Pfäfers
(1917)
Vista dall’alto la pianura è ammantata da una fitta coltre di neve. A destra il Reno si allunga intrufolandosi fra le montagne grigionesi, dove prende la vita. A sinistra si stende per una tratta; poi, mentre un braccio della valle sale verso il lago di Zurigo, passando per Sargans e Walenstadt, il fiume svolta a destra, nel Rheintal, inoltrandosi verso Sennwald, Marbach, Heerbrugg, Widnau, luoghi tutti che oramai conosciamo, per andare a gettarsi nel lago di Costanza. Proprio dove Antonio Laccabue ha vissuto fino a qualche giorno prima. Di fronte, più in basso, sorge il borgo di Maienfeld con le sue torri di pietra, le case antiche, le fattorie e l’anfiteatro della montagna occupato alle sue falde dai vigneti. È lì, nell’idillio, che è cresciuta Heidi: l’eroina alpestre di narrazioni, film, cartoni animati, libri illustrati che hanno incantato e continuano ad affascinare l’infanzia di mezzo mondo.
La clinica psichiatrica sorge in faccia al paese di Heidi, su uno sperone, sopra Bad Ragaz, i suoi alberghi di lusso e i suoi bagni termali. È stata ricavata da un’abbazia benedettina fondata nel Medioevo da san Pirmino. Al tempo di questa storia l’Heil- und Pflege-Anstalt, l’istituto di guarigione e di cura, ospita circa trecento pazienti: maniaci, depressi, schizofrenici, paranoici, allucinati, idioti, dementi, alcolizzati. Gente che soffre. Gente che ride. Gente che sta guarendo. Gente che sta morendo. È diretta dal dottor Victor Haeberlin, che è coadiuvato da un assistente, il dottor Werner Würth. Un medico ogni centocinquanta mentecatti. Accanto all’edificio principale sono stati eretti da poco due padiglioni per i pazienti irrequieti. Uno per gli uomini e l’altro per le donne. In ogni nuovo edificio i dormitori e i lavabi sono ai piani superiori; le sale per il «trattamento a letto», le vasche di rame per le «terapie del bagno continuo», le celle di isolamento e le camere per i sorveglianti, al pianterreno.
Antonio Laccabue arriva al manicomio di Pfäfers alla metà di gennaio del 1917. Ha le caviglie e i polsi legati. Durante il viaggio è stato tenuto rinchiuso nel vagone della posta. Fra i sacchi delle lettere, i pacchi e i bidoni del latte. Ha pianto quando, durante una fermata, l’altoparlante ha annunciato: «Stazione di Marbach». Poi si è messo a urlare, mordendosi le mani. A Bad Ragaz il gendarme lo ha passato in consegna a un sorvegliante. Sono venti minuti di strada in salita, tutta curve, in mezzo alle conifere spruzzate di brina e a grandi mucchi di neve gelata. Dalla chiesa adiacente il suono delle campane annuncia il mezzogiorno. «Benvenuto» dice premuroso un inserviente. «Hueresiech!» bestemmia Antonio. Ha le gambe indolenzite. Smontato dal calesse, cade a terra gridando parole incomprensibili. Quindi si rotola nella neve frammista alla segatura. Due ausiliari lo afferrano per le ascelle e lo portano di peso all’interno del padiglione. Fa caldo, là dentro. Si sente un buon profumo di spezie, là dentro.
Accanto al letto di ferro, nel dormitorio, c’è un tavolino, uno sgabello, una brocca, una fondina e una tazza di metallo. Sotto il letto un secchio con il coperchio. «In questa clinica valgono tre principi» spiega una sorvegliante. «Calma, ordine e disciplina.» «Imparali subito.» È una donna di mezza età. Porta un grembiule bianco sopra l’abito nero, e tiene i capelli raccolti sulla nuca. Come tutte le Wächterinnen. «Gopfverteli!» urla Antonio. «Fammi andare a casa.» Non ricorda nulla di quello che è successo. Non di avere rotto una carriola. Non di avere ferito un ragazzo scagliandogli addosso alcune pietre. Non di avere minacciato la vicemadre con una scopa. Non di avere preso a pugni il vicepadre. Né di avere passato due giorni in una cella di rigore. Sul comò c’è il pranzo. Una fetta di bollito in salsa verde con la composta di mele. Antonio non mangia. Non beve. Non vuole restare. Si rifiuta di riporre la biancheria nell’armadio. Anzi la getta per aria. Prima piange forte. Poi si mette a urlare, piegandosi in avanti e facendo roteare le braccia. Sembra un animale. Metà orso e metà uccello. Un orso che vola. Un uccello che arranca.
All’indomani il paziente viene trasferito al piano di sotto. Non ha dormito durante la notte. «Vattene, bastardo» ha urlato una voce nel buio. «Stai zitto, carogna» gli ha fatto eco un’altra voce. «Maledetto Tschingg.» «Silenzio!» ha ordinato il sorvegliante. «Calma, ordine e disciplina.» «Calma, ordine e disciplina» gli ha fatto eco qualcuno con voce pacata. Il nuovo ospite si volta e si rivolta nel letto. Si alza di continuo. Solleva il coperchio del secchio e poi lo chiude con un colpo secco. Non ci sono camicie di forza, imbragature di pelle o, peggio, catene nella clinica St. Pirminsberg. Perciò la mattina dopo il nuovo arrivato viene portato in una cella. Antonio si dimena. Batte i pugni sul muro. Si lascia cadere di peso sulla panca. Si rialza urlando. Sputa sui muri. Si graffia le guance. Ripete senza sosta «Hueresiech!» Si strappa i capelli. Si stende esausto sulla brandina. «Mutti» implora singhiozzando nei momenti di calma: «Fammi tornare a casa». «Vecchia racchia!» «Vieni a prendermi, o ti ammazzo!» «Schiissdräck!» «Mi lasci solo per fartela con gli altri.» «Gopfverteli!» «Baldracca!» Dallo sportello un sorvegliante gli dice: «Calma, Antonio!» «Ordine, Antonio!» «Disciplina, Antonio!» Il pranzo e la cena sono posati su una mensola. Non ha fame, il paziente. La minestra di orzo è fredda. La polenta è fredda. I crauti sono freddi. La trippa è fredda. La salsiccia è fredda. Il caffellatte è freddo. Non ha proprio fame. Appoggia le nocche delle dita sugli zigomi e stringe forte con i pugni. «Mutti, ti voglio bene!» ripete senza smettere. «Mutti, sei una bastarda!» Antonio è sporco di sangue. Si sdraia in un angolo e si mette a mugolare. Quando suona il campanello e la luce fioca si spegne, sta guardando il soffitto con gli occhi rossi.
«Mutti, ti voglio bene!»
«Mutti, sei una porca bastarda!»
Sette giorni dopo Elise Göbel chiede di parlare con un medico. Antonio non vuole vederla. «È sempre stato buono come il pane» esordisce la donna. «Poi i compagni hanno preso a deriderlo.» «Allora si è chiuso nel suo riccio.» «È diventato selvatico.» «Non ha notato disturbi, prima di allora?» chiede il dottor Würth. «Quando è arrivato in casa vostra?» «Negli anni dell’infanzia?» «Al tempo dell’adolescenza?» «Mai» risponde ferma la Pflegemutter. «Però un giorno, a nove anni, è caduto da un albero.» «A scuola aveva grosse difficoltà.» «È stato il gendarme di Rorschach ad arrestarlo. Perché lo ha fatto?» «Le ha messo le mani addosso!» precisa il medico assistente. «La colpa è mia» riconosce la donna. «Sono impulsiva. Dovrei sforzarmi di essere meno irascibile. E poi quei ragazzi che continuano a provocarlo... Siamo fatti di carne.» «Non l’ha minacciata con il manico di una scopa?» «A volte disubbidiva...» sussurra Elise. «Era ribelle...» «...a volte è violento...» «Ma è il ragazzo più buono che conosca.» «Un pezzo di pane...»
Il dottor Würth accenna un sorriso. «È caduto da un albero?» «A testa in giù.» «Ha altro da raccontarmi?» Intanto trascrive a macchina frammenti di racconto sortiti dalla bocca della Pflegemutter. «È così dolce...» «Tanto caro...» «Ama più gli animali degli uomini.» «Parla con loro.» «Ascolta quello che gli dicono.» «A casa fa dei disegni.» «Li conserviamo tutti in una sporta di vimini.» «L’ha intrecciata lui stesso a Marbach.» «Quando ha finito di disegnare, Antonio fissa le bestie sul foglio di carta e torna a parlare con loro.» «Un giorno ha ripassato un disegno con gli acquerelli.» «Pareva proprio vivo.» «Poi si è messo a piangere.» «È colpa mia se è qui.» «L’ho denunciato in un momento di rabbia.» «Vorrei portarlo a casa.» «Ce l’hanno con lui perché ha il gozzo.» «Perché è cattolico.» «Perché ha un nome italiano.» «Sapesse quanto è dolce!» «Quanto è affettuoso!» «Un contadino vorrebbe prenderlo.» «Lasci che me lo porti via.» «Per ora Antonio resta qui» risponde il medico. «Ha bisogno di cure. Il dottor Imboden lo considera un pericolo pubblico.» «Povera me» piagnucola la donna. «Si ammalerà per davvero.» Intanto il dottor Würth batte a macchina alcune parole. «Imbecille.» «Scaltro.» «Irascibile (favonio?)» «Violento.» «Indifferente.» «Ottuso.» «Cammmina come le scimmie (catatonico?)» «Masochista?» «Schizofrenico (??)» «Parla con gli animali.» «Ha un talento unico nel disegnare le bestie.»
Dopo averlo osservato per qualche giorno, i medici decidono di visitare il paziente. Misurano la testa. Percorrono le fessure del cranio con i polpastrelli. Palpano i muscoli. Osservano quello che resta dei denti. Toccano il gozzo. Auscultano il cuore. «È asimmetrico» osserva il medico assistente, dopo avere controllato il viso. «Potrebbe essere figlio di consanguinei» azzarda interessato il dottor Haeberlin. «Succede più spesso di quanto non si pensi.» «Perché sei qui?» prova a chiedere il dottor Würth. «Non lo so» piagnucola Antonio. «Dov’è la tua casa?» «Dove il fiume entra nel lago. Perché mi tenete in prigione?» «Questa è una clinica, non una prigione.» «Dovresti finire i lavori che ti vengono affidati.» «Hai lasciato a metà la pulizia dei bagni.» «Non hai rifatto il letto.» «Non hai svuotato il secchio con i bisogni.» «Voglio tornare a casa» piagnucola Antonio. «Dopo ne parliamo.» «Vorrei scrivere una lettera alla Pflegemutter.» «Potrai farlo.» «Hueresiech! Voglio scrivere alla mamma!» «Sbriga i compiti che ti hanno affidato.» «Calma, ordine e disciplina.» Allora il «matto» caccia fuori la lingua, si piega in avanti, rotea le braccia e comincia a guaire. «Portatelo via» ordina il direttore. «Dategli una dose di Scopolamina.» «Fate che dorma più che può.»
Ogni sera, dopo cena, il medico assistente e il direttore si incontrano nel salotto. Prendono un caffè ben zuccherato. Accendono un sigaro. Sfogliano i quotidiani. Chiudono gli occhi, ascoltando il grammofono. Si scambiano qualche impressione. La stufa di maiolica rilascia un bel calore misto al profumo della resina. Le lampade di cristallo imprimono sulle pareti riflessi di luce e di ombre. «Stando al certificato di Karl Friedrich Imboden, Antonio Laccabue soffre di deficienza mentale ed è attualmente un pericolo pubblico» dice il dottor Würth. «Laccabue» aggiunge il direttore: «Mi è subito parso di avere già udito quel nome». «Dei Laccabue sono morti a Widnau.» «Una donna con i suoi bambini.» «Tre o quattro anni fa.» «Saranno stati suoi parenti?» «Ho letto la cronaca sui giornali.» «In tutta la valle del Reno la gente ne ha parlato.» «Il padre era un poco di buono e l’hanno espulso.» «Secondo il dottor Imboden era un minorato.» «Un bruto.» «Un alcolizzato.» «Mi viene da pensare all’ebefrenia» azzarda il medico assistente. «In base alle testimonianze della Pflegemutter» dice il direttore, «credo che le cause siano più complesse.» «Entra in gioco l’ereditarietà.» «C’entra la perdita precoce della madre naturale.» «C’è di mezzo la caduta da un albero.» «Non escluderei l’educazione ricevuta nella nuova famiglia.» «La vicemadre è manifestamente nevrastenica.»
«La caposorvegliante ha portato in cella alcuni fogli di carta e una scatola di pastelli» racconta il dottor Würth. «Allora Antonio si è calmato.» «Si è messo a canticchiare.» «Ha scherzato con la Oberwärterin.» «Oggi, prima di uscire dalla cella, gli ho chiesto il permesso di sfogliare i suoi disegni. ‘Me ne regali uno?’ gli ho detto: ‘Vorrei appenderlo nel mio studio’. ‘Ti darei questo ma non posso’ ha risposto: ‘Morirei di crepacuore’.» «Ancora un animale?» chiede ammiccando il direttore. «No» risponde sorridendo il medico assistente: «Una donna con il seno nudo». «Al posto dei capezzoli c’erano due buchi neri.» «‘Perché non hai fatto i capezzoli?’ gli ho domandato. ‘Li tengo in bocca, i capezzoli’ ha risposto Antonio sbarrando gli occhi: ‘Qualcuno potrebbe rubarmeli’.»
«Li tengo in bocca, i capezzoli.»
«Qualcuno potrebbe rubarmeli.»