più a dieta.

«Allora, vuoi dirmi o no che cosa ti succede?»

«Niente».

«Non è che stai male o cose del genere? Medici, analisi, che ne so? Non mi fare angosciare».

«Sto benissimo».

«Sei incinta?»

«E di chi?»

«Che ne so... di quel violoncellista brasiliano...»

Carolina non è e non è mai stata sposata, e come me non ha figli, ma qui finiscono i punti di contatto. Io non sono sposata perché sto aspettando di sposare Alex. Appena lui sarà disponibile, filo ad acquistare il più bianco degli abiti con crinolina. Carolina, invece, non è sposata perché sposarsi non le piace, vivere con gli uomini non le piace, allevare bambini non le piace. Le piace fidanzarsi ardentemente per brevi periodi, guardare i suoi gatti, mandare avanti Carta e Cuci e cedere a violente passioni per attività manuali e pratiche. Ultimamente, decora mobiletti. In quanto al violoncellista brasiliano, è andata a un suo concerto e per due giorni non abbiamo più saputo niente di lei.

«Antonio... ma va’... quello è sposato, tiene tre figli. Ti pare che mi combinavo un guaio del genere? È ripartito senza lasciare strascichi, stai tranquilla».

«E allora? Sei strana, sei strana, inutile negarlo, c’hai qualcosa. Giochi? Hai perso tutto alla roulette?»

«Madonna, Costanza, che sfinimento! Se ti dico niente, è niente».

« I tuoi? Stanno bene? Tua madre? Tua sorella! È successo qualcosa a...»

«E smettila, che porti male... guarda, piuttosto che pensi queste iatture, te lo dico. Sono scocciata».

«Eh? Scocciata come?

«Scocciata di tutto. Che vita faccio, Costanza? Il negozio, i gatti... ho quarantun anni... tra un po’ sarò vecchia, e finirò all’ospizio».

«Sei scema? Cosa ti prende? Sei sempre stata felicissima della tua vita. All’ospizio non eravamo d’accordo di andarci insieme?»

«Boh. Non so se voglio andare all’ospizio con te. Ho perso l’élan vital».

Caspita. L’élan vital. Non avevo mai sentito Carolina lanciarsi col francese.

«Guarda che mi preoccupi, sai? Forse devi piantarla con la decorazione dei mobili. Passa al patchwork. Fai una bella coperta».

«Ma che patchwork... ma che coperta... te lo dico io che cosa vorrei fare: un figlio».

Oh signore no. Perdo anche lei. L’unica altra donna priva di senso materno che io conosca. O almeno l’unica altra disposta ad ammettere pubblicamente che i bambini sono carini se stanno a casa loro e i neonati sbavano e puzzano.

«Carolina! Non dire così. Mi ferisci».

«Eppure. Vorrei un figlio, sì. Un bel bimbetto con i ricci tutti neri».

Ed è a questo punto che intuisco la verità: Carolina dev’essersi finalmente innamorata sul serio. Altrimenti, perché una donna bionda con gli occhi azzurri dovrebbe sognare un bel bimbetto con i ricci tutti neri?

«Va be’, ho capito. Dimmi un po’, chi è lui?»

Lei mi guarda pensierosa. Poi prende la sua decisione.

«Ti ho già parlato di Lorenzo?»

ORE 18.30. CARTA E CUCI

Dunque, pare che Lorenzo sia già venuto qui al negozio, e io non l’ho notato. Questo non promette niente di buono. Di solito i clienti maschi li notiamo. Sono pochi, e ancor meno quelli che vengono da soli, perciò vuol dire che questo Lorenzo ha il fascino magnetico di un portaombrelli. È un cuoco, anzi, precisiamo, uno chef. Per anni ha esercitato la sua arte in un rinomato ristorante italiano a Londra, e adesso è arrivato il momento di tornarsene a casa e aprirsi il suo locale in uno dei cortili frondosi nascosti nel centro della nostra città. Carolina l’ha conosciuto la settimana scorsa a una festa della sua amica Olivia.

«Come l’ho visto, mi sono sentita addosso quindici anni».

«Che schifo di sensazione. E lui?»

«E lui mi ha guardata, e poi abbiamo cominciato a parlare, e nient’altro».

«E poi? Quando vi siete rivisti?»

«È venuto in negozio mercoledì. Voleva vedere delle cartelline».

«Ma io dov’ero?»

«Eri lì, però stavi servendo la contessa Clarandi e non ci hai badato».

«Peccato. E com’è? È sposato?»

«Macché. Mai stato».

«Anni?»

«Una quarantina. Mica gli ho chiesto gli anni».

«Eh, però gli hai chiesto se era sposato».

«Figurati! Me l’ha detto Olivia. Dice che è stato per anni e anni l’amante di una inglese sposata. Una lady qualcosa, cliente del ristorante».

«Ah... ti sei precipitata a chiedere informazioni a Olivia... bella furbata».

«No... l’ho fatto astutamente... con noncuranza...»

«Sì... me lo immagino».

«Comunque, non ci voglio pensare più. Solo che prima mi ha telefonato. Dice che verso le sei e mezza passa in negozio a vedere delle cartelline».

«Ancora? E che ci mette?»

«I menu».

E così, eccomi qui, vigile come Mamma Volpe, in attesa di veder comparire da quella porta un uomo elegante, non eccessivamente alto, piuttosto esile e con gli occhi scurissimi.

DIN DON, la porta.

Alzo gli occhi, e vedo comparire un uomo elegante, molto alto, biondo e con gli occhi verdi. Alex.

Alex?

«Ciao. Senti, ti devo parlare con molta urgenza. Potresti uscire prima?»

È fatta. Ci siamo. Chissà perché, proprio oggi mercoledì 21 aprile Alex ha deciso di lasciare sua moglie e venire a vivere con me. Mi spiace per Lorenzo, ma devo andare.

«Ragazze. Emergenza. Esco prima».

Sofia mi fa gli occhi. Carolina annuisce comprensiva. A Carolina Alex piace. Dice che si vede che mi vuole bene sul serio, sennò in tutti questi anni mi avrebbe mollata. Dice che secondo lei sua moglie non la lascia, ma che se resta vedovo mi sposa di sicuro.

Esco, e siamo già in fondo alla piazza quando mi volto a guardare il negozio e vedo un essere scuro e svelto infilare la porta. Lorenzo?

Passeggiamo lungo il fiume. Niente bar, ha detto Alex. Guai se ci vedono insieme. Oh no... allora non vuole chiedermi in moglie...

«È successa una cosa parecchio spiacevole. Gloria ha trovato i boxer».

«Quelli ricamati?»

«Sì. Li avevo nascosti nella sacca da golf, sotto le mazze, in una specie di taschina... lei dice che voleva pulire la sacca... di solito non la tocca mai... lo sa che non sopporto che si pasticci con la mia roba del golf...»

Che farsa. In questi sedici anni, Gloria ha trovato un mio rossetto nel suo bagno, tre lettere d’amore, sempre mie, in un dizionario di cinese, un paio di slip (di un’altra) nel cesto della sua biancheria, un assortimento di foto, mie e altrui, nascoste nei posti più disparati, e poi bigliettini, regaletti, medagliette, fiori secchi, cuoricini, messaggi sotto il tergicristallo, messaggi in segreteria, tracce di rossetto, lunghi capelli di ogni possibile colore, un reggiseno, una scarpa rossa col tacco a stiletto, baci impressi col rossetto, e ognuna di queste decine di volte Alex ha spiegato, giurato, promesso e pianto, e Gloria ha urlato, pianto, sofferto e perdonato. Che ci sarà mai, di tanto sconvolgente, nei boxer ricamati? Li ho fatti io per Alex due mesi fa, sono dei normalissimi boxer di cotone bianco con una splendida A in tutti i toni del blu ricamata sulla patta. Un bel lavoro, fine.

«E allora? Che le hai detto?»

«Credevo di essermela cavata. Le ho detto che me li ha fatti un’allieva che si è innamorata, poverina, e che io non volevo ferirla perché è anoressica, così li ho presi e li ho cacciati nella sacca da golf e non ci ho pensato più».

Mi batte il cuore d’amore. Che uomo. Aver improvvisato così, in quel momento difficile, il particolare dell’anoressia... sì, Alex, tu sei il mio Visconte di Valmont, e un giorno ti avrò tutto per me. In quanto alla faccenda dell’allieva, Alex tiene un corso di Sguardo e Scrittura Critica alla famosa Scuola Holden.

«Splendido. E lei?»

«E lei questa volta non c’è stata, Costanza. Ha detto che non è più in grado di sopportare. Che non ce la fa più proprio fisicamente. Che non se ne va subito solo perché Morgana è troppo piccola, ma se non cambio completamente stile di vita lo farà. Prenderà i bambini e tornerà da suo padre. Parlava sul serio. Non mi aveva mai detto una cosa del genere».

«E che stile di vita dovresti assumere?»

«Uno in cui tu non sia compresa».

«Io? E che c’entro io? Di me non sa nulla».

Incredibile, ma è così. Ha scoperto di tutto in questi anni, povera Gloria, ma non che la vera, autentica, assoluta innamorata di suo marito sono io. Crede che io sia stata una fuggevole avventuretta dimenticata. E mi conosce. Viene in negozio. Ha simpatia per me. Non dico che siamo amiche, ma basterebbe un niente. Io, la odio.

«Di te non sa nulla, ma se non ci fossi tu, non avrebbe mai trovato quelle dannate mutande ricamate. Le altre sono sempre state solo un fatto di curiosità... un gioco...»

Bugiardo. Che il cielo ti strafulmini. Ma non adesso.

«...tu sei l’unica che veramente conta per me. Se smetto di vedere te, posso diventare un marito migliore. Al massimo, qualche scopatina così, stupida, senza peso... niente che debba farla soffrire».

«Ah, certo. Un matrimonio perfetto».

«L’unico matrimonio che posso tollerare. O così, o niente. E lei lo sa. Può sopportarlo. Ma tu, basta. Basta per me, Costanza. Basta con qualcosa che conta così tanto. D’ora in poi, voglio che l’unico sentimento veramente importante nella mia vita sia l’amore per i figli».

Ah già, i figli. Sono fidanzata con un uomo che ha chiamato i suoi figli Tancredi, Isotta e Morgana.

ORE 20.00. CASA MIA

È finita qui. Nel mio letto, abbracciati, stretti, fusi e confusi. È venuto al negozio per lasciarmi, ed eccolo qui che mi guarda incantato. È valsa veramente la pena di fare un’orribile dieta per un mese e tornare al mio peso forma. Sono di nuovo snella, sinuosa e coperta di poco pizzo bianco. È stato così facile. Quando mi ha detto, con gli occhi lucidi di opportuna commozione, che questa volta era proprio la fine e non voleva vedermi più, gli ho risposto che aveva perfettamente ragione e mi sono seduta sul muretto di fronte a lui. Per grazia divina e di tutti i santi, oggi avevo una gonnellina blu a pieghe e le autoreggenti a rete bianche. È stato veramente molto facile. Un quarto d’ora dopo, eravamo qui e mi stava spogliando.

«Allora, mi lasci sì o no?»

«Non lo so. Vedremo».

È la settima volta che ci prova. Non ci riuscirà mai.

Quando se ne va, sono veramente beata e felice. Ho avuto Alex, l’ho vinto ancora una volta, e stasera potrò godermi in santa pace la mia casa, una videocassetta, una pizza surgelata, il profumo del gelsomino sul mio terrazzo. Sto infilando nel videoregistratore Il Fantasma e la signora Muir di Mankiewicz quando suona il telefono.

«Ciao, sono Irene».

Eccola qui. È dalla sera della Cena che non la sento e non la vedo.

«Ho bisogno di un superfavore e ne ho bisogno immediatamente. Puoi venire qui? Devo uscire, e mia madre stasera ha pensato bene di andare a vedere non so quale cazzata a teatro».

E voilà l’atteggiamento di Irene nei confronti, A) di sua madre, B) delle arti in genere.

«Come sarebbe, devo uscire? Per andare dove?»

«Mi ha telefonato Andrea. Senti, sono nelle pestissime. Dimmi sì o no, che se non puoi tu chiamo Sofia».

«Arrivo».

Prendo la videocassetta e la pizza, e mi sposto di mezzo isolato. Irene e la zia Margherita abitano nel mio stesso quartiere, in una bella palazzina col giardino. Occupano i due appartamenti al secondo piano, e quando suono, a quello di destra, Irene mi apre in reggiseno e mutandine, con un asciugamano intorno alla testa.

«Non ce la farò mai a essere pronta per le nove e mezza... mi passa a prendere».

«Scusa un po’, ma quando ti ha telefonato?»

«Alle otto».

«Per uscire stasera? Ti chiama alle otto per uscire stasera e tu gli dici di sì?»

«Probabilmente gli è andata buca con qualche strafiga, e piuttosto che passarsi la serata da solo si è ricordato di me».

«Sicuro che avresti ricominciato a scodinzolare esattamente come quindici anni fa».

«Infatti. E ci ha preso. Ricomincio a scodinzolare. Dopo dieci anni di matrimonio con Marco, scodinzolerei per chiunque, figurati lui».

«Dove andate?»

«A letto, spero».

«Allora via quei collant».

Li ho visti pronti accanto a un sofisticato vestito color prugna. Irene si sta asciugando i capelli.

«Lo so, lo so, ma non ho altro. Le ultime autoreggenti le ho comprate nell’87, prima di sposarmi».

«Lo immaginavo».

E dal mio sacchetto, oltre alla videocassetta e alla pizza, tiro fuori un paio di velatissime autoreggenti nere col bordo di pizzo, pagate carissime e mai messe, perché ad Alex piace il bianco. Virginale. Come s’è appena visto.

«Sei un genio!»

«A questo servono le cugine. Dammi istruzioni, va’... se si sveglia Oliviero?»

«Non si sveglia mai. Se proprio si sveglia, digli che sono andata a trovare una mia amica che non stava tanto bene, e chiamami sul cellulare che torno».

«E se sei nel bel mezzo di?»

«Tu chiamami».

«Okay. Altro?»

«Se mai dovesse chiamare Marco, non dirgli per nulla al mondo che sono fuori con Andrea. Digli che sono fuori e basta. Non sai altro. Con amici. Chi? Non lo sai. Quando torno? Boh».

«Perché, che ti fa se esci con Andrea?»

«Finché non abbiamo firmato davanti al giudice, nella mia vita non ci sono uomini. Sono pura come un angioletto».

«Come Annamaria».

«Annamaria?»

«La fidanzata di Amedeo. Sai che lui c’ha questa fissa che è pura...

«Sono pura come due Annamarie.

Ed ecco l’attesa citofonata. Osservate, vi prego, come Irene si precipita a rispondere, e come invece è miracolosamente freddo e distaccato il suo «Sceeendo». Un’artista. Ciao ciao.

Resto sola. Mi aggiro per casa sua. Mi viene la tentazione di riordinare ma mi trattengo: sempre più zitella, eh... Infilo Il fantasma e la signora Muir nel videoregistratore di Irene. Drin. Telefono. Ecco Marco. Già mi preparo una ingannevole cordialità.

«Pronto?»

«Irene?»

Non è Marco.

«No. Irene non è in casa. Chi parla?»

«Buonasera, sono Giacomo Colongo di Bernengo. Chi parla, per cortesia?»

«Sono Costanza, la cugina di Irene».

«Buonasera. A che ora rientra, Irene?»

«Non saprei».

Bella fredda. Chi sei, Colongo di Bernengo, e perché fai tutte queste domande?

«Può riferirle che ho chiamato?»

«Assolutamente sì».

«Grazie. Buonasera».

«Di nulla. Buonasera».

Colongo di Bernengo? Perché questo nome non mi è nuovo? Perché mi fa venire in mente dei grossi leoni di pietra? Mi rimetto a guardare il mio film, ripromettendomi un bell’interrogatorio a Miss Segreti, quando torna a casa.

Il che avviene decisamente troppo presto. Sento la chiave girare nella toppa a mezzanotte spaccata.

«Cenerentola? Sei tu?»

«Spiritosa. Che serata di merda».

«Ah sì? Niente letto?»

«Neanche di striscio. Mi ha portata al Campo dei Miracoli, un postaccio per ragazzini, e ci abbiamo incontrato Marco».

«Misery. Marco? Al Campo?»

«Con una che avrà avuto diciassette anni. Un gelo che non ti dico. Non so se ero più imbarazzata io o lui».

«Spero lui. Tu eri fuori con un distinto veterinario della tua età».

«Mi ha parlato tutta la sera di Ilonka».

«Uau».

Ma, a quanto pare, abbiamo un raggio di speranza. Salutandola, l’ha baciata un po’, e ha trovato modo di scoprire l’esistenza delle autoreggenti. Almeno non sono andate sprecate.

«E chi sarebbe, cara la mia acqua cheta, un certo Giacomo Colongo di Bernengo che a momenti sveniva quando gli ho detto che non c’eri?»

«Ah, Giacomino... ma non te lo ricordi? A Quaregna...»

A Quaregna. Dove andavamo in campagna da piccole, a casa dei nonni. La signora Colongo, ma certo... un’amica della nonna, che passava l’estate in una villa vicina. Una villa con grandi leoni di pietra al cancello. Molti nipoti anche lei, tra cui un bambino grasso. Giacomo.

«Ma dai... mica mi ha riconosciuta, quando gli ho detto ‘sono Costanza’».

«Scherzi. Avrà al massimo otto byte di memoria. È stupido da non potercisi raccapezzare. Però fisicamente si è molto ben sistemato».

«E ti sta dietro?»

«Un po’. Finora ci siamo visti solo la domenica mattina, con le mamme, in pasticceria. Però... boh».

Sì, io la conosco Irene. Quella se si riprende l’Andreite è persa. Bisogna fare qualcosa.

ORE 21.30. VELODROMO

È strano, è abbastanza strano ritrovarsi in fuseaux e maglietta a ballare I Will Survive di Gloria Gaynor in un velodromo, insieme ad altre quarantanove persone. Strano, ma evidentemente non impossibile. Accanto a me, Carolina agita la sua figuretta lievemente sovrappeso, mentre Bibi ha trovato trionfalmente posto in prima fila, ma lei è quasi una professionista. Sofia è presente, ma non balla. Chi è presente, balla, e per la precisione è la causa di tutto questo è Rebecca. La nostra amata bassista delle 150 Ore nelle ultime due settimane ha svoltato la vita. Niente più Peter, il newyorchese, e niente più musica. Infatti si è ‘atrocemente’ (parola sua) innamorata di un giovane attore, e lo ha seguito a scuola di recitazione. Come conseguenza, apre e chiude le vocali che è una bellezza, e ci ha reclutate per questo balletto. Lui si chiama Tommaso, ha ventiquattro anni, studia legge per compiacere un padre severo, e si adopera alacremente per entrare nel mondo del teatro. Rebecca dice che è bravissimo: lei finora gli ha visto fare solo lo Steccato in una versione animista di Pierino e il lupo, ma pare che non esistano piccole parti, soltanto piccoli attori, e Tommaso piccolo non è. In effetti è un bel ragazzone, genere Kurt Russel, e sta sbracciandosi poco più in là. Perché? Perché stiamo ballando I Will Survive tutti insieme? Perché Ugo Torment, uno degli insegnanti di Tommaso, ha intenzione di girare un video intitolato Cinquanta in un velodromo: a study. E siccome gli allievi della scuola di recitazione sono solo ventitré, bisognava trovare volontari. Ed eccoci qui, reclutate da Rebecca insieme a una decina di amici. Sofia rifiuta di ballare, ma dà una mano con i costumi. Già, perché adesso stiamo solo provando, quando gireremo avremo dei costumi. Pare composti da piume.

Pausa. Meno male. Stavo per schiantarmi in terra. Era un vero e autentico casino di tempo che non ballavo più. Mentre mi piego ansimante sul mio thermos di tè freddo, arriva Bibi, ancora a passo di danza. Lei sì che è in forma, evidentemente tutta questa ginnastica interiore che fa ha qualche effetto anche sull’esterno. L’hanno messa in prima fila, e il pubblico occasionale che si assiepa ai cancelli del velodromo la acclama... in effetti, tra noi cugine è la meglio dotata di tette e culi. Bibi apre lo zainetto e ne estrae un coltellino multilame, un’arancia, una minibottiglietta di vodka e due bicchieri di carta.

«Un Fuzzy Navel senza pesca?» mi chiede.

«No no. Casomai assaggio il tuo».

Taglia in due l’arancia, la spreme nel bicchiere di carta. Ci rovescia sopra la vodka. Tappa il bicchierino con la mano, lo sbatacchia un po’ e me lo porge. Bevo un sorso.

«Forte».

«Non ho ghiaccio» si acciglia. E lo butta giù d’un fiato. Bibi è convinta che soltanto il cibo faccia ingrassare. Così vive di mele e insalata ma sa preparare a memoria tutti i cocktails dell’omonima enciclopedia che le ho regalato tre Natali fa.

Pausa.

«Che palle questo balletto» riprende.

«Tu te la cavi benissimo» la lusingo.

«Per forza. Queste ragazzette non sanno muoversi. E voi...» strascica la frase con compatimento.

«Poco fiato, eh?»

«Poco fiato e troppa ciccia».

«Ehi, ciccia a chi?»

Non ho rinunciato ai dolci per un mese perché poi venisse qui Bibi a dirmi ‘ciccia’.

«La tua socia... Carolina. Straripa. Vederla ballare è come assistere a un terremoto in casa Budini».

«Carolina sta bene così. Magra non sarebbe più lei».

«Vero. Sarebbe una bella donna».

«E piantala... almeno lei non è nevrotica».

Amichevole menzogna. Carolina non era nevrotica. Da quando è iniziata questa estenuante trattativa con Lorenzo, che per ora ha fruttato soltanto un pranzo, lo sta diventando.

Aiuto. Arriva Ugo Torment con Sofia alle calcagna. E mi guardano, tutti e due, decisamente male.

«Lei... non va a tempo».

«Lo so. Non sono proprio capace. Che dice? Mi tolgo dal balletto?»

«Neanche per idea. Dovete essere in cinquanta. Stia più attenta. E si metta dietro... dietro...»

Ugo Torment fa un gesto con le mani che mi sospinge indietrissimo, in una zona di balletto dove possibilmente lui non mi veda.

«Ultima fila?» propongo affabile.

«Ultima fila andrà benissimo».

Quant’è trucido, questo Ugo Torment. Piccolino e protervo, se ne sta lì, in canottiera blu, con uno stuzzicadenti immaginario in bocca. Ha fatto lui la coreografia, balla con noi e al momento buono dirigerà le riprese, eppure l’unica attività per cui a prima vista mi sembrerebbe tagliato è quella del magnaccia.

Si allontana sempre seguito da Sofia, che evidentemente l’ha preso a benvolere.

Neanche mi immagino quanto.

ORE 2.00. CASA MIA

Quello che ho detto per il citofono, vale anche per il telefono: uno squillo in piena notte è causa di forti scosse emotive alla single fidanzata con un uomo sposato. Chissà perché, pensi sempre che sia lui, il tuo amato amore, che ha deciso, proprio a quell’ora, di trasferirsi da te e iniziare una nuova vita insieme. Da parte mia, questo è particolarmente stupido, visto che i miei genitori vivono in campagna: non sarebbe più sensato spaventarsi a morte temendo che uno dei due si sia sentito male? E invece niente, DRIIN alle due del mattino e in un paio di nanosecondi, mentre alzo la cornetta, ho già mentalmente riarredato la camera da letto per sistemarci Alex una volta per tutte.

«Ti ho svegliata?»

«Sofia?»

«Scusami, lo so che ti ho svegliata, ma avevo bisogno di parlarti».

«Figurati. Tu parla, che intanto io con calma finisco di capire chi sono».

«È che non so cosa fare con Ugo».

«Con chi?»

«Con Ugo. Ugo Torment».

«Ma chi? Quello del balletto?»

Sono andata un altro paio di volte alle prove e ormai il mio posto in ultima fila non me lo toglie più nessuno. La settimana prossima si gira il video, che verrà mandato, non so con quanto coraggio, al Festival Cinema Giovani - Sezione Corti.

«Lui. Ci siamo innamorati».

«Come sarebbe, vi siete innamorati. Di chi?»

«Eh... di chi... io di lui e lui, anche se mi pare impossibile, di me».

«Tu di lui? Tu di lui? Di lui quello lì? Tu di lui? Sei pazza? Tu di lui?»

Non posso andare avanti all’infinito. E Sofia lo sa.

«Costanza. Piantala. L’avevo già capito che a te non piace, ma per forza. Ormai sei rovinata da Alex, e se non sono fighetti intellettuali non vanno bene. Ugo è affascinante, sensibile, pieno di talento, e mi fa sentire giovane e bella. Che c’è di strano se mi piace da impazzire?»

«C’è di strano!»

Ma in realtà non so cosa dirle. Non è mai semplice spiegare a una donna che l’uomo da lei prescelto è un guitto di terz’ordine che nel mio immaginario fa uso continuo di stuzzicadenti. E meno che mai, non è semplice spiegarlo a una cugina di quarantatré anni che è stata da poco piantata dal marito e che fino a quindici giorni fa stravedeva per un baritono gay. Quindi vado cauta.

«Sì, certo, è piuttosto attraente, per carità... ma... solo che... non mi sembra il tuo genere, ecco».

«Allora vuol dire che finora ho decisamente sbagliato genere. Ugo è un uomo, Costanza. Hai presente?»

Diciamo che ho capito.

«Sesso a fiumi?»

«A fiumi... Insomma... è successo una volta sola, ma è stato fantastico. Comunque non è quello. È questo senso di rinascita che provo. La psicologa dice che ho rivestito di nuove pulsioni il mio cupio dissolvi».

«Il tuo?»

«Cupio dissolvi. Desiderio di dissolversi».

«Senti qua, hai mai notato, in giro per lo studio della tua psicologa, una laurea incorniciata?»

«Costanza, non rompere. La mia psicologa ha ragione. Mi sento un’altra... è come se i colori fossero...»

«Più colorati?»

«Eh. E sento anche i suoni diversamente. Adesso, poco fa, non riuscivo a dormire, e una macchina ha frenato bruscamente qui davanti. Mi è sembrato il canto di una sirena ferita».

«Va be’. Non importa. Se ti fa del bene, questo Torment, va bene anche per me. E lui ti ama, dici? Voglio dire, usi proprio il verbo ‘amare’, dopo così poco tempo?»

«Non lo uso io. Lo usa lui. Però c’è un problema. È sposato».

«Uau! Ce l’hai!»

«Cosa?»

«Ce l’hai! Come nel gioco... ce l’hai! Sei l’amante di un uomo sposato!»

«No... non è così. In realtà, sono separati di fatto da anni. Hanno due vite completamente autonome. Lei sta a Bergamo. Però lui formalmente non se ne va di casa perché lei è un’isterica pazza, è già stata pure ricoverata, e lui non si fida a lasciarle il figlio».

«Non ci posso credere. Ugo Rochester ti ha rifilato la solita vecchia storiella e tu te la sei bevuta! Ma dai, Sofi! Quanti anni ha, questo figlio?»

«Ventuno. Ma è un ragazzo molto sensibile, fragile. Ugo ha paura che se loro si separassero comincerebbe a drogarsi. È così. Ti giuro. Non è una storia. Perché devi distruggere tutto? Non sono tutti come Alex, gli uomini».

Per la seconda volta, lascio correre una deliberata provocazione.

«Okay, magari è vero. E comunque, che ci importa? Mica devi sposarlo. Per una storia così, che ti rassereni in questo periodo, va benissimo. Anzi, guarda, sono proprio contenta. È solo che sulle prime non mi sembrava il tuo tipo di...»

«Ma noi vogliamo costruirci un futuro insieme. Tu non hai capito, Costanza. Questo è l’amore della mia vita».

La telefonata va avanti ancora a lungo. Mentre Sofia vaneggia, guardo la camera intorno a me, e mi pare singolarmente confortevole. Le pareti di un rosa chiarissimo, la casa di Barbie in un angolo, il cielo stellato sulla parete di fronte, la pila di libri e l’abat-jour azzurrina sul cassettone che mi fa da comodino. Una camera in cui uomini come Ugo Torment non entreranno mai.

Convinco Sofia a prendersela leggermente più calma, a lasciare che sia il tempo a stabilire se questo è davvero l’amore della sua vita. Certo, dice Sofia, però di tempo ne hanno poco, perché Ugo vuole un figlio, e lei ha già quarantatré anni.

«Casomai ne chiedete uno a Veronica. Buonanotte, Sofi. Dormi, che se no domani sei uno straccio».

Ma sono io, quella che ci mette un po’ a riaddormentarsi. Ho un insettino che mi rosicchia dentro, e non capisco cos’è.

Così, il mattino dopo, io e Sofia siamo belle intronate, mentre Carolina sprizza energia, e sfoggia una mini a peonie che lascia senza fiato.

«Te l’ha regalata Lorenzo?» le sussurro mentre prendo un album da acquerello per una cliente.

«Ma dai... guarda che non è ancora successo niente. Cioè, quasi niente. Ieri, quando mi ha riaccompagnata a casa, mi ha baciata».

«Ti ha baciata? Vuoi scherzare? Com’è che la tirate così in lungo? È gay?»

«Smettila. Proprio perché mi piace davvero, non voglio farmi fretta. Quando succederà, dovrà essere perfetto».

Aiuto. Ormai Carolina parla come un Harmony. Mi aspetto che da un momento all’altro usi l’espressione ‘è quello giusto’, parlando di lui, e affermi di sentirsi ‘di nuovo vergine’ parlando di sé.

«Quindi? Continuerete a baciarvi in macchina?»

«Spero di sì. È bellissimo. I preliminari sono meravigliosi... non mi ricordavo neanche più di quanto fosse fantastico il pre-sesso».

Presesso, postsesso, io di quella roba lì non ne so più niente da anni. Con Alex, il sesso è un menhir nel deserto, una colonna dorica sopravvissuta al crollo del tempio. Non va bene. Mi riprometto di recuperare un po’ di tenerezza con Alex, e mentre me lo riprometto, mi si materializza di fronte Lorenzo, che sorride propiziatorio.

Ormai passa dal negozio quasi tutti i giorni, e così alla fine l’ho conosciuto. Non è male, per quelle a cui piacciono gli uomini leggermente evanescenti con lo sguardo magnetico. È gentile, riservato, e ha un odore delizioso. Gli ho chiesto che cosa usa, e lui, prima di nominarmi un profumo Floris, mi ha guardata come se avessi tentato un approccio. Esagerato.

«Sono un po’ in anticipo» dice. «Aiutami ad assumere l’andazzo del cliente finché Carolina non ha finito».

«È facile. Compra».

Sono acida, e anche un po’ ingiusta, perché Lorenzo ha depositato nelle nostre casse somme principesche. Compra kit da ricamo per sua madre, quaderni per sua sorella che scrive poesie, bamboline da ritagliare per le nipotine, nastri colorati per sé, perché gli piace appenderseli nel bagno, mi ha detto, non richiesto. Non è che Lorenzo non mi piaccia. È che mi piace un po’.

«Dai... vienimi incontro. Dai il resto della mattinata libera a Carolina».

«Non è una mia dipendente. Può andarsene quando le pare. Non lavori mai, tu?»

«Lavorerò. Lavorerò moltissimo, quando il mio ristorante sarà aperto. Ma stanno ancora piastrellando le cucine. Le ho fatte fare giallo limone. Che ne dici?»

«Banalmente gradevoli».

«E di che colore sarebbero gradevoli ma non banali?»

«La gradevolezza è di per sé banale».

«Allora tu sei pleonastica».

«Ti chiedo scusa. C’è una cliente».

Lorenzo passa a corteggiare Sofia, che lo tratta molto meglio di me. Da quando sono tutte e due innamorate, lei e Carolina tubano e gorgheggiano con perfetto sincronismo. Io le odio un po’. Che ci vuole, a essere felici, quando stai con uno non sposato, o sposato alla larga, come Ugo? Ci provino loro, a sorridere dopo sedici anni di visitine frettolose. Sofia neanche ci pensa, alla signora Rochester. Si libra nell’aria e serve a casaccio.

«Scusi, ce l’avrebbe della tela Aida arancione?»

«Sì... guardo...»

«Sa, è per fare un bavaglino a mio nipote, così non si notano le macchie di carote».

«Guardo... eccola... quanta ne vuole?»

«Ma quella non è arancione... è verde...»

«Eh? Ah... verde... sì, è verde... sì. La voleva arancione?»

«Sì, per fare un bavaglino che non si macchi di carote...»

«Ah... be’... questo non si macchia di spinaci...»

E così via. Secondo me, resterebbe immota e remota anche se entrassero Amedeo e la Pura abbracciati come un polipo e una piovra. Anche perché durante l’ultimo weekend è avvenuto un miracolo e l’autopista è scomparsa. Non certo grazie ad Amedeo: Rebecca l’ha caricata sul furgone di un amico e l’ha depositata all’Ospedale Infantile. La stimo. Anche se ha presentato Torment a sua madre.

ORE 13.00. PIAZZA CAVOUR

Il maglio della vita mi colpisce con la sua tipica precisione alle 12.50, mentre attraverso piazza Cavour diretta a casa di Veronica, che abita qui dietro, in via dei Mille. Ogni tanto vado a trovarla durante la pausa pranzo, così mi ripasso com’è essere madre e ci rimetto la pietra sopra. Già non sono di un umore solare: mi scoccia che Lorenzo mi piaccia un po’, e non voglio essere stufa di Alex. Proprio adesso che, lo sento, la vittoria mi alita sul collo.

Attraverso i giardini di piazza Cavour e cerco di immaginarlo tutto bello e seducente, con la camicia blu e lo sguardo radente... lo immagino con tanta intensità che mi pare di vederlo. Anzi, lo vedo. Lo sto vedendo. Non ha la camicia blu ma è Alex. È seduto su una panchina a mezza collinetta di distanza e sta mangiando un gelato insieme a una ragazza bruna. È indubbiamente lo stesso uomo che ieri sera al telefono mi ha detto: MI PIACEREBBE FARE COLAZIONE CON TE DOMANI, MA VIENE SU UN INVIATO DI REPUBBLICA E DEVO PORTARLO FUORI.

Sono sicura delle O. Diceva O; InviatO, PortarlO. Non InviatA, PortarlA. E poi, Repubblica una così non la invierebbe da nessuna parte. Anche da lontano, e per di più nascosta dietro un faggio, mi rendo conto che si tratta di una squinzia con gli stivali di pitone. Se lavora in un giornale, può essere solo L’eco della palestra. Ed ecco che almeno uno dei miei problemi è risolto. Lorenzo non mi piace più. È un esserino insignificante, basso e brunetto. Io amo appassionatamente questo dio biondo che tutte vogliono e nessuna avrà.

Con calma, con perfetta calma, passo davanti alla panchina. Non mi fermo a guardare se Alex si strozza col gelato. Mi basta sapere che mi ha vista, e che sa di essere stato visto. Il resto a più tardi.

Ma il maglio della vita non ha ancora finito. In fondo alla collinetta, una KA rossa parcheggiata in una zona d’ombra contiene Gloria, la moglie di Alex, sistemata in modo da poter tenere d’occhio la panchina su cui suo marito e Miss Pitone consumano il loro gelato. Gloria spia! Quasi quasi mi sciocca più lei di Alex. Allora è vero che ha deciso di passare all’azione. Non mi capacito. Dopo vent’anni di matrimonio e diciannove di corna, dopo essersi riparata dietro una cecità addirittura principesca, e dopo essersi fatta rifilare tre figli e un miliardo di bugie, Gloria spia, pedina e si apposta. Per un fuggevole attimo fuggente, mi fa un pochino di pena. Ma è un niente. Piuttosto, quali conseguenze avrà tutto questo sulla nostra vita? Se lei stringerà i cordoni della borsa coniugale, Alex smetterà davvero di vedermi? E per quanto? Più o meno di una settimana? E soprattutto, mi chiedo all’improvviso, per la prima volta in tutti questi anni, Alex mi tradirà anche quando saremo sposati? Toccherà a me, la vita di Gloria?

ORE 14.10. CASA DI VERONICA

«Naturalmente no» mi rassicura Veronica, impassibile. «Tradisce sua moglie perché lei non è perfetta. Non è moglie, sorella, amante, puttana e amica. Tu sarai tutte queste cose, e qualcun’altra in più, e dunque gli basterai. Le altre non le guarderà più».

«Mi prendi in giro?»

«Tu cosa pensi?»

«Penso che è esattamente così. Che non mi tradirà perché da me avrà tutto. Adesso non ha tutto. Cioè, non viviamo insieme. Non gli dà la sicurezza e la forza dell’amore quotidiano. Ama me, ma vive con lei. Logico che...»

«Se la spassi con una terza. Certo. È vero. Gli manca un punto di riferimento stabile, sicuro. Non potendo contare su se stesso...»

Veronica è così. Non attacca con violenza come fa Sofia. Mi prende in giro. L’ha sempre sempre fatto, fin da quando eravamo piccole. La strozzerei. «Ti odio. Non vuoi capire. Ce l’hai con me perché sono un’adultera. Vorresti vedermi andare in giro con la A come quella della Lettera scarlatta. Sappi che Alex si è sposato troppo giovane, e non è colpa sua. Gloria era incinta».

«Di chi?»

«Uffa».

Tregua. Ci facciamo il caffè. In casa c’è una tranquillità sovrannaturale. Eugenio non rientra mai a pranzo, e neanche Gabriele, Pietro e Betta, che fanno l’asilo e le elementari. Miranda, che fa la prima media, rientrerebbe, ma oggi pranza da una compagna.

«Vedrai, Vero. Alex si fiderà di me. Mi consegnerà se stesso. E io in cambio gli darò tutto quello che gli serve. Davvero».

«Ah ah».

Mi sistemo sul divano e mi guardo intorno. Una cosa che mi piace molto, in questa casa, è una parete del soggiorno tutta coperta di fotografie incorniciate a colori. Ci sono anch’io. Ci siamo noi cinque, fotografate a un matrimonio di famiglia, con le perle e i vestiti scemi. E c’è Giulietta, la migliore amica di Veronica da quando erano piccole, in almeno tre foto diverse. Mi trastullo pigramente con l’idea che Veronica possa essere lesbica. Ecco il suo segreto. Sforna figli per depistare sua madre, ma in realtà ha da sempre una torrida relazione con Giulietta. Anche Eugenio è gay, e si sono sposati per copertura. Hanno fatto l’amore in tutto quattro volte, una per figlio, e per riuscirci lui guardava una foto di Bruce Willis in canottiera e lei una di Madonna in guepière. Sto elaborando la visione, e deve essermi venuto in faccia un ghigno idiota, perché Veronica mi comunica:

«Stai pensando a qualche cretineria».

«Ma va’. Di’ un po’, come va con Eugenio?»

«Normale».

Sbeng. Cala la tela. Una specie di sipario che scende su Veronica appena noi cugine tentiamo di capire che razza di coppia sono quei due. Sì sì, dev’essere come dico io.

«E Giulietta? Come sta?»

Non saprò mai la risposta, perché si sente una scampanellata prepotente. Veronica va ad aprire. Sta via un bel po’, ma dall’anticamera non arriva il minimo rumore. È Giulietta... è venuta a trovarla per farsi la sveltina delle due e lei la manda via perché ci sono io... forse si stanno dando un bacio struggente e frettoloso nella frescura ombrosa dell’ingresso. Porta che si chiude. Veronica che rientra. Ha qualcosa in braccio. Sembrerebbe... una bambina di circa un anno e mezzo? E chi è? Non è delle nostre... è sporca, e ha il naso grosso. Piccolo, ma già grosso.

«E questa?» chiedo esterrefatta.

«Si chiama Sailor Maria» mi informa lei, compunta.

ORE 17.30. CARTA E CUCI

«Scusi, avete dei biglietti di auguri spiritosi per le seconde nozze?»

Dopo una pausa pranzo del genere, vi sembra giusto che mi tocchi anche una che cerca biglietti d’auguri spiritosi?

«Abbiamo dei biglietti molto spiritosi per le seconde nozze. Però non c’è scritto niente. Diciamo che lo spirito sta nella figura».

«Ah... tipo vignette...»

La baronessa Cicci Grillo è perplessa. Già si immagina un disegno in cui svettino poppe. Le leggo nel pensiero e la rassicuro.

«Sono riproduzioni d’arte. Dei biglietti austriaci... guardi... molto spiritosi».

«Trova? A me sembrano... angoscianti».

Altroché. Sono opere di Füssli, un pittore che amava ritrarre Medusa inferocita. Ne prendo uno in cui Medusa è viola e digrigna i denti.

«Guardi questo... per renderlo spiritoso, può aggiungere lei a penna il titolo: ‘La prima moglie’. Eh?»

Prima che la baronessa Grillo possa uscire indignata, interviene Carolina, a cui ho raccontato i miei incontri di piazza Cavour.

«Venga, baronessa... guardi, ho qui degli splendidi biglietti inglesi a festoni floreali...»

Adocchio un’altra cliente, che sta guardando dei quaderni. Ma per fortuna, squilla il telefono.

«Carta e Cuci, buongiorno».

«Costanza? Sono Bibi. Sai fare qualcosa con gli zucchini?»

«Bibi? Qualcosa come?»

«Da mangiare. Sai fare qualcosa di veloce con gli zucchini che si possa mangiare?»

«Sì. Hai della pasta sfoglia surgelata?»

«Mi prendi in giro?»

«Cos’hai, in casa?»

«Gli zucchini».

«E? Cos’altro?»

«Boh. Olio. Sale. Dello zucchero di canna. Un vecchio spicchio di aglio, molti limoni, del rhum, la crema caffè, vodka, credo ancora un po’ di...»

«Okay. Ho capito. Hai solo gli zucchini.Perciò non ti resta che tagliarli a pezzetti piccolissimi, farli soffriggere in aglio e olio, quando sono morbidi li disfi un po’ con la forchetta, e li usi per condire la pasta. Con tanto parmigiano».

«Chi ha parlato di pasta? O di parmigiano? Ho detto ‘zucchini’. E stop».

«E perché li vuoi cucinare? Perché non li lasci marcire in frigo? Anzi, perché li hai? Perché hai comprato degli zucchini?»

«Veramente me li ha regalati una della RAI che li coltiva nell’orto. Devo imparare a cucinare, Costy. Almeno un minimo per darla a bere un paio di settimane. Poi ti spiego.Cosa metto prima, nella padella? L’aglio o gli zucchini?»

Giura che quanto prima mi spiegherà tutto, e va a lottare con gli zucchini. Ma la giornata non è finita.

«Scusi? Posso chiedere a lei?»

«Prego».

«Avete dei segnaposto che vadano bene per un pranzo a cui intervengono due vescovi?»

La giornata non è, ripeto non è, finita.

ORE 21.00. SAN GENESIO

Se la zia Margherita è famosa per l’omonimo rotolo, mia madre eccelle nella torta di palmola. Ciascuna zia ha il suo dolce-bandiera, e mia mamma è una delle zie. Cioè, a me è mamma, ma fa parte delle sorelle Botto, Margherita, Carla, Susanna e lei, Enrica. Quindi è una zia a pieno titolo. L’unica di noi cugine che non è figlia di una zia è Veronica. Suo padre è il fratello Botto maschio. Si chiama Ernesto, e in questa storia non comparirà mai più.

Mi stacco un bel malloppone di torta di palmola e li guardo. È stata una tipica cena coi genitori, piacevole, a parte la solita domanda che aleggia nell’aria, ormai sempre più stancamente: QUAND’È CHE TI DECIDI A SPOSARTI E A DARCI UN NIPOTINO?

Notare che mio fratello Luigi di nipotini gliene ha dati cinque. Se c’è una cosa che ai miei non manca, sono i nipotini. Ne hanno spesso un paio per casa. Più spesso ancora, li hanno tutti. Luigi e Monica abitano al piano di sopra della villa, e i bambini tendono a colare giù. Quindi, non provo il minimo senso di colpa. Ma tant’è, la domanda aleggia. E decido di movimentare un po’ la serata.

«Ah, a proposito. Oggi, mentre ero da Veronica, le hanno portato una bambina».

«Un’altra?» chiede mamma.

«È stata la cicogna?» chiede papà.

«No. È stato un suo vicino di casa tossico. Abita su nelle soffitte con questa bambina di un anno e mezzo. Anche la madre è o era tossica. È sparita quando la bambina aveva sei mesi e lui ha deciso di andarla a cercare in Laos. Nel frattempo, ha ceduto la figlia a Veronica».

«Costanza, non dire stupidaggini».

«È la verità, cara mamma. Ha fatto le cose con stile: le ha portato tutto, la roba della bambina, documenti, certificati... a quest’ora lui sarà già in viaggio, e finché non torna, con o senza mamma, Sailor Maria è di Veronica».

«Maria cosa?»

«Sailor Maria. La tossica ha o aveva diciotto anni e va pazza per i cartoni di Sailor Moon. Lui ha pensato di affidarla a Veronica perché in questo anno lei l’ha aiutato molto, gli passava la roba dei suoi bambini, gli dava soldi, teneva la piccola un sacco di volte...»

«Ma siamo pazzi! Sarà sieropositiva!»

Mio padre è pediatra. In realtà è un po’ per questo che ne ho parlato. A un primo sguardo superficiale, mi è sembrato che se c’era una cosa di cui quel mucchietto di stracci aveva bisogno erano un bel paio d’ore in compagnia di un pediatra.

«No no. Per un qualche inspiegabile miracolo, i genitori non sono sieropositivi. Tutto a posto. Solo che la bambina non è proprio un fiore di salute. Non so cosa le dessero da mangiare, ma a giudicare dallo stato generale penso cibo per gatti».

«Che orrore! Veronica deve portarla immediatamente in un Istituto...»

«Ma figurati. Quando me ne sono andata, stava facendole il bagno, preparandole un biberon, misurandole una tutina, tagliandole la frangetta, cantandole una ninna nanna... tutto più o meno contemporaneamente».

«Non ci manca altro! Ne ha già quattro suoi, che a malapena riesce a stargli dietro! Ed Eugenio, cosa dice?»

«Non lo so. Era fuori».

«Ci penserà lui a farla ragionare».

Eugenio è la luce degli occhi di mamma. Quando immagina un genero, ammesso che si dia ancora la pena di farlo, lo immagina esattamente così: un cardiochirurgo bello come E.R., sfornatore di figli, e incapace di intrallazzi con le infermiere.

Discutiamo ancora un po’ del futuro di Sailor Maria, ma non così in lungo e in largo come si potrebbe credere. Mia madre non vede l’ora di buttarmi fuori per potersi attaccare al telefono con le sue sorelle e parlar male di Veronica. Diciamolo: il fallimento o la latitanza matrimoniale delle loro figlie scoccia parecchio le sorelle Botto, e ancora di più le scoccia che l’unica con una famiglia esemplare sia Veronica, CHE NON È LORO FIGLIA! Non si sono ancora spinte a creare un collegamento tra le due cose, ma quando lo faranno, spero che il mondo della psicanalisi si trovi pronto.

Papà, invece, è interessato ai cartoni di Sailor Moon. Vorrebbe saperne di più.

«Quando li danno?»

«Alle cinque, credo, durante Bim Bum Bam. Non lo guardate sempre, tu e i bambini, Bim Bum Bam

«Ultimamente, tua cognata ci ha tagliato le ore di televisione. Se vogliamo guardare Lupin e I Simpson alle due, dobbiamo andarci piano con Bim Bum Bam».

«Ribellatevi».

«Non importa. Tra un mese torna a lavorare. Com’è che si chiama, il fidanzato di Sailor?»

«Milord, mi pare. Fa le magie con una rosa».

È una bella conversazione, ma devo andare. Da San Genesio, dove abitano loro, a casa mia, ci sono ventitré chilometri. Li faccio tutti chiedendomi se troverò un messaggio di Alex in segreteria.

ORE 00.00. CASA MIA

La lucina rossa dice sette. Uau. Almeno quattro saranno suoi.

«Sono Veronica. Devo parlarti».

«Sono Rebecca, ciao, è urgente, richiamami appena puoi ma non quando c’è la mamma in casa guarda che è davvero urgente».

«Costanza sono Olga... facciamo colazione insieme martedì? Ci sentiamo, ciao».

«...e con sole settecentomila lire mensili potrete accedere a tutte le strutture del club...»

«Ciao. Volevo dirti che parto per una settimana. Mi mandano al Festival di San Sebastian. Ti chiamo».

«Costanza sono Nigel... spero di non aver fatto pasticci con il orario vostro... volevo parlarti di Maria Olimpia... ti chiamo ancora... ciao».

«Eh... scusi... sono Maria... volevo dire che domani non posso venire perché c’ho la bambina con la febbre».

So perfettamente chi è Olga: un’amica che non vedo mai, e con cui ci lasciamo dei messaggi in segreteria come ultimi baluardi di un antico affetto. Immagino di cosa voglia parlarmi Veronica. Prevedo guai dalla telefonata di Rebecca. Maledico brevemente la signora delle pulizie, soprattutto perché la bambina con la febbre si chiama Ilary, scritto così. Ignoro il Club Snellissima e rimando a più tardi una approfondita valutazione del messaggio di Alex. Per il momento, tutta la mia attenzione è rivolta a Nigel. Non ci ho messo niente a ricordarmi che Maria Olimpia è il nome cristiano di Bibi. Nigel è il suo ex marito, quello che vive a Vancouver con i bambini. Possibile che la sua telefonata abbia qualcosa a che fare con gli zucchini?

ORE 18.30. VELODROMO

«Tensione, torsione, espressione! Siate cellule di un corpo sconosciuto! Siate parti di un unico organismo che ha la testa in un’altra galassia!»

Ugo Torment dirige col megafono l’ultima prova del balletto. Seguirà cena a casa di Sofia. Ha preceduto un lungo venerdì schizzato e un mezzo sabato isterico, in cui non ho fatto altro che aspettare una telefonata di Alex dal Festival di San Sebastian. Sembra brutto, in una persona della mia età? Sembra anche orribile, se è per quello, ma tant’è, ho passato tutto il giorno chiusa in casa, maledicendo la mia decisione di non possedere un cellulare. L’idea è che, se sei l’amante di un uomo sposato, e in più hai un cellulare perché lui possa rintracciarti ovunque appena ha un minuto libero, sei veramente troppo squallida. Di conseguenza, quando aspetto una telefonata di Alex sto inchiodata a tre metri massimo dall’apparecchio, a gemere, mangiare porcherie, avere il vuoto allo stomaco. Mentre potrei aspettare la stessa telefonata passeggiando in centro o andando in bici lungo il fiume. Comunque non mi ha chiamata, e quindi Ugo Torment ha poco da sfinirmi: potrò avere qualche lacuna in fatto di torsione e di espressione, ma in quanto a tensione nessuna mi batte, qui. Nemmeno Sofia, che si è tinta i capelli arancione metallizzato e sta in un angolo a cucire i costumi, ovvero lunghe strisce di stoffa rossa che andranno sistemate in qualche modo intorno ai nostri corpi. Nemmeno Bibi, che non mi ha ancora spiegato perché vuole far finta di saper cucinare, nemmeno Carolina, la mia vicina di ultima fila, che ansima e sfiata, e approfitta di un attimo di pausa per mugolare:

«Costanza... si mette male...»

«Con Lorenzo?»

«Eh? Chi? Oh, no, figurati. L’abbiamo poi fatto, sai, ieri sera. Insomma... poteva andare meglio».

«Cosa? L’avete fatto? e me lo dici così? Ma...»

«Eh... che sarà mai... è carino ma alla fine... stringi stringi... be’, poi ti dico, adesso il problema è Sofia. Quell’Ugo lì la frega, te lo dico io».

«In che senso?»

«Tutti. Tanto per cominciare, ieri mattina è passato in negozio e lei gli ha dato un assegno».

«Come lo sai?»

«L’ho vista compilare un rettangolino giallo a forma di assegno e darglielo, e lui l’ha messo nel portafoglio e se n’è andato».

«Oh no. Che verme. Perché, perché, perché è venuto proprio nel mio sabato libero? Se c’ero io, vedeva».

«Vedeva cosa... Sofia in questo momento non dà retta neanche alla Madonna».

Stiamo un attimo zitte, immaginando Maria Vergine, con il suo mantello celeste, che invita caldamente Sofia a non consegnare assegni a Ugo Torment. Poi Carolina sospira: «E per di più prima l’ho visto fare lo scemo con Nadiana».

Nadiana. La nostra pornodiva. L’immaginario erotico della scuola di recitazione. Le luci rosse perennemente accese sulla prima fila del balletto.

«Va be’... dai... chiunque farebbe un pochino appena lo scemo con Nadiana... e poi è una sua allieva... sai come sono i rapporti fra professore e allieva...»

«Sì, però lui le metteva la lingua sul collo».

«Che brutta immagine».

«Quello faceva».

«E Sofia?»

«Cuciva».

Ecco, è sempre così: ovunque nel mondo c’è una donna che cuce, poco più in là ce n’è un’altra che si fa mettere la lingua sul collo dal marito o fidanzato di quella che cuce. È un teorema. Una legge della fisica. Riprendiamo la torsione, la tensione e l’espressione, ma non per molto. Fine della prova. La settimana prossima si gira il video, quello che, a sentire Sofia, darà la fama a Ugo.

«Lo presenteranno a Venezia» mi dice un’ora dopo, mentre diamo gli ultimi tocchi al paté in gelatina. È un tipico piatto natalizio, ma per impressionare Ugo va bene anche in maggio.

Gli invitati siamo io e Ugo, Bibi e il suo ragazzo, Walter, Carolina e un paio di amiche di Sofia, Lina e Caterina, che nella mia mente girano indelebilmente accoppiate come Adelina e Guendalina Blah Blah. Irene non viene perché stasera esce con Andrea, il veterinario tornato dall’Ungheria.

«Dove andate?» le ho chiesto oggi pomeriggio al telefono.

«Puoi immaginare. A sentire un concerto di sua madre».

«Oh madonna».

La madre di Andrea è una pianista incapace che ha fatto un minimo di carriera locale perché il marito ha una stratosferica fabbrica di mangimi. Anche adesso che è vecchia bacucca ogni tanto le allestiscono un concerto al Circolo del Ricamo o roba del genere.

«Eccitante, vero? Prevedo una serata da brivido».

«Irene, dimmi perché ci vai».

«Perché spero che finisca presto».

«E quello là, coso di Bernengo, Giacomo...»

«Eh... mi telefona. Voleva che lo accompagnassi alle corse di Ascot...»

«EH

«Ha una zia in Inghilterra... ha sposato un conte. Comunque, non posso. Come faccio con Marco?»

Ho riattaccato prima di impegolarmi in una discussione sul curioso modo di essere separata di mia cugina Irene.

In quanto a Veronica, non mi ha chiamata, il suo telefono ha la segreteria attaccata e dice che la famiglia Barra è in montagna. Speriamo bene.

ORE 22.30. CASA DI SOFIA

Per un attimo voglio quasi bene a Ugo: erano mesi e mesi che Sofia non permetteva a più di una persona per volta di entrare in casa sua. Che sua, purtroppo, non è. In un attimo di demenza precoce, il padre di Sofia l’ha intestata ad Amedeo, forse temendo che sua figlia se la schiantasse sui tavoli da gioco di Saint-Vincent. Di qui una battaglia legale che se la ride della Guerra dei Roses. Naturalmente Amedeo questa casa non l’avrà mai, ma il poverino è troppo stupido per capirlo. Non sa che la Forza è con noi e che mai di tutti i mai del mondo una discendente delle sorelle Botto perderà una casa.

«No?» concludo rivolta a Irene, che mi sta aiutando a preparare il caffè.

Irene, sì. A sorpresa, lei e Andrea ci hanno raggiunti subito dopo il concerto. C’è qualcosa che non va, non vi pare? Voglio dire, non è normale passare dal concerto della mamma alla cena della cugina. E il motel?

Ma Irene freme. Ha qualcosa da dirmi, un segreto, bisbiglia e si agita.

«Cosa?»

«Devo dirglielo o no, a Sofia, che oggi da Auchan ho visto Amedeo con quella là?»

«No... sei scema... proprio stasera che si sta divertendo... dillo a me, però. Com’è lei?»

Nessuno di noi ha mai visto la pura Annamaria, che lavora in Regione e gestisce i fondi per i Musei Etnografici: è quindi possibile incontrarla solo nell’ambito delle tradizioni popolari.

«Boh... purtroppo l’ho vista solo da dietro. È una culona bionda con gli occhiali».

«Se l’hai vista da dietro come fai a dire che ha gli occhiali?»

«Ho notato le stanghette. Amedeo spingeva il carrello. Era pieno di soia».

«Ci si strozzino».

La comparsa di Irene e Andrea non è stata l’unica sorpresa della serata. La nostra Bibi è arrivata senza Walter, il suo simpatico fidanzato che trova i nomi ai giocattoli. «E WALTER?» le abbiamo chiesto tutti a turno, ma lei ha risposto agitando una mano in aria, come se Walter fosse un zanzarino da allontanare al più presto. Ma è inutile dire che la star della serata è Torment. A precisa domanda della sfacciata Carolina, ha ammesso che il suo vero nome è Ugo Baracchi.

«Poco teatrale, no, signore? poco teatrale, poco teatrale... sì... poco teatrale... e così, siccome in quel periodo stavo curando una versione per mimo dei Dolori del Giovane Werther... ho pensato ai suoi tormenti, che erano i miei tormenti, che sono i nostri tormenti... e ho scelto di chiamarmi Torment. Ugo Torment».

Non so se lo fa apposta, ma lo dice tipo: Il mio nome è Bond. James Bond. Pazienza. È peggio quando ci racconta i suoi esordi nel mondo teatrale.

«Ero operaio... elettricista... mi hanno preso nella compagnia teatrale, e siccome, modestamente, non avevo fatto grandi studi ma ero intelligente... andava sempre a finire che le parti le sapevo meglio io di quelli in scena. Una volta...»

Stacco l’audio. Se c’è una categoria di persone al mondo che non mi interessa sono gli attori. Riattacco casualmente mentre racconta il fortunato incidente che ha portato al suo debutto sul palcoscenico: il primo attore della compagnia, a poche ore dall’inizio dello spettacolo, si fulminò con il phon in camerino.

Io e Carolina ci guardiamo. Bibi e Irene si guardano. Si guardano, probabilmente, Lina e Caterina. Dunque è anche un assassino.

ORE 1.30. ANGOLO DI STRADA

Potremmo andare in un pub. Potremmo andare a casa mia, che è poco lontana. Potremmo andare da lei. O in quel nuovo locale di piazza Carlina dove vanno tutti. Invece no: per spiegarmi la Misteriosa Faccenda degli Zucchini, collegata con la ancora più Misteriosa Scomparsa di Walter, Bibi sceglie l’angolo tra via dei Mille e via Provana, sotto casa di Sofia, e ce ne stiamo piantate lì a parlare in macchina, incuranti dei travestiti sull’angolo di fronte, detti i ‘Kiss’ a causa del loro look.

«E così, ho deciso di cambiare tutto. Basta. Voglio ricostruire la mia famiglia».

È Bibi che parla, e potrebbe doppiare Olivia De Havilland in Via col vento, tanto risulta melensa.

«La tua famiglia?»

«Sì. voglio tornare con Nigel e i bambini. Mi mancano troppo».

«Da quando?»

«Da sempre, stupida. Tutto il resto della mia vita era solo... non so... una grande illusione... una bolla di sapone... un gioco...»

Prima che i luoghi comuni le prendano definitivamente la mano, annuisco, falsamente comprensiva.

«Ah... ecco. Se non che la tua famiglia è in Canada, e per di più...»

«Infatti. Vado in Canada».

«Vai in Canada? Quando?»

«Tra dieci giorni».

«Ma... Nigel? Cosa dice?»

«Non lo so... gli ho telefonato, ma mi ha risposto quella tizia e allora gli ho mandato un telegramma».

Si china a frugare nella borsetta.

«Tieni. Ho la copia. Leggi».

NIGEL TI AMO STOP VOGLIO RIUNIRE LA NOSTRA FAMIGLIA E VIVERE CON VOI COME UNA DONNA NUOVA STOP I MIEI FIGLI HANNO BISOGNO DI ME NON PUOI FARLI ALLEVARE DA UN’ESTRANEA IN PIÙ SARTA STOP ANCHE TU HAI BISOGNO DI ME RICORDI QUANDO FACEVAMO IL SESSO EGIZIANO BE’ ADESSO SO ANCHE CUCINARE STOP IL MIO KARMA E IL TUO KARMA NON SI SONO MAI DIVISI E ORA È TEMPO DI RIUNIRCI ANCHE NOI STOP UNA FAMIGLIA STOP UN FOCOLARE STOP BACIA NAOMI E ROCCO E DI’ AI MIEI TESORI CHE MAMMA LI AMA ARRIVO CON REGALI MERCOLEDÌ. BIBI

Vorrei dirle che gli stop nei telegrammi non si mettono più. Vorrei chiederle com’è il sesso egiziano. Vorrei chiederle con che fegato afferma di saper cucinare. E comunque cosa ne ha fatto degli zucchini. Vorrei chiederle tante cose, ma una è più urgente.

«Chi è Naomi?»

«Ma come! È mia figlia. La gemella. Naomi!»

«Tua figlia si chiama Diana».

«Naomi Diana. Adesso preferisco chiamarla Naomi. Sai, per via della principessa Diana. Fa lugubre. Allora, che ne dici?»

Ecco spiegata la telefonata notturna di Nigel.

«Di’ un po’. Che ore sono adesso a Vancouver?»

«Non so. Otto di più, dieci di meno, non so».

Dovrebbe andare bene in ogni caso. Appena arrivo a casa lo richiamo. Povero Nigel. Bibi lo ha sposato dieci anni fa per fare dispetto a suo padre. E pensare che il padre di Bibi, è quello che fa la differenza fra lei e noi. Unica fra le zie, Susanna, la mamma di Bibi, ha sposato uno straricco. Zio Guido fabbrica cachemire, ne fabbrica tanto e lo vende carissimo. Bibi ha tutto di cachemire, anche gli stracci per togliere la polvere, e ogni tanto anche noi cugine riceviamo in dono metri di doppio filo, magari nei colori meno venduti, tipo verde passato di piselli e beige foglie smorte, ma sempre doppio filo è. I due fratelli di Bibi sono entrati anche loro nel cachemire, e lo zio contava che Bibi non se ne allontanasse troppo, tipo sposando uno stilista non gay che disegna giacche (di cachemire), o anche uno stilista moderatamente e discretamente gay. E lei invece si è sposata uno stuntman canadese. Nigel è rovinosamente caduto in parecchi film di successo: è rotolato lungo le rapide del Missouri in veste di Robert De Niro, è precipitato da un edificio in fiamme al posto di Steve Martin, è saltato dalla piramide di Cheope fingendosi Harrison Ford, ma nessuna di queste imprese poteva guadagnargli l’affetto dello zio. Purtroppo, non gli hanno guadagnato neanche l’affetto di Bibi. Il matrimonio è durato giusto il tempo di mettere al mondo Rocco e Diana, i gemelli. Bibi ha avuto una depressione post parto che è durata due anni, durante i quali dei bambini si è occupato Nigel. Lei ogni tanto li guardava e rabbrividiva pensando a quanto aveva sofferto per metterli al mondo. Poi guardava fuori dalla finestra, vedeva Vancouver, e rabbrividiva ancora di più. Così un giorno è tornata fra noi. Sola. I bambini se li è tenuti Nigel. A sentire Bibi, ciò era avvenuto perché lei era disoccupata e non poteva mantenerli. In realtà, con l’assegno che le passa suo padre Bibi potrebbe mantenere i figli anche se ne avesse tanti quanti Mia Farrow, ma tant’è. Liberata dagli affanni domestici, Bibi è fiorita. Ha scoperto la new age, l’espressione corporea, i fiori di Bach, ha scritto un libro intitolato La Ginnastica Interiore: quando il Sesso incontra lo Spirito e da due anni conduce una rubrica radiofonica di grande successo sui problemi delle donne separate.

«Non so, Bibi. Mi sembra una follia. Vuoi mollare tutto e andare in Canada? E la RAI

«Ah già, non te l’ho detto. Mi hanno sospeso la rubrica. Il nuovo direttore. Meglio. Sono libera. Stava appesantendo troppo i miei centri vitali».

«Ma Walter? Stavate così bene insieme...»

«Walter... si fa una sua collega. Una che disegna i vestiti di Barbie».

Segue un attimo di silenzio. La stessa immagine attraversa le nostre menti cuginesche. Lui e lei che si rivestono dopo un appassionato incontro amoroso.

LUI   Amore... non mi hai ancora detto cosa farai indossare a Barbie-Assessore-All’-Urbanistica...

LEI   Pensavo un tailleur a righine e stivaletti fucsia. E dimmi, tesoro, come lo chiamiamo il puma di Barbie?

LUI   Non saprei... che ne dici di PUMITO?

Ci guardiamo.

«Mi spiace, Bibi... sei sicura?»

«Scherzi. Sai, le solite cose. Silenzi, telefonate strane, ore a guardare nel vuoto... sesso col contagocce... strani profumi... l’adulterio proprio da manuale, guarda. Non mi ha risparmiato niente».

«Ci stai tanto male?»

«No. In realtà, era un pezzo che mi bastava guardarlo per sentirmi crollare le palpebre. Mi addormentavo tutte le sere alle nove e dieci. No, guarda, ormai l’ho capito. Walter era un sostituto. L’esperienza della famiglia va vissuta completamente. Io l’ho interrotta troppo presto. Devo riprenderla e portarla al suo compimento naturale».

L’improntitudine di Bibi è irresistibile.

«E qual è, il suo compimento naturale?»

«Non lo so».

«Lo scopriremo solo vivendo?»

«Appunto».

«Senti... e come la mettiamo con Rosa?»

Nonostante la brutta esperienza con mia cugina, Nigel ha dimostrato passione e dedizione nei confronti della donna italiana, scegliendosi come nuova compagna Rosa, una sarta siciliana che ha conosciuto sul set del Confessionale.

«Rosa... non so neanche chi sia, questa Rosa. Una sarta, figurati. Mi immagino già come troverò i bambini, obesi e infiocchettati».

«Bibi... lascia perdere».

«Io non lascio mai perdere, Costanza».

Già, me l’ero dimenticata.

ORE 12.00. BAR PASTICCERIA ACCORNERO

Se qualcuno ha voglia di piazzarsi sui gradini della chiesa di Sant’Agnese, davanti al Bar Pasticceria Accornero, di domenica mattina a quest’ora, con un po’ di pazienza vedrebbe passare la maggior parte della mia famiglia e delle mie amiche. Come ho detto, la mia città sembra grande ma la nostra vita di fatto si svolge tutta dentro un paio di quartieri. Le zie vanno a Messa a Sant’Agnese, non sempre, non tutte, ma quasi sempre e quasi tutte, e le cugine vanno a far colazione da Accornero, nei periodi in cui non siamo a dieta. Ma anche chi non è a dieta, da Accornero deve stare molto ma molto attenta.

Io e Carolina ci siamo date appuntamento qui, e adesso stiamo cercando di calcolare il possibile rapporto tra delitto e castigo.

«Per smaltire un krapfen domani quante vasche devo fare?»

Il lunedì mattina il negozio è chiuso e io vado a nuotare.

«Sedici».

«Oppure oggi pomeriggio potrei stirare».

«E che smaltisci, a stirare? Muovi sì e no le braccia».

«E se invece faccio un’ora di bicicletta?»

«Allora puoi spararti pure una fetta di Sacher».

Scopo dell’appuntamento è un’ampia e chiarificatrice chiacchierata su Lorenzo, sviluppi e prospettive. Ma dovrà essere rimandata. Proprio mentre sto decidendo che dopotutto alla fetta di Sacher preferisco un krapfen alla crema, avviene l’impossibile. Veramente non è proprio l’impossibile, diciamo che avviene l’altamente improbabile. Attraverso la vetrina, vediamo convergere sul Bar Pasticceria Accornero, da opposte direzioni, Lorenzo, Alex, moglie di Alex, figli di Alex. Il corpo precede la mente, e prima che le mie cellule cerebrali esaurite abbiano trasmesso l’informazione, già le gambe mi hanno catapultata dal giornalaio di fronte, dove mi immergo nella contemplazione del settore Moto, Motociclette, Auto e Auto da Corsa, Moto da Corsa e Cingolati. Ed ecco che arriva anche Carolina, con l’aria altrettanto catapultata, che si concentra invece sulle riviste del settore Pesca.

«Che cosa ci fai qui, tu? Sta arrivando Lorenzo».

«Non voglio vederlo. Non adesso. Non me la sento...»

Bisbiglia con la testa china. Ma si può?

«Ma sei cretina? Fino a tre giorni fa stravedevi... volevi un figlio... dicevi che eri veramente innamorata per la prima...»

«Ciao Costanza. Carolina...»

Alex. Mentre moglie e figli entrano da Accornero come una piccola flotta di lusso, lui si è infilato qui e tira su manate di giornali a casaccio. Non sa di aver acquistato anche Susanna, con le schede per i ricami di Pasqua.

«Ciao, Alex».

Chi non ha sentito quel mio “Ciao, Alex”, non sa cosa sia un saluto veramente freddo.

«Come va?»

«Splendidamente. Paga, e raggiungi la tua famiglia in pasticceria».

«Non ho bisogno di istruzioni, grazie. Quando ci vediamo?»

Perché non dico ‘Mai più’? Perché? Perché sono ostinatamente stupida, e stupidamente ostinata.

«Non saprei. Non ho fretta».

«Ehi... scimmietta... lo sai che sono stato via... sono tornato stanotte...»

«E a San Sebastian non hanno ancora questa utile invenzione moderna, il telefono?»

«Non ero solo».

E me lo dice così? È evidente che si è portato dietro una delle sue fan. Ed è veramente l’ultima volta che questo...

«Gloria è voluta venire con me. Tentativo di riconciliazione. Lo sai che mi pedina?»

«Sì. Ci siamo incontrate l’altro giorno in piazza Cavour».

«Cristo, neanche un criminale nazista è braccato come me».

Carolina è scomparsa. Sulla porta di Accornero si affaccia la figlia maggiore di Alex, una squinzietta con l’aria annoiata di chi si è appena sentita dire: ‘Isotta, guarda un po’ se vedi papà’.

Esco dal giornalaio, precedendo Alex di qualche opportuno secondo, ed ecco di fronte a me, con gli occhiali scuri e un’ombra di barba, Lorenzo.

«Ciao... come stai?»

«Molto bene... e tu?»

«Anche... mi sembrava di aver visto Carolina e...»

«Ti chiamo nel pomeriggio». Alex mi passa accanto, butta lì questa specie di promessa, sparisce in pasticceria, e sul marciapiede restiamo io e Lorenzo a guardarci. Lorenzo veramente non lo so che cosa guarda, perché appunto ha gli occhiali scuri, ma mi sembra che la sua testa sia inclinata in direzione di Alex.

«Alessandro Varetto... e così è lui il tuo famoso fidanzato...»

«Vedo che tu e Carolina vi ripassate la mia privacy col tritacarne...»

Lorenzo mi guarda perplesso.

«Ma come parli?»

«Lascia perdere. Sì, è lui».

«Mah... non so se è il tuo tipo, proprio... ogni tanto veniva nel mio ristorante a Londra... ha una moglie molto bella. La conosci?»

«Non quanto vorrei».

«Va be’, vedo che l’argomento non ti prende. E Carolina?»

«Ne so quanto te. Eravamo insieme dal giornalaio e in un attimo è sparita dalla faccia della terra».

«Prima o dopo avermi visto?»

Mi viene da ridere. Cerco di fermare gli angoli della bocca prima che schizzino all’insù ma qualcosa dev’essersi notato.

«Ah... dunque dopo. Ridi pure tranquillamente».

«Scusa... non so perché fa così... lo saprai meglio tu, immagino».

«Al momento sono un po’ perplesso sul suo conto... vieni, andiamo a prendere un caffè, e vediamo se ricompare».

«Certo... così facciamo proprio la farsa perfetta: io che entro nel bar dove il mio amante sta comprando le paste della domenica insieme alla sua famigliuola, e ci entro accompagnata dal fidanzato della mia amica, che però il mio amante scambierà per un mio corteggiatore, e così...»

E così Lorenzo, senza il minimo preavviso, mi prende la faccia tra le mani e mi bacia, tantissimo, a lunghissimo e con mia enorme soddisfazione. Quando smette, mi sembra di avere delle rane che mi saltano nel sistema nervoso.

«Ma... che cosa...»

«Me l’hai data tu l’idea... mentre dicevi che il tuo amante mi avrebbe scambiato per un tuo corteggiatore, ho visto il tuo amante uscire dal bar, e ho pensato che se ti baciavo, gli rovinavo la domenica. Oggi, quando ti telefona, potrai trattare da una posizione di forza».

«Certo! E se passava Carolina, eh?»

«Magari... potrei trattare anch’io da una posizione di forza».

«Ma quale posizione di forza... vuoi farmi litigare con la mia migliore amica?»

«La tua migliore amica è un po’ sfuggente. Litigare per me potrebbe farle bene».

«E io?»

Sono furiosa. Non mi piace essere baciata per terzi fini, specialmente se il bacio mi è piaciuto così tanto. Non mi piace che mi piacciano i baci di uno che probabilmente sarà il padre dei figli di Carolina. Sono molto arrabbiata e voglio andare a casa. Lorenzo mi guarda e ride.

«Smettila di digrignare i denti. Perdonami. Ti compro il gelato».

«Okay».

In fondo, quel krapfen non l’ho poi preso.

Passeggiamo per la piazza mangiando il gelato, e chiacchierando di altre cose. Ristoranti, tipi di magnolie, profumi in generale, vaniglia e violetta in particolare, gatti, film. E chiacchierando io mi maledico, perché proprio oggi che dovevo incontrare l’uomo che amo e l’uomo che mi confonde le idee sono miseramente vestita con dei vecchi fuseaux, scarpe da tennis sporche e una felpa che non ha più un colore né più un’età. Perché non sono andata all’appuntamento con Carolina in minivestito blu cobalto, calze a rete e scarpe col tacco? E soprattutto, dov’è Carolina? Mi avrà visto mentre il suo ragazzo mi baciava? E se sì, mi aspetterà nel mio portone per pugnalarmi?

ORE 16.30. CASA MIA

Mi aspettava nel portone, ma non per pugnalarmi. Mentre passo con cura la spazzola del Centogradi sul divano, penso che in fondo è andata bene. Carolina non ha visto Lorenzo che mi baciava. Sarebbe andata anche meglio se io non glielo avessi detto. Purtroppo, non ho più la tempra e l’energia fisica necessari a convivere serenamente con i sensi di colpa. Ormai non li reggo più. Come ne ho uno, anche di proporzioni irrisorie, devo immediatamente farlo fuori. Così ho raccontato tutto a Carolina, tranne qualche particolare: lunghezza del bacio, intensità del medesimo, gradimento dello stesso. In pratica, l’ho ridotto a un bacetto frettoloso, una stupidata al volo per far rabbia ad Alex. E neanche mentivo, perché così è stato il bacio per Lorenzo. Carolina si è inverdita un attimo, però può darsi che le abbia fatto bene, perché si è immediatamente schiodata dal mio portone ed è andata a casa, con tutta l’aria di quella che avrebbe chiamato Lorenzo. E così eccomi qui, a passarmi un pomeriggio domenicale bella sola, a pulire la casa, in attesa della ipotetica telefonata di Alex. Così è la vita di noi amanti degli uomini sposati, ed è inutile lamentarsi. Sono molto ansiosa di vederlo. Non mi importa se è un infido bugiardo e traditore, è l’uomo che amo con caparbietà da sedici anni, e non smetterò certo adesso soltanto perché un cuoco non molto alto mi ha fatto provare un brivido di autentico erotismo strisciante come non se ne sentiva più parlare da anni. La cosa buffa è che Carolina mi ha spiegato perché è scappata stamattina (a proposito, si era nascosta in chiesa). Dice che quando lei e Lorenzo hanno fatto l’amore è stato emozionante come lavarsi i denti. Brividi zero, passione a picco, innamoramento sottoposto a doccia emotiva.

«Mi sono sentita stranissima... ho cominciato che ero pazza di lui, e alla fine mi sentivo dentro una specie di... quella roba russa con i lupi... come si chiama?»

«Steppa».

«Brava. Steppa. Così mi sentivo».

Dice che non è che lui sia un incapace, tutt’altro, è che proprio latita la reazione chimica.

«E lui? Che diceva? Ce l’ha avuta la reazione chimica?»

«Boh. Quello chi lo capisce».

È stato a questo punto che mi è sembrato bene raccontarle la faccenda del bacio. O meglio, che mi è sembrato estremamente pericoloso non raccontargliela. Dopodiché, come ho detto, Carolina si è fatta prendere da una gran fretta di tornare a casa. Non era per niente arrabbiata con me, sia chiaro. Anche perché vorrei vedere. Per quel che ne sa lei sono innocente. Con me, quindi, non ce la poteva avere e non ce l’aveva. Solo, aveva tutta questa incredibile fretta di tornare a casa. Quindi Lorenzo aveva ragione. Probabilmente ci contava, che io glielo dicessi. Mi viene un nervoso che gli sparerei in faccia il Centogradi. Ed è adesso che la provvidenza in persona mi invia l’atteso DRIIIN. Solo che non è il telefono. È direttamente la porta. Mi affaccio, e vedo la macchina di Alex parcheggiata in seconda fila. Non ha intenzione di fermarsi a lungo. E io ho sempre addosso i fuseaux e la felpa.

ORE 9.30. PISCINA DEL CLUB LA PANTERA

Se c’è una bella sensazione nella vita è nuotare nella piscina neoclassica del club La Pantera, dove le ricche signore della mia città vanno alla ricerca della forma fisica. Per la gioia di quelle meno ricche, ogni tanto scattano le offerte speciali, iscrizioni a costi e orari ridotti, e lì mi ero velocemente intrufolata io. Limitando però l’intrufolamento alla piscina: nelle palestre non ci metto mai piede. Ogni tanto, mi fermo incantata davanti alla bacheca a leggere l’orario delle varie lezioni, chiedendomi quale possa mai essere la differenza tra aerobic dance e step. Aquagym, invece, lo so benissimo cos’è: sono una quindicina di femmine di tutte le misure e tutte le età, che si piazzano nella piscina a chiacchierare agitando un po’ le gambine sott’acqua. Se si trovassero al Gran Bar spenderebbero parecchio di meno e non mi costringerebbero a nuotare a zig zag come un sommergibile americano nel ’44. Il motivo per cui non ho mai nemmeno pensato di frequentare le palestre sta nello spogliatoio. Dove, appunto, ci si spoglia. Ed è lì che ho il piacere di osservare in tutta la loro naturalezza le più antiche frequentatrici della Pantera. Signore o signorine che, a giudicare dalla familiarità con cui si rivolgono alle inservienti, dalla dimestichezza assoluta che dimostrano nei confronti di sgabelli, lucchetti, bagni, saune eccetera, vengono in questo tempio del benessere da anni e anni. E allora com’è che sono ridotte in quello stato? Com’è che debordano di ciccia, rotoli, pieghe molli, disfattismi? Se anni di palestra ti fanno diventare così, non è più gradevole ottenere lo stesso risultato frequentando tre volte alla settimana la pasticceria Accornero? Certo, ci sono anche le altre. Quelle snelle, sode, deliziose. Ma quelle hanno ventitré anni e magari alla Pantera si sono iscritte la settimana scorsa. E una delle più snelle, più sode e più deliziose proprio in questo momento mi fa grandi cenni dal bordo della piscina. Guardo meglio che posso tenendo conto che ho gli occhialini, e riconosco Rebecca, la figlia di mia cugina Sofia. Mi avvicino.

«Hai finito?» mi chiede lei. È in tutina fucsia, pronta per una lezione di dance qualcosa.

«Veramente no. Mi mancano dieci minuti».

«Sbrigati, dai. Ti aspetto al bar. Devo assolutamente parlarti, e volevo farlo in un posto senza spie».

Addirittura. Completo la mia mezz’ora di nuoto senza tregua, faccio la doccia più veloce che ricordi, e raggiungo Rebecca, che sta seduta al bar della Pantera, davanti a tre vasetti di yogurt vuoti.

«E sbrigati! Tra un quarto d’ora ho la lezione!»

«Saltala. A che ti serve?»

«A migliorare la mia espressione corporea».

«Non mi sembra che ci siano larghi margini di miglioramento».

«Ce n’è, ce n’è. Costanza: sono mortalmente preoccupata per mia madre».

Ha completamente sclerato.

«Sì... mi ha detto qualcosa Carolina... ti riferisci a Torment, vero?»

«Per favore, di’: Ugo. Ugo fa già abbastanza schifo, ma Torment è proprio insostenibile».

«Credevo che tu e Tommaso lo veneraste come Maestro...»

«Tommaso lo venera un po’. Ma sempre meno. E se riesco a finire di lavorarmelo, lascerà la sua stupida scuola e in autunno ci iscriviamo insieme alla Paolo Grassi di Milano».

«E l’università?»

«Niente. Non la voglio fare. Voglio fare l’attrice a tempo pieno, nei musical. Visto che so anche ballare e suonare il basso, dovrei esser avvantaggiata... Ma lascia perdere, okay? Dobbiamo parlare di mamma. Gli ha dato dei soldi...»

«Lo so... me l’ha detto Carolina. Sai quanti?»

«No, e non voglio saperlo. Lui le ha detto che gli servono per comprare i diritti di una commedia americana, di questo autore che va fortissimo, McNally. Così poi la mette in scena, diventa famoso eccetera».

«Ma non doveva diventare famoso col video?»

«Meglio due possibilità, dice lui».

«Senti qua. Il video chi lo paga?»

«Noi».

«Noi chi?»

«Noi allievi della scuola. Ci siamo autotassati».

Splendido. Compro un altro yogurt per Rebecca e un caffè per me».

«E non basta. Vogliono andare via insieme. Fare un viaggetto. Una settimana a Portovenere».

Eh già, certo. A Portovenere. Dove, guarda caso, Sofia ha una piccola casetta. Non è che la porta a Ischia a sue spese, il caro Ugo.

«Ma il peggio di tutti i peggi è che lui sta anche con una della scuola... Nadiana... l’ho scoperto per caso... anzi, li ha visti Tommaso, che uscivano da casa di Nadiana alle quattro del mattino».

«E cosa ci faceva Tommaso davanti a casa di Nadiana alle quattro del mattino?»

«Tornava da casa mia».

Ah.

«E allora? Cosa vogliamo fare? Magari, se abbiamo un po’ di fortuna, questa Nadiana spiffera tutto a tua madre».

«Non credo... ho paura che Ugo se la sia intortata con storie tipo tu sei il mio vero amore e quella mi sgancia i soldi... che poi magari è anche vero».

«Se ti azzardi a unire nella stessa frase i termini ‘vero amore’ e ‘Ugo’, ti diseredo».

«Sono la tua erede?»

«Forse. Se ti comporti bene».

ORE 20.30. CASA DI BIBI

Cena delle Cugine. L’ultima a ranghi completi, prima che Bibi parta per il Canada. Ieri ho finalmente parlato con Nigel. Tremava di terrore. L’idea di resistere a Bibi con la virile fermezza che caratterizza gli stuntmen non lo sfiora neanche.

«Lo sai com’è tua cugina. Non si ferma. Davanti a niente. Lei viene qui come uno scacciasassi e ci rovina».

«Schiaccia. Non scaccia sassi. Schiaccia».

L’italiano di Nigel, oltre a curiose pause ronconiane, ha scarti di fantasia molto seducenti. Non so perché lo correggo. Probabilmente perché sono pedante di natura.

«Non so come fare, Constance. Rosa piange tutto lo giorno e tutta la notte.

«E i bambini?»

«Non sanno ancora che arriva. Sai, lori di questa mamma in Italy hanno fatto una leggendaria. Per lori è Rosa la mamma. E poi c’è questa signora che scrive. Molte lettere, molti pacchi. Dentro i pacchi, cose stupide. I bambini ride. Tra poco non ridaranno più».

«E dai, Nigel, sii uomo! Be brave! Mettila al suo posto. Dille che tu, Rosa e i bambini siete una family. Che tu ami Rosa».

«E se si vuole prendere i kids?»

«Andiamo, Nigel... la conosci... una volta che li ha portati al cinema e da McDonald’s non sa più cosa farsene, dei kids».

Ma non l’ho consolato. E stasera siamo qui, in questa casa beige che mi sembra veramente inadatta ad accogliere due bambini. Da quando si è fatta prendere la mano dalla new age Bibi, che come vi ho detto è l’unica di noi seriamente ricca, ha rinnovato completamente l’arredamento, e intorno a me si espande una sabbiosa distesa di canape écru, legno grezzo, pino non trattato, cotone egiziano come mamma l’ha fatto, rame, coccio, terraglia, divani di iuta e tante, tante candele. Candele di cera d’api, ancora a forma di alveare, con le cellette esagonali, candele profumate e candele mangiaprofumi, che combattono con le precedenti una silenziosa e feroce battaglia. In quanto al cibo, ce lo siamo portato noi, perché Bibi, dopo il famoso exploit degli zucchini, ha ripreso a nutrirsi di yogurt, granaglie, cuori di bambù e altri cibi che crescono nelle scatole, nei barattoli e nei pacchetti. Le sue pentole brillano in uno scaffale, immacolate e intatte. L’unico leggermente annerito è il bollitore, che usa per prepararsi tisane di qualsiasi cosa tisanabile. Dove però la casa è preparata, fornita e interessante è nel settore alcoolici. Sul carrello apposito brilla di tutto, dalla crème de menthe alla tequila. Mentre spacchettiamo i nostri contenitori, Bibi prende la bottiglia di liquore al caffè, la vodka e due confezioni di panna fresca, e ci fa provare il White Russian. Noi pensiamo a Jeff Bridges nel Grande Lebowski e buttiamo giù.

Irene ha portato una teglia di lasagne, fornita dalla zia Margherita. Che sia benedetta. Io ho portato le uova ripiene, e Sofia un catino di crema Chantilly, un’altra delle glorie di famiglia. Miracolo: ha ripreso a cucinare?

«No... l’ha fatta Rebecca. Io non ho tempo. Dovevo dare gli ultimi tocchi ai costumi. Sai, stasera stavo quasi per non venire. Ugo era talmente agitato».

Già, domani sera giriamo Cinquanta in un velodromo: a study. La capisco. Scommetto che la moglie di Kubrick non è uscita, la sera prima che iniziassero le riprese di Arancia meccanica.

«Ma lui ha insistito perché tu venissi, vero?»

«Sì. Dice che devo mantenere intatta la mia autonomia. Che siamo due muri paralleli e non convergenti e insieme sosteniamo il soffitto del nostro amore».

Splendida metafora. A cui risponderei così: ‘Devi mantenere intatta la sua autonomia ma non il tuo conto in banca, noto. E in quanto a quello che sostiene il suo muro questa sera, a occhio e croce punterei sui cinquantacinque chili di Nadiana’.

Invece, rispondo così:

«Ah. Bello».

Coniglia. Veronica è arrivata in ritardo. È pallida, ma la quiche lorraine che ha portato è impeccabile. Stasera è lei al centro della riunione. Veramente volevamo parlare di Bibi e del suo viaggio, unendoci in un supremo sforzo cuginesco per dissuaderla, ma la situazione di Veronica si è conquistata la vetta della classifica. Se abbiamo capito bene dall’incrocio di telefonate di questi giorni, potrebbe molto presto entrare anche lei nel magico mondo delle cugine disastrate. Suo marito Eugenio, infatti, non le rivolge più la parola, né nient’altro. Pare che il loro ultimo dialogo degno di questo nome si sia svolto il giorno in cui è arrivata Sailor Maria. Lui le ha chiesto che cosa avesse intenzione di fare. Veronica ha risposto che aveva intenzione di tenerla, aver cura di lei, amarla e proteggerla. Lui ha detto:

«Quindi non pensi di portarla in un Istituto?»

«No. Non me lo sogno neanche».

«Guarda che è illegale».

«No. Me l’ha affidata suo padre. Abbiamo un numero di cellulare a cui rintracciarlo...»

«A chi l’ha rubato?»

«Non saprei».

«E i nostri bambini?»

«Eh... ho detto che dovevamo tenere questa bambina piccola per un po’, finché suo papà non tornava a riprendersela... ognuno ha reagito a modo suo... Gabriele era felice... sai che lui vorrebbe un’altra sorellina... Miranda mi ha solo chiesto dove avevo intenzione di metterla, e saputo che non era in camera sua, si è rilassata. Ah, no, mi ha chiesto anche se poteva lo stesso sentire i cd forte. Pietro si è messo a piangere, Betta mi ha chiesto perché si chiamava Sailor Maria, e se diventava la mia bambina come lei, ed esattamente quanti mesi aveva. Insomma, tutto regolare. Direi che nel giro di qualche giorno la situazione si normalizzerà. Cioè, non è come se gli avessi detto che stava con noi per sempre».

«E quanto pensi che starà, con noi?»

«Non so. Suo padre non è che sia stato tanto preciso».

«Dove la vuoi mettere?»

«Per adesso in camera nostra, che ne dici? Ha bisogno di tanta vicinanza... deve assorbire la scomparsa del papà. E l’arrivo di una mamma!»

Dopo di che, Eugenio è uscito dalla stanza, e da quella sera le parla solo davanti ai bambini. E non la tocca più.

«Ti toccava molto, prima?» chiede Irene, con soave distacco, mentre condisce l’insalata, e noi tutte tratteniamo il fiato. Forse sta per sollevarsi il velo sui Misteri del Sesso in casa Barra. Forse, penso io privatamente, perché della mia ipotesi non ho fatto parola neanche alle cugine, forse Veronica si deciderà a confessarci il suo amore impossibile per Giulietta, e la passione colpevole che da anni unisce Eugenio al suo collega dottor Renato Lorno, di microchirurgia.

E Veronica parla:

«Normale, direi. Bibi, dove hai trovato quelle bellissime tende?»

Ecco fatto. Dove si conferma ancora una volta che Veronica, in quanto cattolica, è furba. Uno degli argomenti a cui le cugine in branco non sanno resistere è quello che potremmo genericamente definire ‘telerie’. Tovaglie, tende, lenzuola, stoffe per i divani, scampoli e ritagli. Tutte frequentiamo un impressionante negozio nel centro storico della nostra città, dove enormi rotoli e tubi di stoffe si affastellano fin sulla soglia e a volte leggermente oltre a lambire il marciapiede, e ingombrano banchi, scaffali e scale a chiocciola, verso altre stanze misteriose dove si accumulano altri rotoli pericolanti, in una confusione che ci mette la pace nel cuore. Lì, le sorelle Botto e le loro discendenti e consanguinee si aggirano misurando pezze a fiori, sontuosi lini a limoni, stoffe rosse trapunte per le tovaglie di Natale, cotone leggero a mazzetti di lavanda per le tendine del bagno. Basta citare un qualsiasi pezzo di stoffa per uso domestico, e un argomento limitato come il sesso viene istantaneamente rimosso dalle nostre teste.

Così, quando finalmente riprendiamo il discorso, nessuna si ricorda più esattamente dove l’avevamo lasciato. E infatti Sofia, che ormai si atteggia a migliore amica dell’uomo, affronta l’argomento da tutta un’altra angolazione.

«Ma insomma, hai provato a parlargli tu? Voglio dire, è normale che sia scioccato. Una sera se ne arriva dal lavoro, e si trova in casa la figlia di una coppia di drogati...»

«In più parecchio bruttina» rincaro la dose.

«...Piazzata stabilmente in braccio a sua moglie... È logico che sia perplesso».

«Non è perplesso. Fosse perplesso, figurati, capirei. È tranquillissimo. Ha deciso che, se io tengo la bambina, lui mi ignora. Punto».

«E con lei com’è?»

«Ignora anche lei».

«E stasera? Per uscire l’avrai lasciata a lui».

«No... è uscito anche lui. Non so neanche per andare dove. C’è Giulietta, a casa mia. Prima di uscire ho messo a dormire Maria, e speriamo che non si svegli... è talmente spaventata e confusa che sta tranquilla solo con me».

Ecco l’occasione che aspettavo!

«Giulietta? Ti fa da baby sitter?»

«Sì... poverella, si prodiga in quattro... non so come farò quando partirà».

Eh eh... ci siamo...

«E dove va?»

«In Inghilterra. Suo marito fa l’amministratore di tenute, e l’ha assunto un lord, non so più chi. Vanno a vivere nel Devon».

«Per sempre?»

«Sempre... non so... un bel po’ di anni, credo».

Be’, certo che non sembra per niente turbata. Decido di uscire un po’ allo scoperto.

«E tu? Come farai senza Giulietta?»

Veronica alza le spalle.

«Ci scriveremo. D’altra parte lei fa bene ad andare. Non hanno figli, per ora, e lei e Giorgio sono talmente uniti...»

Lo dice con il tono nostalgico di una che unita non è, e capisco che la mia seducente ipotesi saffica va cassata. Torniamo a Eugenio...

«Torniamo a Eugenio. Dagli un po’ di tempo...»

«E intanto» è sempre Sofia che difende i diritti dell’uomo, «fagli sentire tutto il tuo amore. Dimostragli che questa bambina non rovina la vita della vostra famiglia... provaci...»

«Sì, provaci» approva Bibi. «Ce l’hai un tanga?»

È evidente che ha esagerato con i White Russian. Ci precipitiamo a farle mangiare qualcosa.

ORE 00.45. CASA DI BIBI

Veronica è andata via. Aveva promesso a Giulietta di non fare tardi, e a mezzanotte ha smontato. Ma prima di uscire, quando era già sulla porta, ha lanciato la sua bomba. Ci guarda e fa:

«Comunque non preoccupatevi. Se entro un paio di giorni Eugenio non torna normale, ne parlo con Vittorio».

Esce, e chiude la porta, ignorando la nostra reazione.

Naturalmente i ‘Chi è Vittorio?’ si sprecano, come pure i ‘Ma tu lo conosci questo Vittorio’, ‘Aspetta... mi pare che una volta mi avesse nominato un certo Vittorio...’, ‘Vittorio... non sarà mica quel tipo che la corteggiava al liceo?’

Niente. Non ne veniamo a capo. Aggiorniamo Veronica, e ci concediamo un secondo giro di White Russian, comodamente appoggiate ai cuscini di seta color burro.

«Ti mancheremo, in Canada?»

«Come l’aria. Ma io mi sento che torno. Che torniamo, cioè. Prendo Nigel e i bambini e me li porto a casa».

«A ogni modo, ti mando una copia della cassetta».

«Che cassetta?»

«Quella del video!»

«Ah già, il video...»

«Ah, a proposito, Sofia, guarda che io non so se vengo, domani sera».

«Ma Irene!»

«Mi è venuto in mente che se per caso Marco lo vede potrebbe cercare di togliermi Oliviero».

«Sei pazza? Mica è un video porno».

«Però ballo, in body, con delle strisce rosse che mi svolazzano intorno. Per Marco basta e avanza. È capace di citarmi per prostituzione occulta. Finché non abbiamo firmato la separazione è meglio se partecipo solo a video su Maria Goretti».

«Be’, in quanto a castità non scherzi neanche tu. A proposito, come va con Andrea?»

«Usciamo, ogni tanto...»

«E basta? Nel senso che uscite e state fuori?»

«Mmm... non sempre. Il guaio è che anche quell’altro mi tampina».

«Giacomino Colongo?»

«Lui. Non me lo spiego. Per anni gli uomini mi hanno evitata come una lebbrosa con l’AIDS, e adesso di colpo ne ho due che mi stanno dietro».

«Hai smesso di essere respingente. Prima ti evitavano solo perché eri amabile quanto un rottweiler».

«Guarda, Irene, è verissimo. Sapessi come mi sento cambiata io, da quando sto con Ugo...»

Cambiata è cambiata, la nostra Sofia. Tanto per cominciare, trascura il coro, non ci va quasi più, e lascia nel loro brodo senza un fremito di rimorso tutti gli altri soprani o contralti o quello che sono. Non solo, ha ammesso finalmente che il baritono Alfredo è gay. La fine di un’epoca. E a questo sinistro mutamento morale corrisponde un altrettanto deciso mutamento fisico. A parte i capelli arancioni, indossa lunghi sari coloratissimi, oppure gonne di vellutino color mirtillo, e per la prima volta in vita sua fa abbondante uso di profumo. Vaniglia. Dev’essere Poison.

«Ti metti Poison, Sofia?»

«Sì... Ugo voleva regalarmelo, e così me lo sono comprato io per non farlo spendere».

Geniale. Ma purtroppo le viene un’idea.

«Magari lo chiamo... poverino, sarà ancora lì a studiare le inquadrature...»

‘Lì’ è la misteriosa casa di Ugo Torment, dove Sofia non ha mai messo piede. Lui le ha detto che è uno squallido buco indegno di lei, ma è opinione diffusa tra le cugine che ci conservi un paio di gemelle bulgare.

«No!» ci precipitiamo tutte a dissuaderla. «No... lascia perdere... non chiamarlo...»

Siamo tutte assolutamente certe che in questo momento Ugo non sta studiando le inquadrature.

«Perché?»

Già. Perché? Ci penso io.

«Lascialo sedimentare. Deve bere fino in fondo la feccia della solitudine per capire quanto ha bisogno di te».

Se la beve, e non lo chiama. Lo sapevo: sono le stesse idiozie che racconto a me stessa da sedici anni.

ORE 11.00. CARTA E CUCI

I giornali li compro sempre lungo la strada fra casa e Carta e Cuci. Non è una strada lunga, e la faccio sempre a piedi. Stamattina sono quella che apre: ieri sera abbiamo girato il video (sull’argomento, sorvolerei con decisione) e Carolina e Sofia hanno deciso di dormire un po’ di più. Specialmente Sofia, che ha vissuto la penosa esperienza con una partecipazione emotiva quasi letale. Io stavo in ultima fila, a stento mi muovevo, e mi sono stancata poco, perciò non mi importa di attaccare per prima. Anche perché il nostro è uno di quegli insopportabili negozi snob che aprono alle dieci del mattino e che io personalmente detesto. D’altra parte, non ho le competenze per aprire una panetteria e soffro troppo il freddo per tenere un banchetto al mercato, quindi. I giornali li compro, li arrotolo, li infilo nello zaino e me li leggo poi con calma alla prima occasione.

La mattinata procede con calma. Entra una ragazza che vuole del filo DMC in tutte le sfumature del rosso.

«Magenta, scarlatto, fragola, rubino, cherry brandy, bloody Mary, rouge passion, ceralacca, corniolo, rosso cardinale, rosso geranio, carminio, rosso lanterne rosse» elenca a memoria. «E un pezzo di tela Aida».

«Grande come?»

«Non so. Vorrei ricamare un cuore e cucirlo su un cuscino».

«Abbiamo le fodere per cuscino già fatte, in tela Aida, pronte per il ricamo. Se preferisce».

L’affare va in porto. Il cuore lo vuole ricamare per regalarlo al fidanzato per San Valentino. Le faccio notare che al prossimo San Valentino mancano circa otto mesi.

«Eh, ma ci vuole tempo, sa... non è che posso stare tutto il giorno a ricamare».

E se di qui a lì il fidanzamento finisce?

Alza le spalle. Prima o poi, a un qualche San Valentino del Terzo Millennio, un fidanzato a cui regalare un cuscino con un cuore ricamato ce l’avrà, no?

Concordo.

Poi entrano una nonna e una mamma che cercano piatti, bicchieri e tovagliolini di carta per il battesimo del bebè. La nonna scova un set ad angioletti.

«Ludovica... guarda che amore questi... per un battesimo sono perfetti... cos’è, Della Robbia?»

«Io preferisco questi».

L’infelice Ludovica indica dei piatti rossi con disegnata una vistosa gallina bianca e gialla. La nonna inorridisce.

«Ma sei pazza? Sono talmente kitsch! Ti sembrano adatti a un battesimo?»

«Sì. C’è la gallina e l’uovo, no? Io sono la gallina e Riccardo è l’uovo. Mica siamo angeli».

Discutono a lungo. Alla fine comprano dei piatti blu con il bordino dorato. Islamici, nella loro assenza di figure umane, animali o angeliche. Peccato.

Nel frattempo, mentre loro litigavano, ho venduto un arazzo prestampato che raffigura la prigionia di Anna Bolena, sette metri di nastro di taftà scozzese, un quaderno per ricette e un set di scatole a forma di casette che da solo basterebbe a farci quadrare il bilancio fino a stasera. A mezzogiorno arriva Carolina. Adesso fra lei e Lorenzo va tutto bene, anche se alla domanda: ma allora lo ami? Risponde con una smorfia tipo quella di una bambina piccola a cui sia stato chiesto:

TI PIACE COME SI MANGIA ALL’ASILO?

Carolina mi spedisce al bar. Merito una pausa, dice, e tanto dovrebbe arrivare subito anche Sofia...

Ed è per questo che alle 12.15, seduta nel dehors del bar Elena, apro Il Venerdì di Repubblica e come ogni settimana volo senza esitazioni a ‘Questioni di cuore’ di Natalia Aspesi. Quanto mi piace! La prima lettera è di una moglie felice, entusiasta di suo marito ma morbosamente ed eroticamente legata a un compagno di scuola del figlio, anni diciassette. Carino. Già visto, ma carino. Ma è la seconda lettera che, a dir poco, mi colpisce.

‘Sono un uomo fortunato di 45 anni, aspetto gradevole, sposato, tre figli, un lavoro gratificante. Sembrerebbe una buona situazione esistenziale, e invece per me si sta trasformando in un incubo. Sono sposato da vent’anni, e ho cominciato a tradire mia moglie due mesi dopo il matrimonio. Lei si è presa come massimo impegno coniugale quello di far finta di niente, e lo svolge con una perfezione esasperante. Inutili ritardi, amnesie, sguardi vaghi, menzogne lampanti: niente, lei non sa, non capisce, non vede. E quindi io non la lascio. Anche se nel frattempo mi sono innamorato davvero un paio di volte, e ho atrocemente sofferto al momento di chiudere. Intanto, porto avanti da sedici anni una relazione con una brava ragazza che ancora fa finta di credere che un giorno la sposerò. Il motivo per cui ti scrivo, cara Natalia, e perdonami se ti do del tu ma siamo colleghi, e ci conosciamo anche personalmente, anche se non mi firmo col mio vero nome, il motivo per cui ti scrivo è semplice e inconsueto: voglio che mia moglie legga questa lettera e non possa più far finta di non sapere. Voglio che mi costringa a lasciare lei, o la mia antica fidanzata, o tutte e due, per dedicarmi con matura incoscienza alle ventenni che brulicano nella redazione del mio giornale... perché devo accontentarmi di fare l’adultero con una specie di Meg Ryan quando mi girano intorno tante piccole divine fanciulle?’

Possiamo fermarci qui. La lettera va avanti ancora, e segue naturalmente spiritosa risposta, ma per quanto riguarda me, ‘una specie di Meg Ryan’ è ampiamente sufficiente. Abbandono il mio Campari a metà e mi concedo qualcosa che in sedici anni avrò fatto al massimo dieci volte. Infilo la mia carta telefonica nel più vicino parallelepipedo arancione e chiamo Alex al giornale.

«Non c’è» mi informa il suo collega Balfiotti. «È uscito cinque minuti fa di corsa. Credo l’abbia chiamato sua moglie».

Che faccio? Lo chiamo sul cellulare? Ho la proibizione assoluta di chiamarlo sul cellulare. Il cellulare è pericoloso come le fiamme dell’inferno. Non sai mai dov’è, chi lo tiene, chi lo sente, chi c’è lì vicino. Si sa di uomni che, per essere stati chiamati al telefonino dall’amante, hanno visto la loro famiglia sgretolarsi come un castello di briciole. Ma ormai sono preda del vento autolesionista che governa i kamikaze. Lo chiamo.

«Alex, sono Co...»

«Ah! Brava. Complimenti. Bella impresa. Strega schifosa».

«Ma cosa... cosa dici?»

«Hai voluto fare la furbata, eh? Molto astuta... peccato che ti è andata male... anche se Gloria mi sbatte fuori casa, tu non mi vedi più, capito?»

E attacca.

Richiamo.

«Spiegami se no mi metto a urlare in mezzo alla piazza che sono l’amante di Alex Varetto».

«Spiegarti cosa? Pensi davvero che non l’abbia capito, che l’hai scritta tu, quella lettera? Cretina!»

«Alex, e tu pensi davvero che se l’avessi scritta io mi sarei definita una specie di Meg Ryan?»

Segue pausa. Alex ha tanti limiti, ma non è stupido.

«E allora chi l’ha scritta?» mi chiede.

«Veramente io pensavo proprio che l’avessi scritta tu».

«Ma sei scema? Sei pazza? Io sono rovinato, adesso. Hai capito? Ro-vi-na-to».

E attacca di nuovo.

Questa volta non lo richiamo.

ORE 3.00. CASA MIA

Dove sono le mie cugine, nel momento del bisogno? Mio? Del mio bisogno? Dove sono? Sparse ai quattro venti, ecco dove sono, e non una che si preoccupi di me, sospesa sull’orlo del baratro. Da quattro giorni, Alex le sta tentando tutte per convincere Gloria che quella lettera: A) non l’ha scritta lui. B) È un cumulo di falsità e menzogne perché lui, anche se qualche misera volta le è stato infedele, ama lei, soltanto lei e per sempre lei. Nel frattempo, ne sta tentando ancora di più per scoprire chi ha veramente scritto la lettera. Sospetta di chiunque, mentre la verità è tanto evidente: l’ha scritta proprio Gloria, per mettere in moto il ben oliato meccanismo che la porterà a schiacciare Alex una volta per tutte. Lo farà strisciare il giusto e poi lo perdonerà, e lui dopo questo spavento rinuncerà per sempre all’amore, tranne magari qualche seduzione via Internet quando Gloria è dall’estetista. Mi viene da piangere. Ah, quanto avrei bisogno di sviscerare a fondo l’argomento con le cugine! Pur di convincere loro, forse riuscirei a convincere anche me stessa che questa è la volta buona, e che le cose tra Alex e Gloria non si aggiusteranno. Invece niente, l’argomento mi tocca sviscerarmelo da sola, in piena notte, ingurgitando il mio pappone preferito di latte, caffè e pandoro (grazie al cielo ho trovato una torrefazione che vende il pandoro anche in maggio). Perché le cugine, i pilastri della mia saggezza, sono troppo prese dalle loro inutili faccende personali per badare a me. Bibi ha chiamato Irene da Vancouver, e le ha comunicato che Nigel è ingrassato, il clima è spaventoso e i bambini hanno urgente bisogno di farsi raddrizzare i denti. Dice che ci farà sapere di più per e-mail, peccato che nessuna di noi ha l’e-mail e a stento sappiamo cos’è. Irene stessa ha acconsentito a trascorrere un weekend d’amore con Andrea, ma non ha voluto saperne di seguirlo a Porquerolles. La settimana prossima lei e Marco firmeranno la separazione, e fino ad allora la sua vita dev’essere deserta come i Tartari.

«Ma scusa» le ho detto qualche giorno fa al telefono, «allora rimanda il weekend d’amore a dopo la firma».

«Non posso... Andrea insiste... dice che se gli dico di no va via con la sua collega, che gli fa gli occhi dolcissimi».

«E che razza di rapporto è, il vostro? Ti lasci ricattare così?»

«Certo».

«Ah».

«Perciò gli ho detto, niente Porquerolles, il weekend d’amore lo facciamo al Royal Park».

«Sei scema?»

«Almeno ogni tanto posso fare una scappata a casa a controllare che sia tutto a posto e a salutare Oliviero. Lo lascio con la mamma, ma sai com’è... in questi giorni ha due linee di febbre e mi spiace abbandonarlo».

Abbandonarlo? Il Royal Park è un albergo esattamente davanti a casa di Irene. Se Oliviero starnutisce, al Royal Park gridano ‘salute!’ tutti insieme. Non so perché, ma questo weekend d’amore lo vedo malino. E molto peggio ancora vedo l’intera settimana insieme di Ugo Torment e Sofia, che ha chiesto a Carta e Cuci un po’ di ferie per svuotare fino in fondo la coppa dell’amore. Naturalmente la svuoterà a Portovenere, e già mi immagino come: Torment sdraiato a riprendersi dalle fatiche della creazione artistica, e lei a cucinare, pulire, portarlo a passeggio e comprargli maglioncini di cachemire come ricostituente.

In quanto a Veronica, è passata ieri in negozio con tutti i suoi figli, compresa Sailor Maria, che mi è parsa molto migliorata: è sempre bruttina ma non è più verde, e sta appiccicata a Veronica con l’aria beata di un porcellino nel fango. Veronica mi ha detto che Eugenio continua a non rivolgerle la parola, ma che c’è qualcuno che le dà speranza e conforto. Era l’occasione giusta per tirar fuori questo misterioso Vittorio, presumibilmente la fonte della speranza e del conforto, ma proprio in quel momento sua figlia Betta ha sfilato le chiavi dalla borsetta di una cliente, e Vittorio mi è passato di mente. Così, nessuna ha tempo per me, e tanto meno Carolina, che non sopporta più le storie d’amore. Dice che sono una componente della vita molto sopravvalutata. Eh già, certo, penso rimestando il pappone, facile dire così quando si sta con uno come Lorenzo. Penso a lui, al suo sorriso leggero, a ieri che l’ho visto in bicicletta, e l’ho riconosciuto da lontanissimo. Meglio sarebbe pensare ad Alex, e infatti mi sto concentrando su di lui quando suona il telefono. Alle tre del mattino? Chi sarà?

«Costanza?»

«Ehi».

«Eri sveglia, vero? Pensavi a me?»

«Ero sveglia. Stavo quasi per pensare a te. E tu? Dove sei?»

«Da Irma».

Irma è sua sorella, che lo ospita da quando Gloria l’ha buttato fuori. Almeno, a me ha sempre detto che è sua sorella, ma non si somigliano per niente e io certificati di nascita non ne ho mai visti.

«Novità?»

«Eh sì, direi proprio di sì. Grandi novità, amore mio».

Amore mio?

«Alex... che succede? L’ultima volta che mi hai chiamata amore mio c’era ancora il governo Craxi...»

«Succede che con Gloria ho chiuso. Che mi sono stufato di implorarla, quella stronza di merda. E succede anche che Irma non mi può più ospitare. Perciò quando torno da Roma vengo a vivere con te».

«Quando cosa?»

«Torno da Roma. Parto domattina, per l’intervista a Verdone. E quando torno vengo da te... mi vuoi?»

«Alex... dai... non prendermi in giro...»

«Però ci troviamo presto un’altra casa, tutta per noi... non mi va di vivere nel Paese dei Balocchi...»

Uffa, solo perché ho la casa di Barbie, qualche casetta di Lego, e il libro di Boscodirovo che si apre e diventa praticamente Boscodirovo in scala 1:1.

«Certo, Alex. Tutto quello che vuoi. Sono sotto choc».

«Lo so, piccolina. Stellina mia. Tutta questa pazienza, che hai avuto...»

Parliamo d’amore per mezz’ora. Quando riattacco, sono quasi le quattro, e ho un intero set di coltelli che mi squarciano lo stomaco. Senza neanche sapere quello che sto facendo, formo il numero di Carolina.

Mi risponde Lorenzo.

«Sono Costanza... scusa... lo so che sono le quattro ma ho bisogno di parlare con Carolina».

«Non c’è. Mi spiace. Posso servirti io?»

«Non c’è!? Ma sono le quattro! Allora non ti ho svegliato...»

«Perché allora?»

«Perché sei sveglio ad aspettare Carolina».

«Diciamo di sì. Non è esattamente così, ma ci va vicino. Carolina è uscita con Roberto, sai, quel diret...»

«...tore della fotografia con cui... con cui si vedeva qualche anno fa. Non stava a Roma?»

«È qui di passaggio, le ha telefonato e sono andati ai Murazzi».

I Murazzi: una striscia di locali lungo il fiume dove va soltanto chi vuol fare l’alba.

«Ah, be’. Se andavano ai Murazzi è normale che non sia ancora tornata».

«Grazie, Costanza. Sei sempre gentile. E tu? Che succede? Com’è che telefoni in lacrime a quest’ora?»

«Non credevo di essere in lacrime».

«Ti inghiotti i singhiozzi».

«È perché... perché... Alex».

«Oh, Alex... certo. Che ha fatto?»

«Vuole venire a vivere con me».

Lorenzo trattiene il fiato. Sono riuscita a stupirlo, il maestro dell’aplomb.

«Ah sì? E come mai?»

«Perché con sua moglie non la aggiusta più... e sua sorella non può mica ospitarlo per sempre».

«Ho capito. Motivazioni forti. E quando arriva? Adesso?»

«No, fra tre o quattro giorni. Deve andare a Roma a intervistare Verdone».

«Non ha una vita facile, quell’uomo. E allora? Perché piangi? Non sei felice?»

«Senti... vuoi che attacco, così Carolina trova libero se chiama?»

«No. Lasciamo pure che trovi occupato».

«Ecco! Fai come col bacio... mi sfrutti».

«Hai avuto questa impressione?»

«Certo! Mi hai baciata per farla ingelosire e adesso tieni occupato per farle rabbia. Guarda che io non voglio essere utile!»

«Infatti non lo sei. Anzi, comincio a trovarti parecchio dannosa. Vuoi dirmi cosa c’è che non va? Non sei felice? Finalmente il tuo grande amore viene a vivere con te... cos’è, un attacco di panico?»

«No... è un attacco che improvvisamente ho capito che non lo voglio. Non lo voglio nella mia casa. E in realtà neanche lui mi vuole nella mia casa, perché dice che sembra il paese dei Balocchi e vuole che ne cerchiamo un’altra per noi e so già che non vorrà la casa di Barbie...»

«È comprensibile, Costanza. A molti uomini non piacciono particolarmente le case di Barbie».

«A te?»

«La tua non l’ho ancora vista».

«Cosa c’entra se è mia o no?»

«Niente. Dunque, si tratta di scegliere tra Alex e la casa di Barbie?»

«Oh, Lorenzo...»

Non so come mi viene fuori, quel ‘Oh, Lorenzo...’ ma deve avere qualcosa di sbagliato, perché lui sta zitto. Anche io sto zitta. Poi però lui parla.

«Costanza... sento la chiave nella porta. Credo che sia Carolina...»

«Okay, ciao. Salutamela».

Butto giù. A che serve? Cosa può capirne, chiunque, di quello che provo? Solo una cugina potrebbe capirmi, ma prima di dire a una qualsiasi cugina che non voglio Alex in casa mi faccio scorticare come un santo medioevale. Dopo tutto, loro da sedici anni vanno avanti a dirmi che Alex non va bene per me. Mai potrei dargli la soddisfazione di ammetterlo. E poi non lo ammetto. Alex va bene per me. Lo adoro. È qui in casa che non va bene. Non si adatta alle mie teiere, alla mia Madonnina luminosa, alla trapunta sul letto, alle piante sul mio terrazzino.

Suona il telefono.

«Costanza».

«Oh, Carolina... accidenti... non volevo che tu mi richiamassi a quest’ora».

«Shh... mi serve... finché parlo con te, eludo Lorenzo».

«Non ti sente, adesso?»

«No. Sono chiusa in bagno col cordless».

«E le derivazioni?»

«Non lo farebbe mai».

«E allora? Cosa hai combinato con Roberto?»

«Non è quello».

«Comunque?»

«Comunque».

«Ah».

«Eh. Ma non sei tu, quella che piangeva al telefono? Lorenzo mi ha detto che Alex viene a vivere con te e tu non lo vuoi. Immagino che non abbia capito niente».

Le spiego che invece ha capito, se non tutto, almeno parecchio, e Carolina cerca di consolarmi. Dice che è panico tipo quello della sposa. Che domattina mi sarà passato. E comunque non puoi smaniare per qualcosa per sedici anni e poi fare storie quando finalmente ce l’hai. Ci vediamo domani in negozio.

Trovo Carolina molto severa. Nonostante questo, mi addormento di schianto, e non sento la sveglia.

ORE 16.30. IKEA

Non so se venire all’Ikea con Veronica è stata una buona idea. Intanto, va detto in generale che nessuna delle cugine è una straordinaria compagna di shopping. Essendo sostanzialmente, e ciascuna a modo suo, delle eccentriche, comprano seguendo criteri difficilmente condivisibili. Irene compra soltanto cose care, classiche e chic. Sofia compra a livello emotivo, ignorando qualunque esigenza del suo fisico, della sua casa o di sua figlia. Se è di buon umore, spreca quantità di soldi per, ad esempio, uno strabiliante mazzo di rose di seta. Se è sardonica, compra una candela enorme a forma di castello di Chenonceaux. Se è depressa, non compra niente e mangia solo tonno in scatola. Veronica compra quasi soltanto cose blu. Bibi compra a grandi blocchi mentali che durano qualche mese. C’è stato il periodo Laura Ashley - stoffe a fiori - Cacharel - profumi alla vaniglia - album di Beatrix Potter - scarpine di vernice - eccetera. Adesso invece siamo in pieno periodo tute - Superga di lino - mobili in vimini - gioielli di gomma - candele - cyclette - incensi - eccetera. Si può andare a far compere con lei soltanto se per caso hai bisogno di qualcosa che rientra nel periodo del momento. Ad esempio, se ti servono fermagli per capelli e lei è nel periodo new romantic. Se invece hai bisogno di un frullatore e lei è nel periodo medioevale, sei fregata. Così io in generale esco con Veronica, perché il blu mi piace, anche se non con la sua quieta fissazione, e lei mi sembra adatta alla missione casalinga e familiare che mi sono accollata oggi. Il dolce dolore della convivenza con chi dividerlo, se non con lei? In più, ha lasciato con la signora che viene a stirare tutti i figli, tranne Sailor Maria che ci segue con l’entusiasmo della neofita. Il passaggio dalle precedenti condizioni di vita precarie all’esistenza in casa Barra l’ha completamente stordita. Sta appesa a mia cugina come un koala e quando arriviamo al reparto bambini dell’Ikea perde il lume della ragione. Si sdraia sotto una casetta a righe colorate e pare intenzionata a morire lì, felice. Ma io non sono qui per comprare mobili imbottiti rossi e gialli. Il mio scopo è acquistare un cassettone per la roba di Alex, in modo da farglielo trovare montato e pronto al suo arrivo. Veronica in questa occasione ha assunto un atteggiamento neutrale. Dice che comunque questa svolta è positiva, perché porterà da qualche parte, e lei sa già da che parte. Su mia richiesta, si è rifiutata di precisare, dicendo che non vuole rovinarmi la sorpresa.

«E comunque, se proprio vuoi comprare un cassettone, potevi andare in un negozio di design. L’Ikea non fa per lui».

«Ma fa per me. È già tanto che non gli faccio mettere i vestiti nella casa di Barbie».

Vorrei anche dirle, mentre facciamo una sosta al bar per prendere un caffè accompagnato da dolcetti svedesi, che potrebbe risparmiarsi di fare tanto la furba perché oggi l’ho vista. Sì sì. L’ho vista sulla porta di Sant’Agnese in compagnia del famoso Vittorio, ovvero Don Vittorio Salvi, il parroco. Anche se non vado mai in chiesa, ci ho messo poco a ricordarmi che si chiama così, e in un attimo tutto mi è stato chiaro. Siamo in pieno Uccelli di rovo! Insomma, lui non è che sia proprio uno schianto. È sui cinquantacinque anni, e questo è il meglio che si possa dire sul suo conto. Però è alto, e oggi la sovrastava con aria protettivamente sexy.

L’unica cosa che non mi spiego è la sua apparente mancanza di sensi di colpa. Una brava ragazza cattolica che tradisce suo marito con un prete dovrebbe avere occhiaie viola fino alle ginocchia. Invece Veronica è solo un po’ pallida. Immagino che si confessi a lui, e lui la assolva subito dopo essersi rivestito.

La provoco.

«Di’, e come va con Eugenio?»

Si illumina.

«Oggi l’ho sorpreso a sbucciare una banana a Sailor Maria».

«Non è che sperava che ci si strozzasse?»

«Non credo. Dopo gliel’ha schiacciata nel piattino».

«Però a te...»

«Non mi parla. Ma per un pelo ieri sera mi ha sorriso. Almeno credo. Quando gli ho messo nel piatto i piselli bruciacchiati, gli si è increspata la bocca. Sai, quando mi parlava mi diceva sempre che io i piselli li brucio con orgoglio».

‘Quando mi parlava’... povera piccola.

«Vero, perché non lo mandi al diavolo?»

Abbasssa gli occhi sulla barchetta ai mirtilli.

«Passerà. Ho cinque bambini».

Per un attimo, mi sembra che stiamo tutte e due dentro una canzone di Elvis Costello. Di solito, lei abita in quelle di Paul McCartney, e io in quelle di Ramazzotti.

ORE 23.00. CASA DI OLGA

La mia ultima sera da single la passo alla festa di compleanno della mia amica Olga: sembra quasi una cosa simbolica, un addio al celibato. A Olga piace compiere gli anni vistosamente, e ogni volta trasforma la villa in collina in cui vive con il secondo marito in un parco giochi per adulti, perciò se voglio concedermi qualche ultima sconsideratezza giovanile, sono al posto giusto. Da domani, la mia vita cambia: niente più mezzanotte di Natale con mamma e papà, pensando a lui, niente più vacanze con le amiche, pensando a lui, niente più domeniche avvinta al Centogradi, pensando a lui. A partire da domani sera, non penserò più a lui, ce l’avrò sempre con me, e per la prima volta dopo sedici anni farò parte di una coppia! È una sensazione che mi stordisce. O è quella, o è la roba colorata che continuo ad assaggiare. Non bevo niente ma assaggio tanto. Allo stordimento contribuiscono, credo, anche i tacchi altissimi che stanno sotto le mie scarpette di vernice. Visto che è la mia ultima occasione di essere seducente senza scontarlo poi con una scenataccia a casa (Alex, come tutti gli infedeli, è gelosissimo), ne approfitto a man bassa. Calze nere, minissima color ghiaccio, top irrisorio di un tono più scuro. Trucco, capelli in piega, cattive intenzioni, non mi manca niente. Unico neo: gli uomini presenti a questa festa avrebbero dovuto tutti smettere di bere parecchio tempo fa. A parte Lorenzo, che però mi sembra di cattivo umore. Sarà perché oltre a lui e a Carolina Olga ha invitato anche il famoso Roberto? Il quale tutto fa meno che ripartirsene per Roma come dovrebbe? E invece continua a portare Carolina ai Murazzi e credo non solo lì? Se la psicologia femminile così come ce la raccontano le omonime riviste fosse attendibile, vedere un uomo che mi ha messa sottosopra nel ruolo di perdente tradito dovrebbe raffreddarmi parecchio. Invece mi fa solo pensare che Carolina non ha gusto: Roberto è un omone squadrato con la voce forte, tutto lì.

«Ehi, ciao» dico a Lorenzo, buttandomi sulla disinvoltura smemorata, uno dei miei cavalli di battaglia. «Scusami ancora per l’altra notte. Ho avuto una specie di crisi isterica. Adesso è tutto a posto».

«Lo vedo. Di nuovo felice?»

«Sì sì. Certo. E tu? Come va?» forse ho sbagliato a chiederglielo. Magari adesso scoppia a piangere.

Invece niente. Mi guarda male, ma a occhi asciutti.

«Bene. Tra un paio di giorni parto».

«Per?»

«Come devo risponderti? Con un motivo, un posto o un periodo di tempo?»

«Tutto».

«Parto per Londra, per chiudere i miei ultimi affari lì, e non so ancora per quanto tempo».

Sarà l’ultimo assaggio, un grumo verde vischioso di nome Grasshopper, ma butto al vento ogni discrezione.

«Ehi... cos’è, una fuga?»

«Una fuga... forse. Può essere. Dipende da che cosa».

Indico Carolina che sta ballando con Roberto. È bene che sappiate che in generale io detesto la gente che balla, se hanno più di venticinque anni. Non li sopporto proprio. I quarantenni che ballano mi mettono uno sconforto nel cuore che neanche le tigri allo zoo. Vorrei cancellarli con una gommina, vr vr vr. In più, Carolina balla con il suo amante di fronte al suo fidanzato. Improvvisamente, la mia cara amica di una vita mi appare crudele e volgare. Senza dar tempo a Lorenzo di rispondere al mio gesto, annuncio.

«Forse mi ritiro da Carta e Cuci».

«Sarebbe un gravissimo sbaglio. D’accordo, sei portata agli sbagli, ma questo sarebbe davvero troppo».

«Ehi. Guarda che lo faccio per te».

«Grazie. Se proprio vuoi fare qualcosa per me...»

Puntini puntini. Non finisce la frase perché Carolina, spostandosi alla velocità della luce, ci piomba addosso mentre ancora la vediamo ballare. Di conseguenza, mi viene un improvviso desiderio di andare a salutare Irene, che deve ancora farmi il resoconto del suo weekend di passione. Gli occhi li ha pesti, quindi dovrebbe essere andato tutto bene. Mi avvicino, la bacio, le chiedo come va e lei mi risponde:

«Sei mai stata a Baghdad?»

Di tutte le domande, basterebbe questa a identificarla come cugina.

«No, mai. Perché?»

«Ci vado venerdì. Secondo te lì in questa stagione ci sono molte zanzare?»

«Perché vai a Baghdad, venerdì?»

«Vado a passare un weekend romantico».

«Un altro? E come mai a Baghdad? Andrea si è specializzato in cammelli?»

«Andrea non c’entra. Ci vado con Giacomo».

«Giacomino?»

«Eh sì. Insiste così tanto che mi ha sfinita e gli ho detto di sì. In fondo, quando mai mi capiterà di nuovo l’occasione di andare a Baghdad?»

«E lui cosa ci va a fare? Non mi hai mai detto che lavoro fa. Ammesso che lavori».

«Si strugge di lavoro. Fa il dirigente della Banca Sella».

«Aprono un Bancomat a Baghdad?»

«Robe così».

«E Oliviero?»

«Giacomo insiste per portarlo con noi».

Provo rispetto per Giacomo. Avrà anche un’arachide di cervello, ma ha capito come funziona Irene: detesta lasciare suo figlio, però detesta anche stare a casa con lui, quindi lo lascia spesso, e per tutto il tempo ci sta male. Sembra stupido e complicato, e in effetti è stupido e complicato, ma Irene è fatta così, e la soluzione proposta dal nobile Giacomo è perfetta, non fosse per un particolare.

«Scusa, come fate a passare un weekend di passione con Oliviero dietro?»

«Alla sera gli diamo la lattuga».

«Eh?»

«La lattuga. Fa venir sonno. Quando era piccolo gliene tritavo dei chili nel passato di verdura».

Più conosco a fondo le madri, più mi rallegro di non condividere la loro quotidiana criminalità.

ORE 2.00. GIARDINO DI OLGA

Ormai ho assaggiato tutto l’assaggiabile, e me ne sto sbaraccata su un dondolo insieme a Carolina. Stranamente, se ne sono andati sia Lorenzo che l’altro, il direttore della fotografia, e Carolina sembra finalmente felice.

«Avevi ragione tu» mi dice masticando il diciottesimo, credo, cioccolatino al liquore, «il patchwork è un’idea fantastica».

«Mmm... fantastica».

«Sai come voglio farlo? Voglio prendere una vecchia coperta e due vecchi lenzuoli. Cucio la coperta in mezzo ai lenzuoli... mi segui?»

«Yeahhh...»

«Sei ubriaca?»

«Ma no, mi rilasso».

«Brava. Poi su uno dei due lenzuoli trapungo i pezzetti. Si dice ‘trapungo’? Per arrivare al participio trapunta, dovrà pur esistere un verbo di partenza. E se non è trapungere...»

«È trapungere. Io trapunsi, tu trapungerai».

«Meno male. Anche facendo proprio un lavoro di fino, per Natale dovrei averla finita».

«Sarà un regalo per Lorenzo?»

«Oh no... bye bye Lorenzo... addio... te lo lascio, cocca».

«Cosa stai dicendo?»

«Che te lo lascio. Ti piace, giusto? Bene, prenditelo. Ma soltanto quando sarai ben sistemata con Alex... finalmente toccherà a te tradirlo».

«Queste sono brutte cose, Carolina. Ti credi di stare in un romanzo di Jackie Collins? Cosa c’è che non va, con Lorenzo?»

«Quasi niente. È adorabile, vedrai. Il problema è che io preferisco continuare come prima. Mi piace di più! Di più! Di più!»

«Non cantare, ti prego... ti piace di più cosa? Stare sola?»

«Sì, e libera. Avere storie così, come quella con Roberto... si sta insieme due settimane, poi non ci si vede per due anni, poi si sta insieme di nuovo un po’... ma non perdere mai il mio tempo mio. Essere sempre libera di farmi le mie cose. Leggere. Trafficare. Fare la cena dolce!»

«Perché, con Lorenzo non la potevi fare, la cena dolce?»

«Non esiste nessun uomo al mondo con cui si può cenare a caffelatte e pane e burro».

«E biscotti... pandoro...»

«Cioccolata. Non esiste. L’uomo non ama la cena dolce».

Stiamo zitte. È vero. Girala come vuoi, qualunque donna prima di sposarsi o convivere, dovrebbe assimilare questa dolorosa verità: se ti metti un uomo in casa, per fare la cena dolce dovrai aspettare che parta per affari.

«E non è solo quello» continua Carolina. «Con Lorenzo non potevo fare niente proprio come lo facevo prima. Credimi, queste poche settimane di convivenza sono state un tormento».

«Addirittura?»

«Sì, addirittura. Dovevo continuamente tener conto di qualcosa. Qualcosa che non ero soltanto io e quello che faceva comodo a me».

«E va be’, dai, è normale».

«Per me no. Vivere con un uomo va bene soltanto se sei proprio innamorata pazza».

«E tu, niente?»

«Niente. Argomento chiuso».

«Ah sì? E allora perché prima sei calata su di noi come un falco mentre parlavamo?»

«Per proteggerti meglio, bambina mia».

«E da cosa, nonnina?»

«Dalla grande stupidata dell’ultima sera. Soltanto quando vivrai con Alex, potrai concederti un capriccello con lui. Se ci cascavi stasera, scema come sei eri capace di andare in corto circuito, credere di essere innamorata, e domani arrivava Alex, e chissà che pasticcio succedeva».

«Ma...»

«Fidati».

«E poi chi ti dice che lui ci avrebbe provato? Lo sa già che lo molli?»

«Mmm... non proprio... cioè, lo sa benissimo, mica è scemo, ma ancora non gliel’ho detto. Conto di farlo subito prima che parta per Londra. Così quando torna tu lo consoli».

«Non mi piace, consolare».

«E non consolarlo. Prendilo in giro. Che ti frega? È un ragazzo carino, tutto lì. Domattina apri tu?»

Così me ne torno a casa. E in segreteria trovo un messaggio di Rebecca: «È arrivata una spaventosa e-mail di Bibi. Chiamami».

Non adesso. Sono le tre, fra sei ore devo alzarmi, e domani comincia per me una nuova vita.

ORE 16.45. CARTA E CUCI

La ragazza che sostituisce Sofia per questa settimana è Agnese, una nipote di Carolina: un’asina incapace che comunica la sua stessa noia di vivere alle clienti. Ho visto signore energiche ed entusiaste entrare con tutte le intenzioni di comprare aghi, fili, kit da ricamo, bottoni luccicanti e cordoncini per bordare la vestaglia, e dopo pochi minuti di trattative con Agnese uscire a mani vuote sbadigliando. In realtà, avevamo offerto il posto, almeno part-time, a Rebecca, ma nel bel mezzo delle sue turbinose attività la nostra ragazza si è resa conto che manca un niente all’esame di maturità e si è chiusa in casa a studiare. In assenza di sua madre, è la nonna, cioè zia Carla, a vegliare su di lei. Di Sofia, intanto, nessuna notizia. Evidentemente la vacanza d’amore funziona così bene che non prova neanche il normale impulso di telefonare a una cugina. La aspettiamo di ritorno tra tre o quattro giorni, e alcune di noi già la vedono incinta.

«Signora...»

La querula Agnese mi chiama, incapace di sopportare la determinazione all’acquisto della signorina Poma, una delle nostre più accanite clienti. La signorina Poma ha circa settantacinque anni, ed è evidente da tutto il suo atteggiamento che la considera l’età più felice della donna. Ora, finalmente, nessuno si aspetta più niente da lei se non torte, ricami e canaste, e guarda caso proprio esattamente queste sono le sue attività preferite! Che bello! Oggi è venuta a comprare due bei mazzi di carte da regalare a un’amica.

«Signora... io gliel’ho detto che noi carte da gioco non ne abbiamo... abbiamo solo carta per foderare i cassetti e cose così... carte per giocare niente... per giocare abbiamo i puzzle... ma lei non li vuole, i puzzle, e dice che sua cognata ha comprato qui le carte da gioco... glielo dice lei che non le abbiamo?»

«Signorina Poma! Come sta?»

«Benissimo, cara Clotilde. Ho piacere di rivederla. Come stanno le zie? Mi saluti tanto la sua mamma. Senta, questa ragazza dice che non avete carte da gioco, eppure io ricordo benissimo che mia cognata Letizia, la moglie di mio fratello, sa, il professor Poma, il cardiochirurgo... ecco... Letizia ha acquistato qui da voi due bellissimi mazzi di carte liberty... ora, io ne vorrei due mazzi simili da regalare alla signora Greco, la mia amica, sa la moglie del professor Greco...»

Prima di entrare a vele spiegate in questo mondo meraviglioso dove tutti sono professori, inchiodo la signorina Poma davanti al cassetto contrassegnato dalla targhetta ‘Carte da Gioco’, un cassetto di cui Agnese ignora l’esistenza, come della maggior parte del mondo reale. Lo apro, e la immergo nella beata contemplazione di molti mazzi di carte, liberty e non. E mi giro al richiamo energico di una giovane voce.

«Costanza! Hai sentito il mio messaggio? Ti ho portato la lettera. Leggi».

Rebecca, unica internettista di famiglia, ha ricevuto l’e-mail di Bibi, con preghiera di diffondere. La leggo, e rimpiango di non avere una religione a cui chiedere conforto.

‘Ehi salve ragazze, solo due righe per dirvi di preparare il bue grasso o cos’è che era, perché si torna a casa! Come prevedevo, Nigel e i bambini avevano un gran bisogno di me. Quella donna non sa far altro che CUCINARE e pulire la CASA. Vivono circondati dalla PLASTICA e la loro condizione culturale è di una arretratezza ATROCE. Perfino Nigel non ha più reazioni spirituali degne di questo nome. Ma vi racconterò tutto a voce. L’importante è che li ho convinti a venire in Italia con me per una vacanza, e poi ovviamente non li lascerò più ripartire. Purtroppo è difficile pianificare le cose con Nigel perché o è ubriaco o piange. Temo che si veda ancora di nascosto con quella donna (viveva con loro ma naturalmente l’ho buttata fuori). Anche i bambini piangono parecchio ma come dio vuole appena saremo a casa rimetterò le cose a posto anche perché se no sai che palle baci Bibi’.

Io guardo Rebecca, lei guarda me, e poi se ne esce con questa imprevedibile affermazione:

«Se papà sposa Annamaria e la mamma Ugo Torment, io vengo a vivere con te».

Con me. Veramente, con me e Alex. Be’, in fondo, perché no? Dopo tutto, la figlia maggiore di Alex dovrebbe avere più o meno l’età di Rebecca. Madonna, i figli di Alex! In tutto questo casino, non ci avevo proprio pensato. Quando passeranno i weekend con noi, dove li metto a dormire? Forse all’Ikea avrei dovuto comprare anche dei letti a castello.

ORE 23.15. AEROPORTO

Ci siamo. Ancora un quarto d’ora e l’aereo da Roma si sbatterà sulla pista. Sono arrivata leggermente in anticipo per essere sicura di non avere l’aria affannata. Alex non sopporta chiunque dia l’impressione di aver avuto fretta di recente. Per accoglierlo nella nostra nuova vita a due ho scelto un vestitino di cotone a cui manca solo il nido d’ape per essere perfetto per una bambina di sei anni. Stavo per uscire di casa in jeans e maglietta di Friends, poi ho pensato che i jeans potevano sembrare respingenti, proprio la prima sera, e mi sono cambiata in fretta e furia. A casa, tutto è a posto: in forno c’è la pasta al forno, sul fornello c’è la bistecchiera, in frigo ci sono bistecche, insalata, Chablis e crème caramel. In camera mia, al posto della casa di Barbie, un cassettone rosso ondulato, che ho finito di montare due ore fa. Non crediate che la casa di Barbie sia stata estromessa: l’ho spostata in bagno. Casa mia ha soltanto due stanze ma il bagno è enorme. Cerco di non pensare alla casa di Barbie perché non voglio avere in faccia un’espressione bellicosa. Non è il momento. Mi siedo in una poltroncina del reparto Arrivi Nazionali, rilassata come John Travolta in Pulp Fiction, quando Uma Thurman gli tracolla in braccio. Fingo di sfogliare Grazia. Vado a bere un caffè. Il quadro annuncia un ritardo di dieci minuti. Perché non fumo? E se cominciassi adesso? Sto per andare a comprarmi un pacchetto di sigarette quando sento una voce cordiale che chiama:

«Signorina Vestri!»

Mi giro lieta della distrazione, e a qualche metro di distanza, elegante, bionda e meno miope di quel che credevo, ecco Gloria Varetto, la moglie di Alex. E qui è soltanto la genetica che mi mette in grado di affrontare la situazione. Le donne della mia famiglia hanno per tradizione una smodata capacità di recupero. Di fronte a qualunque imprevisto, nel giro di pochi secondi riescono a dare l’impressione che quell’imprevisto sia il frutto di una loro iniziativa personale. Così, mentre cuore e stomaco mi si congelano, sorrido e agito una manina.

«Signora Varetto... come va?»

«Benissimo, grazie. E lei? Il negozio?»

«Molto bene. È un po’ che non la vediamo...»

«Purtroppo... da quando lavoro, non ho più tempo per niente...»

Lavora? E cosa fa? A parte pedinare il marito?

«Lavora? E di cosa si occupa?»

«Faccio le PR per il GFT».

Oh santo cielo. Alex non me l’ha detto. E adesso? Le chiedo cosa ci fa qui? Mi previene.

«Per fortuna l’aereo da Roma è in ritardo. Sono venuta a prendere mio marito ma ho trovato tutti i semafori rossi».

«Ah... è stato a Roma per lavoro?»

«Sì... a intervistare Carlo Verdone...»

«Che bello... lui ha sempre l’occasione di conoscere gente interessante...»

«Certo, il suo mestiere è affascinante... e lei? Aspetta qualcuno da Roma?»

Donne al bivio. Che faccio? Come rispondo a questa bellissima domanda? L’istinto, sia quello umano che quello animale, mi porterebbe a dire che no, aspetto l’aereo da Cagliari, e perdermi poi tra la folla. Ma non vorrei trovarmi, senza saperlo, al momento cruciale del film. Quello in cui lei crede alla perfida madre di lui. Al perfido capo ufficio di lui. Quello in cui lei consegna fiduciosa la lettera alla vecchia amica di lui che la farà a pezzetti e la butterà nel camino. Il momento in cui il telegramma va perduto, il taxi trova un ingorgo, la nave naufraga... il momento, insomma, in cui i due innamorati vengono separati per un equivoco, e tutto il cinema pensa: ‘No! Non dargli la lettera! Non andare lì! Non credere là! Non fare così!’ E se questa scenetta disgustosa fosse stata tramata all’insaputa di Alex? E se lui arriva, e non mi trova, e trova invece lei che gli dice, mettiamo: ‘Vieni a casa, tesoro. La tua amante è appena partita per San Pietroburgo con un architetto russo’? Che ne so? Io di qui non mi muovo. Alex, scendendo da quell’aereo, mi troverà esattamente dove gli ho detto che mi avrebbe trovata, e vedremo.

«Sì... arriva un’amica di Roma che viene a trovarmi per un po’...»

Sorrido. Sorride. Grazie al cielo, il quadro fa le sue rotazioni e ci dice che l’aereo da Roma è appena atterrato. Inizia una lunga agonia. Ci precipitiamo davanti alla porta da cui compariranno i passeggeri provenienti da Roma. Aspettiamo e aspettiamo ancora, e finalmente la porta si apre. Escono fiumane di persone, ed ecco Alex. Bellissimo, un velo di stanchezza negli occhi, ci vede, sorride, e agitando una mano, perfetta parodia di Umberto Tozzi, grida: «Gloria!»