RUDYARD KlPLlNG

Non ho molto da aggiungere riguardo al mio addestramento. Nel complesso, dovetti faticare moltissimo ma me la cavai. E con questo ho detto tutto.

Invece voglio parlarvi delle tute potenziate, un po' perché mi affascinavano, e un po' perché proprio a causa loro mi cacciai in un guaio. Non ho niente da recriminare, intendiamoci, ebbi solo quello che meritavo. La vita di un soldato della Fanteria spaziale mobile è legata alla sua tuta esattamente come quella di un uomo appartenente a un'unità K9 dipende dal suo cane. L'armatura potenziata rappresenta metà della ragione per cui siamo definiti Fanteria spaziale mobile e non semplicemente Fanteria. (L'altra metà è rappresentata dalle astronavi che ci portano nelle zone di operazione e dalle capsule in cui veniamo chiusi per il lancio.) Le tute ci forniscono vista più acuta, orecchie più sensibili, schiena più robusta per trasportare più armi pesanti e munizioni, gambe migliori, intelligenza più

pronta (in senso militare, s'intende: un uomo in tuta può essere stupido come qualsiasi altro, solo che è meglio che non lo sia), maggiore resistenza, minore vulnerabilità. La nostra non è una tuta spaziale, sebbene possa svolgere anche tale funzione. Non è nemmeno una vera armatura, per quanto i cavalieri della Tavola rotonda disponessero di corazze molto meno solide delle nostre. Non è un carro armato, ma un soldato della Fanteria spaziale mobile, da solo, potrebbe affrontare un intero squadrone di carri armati e distruggerli se qualcuno fosse così avventato da opporglieli. Una tuta non è un'astronave ma può volare, un po' almeno, e d'altra parte né un'astronave né una flotta di astronavi possono combattere contro un uomo in tuta, a meno di non far saltare per aria tutta la zona delle operazioni (e sarebbe come buttare giù

un palazzo per uccidere una mosca). Al contrario, noi possiamo fare molte più cose e molti più danni di una nave di superficie, subacquea o spaziale. Ci sono molti modi impersonali di causare distruzioni all'ingrosso, tramite unità da guerra o missili di vario tipo, producendo catastrofi così totali, così irreparabili, che la guerra finisce perché la nazione o il pianeta nemico hanno cessato di esistere. Quello che facciamo noi è completamente diverso. Noi rendiamo la guerra una faccenda personale come un pugno sul naso. Noi possiamo scegliere, esercitando l'esatto quantitativo di pressione richiesta nel punto specifico e al momento stabilito. Non ci è mai stato detto di andare e uccidere o catturare tutti i mancini rossi di capelli in una particolare zona, ma se ci venisse chiesto potremmo farlo, lo faremmo. Siamo quelli che si recano in una particolare località, a un'ora determinata, occupano una zona precisa, la tengono, stanano il nemico dalle trincee e lo costringono ad arrendersi o a morire. Siamo la milizia a piedi, l'umile soldataglia, i fanti che vanno là dove c'è il nemico e lo combattono di persona. Lo facciamo con armi diverse ma con le stesse regole di quando, circa cinquemila anni fa, le truppe di fanteria di Sargon il grande costrinsero i sumeri a piegarsi. Forse un giorno saranno in grado di lare a meno di noi. Forse un giorno qualche genio pazzo e miope, dalla fronte sporgente e dalla mente cibernetica, concepirà un'arma che potrà infilarsi in una trincea, stanare il nemico, costringendolo ad arrendersi o a morire, senza uccidere i commilitoni tenuti prigionieri laggiù. Non lo so, non sono un genio, sono solo un soldato della Fanteria spaziale mobile. Nel frattempo, finché la macchina per sostituirci non sarà stata costruita, noi fanti siamo in grado di cavarcela molto bene, e io posso fare la mia parte, al momento opportuno. Forse un giorno tutto sarà tranquillo e sistemato, e avremo davvero quella meravigliosa realtà di cui parla una canzone: "Non faremo mai più

la guerra". Può darsi. Forse quello stesso giorno il leopardo si cancellerà le macchie e si cercherà un impiego come mucca del Jersey. Non lo so. Ripeto, non sono un professore di cosmopolitica, sono un fante. Quando il governo mi spedisce, vado. Tra un ordine e l'altro cerco di dormire più che posso.

Però, mentre non hanno ancora inventato la macchina per sostituirci, hanno comunque studiato il modo di aiutarci il più possibile. Per esempio, hanno inventato la tuta.

Non c'è bisogno di descriverne l'aspetto, visto che è stata illustrata così

tanto spesso. Chiusi nella tuta, sembriamo grossi gorilla d'acciaio, equipaggiati con armi adatte a un primate. Forse per questo i sergenti cominciano le loro sfuriate chiamandoci scimmioni. Però forse anche ai tempi di Cesare i sergenti usavano gli stessi titoli onorifici. Ma una tuta è considerevolmente più robusta di un gorilla. Se un fante in tuta scambiasse un abbraccio con un gorilla, lo scimmione morirebbe soffocato, e il fante e la tuta non farebbero una grinza.

L'ammirazione dei profani va tutta ai muscoli, cioè alla pseudomuscolatura, ma il vero miracolo è il controllo dell'energia immagazzinata. La trovata geniale sta nel fatto che la tuta non ha bisogno di essere comandata: la si indossa come un abito e ci si sta dentro come nella propria pelle. Qualsiasi tipo di scafandro e di mezzo di trasporto richiede che si impari a pilotarlo: ci vuole tempo, bisogna acquisire una notevole quantità di nuovi riflessi, un modo diverso e artificiale di pensare. Perfino andare in bicicletta richiede una certa abilità, molto differente dal semplice camminare, e quanto alle astronavi... poveri noi! Non vivrei abbastanza per imparare tutto quello che bisogna sapere per guidarle: le navi spaziali sono fatte per acrobati dotati di grande talento matematico.

Una tuta, invece, la si indossa e basta.

Otto o forse nove quintali, a equipaggiamento completo. Eppure, fin dalla prima volta che la indossi, puoi subito camminare, correre, saltare, sdraiarti, prendere in mano un uovo senza romperlo (qui magari occorre un minimo di pratica, piano piano si migliora), ballare la giga (sempre se la sai ballare anche quando non hai la tuta), poi saltare sul tetto della casa accanto e tornare giù come una piuma. Il segreto sta nei rigeneratori e nell'amplificazione.

Non chiedetemi di spiegarvi i particolari tecnici: non ne so niente. D'altra parte molti famosi violinisti non sono in grado di costruirsi il loro strumento. Posso tenerla in ordine, eseguire qualche riparazione e controllare i trecentoquarantasette dispositivi, da SPENTA fino a PRONTA PER

L'USO, ma a un povero fante non si può chiedere di più. Se però la mia tuta si guasta sul serio, chiamo il medico, ossia un ingegnere elettromeccanico, un ufficiale specialista di Marina, di solito un tenente (leggi "capitano" rispetto ai nostri gradi) che fa parte dell'equipaggio delle navi-trasporto o viene suo malgrado assegnato a un Comando di reggimento del campo Arthur Currie. Tale destinazione è considerata da un ufficiale di Marina peggiore della morte.

Se proprio vi interessa conoscere nei particolari la fisiologia di una tuta, potete trovare la maggior parte delle informazioni necessarie, quelle non coperte da segreto, in qualsiasi biblioteca di una certa importanza. Per la piccola parte coperta da segreto potete rivolgervi a un affidabile agente segreto nemico, dico "affidabile" perché le spie sono una manica di imbroglioni: è probabile che cerchino di vendervi notizie che potete ottenere gratis andando in biblioteca.

Io posso spiegarvi solo come funziona. L'interno è tutta una massa di servomeccanismi a pressione: ce ne sono a centinaia. Premendo con il palmo della mano, la tuta sente l'impulso, lo amplifica e coopera con voi per eliminare la pressione dai recettori che danno l'ordine di premere. Ciò

può creare confusione, un simile effetto di feedback in un primo momento può risultare sconcertante, anche se il vostro corpo ci si è abituato fin dalla più tenera infanzia, quando si smette di sferrare calci inutilmente. I bambini, essendo in una fase di apprendimento, risultano goffi. Gli adolescenti e gli adulti gestiscono continuamente gli effetti di feedback senza neppure rendersene conto. Un uomo affetto dal morbo di Parkinson da parte sua ha i circuiti troppo danneggiati per affrontare questa operazione. Il sistema di rigenerazione di cui è dotata induce la tuta a riprodurre esattamente qualsiasi vostro movimento, però con molta più forza. Forza controllata, e senza che voi dobbiate preoccuparvene. Voi saltate?

La pesante tuta salta, ma molto più in alto di quanto possiate fare da soli. Saltate con molta forza? I propulsori della tuta interverranno, amplificando a loro volta quello che fanno i muscoli della gamba della tuta, dandovi la spinta di tre reattori, il cui asse di pressione passa attraverso il centro della vostra massa. È così che potete saltare sul tetto della casa accanto. La qual cosa vi fa ridiscendere altrettanto velocemente di come siete saliti... la tuta lo nota tramite il dispositivo di prossimità e avvicinamento (una sorta di radar rudimentale simile a una valvola di prossimità) e quindi fa intervenire ancora i reattori quanto basta per attutire l'impatto con il suolo, senza che voi dobbiate pensarci.

Qui sta la bellezza di una tuta potenziata: non dovete pensare a quello che fate. Non dovete condurla, guidarla, comandarla, regolarla. La indossate e lei prende ordini direttamente dai vostri muscoli e riproduce esattamente quello che tentate di fare. Così si può tenere la mente sgombra per maneggiare le armi e badare a quello che succede intorno, il che risulta di suprema importanza per un fante intenzionato a morire nel suo letto. Se un fante venisse lanciato in zona operativa dovendosi occupare di una grande quantità di dispositivi, chiunque fosse equipaggiato in modo più semplice, diciamo con un'ascia di pietra, potrebbe spaccargli la testa mentre il malcapitato sta cercando di leggere i suoi quadranti. Anche gli occhi e le orecchie della tuta sono fatti in modo da funzionare senza distrarre l'attenzione. Diciamo che in una tuta da combattimento ci sono tre circuiti audio normali. Il controllo di frequenza per mantenere la sicurezza tattica è molto complesso, almeno due frequenze per ogni circuito, entrambe necessarie per il più piccolo segnale ed entrambe che trasmettono sotto il controllo di un orologio al cesio regolato al micromicrosecondo, ma tutto questo non rappresenta un vostro problema. Se volete il circuito A per comunicare con il caposquadra, stringete le mascelle una volta, per il circuito B due volte, e così via. Il microfono è legato alla gola, i ricevitori sono inseriti nelle orecchie e non possono essere strappati via. Non resta che parlare. Oltre a questo, due microfoni esterni posti ai lati del casco vi consentono l'udito binaurale rispetto all'ambiente circostante, proprio come se foste a capo scoperto. Vi basta girare la testa e potete sopprimere i rumori che vi disturbano senza perdere quello che il vostro caposquadra sta dicendo. Dato che il capo è l'unica parte del corpo non collegata con i servomeccanismi che controllano i muscoli della tuta, si usano testa, collo, mento e muscoli della mascella per compiere varie manovre e conservare libere le mani per combattere. Sul mento, una piastra regola gli apparati visivi, così

come l'interruttore della mascella agisce su quelli audio. Tutti i visualizzatori sono proiettati su uno specchio situato davanti alla vostra fronte su cui potete seguire l'azione in corso sopra e dietro la vostra testa. Il casco è

talmente sovraccarico di dispositivi da farvi assomigliare a un gorilla idrocefalo, ma con un po' di fortuna il nemico non vive abbastanza da inorridire alla vostra vista, e in complesso tutto è sistemato in funzione della massima praticità. Si passa da un dispositivo radar all'altro più presto di quanto si faccia per cambiare canale ed evitare uno spot pubblicitario: si controlla il nemico, si localizza il comandante, si tengono d'occhio i compagni che stanno ai fianchi eccetera. Se scuotete il capo come un cavallo infastidito da una mosca, i rilevatori a raggi infrarossi si dirigeranno sopra la vostra testa, agitatela ancora ed essi si rivolgeranno in basso. Se non utilizzate più

il lanciarazzi, la tuta lo rimette al suo posto finché non vi serve ancora. È

inutile poi che stia a descrivervi come funzionano il respiratore, i giroscopi e tutti gli altri marchingegni. A contare è il fatto che ogni cosa è stata studiata per il medesimo scopo: lasciarvi liberi di eseguire il vostro compito, cioè combattere.

Naturalmente, l'uso corretto di tutti i dispositivi richiede un po' di pratica, e se ne fa tanta finché azionare il circuito voluto diventa meccanico come lavarsi i denti. Ma per indossare la tuta, per muoversi con addosso la tuta, non c'è quasi bisogno di fare pratica. Poi ci si esercita nel salto perché, se è vero che si spicca il volo con movimento assolutamente naturale, con la tuta si va più in alto, più in fretta e più lontano, e si resta in aria più

a lungo. Basterebbe quest'ultimo fatto a rendere indispensabile un addestramento speciale. Quei pochi secondi in aria, e in combattimento i secondi sono preziosissimi, possono infatti essere utilizzati per mille cose: dall'alto si può misurare tiro e portata, scegliere il bersaglio, parlare e ricevere, fare fuoco, ricaricare, decidere di saltare di nuovo senza scendere a terra e quindi annullare i comandi automatici per fare intervenire di nuovo i propulsori. Con un po' di pratica, si riesce a fare tutto durante un solo balzo.

In generale, comunque, le tute potenziate non sono difficili da usare. Fanno tutto loro, esattamente come faremmo noi, però meglio. Hanno un solo difetto: quando si è dentro, è impossibile grattarsi. Se dovessi mai trovare una tuta che permetta di grattarsi tra le scapole, me la sposerei immediatamente. Ci sono tre tipi di tute nella Fanteria spaziale mobile: il modello d'assalto, di comando e quello da esplorazione. Queste ultime sono molto veloci e a lunga autonomia, ma hanno un'armatura leggera. Le tute da comando consumano molto per gli spostamenti e i salti. Sono veloci e permettono di saltare molto in alto, e in più sono dotate di un circuito radar e di comunicazione tre volte più potente rispetto alle altre. Sono anche le uniche ad avere un sistema di orientamento "cieco" di riserva. Le tute d'assalto sono per gli "addormentati", gli esecutori.

Forse l'ho già detto, fatto sta che m'innamorai perdutamente di quelle tute, anche se il primo errore che commisi lo pagai caro. Quando il mio squadrone era di turno per l'allenamento con le tute, per me era un gran giorno. La volta in cui commisi l'errore avevo il grado fittizio di sergente, fungevo cioè da finto comandante di plotone ed ero armato con finte bombe A da usare nel buio simulato contro un nemico simulato. Il difficile sta-va proprio qui: era tutto finto, ma bisognava comportarsi come se tutto fosse vero.

Ci stavamo ritirando, cioè "stavamo avanzando verso le retrovie", e uno degli istruttori tolse la corrente a uno dei miei uomini, a mezzo comando radio, facendo di lui una "perdita irrecuperabile". In conformità all'etica della Fanteria spaziale mobile, ordinai di raccoglierlo e mi sentii alquanto fiero per essere riuscito a emanare l'ordine prima che il mio numero due mi precedesse andando di sua iniziativa alla ricerca del compagno. Poi mi voltai per fare la mossa successiva, cioè gettare un finto confetto atomico per impedire al finto nemico di raggiungerci.

La nostra ala stava ripiegando. Dovevo lanciare l'ordigno diagonalmente, lasciando quindi lo spazio necessario affinché i miei uomini non fossero investiti dall'esplosione, e nello stesso tempo facendolo cadere abbastanza vicino ai nemici da causare scompiglio nelle loro fila. Il tutto scattando, naturalmente. I movimenti sul terreno e i vari problemi connessi erano stati preliminarmente discussi, a tavolino: eravamo ancora dei novellini, e in definitiva le uniche variazioni non previste erano le perdite umane. La teoria richiedeva che io individuassi esattamente, a mezzo radar, i miei uomini che potevano restare colpiti dall'esplosione. Ma tutto questo andava fatto scattando, e io non ero ancora particolarmente svelto a leggere i piccoli schermi radar all'interno del casco. Imbrogliai solo un po': con un movimento brusco della testa rialzai i visualizzatori e guardai a occhio nudo nella piena luce del giorno. Secondo me, c'era tutto lo spazio che mi occorreva. Figuriamoci, vedevo benissimo il mio uomo in pericolo, a ottocento metri di distanza, e non dovevo lanciare altro che un minuscolo razzo HE, destinato a provocare un gran fumo e niente più. Perciò scelsi l'obiettivo a occhio, puntai il lanciarazzi e tirai. Poi rimbalzai via, soddisfatto. Non avevo perso nemmeno un secondo. Ma mentre mi trovavo a mezz'aria mi venne tolta la corrente. Non ci si fa male, l'effetto è a scoppio ritardato e scatta con l'atterraggio. Una volta ridisceso rimasi lì, immobile, sostenuto dai giroscopi, ma incapace di fare un gesto. Potete immaginare come ci si possa sentire: chiusi in una tonnellata di metallo e senza corrente. Altro che muoversi!

In compenso, imprecavo a tutto spiano. Non avevo previsto che mi avrebbero fatto fare la "perdita" proprio quando toccava a me condurre l'azione. Che idiota ero stato! Dovevo immaginarlo che il sergente Zim avrebbe tenuto sotto controllo il caposquadrone.

Infatti mi balzò addosso e mi parlò in privato tramite il "faccia a faccia". Insinuò che il massimo che avrei potuto fare era scopare i pavimenti, dato che ero troppo stupido, imbranato e distratto per maneggiare piatti e bicchieri sporchi. Discusse del mio passato, del mio futuro e fece altri apprezzamenti generici, tutt'altro che lusinghieri. Finì dicendo in tono piatto: —

Ti piacerebbe se il colonnello Dubois avesse visto quello che hai fatto?

Poi mi lasciò. Aspettai là acquattato, e ci rimasi due ore buone, fino al termine dell'esercitazione. La tuta potenziata, che mi era sembrata fatta di piume, versione moderna degli stivali delle sette leghe, era diventata uno strumento di tortura.

Finalmente Zim tornò da me, riebbi la corrente e balzammo insieme a velocità massima verso il quartier generale.

Il capitano Frankel fu di meno parole ma più incisivo.

Quando ebbe finito di dirmi quello che pensava, aggiunse, con il tono piatto che gli ufficiali sfoggiano quando citano i regolamenti: — È tuo diritto chiedere di essere giudicato dalla corte marziale, se ci tieni. Che cosa rispondi?

Deglutii e dissi: — Signornò! — Fino a quel momento non mi ero reso conto della gravità del guaio in cui mi ero cacciato.

Il capitano Frankel parve lievemente sollevato. — Allora sentiremo cosa dirà il comandante di reggimento. Sergente, scorti il prigioniero. — Raggiungemmo in tutta fretta il comando, e per la prima volta incontrai faccia a faccia il comandante di reggimento. In quel momento ero convintissimo che mi deferisse alla corte marziale. Ma ricordavo che Ted Hendrick si era messo nei guai per avere parlato troppo, e così non aprii bocca. Il maggiore Malloy mi disse cinque parole in tutto. Dopo avere ascoltato il sergente Zim, me ne disse altre tre: — Confermi questa versione?

Risposi: — Signorsì — e con questo conclusi, per quanto mi riguardava. Il maggiore Malloy parlò al capitano Frankel. — C'è una possibilità di recuperare questo soldato?

Il capitano Frankel rispose: — Credo di sì.

— Allora — concluse il maggiore Malloy — procederemo con una punizione amministrativa. — Poi si rivolse a me e disse: — Cinque frustate. Be', vi assicuro che non mi tennero in ansia a lungo. Un quarto d'ora dopo il dottore aveva finito di esaminarmi il cuore, e il sergente di guardia mi stava facendo indossare quella speciale camicia che viene via senza bisogno di sfilarla dalle maniche in quanto dotata di cerniere dal colletto ai polsini. Era appena suonata l'adunata per la rivista. Provavo un senso di isolamento, di irrealtà... sensazione che avevo imparato corrispondeva a uno stato di terrore assoluto. L'allucinazione di un incubo... Zim entrò nella tenda di guardia proprio mentre la tromba terminava la sua esecuzione. Guardò il sergente di guardia (era di turno il caporale Jones, quella sera), che uscì. Zim si avvicinò e mi mise qualcosa in mano. —

Morsica questo — disse con calma. — Fa molto bene.

Era un paradenti di gomma, di quelli che usavamo nelle esercitazioni corpo a corpo. Zim se ne andò.

Mi misi in bocca il paradenti. Poi venni ammanettato e condotto fuori. La motivazione diceva: "... in combattimento simulato, grave negligenza che durante un'azione avrebbe causato la morte di un compagno di squadra". Poi mi sfilarono la camicia e mi frustarono. È strano, ma una fustigazione è più dura da vedere che da subire. Non dico che venire frustati sia uno spasso. Non avevo mai sofferto tanto in vita mia, e le pause tra un colpo e l'altro erano peggiori delle nerbate. Ma quel paradenti mi fu di grande aiuto, e l'unico grido che lanciai non riuscì a oltrepassarlo.

Poi c'è una seconda stranezza: nessuno fece più riferimento all'incidente, nemmeno i miei compagni. Da quanto potei accorgermi, in seguito Zim e gli istruttori mi trattarono allo stesso modo di prima. Dall'istante in cui il medico mi disinfettò le piaghe e mi disse di tornare in servizio, la faccenda fu considerata chiusa. Riuscii perfino a ingoiare qualche boccone, quella sera, e mi sforzai di prendere parte alla conversazione.

Un'ultima cosa dirò, a proposito delle punizioni amministrative: non lasciano alcun segno di demerito sul vostro ruolino. Vengono cancellate dagli atti al termine del corso e così si resta senza macchia. L'unica traccia che lasciano è quella che conta: non si dimenticano più.

8

Abitua il fanciullo alla buona condotta,

e pur invecchiando, non l'abbandonerà.

Proverbi 22,6

Ci furono altre fustigazioni, ma poche. Nel nostro reggimento Hendrick fu l'unico a essere frustato in seguito a una sentenza della corte marziale, le altre furono tutte punizioni amministrative, come la mia. Per le frustate era necessario percorrere tutto l'iter fino al comandante del reggimento, cosa che un ufficiale di grado inferiore trovava spiacevole, per usare un eufemi-smo. Quando si raggiungevano le altre istanze, poi, va detto che il maggiore Malloy preferiva di gran lunga espellere uno dei suoi ragazzi, "scartato per cattiva condotta", piuttosto che far erigere il palo delle fustigazioni. In un certo senso, la punizione amministrativa è una specie di complimento: significa che i tuoi superiori pensano che, per quanto al momento sembri improbabile, esiste la possibilità che tu possieda le caratteristiche necessarie per diventare un soldato e un cittadino. Io fui il solo a beccarmi la punizione amministrativa massima: nessuno degli altri si prese più di tre frustate. Nessuno arrivò vicino come me a indossare gli abiti civili riuscendo a cavarsela per un pelo. Si tratta di un dubbio privilegio. Io non lo raccomando a nessuno.

Ci fu però un caso assai peggiore del mio, o di quello di Hendrick, un caso sconvolgente. Una volta fu eretta la forca.

Ora, cerchiamo di essere chiari. Quel caso in realtà non aveva niente a che fare con l'Esercito. Il crimine non aveva avuto luogo al campo Arthur Currie, ma l'ufficiale che aveva accettato quel ragazzo nella Fanteria spaziale mobile avrebbe dovuto rivoltarsi nella tuta per il rimorso. Il ragazzo disertò solo due giorni dopo essere arrivato all'Arthur Currie. Assurdo, certo, ma in quel caso non c'era una sola cosa che non fosse assurda. Perché non aveva dato le dimissioni? La diserzione è una delle infrazioni più gravi, tuttavia l'Esercito non chiede la pena di morte per punirla, a meno che non avvenga in circostanze particolari: di fronte al nemico, per esempio, o quando si trasforma da un modo sbrigativo per dare le dimissioni in un crimine che non può restare impunito.

L'Esercito non fa nessuno sforzo per ritrovare i disertori e riportarli indietro. Sembrerà assurdo, invece è logico. Siamo tutti volontari, siamo nella Fanteria spaziale mobile perché lo vogliamo, siamo orgogliosi di essere fanti spaziali, e il corpo è orgoglioso di noi. Se un uomo non la pensa così dalla punta dei piedi fino alla punta dei capelli, non lo voglio al mio fianco quando l'atmosfera si riscalda e cominciano i guai veri. Se resto ferito, voglio intorno a me uomini pronti a raccogliermi perché loro sono Fanteria spaziale mobile, io sono un Fanteria spaziale mobile, e la mia pelle ha lo stesso valore della loro. Non voglio soldati che tirano a campare e se la squagliano quando i compagni sono nei casini. È molto più sicuro avere un fianco scoperto che trovarsi accanto un soldato che cova in cuor suo la "sindrome del coscritto". Perciò, se se ne vanno, tanto meglio per tutti. Scomodarsi a cercarli per riportarli al campo è solo una perdita di tempo e denaro.

Naturalmente, molti tornano di loro spontanea volontà, magari dopo anni, nel qual caso l'Esercito, invece di impiccarli, somministra loro cinquanta brave frustate e poi li lascia liberi. Secondo me, per un uomo deve essere logorante sapersi fuggiasco quando tutti gli altri sono cittadini o residenti legali. Alla lunga ci si stanca, anche se la polizia ha altro da fare che cercarli. I malvagi fuggono anche quando nessuno li insegue. La tentazione di costituirsi, prendersi quelle benedette frustate e da quel momento tornare a respirare da uomo libero deve diventare assillante. Ma quel ragazzo non si presentò. Era scomparso da quattro mesi e penso che i suoi stessi commilitoni non si ricordassero affatto di lui, dato che era rimasto al campo solo due giorni. Era un nome senza volto, un certo N.M. Dillinger che tutte le mattine veniva chiamato e segnato assente: niente di più.

Poi, Dillinger uccise una bambina.

Fu processato e condannato da un tribunale civile. Emerse però che era un soldato non congedato dall'Esercito, quindi l'Esercito andava informato subito. E infatti il nostro generale comandante intervenne immediatamente. Dillinger ci venne restituito, visto che la legge e la giurisdizione militare hanno la precedenza su quelle civili.

Perché il generale se ne fece carico? Perché non lasciò che se la sbrigasse lo sceriffo locale?

Forse per darci un esempio?

Niente affatto. Sono sicurissimo che il nostro generale non pensava affatto che qualcuno dei suoi ragazzi avesse bisogno di un simile esempio per astenersi dall'uccidere bambine. Anzi, oggi sono convinto che se fosse stato possibile ci avrebbe risparmiato volentieri quello spettacolo odioso. Imparammo sì una lezione, sebbene allora nessuno vi facesse cenno: una di quelle lezioni che richiedono molto tempo per essere apprese, ma che diventano poi una seconda natura. La Fanteria spaziale mobile si prende sempre cura dei suoi uomini, comunque siano.

Dillinger apparteneva a noi, risultava ancora iscritto nei nostri registri. Anche se non lo volevamo, anche se non avremmo mai dovuto averlo tra noi, anche se saremmo stati felici di ripudiarlo, era pur sempre un soldato del nostro reggimento. Non potevamo ignorarlo e lasciare che se ne occupasse uno sceriffo qualunque. Se è necessario, un uomo che sia un vero uomo spara al proprio cane e non dà l'incarico a un estraneo che potrebbe farlo soffrire inutilmente.

Lo schedario del reggimento diceva che Dillinger ci apparteneva, perciò

era nostro dovere prenderci cura di lui.

Quella sera marciammo fino allo spiazzo di parata a passo lentissimo (sessanta passi al minuto, un ritmo difficile da mantenere quando si è avvezzi a farne centoquaranta), mentre la banda suonava il Canto funebre per gli illacrimati. Poi Dillinger fu portato fuori, vestito da Fanteria spaziale mobile come noi, e la banda eseguì Danny Deever mentre gli venivano tolte tutte le insegne, perfino il berretto e i bottoni, lasciandolo in un abito marrone e azzurro chiaro che non era più una vera uniforme. I tamburi mantennero un ritmo sostenuto, e poco dopo tutto era finito. Dopo essere stati passati in rivista, tornammo all'accampamento al piccolo trotto. Non credo che quella volta qualcuno sia svenuto o se ne sia andato con una sensazione di malessere. Tuttavia la sera mangiammo tutti pochissimo e la mensa non era mai stata tanto silenziosa. Ma, per macabro che fosse stato (era la prima volta che io vedevo la morte, ed era così per molti di noi), lo spettacolo dell'impiccagione non ci produsse il senso di dolorosa sorpresa che era seguito alla fustigazione di Ted Hendrick. Voglio dire che nessuno di noi si sentiva nei panni di Dillinger. A nessuno veniva da pensare: "Potrebbe toccare a me". A prescindere dalla faccenda della diserzione, Dillinger aveva commesso almeno quattro crimini da pena capitale. Anche se la sua vittima non fosse morta, sarebbe stato impiccato ugualmente per uno qualsiasi degli altri tre: rapimento, ricatto, mancata assistenza. Non provavo comprensione per lui, e continuo a non provarne. L'antico adagio "Capire significa perdonare" è una balla bella e buona. Certe cose, più le capisci, più ribrezzo ti fanno. La mia compassione andava tutta alla piccola Barbara Anne Enthwaite che io non avevo mai conosciuto, e ai suoi genitori, che non avrebbero rivisto mai più la loro bambina. Quella sera, quando la banda ripose i suoi strumenti, iniziammo un lutto di trenta giorni per Barbara e per il disonore che ci aveva sfiorati: i nostri colori rimasero abbrunati, non eseguimmo musica alla rivista, non cantammo durante le marce. Solo una volta sentii un tale che si lamentava, e subito un altro fante gli chiese se voleva una scarica di pugni. Certo, non era stata colpa nostra, ma il nostro compito era anche quello di proteggere le bambine come Barbara, non di ucciderle. Il nostro reggimento era stato disonorato: dovevamo riabilitarlo. Sentivamo profondamente il peso della vergogna, e dovevamo dimostrarlo.

Quella notte cercai di immaginare come sarebbe stato possibile impedire che certi fatti succedessero. Naturalmente, oggi non accadono quasi più, ma anche uno ogni tanto è già troppo. Non trovai nessuna risposta soddisfacente. Quel Dillinger! Aveva una faccia uguale a quella di tutti gli altri, la sua condotta e i suoi precedenti non potevano essere tanto diversi dalla norma, se era arrivato al campo Arthur Currie. Forse era una di quelle personalità patologiche di cui si legge talvolta, che difficilmente, purtroppo, possono essere individuate in tempo.

Allora, se non era possibile impedire che un fatto simile capitasse una volta, bisognava almeno impedire che si ripetesse. C'era un modo solo, e l'avevamo usato.

Se Dillinger si rendeva conto di quello che stava facendo nel commettere quel crimine (il che sembrava incredibile), allora aveva avuto ciò che si meritava. Peccato solo che non avesse sofferto come la povera Barbara. Anzi, in pratica, non aveva sofferto affatto.

Ma supponendo, come pareva più probabile, che fosse stato tanto pazzo da non essersi mai reso conto del male che procurava, che cosa fare, in questo caso?

Be', ai cani idrofobi si spara, no?

Sì, però la follia è una malattia vera e propria.

Mi sembrava che esistessero soltanto due possibilità. O Dillinger non poteva essere recuperato, e in questo caso era meglio che morisse per il bene suo e degli altri, o poteva essere curato e ricondotto alla ragione. In questa seconda ipotesi, secondo me, se fosse rinsavito al punto da reinserirsi nella società, la consapevolezza dell'orrore che aveva commesso da

"malato" non lo avrebbe forse spinto al suicidio? Come avrebbe potuto continuare a vivere?

E se, per esempio, fosse fuggito prima di "guarire" e avesse commesso un altro crimine? E poi magari un terzo? Come spiegare l'accaduto ai genitori disperati? Con i precedenti che il colpevole aveva, poi. Non trovavo che una sola risposta.

Poi mi venne in mente una discussione fatta in classe durante il corso di storia e filosofia morale. Il signor Dubois stava parlando dei disordini che avevano preceduto il crollo della Repubblica Nordamericana, nel tardo Ventesimo secolo. Stando alle sue parole, nel periodo immediatamente precedente alla "catastrofe", i crimini come quello commesso da Dillinger erano comunissimi, all'ordine del giorno. Il terrore aveva regnato non solo nel Nordamerica, ma anche in Russia, nelle isole britanniche e in altri luoghi. Comunque, aveva raggiunto il culmine proprio nel Nordamerica, poco prima del crollo finale.

— Le persone normali — aveva detto Dubois — non osavano avventurarsi di sera in un parco pubblico. C'era il rischio di essere aggrediti da bande di adolescenti armati di catene, di coltelli, di armi fatte in casa se non addirittura di rivoltelle, di essere perlomeno feriti, quasi certamente rapinati, probabilmente riportando danni permanenti... o perfino uccisi. Le cose andarono avanti così per anni, proprio nel periodo che precedette la guerra tra l'Alleanza russo-anglo-americana e l'Egemonia cinese. L'omicidio, l'uso delle droghe, le aggressioni, le violenze e i vandalismi erano all'ordine del giorno. E tutto ciò non succedeva soltanto di notte nei parchi, ma anche alla luce del giorno per strada, nelle scuole, sui campi sportivi. Ma i parchi erano notoriamente luoghi pericolosi che le persone oneste evitavano quando faceva buio.

Avevo cercato di immaginare come cose del genere potessero accadere nella nostra scuola. Impossibile! E neppure nei nostri parchi. Un parco era fatto per lo svago, non per essere aggrediti. Quanto a rischiare addirittura di essere uccisi...

— Signor Dubois, ma non c'era la polizia? I tribunali? — chiesi.

— Polizia ce n'era più di oggi. E anche tribunali. Ma non erano mai sufficienti.

— Proprio non capisco! — Se un ragazzo della nostra città avesse commesso una cattiva azione, anche molto meno grave di quelle... misericordia! Lui e il padre sarebbero stati frustati insieme, sulla pubblica piazza. Ma ormai, di crimini non ne vengono più commessi nemmeno per sbaglio. Poi il signor Dubois aveva aggiunto: — Definisci un "minore delinquente".

— Mah, uno di quei ragazzi... quelli che un tempo picchiavano la gente.

— Sbagliato.

— Come? Ma il libro dice che...

— D'accordo, il libro dirà così, ma una gamba non diventa una coda solo perché la si chiama in quel modo. "Minore delinquente" è una contraddizione di termini; definisce solo il problema del soggetto e la sua incapacità

di risolverlo. Hai mai allevato un cucciolo?

— Sì, professore.

— E sei riuscito a insegnargli i giusti comportamenti?

— Be'... sì. Con il tempo. — Era proprio per la mia lentezza nell'educarli che la mamma aveva sempre dichiarato che i cani non dovevano entrare in casa.

— Benissimo. Quando il tuo cucciolo faceva qualcosa di sbagliato, ti ar-rabbiavi?

— Come? No, non lo faceva apposta, era solo un cucciolo.

— E cosa facevi?

— Lo sgridavo, lo... gli facevo mettere il naso dentro e lo sculacciavo.

— Però lui non poteva capire quello che dicevi, vero?

— No, ma poteva capire dal tono che ero arrabbiato con lui.

— Ma se hai appena detto che non ti arrabbiavi!

Il signor Dubois aveva uno strano modo, molto irritante, di confondere le idee all'interlocutore. — No, ma dovevo fargli credere di essere arrabbiato. Doveva pure imparare, no?

— Concesso. Però, dopo avergli fatto capire che disapprovavi il suo comportamento, come potevi essere tanto crudele da sculacciarlo? Hai detto che la povera bestia non sapeva di avere commesso qualcosa di sbagliato. Eppure gli infliggevi un castigo. Giustificati! O sei forse un sadico?

Non sapevo che cosa fosse un sadico, allora, ma conoscevo bene i cuccioli. — Signor Dubois, è necessario! Lo si rimprovera per fargli capire che ha sbagliato, lo si obbliga a metterci il naso dentro perché sappia dove sta il problema, e lo si sculaccia perché si guardi bene dal farlo un'altra volta. Tre cose che bisogna fare subito! Non serve a niente punirlo più tardi, con il solo risultato di confondergli le idee. E anche se si agisce in tempo, non basta una sola lezione. Bisogna stare attenti, coglierlo ancora sul fatto e sculacciarlo anche più forte. Poi, un po' alla volta, capisce. Ma se uno si limita a sgridarlo, perde il suo tempo e non conclude niente. —

Avevo anche aggiunto: — Ma forse lei non ha mai allevato cuccioli.

— Invece ne ho avuto molti. Ne sto educando un certo numero in questo periodo e con gli stessi tuoi metodi — rispose. — Ma torniamo ai "minori delinquenti". I più accaniti erano in media più giovani di voi, e spesso iniziavano la loro carriera di fuorilegge in età ancora più tenera. Teniamo presente quel cucciolo. Dunque, spesso questi ragazzi venivano colti sul fatto. La polizia ne arrestava moltitudini ogni giorno. Erano sgridati? Sì, e spesso in modo pesante. Venivano messi, per così dire, "con il naso dentro"? Raramente. Il loro nome era in genere tenuto segreto, come in molti posti prescriveva la legge per i criminali sotto i diciotto anni. Venivano sculacciati ben bene? Neanche per sogno! Molti non avevano mai preso una lezione del genere nemmeno da bambini, dato che in quei tempi era diffusa la convinzione secondo cui le punizioni corporali avrebbero causato nel bambino danni fisici e psichici permanenti. (Ricordo che in quel momento avevo realizzato che mio padre doveva essere completamente all'oscuro di tale teoria.)

— A scuola, le punizioni corporali erano proibite dalla legge — aveva continuato Dubois. — La fustigazione era una pena in uso solo in una piccola provincia, il Delaware, dove peraltro veniva applicata solo per pochissimi crimini. Era considerata un "castigo crudele e insolito". Dubois stava riflettendo ad alta voce: — Non capisco le obiezioni ai castighi crudeli e insoliti. Ora, mentre un giudice è opportuno che sia incline alla benevolenza per quanto riguarda la finalità del suo operato, la pena in sé dovrebbe causare una sofferenza al colpevole, altrimenti la punizione viene a mancare. Il dolore fisico è il meccanismo base che si è sedimentato in noi attraverso milioni di anni di evoluzione e per avvertirci quando qualcosa minaccia la nostra sopravvivenza. Perché la società dovrebbe rifiutare un meccanismo di sopravvivenza così altamente perfezionato? Eppure, quel periodo era condizionato da una quantità incredibile di credenze prescientifiche e pseudopsicologiche. Quanto alla definizione "insolita", la punizione deve essere tale, altrimenti non ha ragione d'essere. — Dubois aveva fatto un cenno a un altro ragazzo. — Tu... Che cosa accadrebbe se un cucciolo venisse picchiato ogni ora?

— Mah... probabilmente diventerebbe violento!

— Probabilmente. Quello che è certo è che non imparerebbe niente. Quanto tempo è passato da quando il preside di questa scuola ha dovuto sferzare un alunno?

— Mi pare... circa due anni. Quel ragazzo che rubava...

— Non ha importanza. La cosa rilevante è che sono già passati due anni. Questo significa che la punizione è così "insolita" da essere significativa, istruttiva, ammonitrice. Tornando a quei giovani criminali, probabilmente da bambini non avevano mai preso qualche sacrosanto ceffone, e certo non vennero mai frustati per i loro crimini. Di solito si procedeva così: alla prima infrazione grave, un ammonimento e una sgridata senza nemmeno il processo. Dopo diverse infrazioni gravi una condanna alla reclusione, generalmente sospesa, per affidare i più giovani alla tutela di qualcuno. Un ragazzo poteva venire arrestato e processato diverse volte prima di essere punito, e la pena consisteva nella semplice reclusione insieme ad altri come lui, dai quali spesso imparava a commettere crimini peggiori. Se durante il periodo trascorso in un istituto correzionale si comportava benino, poteva sfuggire perfino a quella mite sanzione e ottenere la libertà vigilata, la "libertà sulla parola" per usare la terminologia dell'epoca. Questo incredibile stato di cose poteva durare per anni, e intanto i suoi crimini aumen-tavano di numero e violenza, senza altra punizione che non fosse qualche noioso e inutile soggiorno in uno di quegli istituti di reclusione. Poi, all'improvviso, e per legge, esattamente il giorno del suo diciottesimo compleanno, questo cosiddetto minore delinquente diventava un criminale adulto, e spesso, nel giro di qualche settimana o di qualche mese, finiva nella cella della morte ad aspettare l'esecuzione. Tu...

Dubois aveva di nuovo indicato me. — Supponiamo che ti fossi limitato a sgridare il tuo cucciolo, che non l'avessi mai punito permettendogli di sporcare per tutta la casa e chiudendolo di tanto in tanto nella cuccia in giardino, per poi lasciarlo libero di nuovo con l'avvertimento di non sporcare più. Poi, un bel giorno, ti accorgi che ormai è un cane adulto, ma che ancora non ha imparato la buona creanza, e di conseguenza vai a prendere il fucile e gli spari. Commento, prego.

— Ma no! Sarebbe stata la maniera più assurda di educare un cane. Nessuno farebbe così.

— D'accordo. Lo stesso vale per un bambino. Di chi sarebbe stata la colpa?

— Mia, immagino.

— Siamo sempre d'accordo. Ma non c'è niente da immaginare, è così.

— Signor Dubois — era saltata su una ragazza — perché a tempo opportuno non rifilavano qualche ceffone ai bambini o somministravano una buona dose di frustate ai più grandi che le meritavano, una lezione di quelle che non si dimenticano? Naturalmente, parlo di quelli che commettevano infrazioni proprio gravi. Perché non lo facevano?

— Non lo so — aveva risposto il serio professore. — Senza dubbio il metodo sperimentato per secoli per consolidare la virtù sociale e il rispetto della legge nelle menti dei giovani non attraeva una classe prescientifica e pseudoprofessionale che si autodefiniva degli "operatori sociali" o, qualche volta, degli "psicologi dell'infanzia". Forse lo giudicavano troppo semplice, visto che era alla portata di tutti, e pensavano che bastasse impiegare solo pazienza e fermezza per istruire un cagnetto. A volte mi sono chiesto se non provassero compiacimento nell'alimentare il disordine a forza di psicologia sballata, ma è improbabile. Quasi sempre gli adulti agiscono in nome di motivi nobili, qualunque sia la loro condotta.

— Incredibile! — aveva detto la ragazza. — Neanche a me piaceva essere sculacciata, come non piace a nessun bambino, ma quando me le meritavo, mia madre me le suonava, eccome! L'unica volta che ricevetti una nerbata a scuola, me ne presi un'altra appena arrivai a casa. Però io non mi aspetto certo di essere trascinata davanti a un giudice e condannata alla fustigazione. Se uno si comporta bene, queste cose non gli capitano. Non vedo niente di sbagliato nel nostro sistema. È molto meglio che non potere uscire di casa per paura di rimetterci la pelle. Questo sì che è orribile!

— Siamo d'accordo. Ragazza mia, i tragici errori che quelle generazioni compivano in buona fede, in contrasto con quello che si proponevano di fare, avevano radici molto profonde. Primo, non avevano una teoria scientifica della moralità. Sì, avevano una teoria della moralità a cui cercavano di attenersi, e infatti le loro motivazioni meritano rispetto. Ma si trattava di una teoria sbagliata, in parte frutto di cervelli fumosi inclini alla speculazione artificiosa, in parte frutto di ciarlataneria razionalizzata. Più ci mettevano impegno, più sconfinavano nell'assurdo. Vedi, partivano dal principio secondo cui l'uomo sarebbe in possesso di un istinto morale.

— Ma, professore... Io credevo che... ce l'hanno tutti! Io ce l'ho.

— No, mia cara, tu possiedi una coscienza indotta, una coscienza molto ben indotta. L'uomo non ha istinto morale. Perlomeno, non è innato. Tu non lo possedevi quando sei nata, io nemmeno. Un cucciolo non ce l'ha. Noi acquisiamo il senso morale, quando l'acquisiamo, attraverso l'esercizio, l'esperienza e il lavoro della mente. Quegli infelici minori delinquenti ne erano sprovvisti dalla nascita, proprio come noi, e non ebbero mai la possibilità di acquisirlo: le loro esperienze non glielo consentirono. Che cos'è il senso morale? È un'elaborazione dell'istinto di conservazione, dell'istinto di sopravvivenza che, quello sì, è insito nella natura umana. Ogni altro aspetto della nostra personalità deriva da lì. Tutto quello che contrasta con l'istinto di conservazione agisce prima o poi per eliminare l'individuo, e quindi scompare nelle generazioni che seguono. Questa verità è matematicamente dimostrabile, verificabile ovunque: è l'eterno imperativo che controlla tutto quanto facciamo.

"Ma l'istinto di sopravvivenza — aveva continuato Dubois — può essere incanalato verso obiettivi molto più ampi e complessi del cieco impulso del singolo individuo a restare in vita. Ragazza mia, quello che tu hai erroneamente definito 'istinto morale' è la verità che le persone più anziane hanno continuato a instillarti, e cioè il concetto che la sopravvivenza può

avere imperativi più forti del tuo personale istinto di conservazione.

"Uno di questi imperativi, per esempio, è la sopravvivenza della tua famiglia. O dei tuoi figli, quando ne avrai. O della tua nazione, se riesci a innalzarti di tanto sulla scala degli imperativi. E così via, allargando sempre il campo. Una teoria della morale che sia veramente scientifica, deve avere radici nell'istinto di sopravvivenza di ogni individuo, e unicamente in quello. E deve descrivere correttamente la gerarchia della sopravvivenza, individuare le motivazioni di ciascun livello, risolvere tutti i conflitti.

"Oggi, disponiamo di una simile teoria, e siamo in grado di risolvere qualsiasi problema morale, a ogni livello: autoconservazione, amore della famiglia, dovere verso il proprio paese, responsabilità nei confronti della specie umana. Stiamo perfino sviluppando un'etica rigorosa per quanto riguarda le relazioni extraumane. Ma tutti i problemi morali possono essere illustrati da una sola massima: 'Nessun uomo può amare più di una gatta che muore per difendere i suoi gattini'. Una volta capito il problema che la gatta deve affrontare, e il modo in cui l'ha risolto, sarete in grado di autoanalizzarvi e capire fino a che punto della scala morale siete capaci di salire.

"Quei giovani delinquenti si erano fermati al gradino più basso. Nati con l'istinto di conservazione, come tutti, la più alta moralità che riuscirono a raggiungere fu una specie di vacillante lealtà verso un gruppo di pari, la banda di strada. I benpensanti tentarono di 'fare appello ai loro sentimenti migliori', di 'toccare i loro cuori', di 'risvegliare il loro senso morale'. Sciocchezze! Quei ragazzi non avevano 'sentimenti migliori', l'esperienza aveva insegnato loro che ciò che facevano era il modo per sopravvivere. I cuccioli non avevano ricevuto sculacciate al momento opportuno, di conseguenza tutto quello che facevano con piacere e sortiva buoni risultati risultava ai loro occhi 'morale'.

"La base di ogni moralità è il dovere, un concetto legato alla collettività

dalla stessa relazione che l'egocentrismo intrattiene con l'individuo. Nessuno predicò a quei ragazzi il senso del dovere, in un linguaggio che potessero intendere, e cioè per mezzo di sonori ceffoni. Invece, la società in cui vissero parlava loro incessantemente di diritti. I risultati avrebbero dovuto essere facilmente prevedibili, dato che un essere umano non possiede diritti naturali di nessun genere." Il signor Dubois aveva fatto una pausa. Qualcuno abboccò all'amo. —

Professore? Ma allora come la mettiamo con la vita, la libertà e la ricerca della felicità?

— Ah, sicuro, i "diritti inalienabili"! Ogni anno qualcuno mi cita quello splendido brano di poesia. Diritto alla vita? Quale diritto alla vita possiede un uomo che sta annegando nel Pacifico? L'oceano non ascolta le sue invocazioni. Che diritto alla vita ha un uomo che deve morire se vuole salvare i suoi figli? E se sceglie di salvare la propria vita, lo fa in nome del diritto? Se due uomini stanno per morire di fame e l'unica alternativa è il cannibalismo, a quale dei due spetta di mangiare l'altro in quanto il suo diritto a vivere risulta inalienabile? E si tratta proprio di un diritto? Quanto alla libertà, gli eroi che la conquistarono misero in gioco la loro vita per conseguirla. La libertà non è mai inalienabile; deve essere riscattata di regola con il sangue dei patrioti, altrimenti inevitabilmente sfuma. Di tutti i cosiddetti "diritti umani inalienabili", la libertà è quello che ha meno probabilità di essere acquisito a buon mercato, e non è mai gratuito.

"E il terzo diritto? La ricerca della felicità? Sarà anche inalienabile, ma non è un diritto. È semplicemente una condizione universale che i tiranni non possono eliminare e i patrioti non possono riscattare. Gettatemi in un carcere sotterraneo, legatemi al palo del supplizio, incoronatemi re dei re, e io posso ugualmente inseguire la felicità fin tanto che mi resta un alito di vita. Ma né gli dei, né i santi, né i sapienti, né i maghi potranno assicurarmi che la raggiungerò." Dubois si era rivolto ancora a me. — Come ti ho detto, "minore delinquente" è una contraddizione di termini. "Delinquente" significa mancante ai propri doveri. Ma il dovere è una virtù da adulti, e infatti un giovane diventa adulto quando acquisisce il concetto di dovere, e lo pone prima dell'amore per se stesso, istinto con cui è nato. Non è mai esistito, né ci potrà

mai essere, un vero minore delinquente. Ma poiché la definizione è questa, diremo che per ogni minore delinquente ci sono sempre uno o più delinquenti adulti, persone che hanno raggiunto la maggiore età, che non sanno qual è il loro dovere o pur sapendolo non sono riusciti ad agire appropriatamente. Fu questo punto debole a distruggere quella che per molti versi era stata una civiltà ammirevole. I giovani teppisti che imperversavano per le strade erano i sintomi di una grave malattia. I cittadini di quel periodo (tutti erano tali) esaltarono la loro mitologia dei diritti e persero completamente di vista i doveri. Nessuna nazione così costituita può

durare.

Mi chiesi come il colonnello Dubois avrebbe classificato Dillinger. Era un minore delinquente che meritava pietà anche se bisognava eliminarlo, o era un delinquente adulto che suscitava soltanto collera? Io non lo sapevo e non lo saprò mai. Di un'unica cosa ero certo: Dillinger non avrebbe mai più ucciso bambine. E questo mi stava bene. Andai a dormire. 9

In questo mestiere non c'è posto per buoni perdenti. Vogliamo duri hombres che vadano là fuori e vincano!