PETER HØEG
IL SENSO DI SMILLA PER LA NEVE
(Frøfen Smillas Fomemmelse For Sne, 1992)
LA CITTÀ
Parte prima
1
C'è un freddo straordinario, 18 gradi Celsius sotto zero, e nevica, e nella lingua che non è più mia la neve è qanik, grossi cristalli quasi senza peso che cadono in grande quantità e coprono la terra con uno strato di bianco gelo polverizzato.
L'oscurità di dicembre sale dalla fossa che sembra illimitata come il cielo che ci sovrasta. In questa oscurità i nostri volti sono solo dischi di pallida luce, ma riesco ugualmente a percepire la disapprovazione del pastore e del becchino per le mie calze nere a rete e per i gemiti di Juliane, peggiorati dal fatto che stamattina ha preso l'Antabuse e ora affronta il dolore quasi sobria. Pensano che io e lei non abbiamo rispettato il tempo né la tragica situazione. La verità è che le calze e le pillole sono, ognuna a modo suo, un omaggio al freddo e a Esajas.
Le donne intorno a Juliane, il pastore e il becchino, sono tutti groenlandesi, e quando cantiamo Guutiga, illimi, "Tu mio Dio", e quando le gambe di Juliane cedono, e lei inizia un pianto che lentamente cresce, e quando il pastore, in groenlandese occidentale, parla della redenzione attraverso il sangue, prendendo spunto dal passo di Paolo, il passo preferito dai fratelli boemi, se uno si distraesse appena un po' si potrebbe sentire trasportato a Upernavik o a Holsteinsborg o a Qaanaaq.
Ma dall'oscurità emergono, come la prua di una nave, le mura della Prigione Occidentale; siamo a Copenaghen.
Il cimitero dei groenlandesi è una parte del Cimitero Occidentale. Insieme a Esajas nella cassa è giunto un corteo formato dagli amici di Juliane che ora la sorreggono, dal pastore e dal becchino, dal meccanico, da un piccolo gruppo di danesi fra i quali riconosco solo il custode tutelare e l'ispettore.
Ciò che il pastore sta dicendo mi fa pensare che abbia davvero conosciuto Esajas, anche se Juliane, per quanto ne so, non andava mai in chiesa.
Poi la sua voce scompare, perché ora le altre donne si uniscono al pianto di Juliane.
Sono venuti in molti, forse venti, e ora si lasciano inondare dal dolore come da un fiume nero, nel quale si immergono e dal quale si fanno trascinare in un modo che nessun altro può capire, nessuno che non sia nato in Groenlandia. E forse neanche questo è sufficiente. Perché neanche io sono con loro.
Per la prima volta guardo davvero la cassa. È esagonale. In un certo stadio i cristalli di ghiaccio hanno quella forma.
Ora lo calano nella terra. La cassa è di legno scuro, sembra così piccola, ed è già coperta da uno strato di neve. I fiocchi sono come piccole piume, e la neve è così, non necessariamente fredda. Ciò che avviene in questo istante è che il cielo piange su Esajas, e le lacrime si trasformano in piume di ghiaccio che si posano su di lui. È l'universo che in questo modo gli stende sopra una trapunta affinché lui non debba mai più avere freddo.
Nell'attimo in cui il pastore ha gettato la terra sulla cassa, nell'attimo in cui dovremmo voltarci e andare via, cala un silenzio che sembra lungo. Le donne tacciono, nessuno si muove, è come un silenzio in attesa che qualcosa esploda. Guardando dal punto in cui mi trovo accadono due cose.
La prima è che Juliane cade in ginocchio e preme il viso sul terreno, e le donne la lasciano sola.
L'altra è una cosa che avviene dentro di me, dove esplode un'intuizione.
Fra noi due dev'esserci sempre stato l'accordo di non piantarlo in asso, mai, nemmeno ora.
2
Abitiamo nelle Cellule Bianche.
Su un terreno ricevuto in dono, la società immobiliare ha ammucchiato un bel po' di scatole prefabbricate di cemento bianco, e per questo ha ricevuto un premio dall'Associazione per l'abbellimento della capitale.
Il tutto, compreso il premio, dà l'impressione di qualcosa di economico e povero, ma negli affitti non c'è nulla di meschino. Sono tanto alti che gli unici che possono abitare qui sono quelli come Juliane, per cui paga la pubblica amministrazione, il meccanico, che ha dovuto prendere ciò che è riuscito a trovare, e quelli che vivono un'esistenza più marginale, come me.
Perciò il soprannome ci ferisce, noi che abitiamo qui, anche se a suo modo è appropriato.
Ci sono ragioni per cui uno va ad abitare in qualche posto e ragioni per cui vi rimane. Con il tempo l'acqua è diventata importante per me. Le Cellule Bianche si affacciano direttamente sul porto di Copenaghen. Questo inverno ho potuto vedere il ghiaccio che si formava.
Il gelo è arrivato a novembre. Ho rispetto per l'inverno danese. Il freddo - non quello misurabile su un termometro, ma quello vissuto - dipende più dalla forza del vento e dal grado di umidità dell'aria che dalla temperatura. In Danimarca ho provato più freddo di quanto ne abbia mai provato a Thule. Quando i primi acquazzoni gelidi cominciano a sferzarmi il volto, li accolgo con capucines foderate di pelliccia, ghette nere di alpaca, una lunga gonna scozzese, maglione e una mantella nera di Goretex.
Poi la temperatura comincia a calare. A un certo punto la superficie del mare raggiunge 1,8 gradi Celsius sotto zero e si formano i primi cristalli, una membrana di breve durata che il vento e le onde rompono in ghiaccio frazil, che si trasforma poi nella saponosa poltiglia chiamata grease ice; questa a poco a poco forma lastroni che galleggiano liberamente, il pancake ice, quello che in una fredda domenica a mezzogiorno si congela trasformandosi in un unico strato compatto.
E fa più freddo, e io sono contenta perché so che ora il gelo ha preso slancio, ora il ghiaccio rimarrà, ora i cristalli hanno formato ponti e incapsulato l'acqua salata in sacche che hanno la struttura delle vene di un albero, attraverso le quali il liquido filtra lentamente; non molti di quelli che guardano verso Holmen ci pensano, ma è un buon motivo per convincersi che il ghiaccio e la vita, da molti punti di vista, sono in relazione.
Normalmente il ghiaccio è la prima cosa che guardo quando mi dirigo verso il Knippelsbro. Ma quel giorno di dicembre vedo qualcos'altro. Vedo la luce.
È gialla, come la maggior parte della luce invernale in una città, ed è nevicato, e così, anche se è solo una flebile luce, ha un riflesso potente. Brilla alla base di uno dei magazzini che in un momento di debolezza hanno deciso di lasciare in piedi quando costruirono i nostri blocchi. Alla fine dell'edificio, verso Strandgade e Christianshavn, rotea la luce azzurra di un'auto di pattuglia. Riesco a vedere un agente. Il provvisorio sbarramento di nastro bianco e rosso. A ridosso dell'edificio riesco a distinguere cosa c'è dietro lo sbarramento: una piccola ombra scura nella neve.
Poiché corro, e poiché sono solo le cinque e il traffico pomeridiano ancora non è defluito, arrivo alcuni minuti prima dell'ambulanza.
Esajas giace lì con le gambe ripiegate sotto il corpo, con il volto nella neve e le mani intorno alla testa, come per ripararsi dal riflettore che lo illumina, come se la neve fosse un vetro oltre il quale ha scorto qualcosa nelle profondità della terra.
Sicuramente l'agente dovrebbe chiedermi chi sono, prendere nome e indirizzo, e così preparare il terreno ai suoi colleghi che fra breve suoneranno alle porte. Ma è un giovane con un'espressione malata negli occhi. Evita di posare lo sguardo direttamente su Esajas. Quando si è assicurato che non intendo oltrepassare il suo nastro, mi lascia in pace.
Avrebbe potuto sbarrare un'area più ampia, ma non avrebbe fatto alcuna differenza. I magazzini sono in parziale ricostruzione. Uomini e macchine hanno schiacciato la neve rendendola dura come il pavimento di una terrazza.
Anche nella morte c'è in Esajas qualcosa di schivo, come se non volesse saperne della compassione di nessuno.
In alto, fuori della luce del riflettore, si distingue la cima di un tetto. Il magazzino è alto, almeno come un palazzo di sette o otto piani. L'edificio adiacente è in restauro. Ha un'impalcatura sul lato verso Strandgade. Vado in quella direzione, mentre l'ambulanza si fa strada sul ponte e poi avanza fra i palazzi.
L'impalcatura copre la facciata fino al tetto. L'ultima scala è abbassata. La struttura sembra farsi più fragile man mano che salgo.
Stanno costruendo un nuovo tetto. Sopra di me si ergono le capriate triangolari, coperte da teloni. Riparano metà della lunghezza dell'edificio. L'altra metà, rivolta verso il porto, è una superficie ammantata di neve. Lì sopra ci sono le orme di Esajas.
Ai margini della neve, rannicchiato con le braccia intorno alle ginocchia, siede un uomo che si dondola avanti e indietro.
Anche così il meccanico dà l'impressione di essere grande. E anche in questa posizione di totale rassegnazione appare riservato.
La luce è così forte. Qualche anno fa misurarono la luce a Siorapaluk. Da dicembre a febbraio, tre mesi in cui il sole non c'è. Ci si immagina una notte eterna. Ma ci sono la luna e le stelle, e di tanto in tanto l'aurora boreale. E la neve. Registrarono lo stesso numero di lux che c'era poco fuori Skanderborg. È così che ricordo la mia infanzia. Giocavamo sempre fuori, e c'era sempre luce. Allora era una cosa scontata. Tante cose sono scontate per un bambino. Poi, col tempo, ci si comincia a stupire.
In ogni caso mi colpisce la luminosità del tetto che ho davanti. Come se fosse stata la neve, uno strato forse di dieci centimetri, a creare la luce di questa giornata invernale e a farla risplendere ancora in un luccichio di puntini, come piccole, grigie, lucenti perle.
A terra la neve si scioglie sempre un po', anche con il gelo più intenso, a causa del calore della città. Ma quassù giace come è caduta. Solo Esajas l'ha calpestata.
Anche quando non c'è calore, quando non c'è neve fresca né vento, anche allora la neve muta. Come se respirasse, come se si addensasse e si sollevasse e si abbassasse e si decomponesse.
Portava scarpe di gomma, anche d'inverno, e sono le sue orme, la suola consumata delle sue scarpe da basket con il disegno appena percettibile di cerchi concentrici davanti al fiosso, sul quale il giocatore dovrebbe piroettare.
Ha iniziato a camminare sulla neve nel punto in cui ci troviamo. Le orme si dirigono diagonalmente verso il bordo e corrono lungo il tetto per una decina di metri. Lì si fermano. Poi procedono verso l'angolo e la fine dell'edificio, dove seguono il bordo a una distanza di circa mezzo metro fino all'angolo che guarda l'altro magazzino. Da lì è tornato verso l'interno per circa tre metri, in modo da prendere la rincorsa. Poi le orme si dirigono dritte verso il bordo dal quale è saltato.
L'altro tetto è di tegole nere, invetriate, che scendono così ripide verso la grondaia da impedire alla neve di attaccarsi. Non c'era alcun appiglio. Tanto valeva saltare direttamente nel vuoto.
Non ci sono altre orme a parte quelle di Esajas. Sulla superficie nevosa non c'è stato nessuno oltre a lui.
«L'ho trovato io» dichiara il meccanico.
Non mi riesce mai facile guardare gli uomini piangere. Forse perché so quanto il pianto sia fatale per il rispetto che hanno di sé. Forse perché per loro è così inconsueto che li riporta sempre all'infanzia. Il meccanico ha rinunciato ad asciugarsi gli occhi, il suo volto è ridotto a una maschera.
«Stanno arrivando degli estranei» dico.
I due uomini che avanzano sul tetto non sono contenti di vederci.
Uno trascina l'attrezzatura fotografica ed è affannato. L'altro potrebbe ricordare un'unghia incarnita. Piatto e duro, pieno d'impazienza e irritazione.
«E voi chi siete?»
«La vicina del piano di sopra» dico io. «E il signore è il vicino del piano di sotto.»
«Sareste così gentili da scendere?»
Poi guarda le tracce e ci ignora.
Il fotografo scatta le prime foto, con il flash e una grossa Polaroid.
«Solo le tracce del morto» dice "l'unghia". Parla come se stesse completando a mente il suo rapporto. «La madre è alcolizzata. Così è venuto a giocare quassù.»
Ci scorge di nuovo.
«Dovete scendere.»
A questo punto non ho nulla di chiaro in mente, solo confusione. Ma di quella, in compenso, ne ho tanta da poterne distribuire. Perciò rimango lì.
«Strano modo di giocare, vero?»
Qualcuno dirà che sono vanitosa. E io non oserei contraddirlo. Posso anche avere i miei motivi. Comunque è il mio abbigliamento che lo spinge ad ascoltare. Il cachemire, il cappello di pelliccia, i guanti. E chiaro che ha la voglia e il diritto di mandarmi giù. Ma vede che ho l'aspetto di una signora perbene. E di signore perbene non ne incontra molte in giro per i tetti di Copenaghen.
Esita un istante.
«In che senso?»
«Quando avevi la sua età» dico io, «e papà e mamma non erano tornati a casa dalle miniere, e tu correvi da solo e giocavi sui tetti delle baracche degli sfollati, te ne andavi forse in giro lungo il bordo?»
Ci riflette sopra.
«Sono cresciuto nello Jütland» dice poi. Ma non mi toglie gli occhi di dosso.
Poi si rivolge al suo collega.
«Dobbiamo portare su un po' di lampade. Intanto accompagna i signori.»
Per me la solitudine è come per altri la benedizione della chiesa. È la luce della grazia. Non chiudo mai la porta alle mie spalle senza la coscienza di compiere un gesto misericordioso nei miei confronti. Cantor illustrava ai suoi allievi il concetto di infinito raccontando che c'era una volta un uomo che possedeva un albergo con un numero di stanze infinito, e l'albergo era al completo. Poi arrivò un altro ospite. L'albergatore spostò allora l'ospite della stanza numero uno nella numero due, quello della numero due nella tre, quello della tre nella quattro, e via di seguito. Così la stanza numero uno rimase libera per il nuovo ospite.
Ciò che mi piace di questa storia è che tutti coloro che vi sono coinvolti, gli ospiti e l'albergatore, considerano normalissimo compiere un numero infinito di operazioni perché un ospite possa trovare pace in una stanza tutta sua. È un grande omaggio alla solitudine.
Del resto mi rendo conto di avere arredato il mio appartamento come una stanza d'albergo. Senza eliminare l'impressione che chi vi abita è di passaggio. Quando ho bisogno di darmene una spiegazione penso al fatto che la famiglia di mia madre, e lei stessa, praticavano una sorta di nomadismo. Come scusa è poco convincente.
Ma ho due grandi finestre che guardano sull'acqua. Riesco a vedere la Holmens Kirke, l'edificio delle Assicurazioni Marittime e la Banca Nazionale, la cui facciata di marmo stasera ha lo stesso colore del ghiaccio nel porto.
Ho pensato che devo abbandonarmi al dolore. Ho parlato con gli agenti, ho offerto la spalla a Juliane e l'ho accompagnata da amici, poi sono tornata, e per tutto il tempo ho tenuto lontano il dolore con la mano sinistra. Ora è giunto anche il mio turno di essere infelice.
Ma non è ancora il momento. Il dolore è un dono, bisogna guadagnarselo. Mi sono preparata una tazza di tè alla menta e mi sono avvicinata alla finestra. Ma non accade nulla. Forse perché mi manca da fare ancora una cosa, una piccola cosa rimasta in sospeso, di quelle che possono frenare il corso dei sentimenti.
Così bevo il mio tè, mentre il traffico sul Knippelsbro si assottiglia e si trasforma in isolate strisce di luce rossa nella notte. A poco a poco raggiungo una sorta di pace. Alla fine ce n'è abbastanza per potermi addormentare.
3
La prima volta che incontro Esajas è un giorno di agosto di un anno e mezzo fa. Un'afa pesante e umida ha trasformato Copenaghen in un vivaio di momentanea follia. Sono su un autobus che sembra una pentola a pressione, indosso un vestito nuovo di lino bianco con un'ampia scollatura sulla schiena e un bordo di balze di pizzo valenciennes che mi hanno richiesto un mucchio di tempo per stirarle e dargli volume, e che ora si sono abbandonate alla generale depressione.
C'è gente che in questa stagione se ne va al sud. Verso il caldo. Personalmente non sono mai stata più a sud di K0ge. E non ci andrò finché l'inverno nucleare non avrà raffreddato l'Europa.
È uno di quei giorni in cui ci si potrebbe interrogare sul senso dell'esistenza e scoprire che non ne ha. Sulle scale, al piano sotto il mio, c'è qualcosa che razzola.
Quando giunsero in Danimarca le prime ondate di groenlandesi, negli anni Trenta, una delle prime cose che scrissero a casa fu che i danesi sono dei porci: tengono i cani nelle loro abitazioni. Per un attimo credo che quello sulle scale sia un cane. Poi vedo che è un bambino, ma in una giornata come quella non fa molta differenza.
«Sparisci, merdina» gli dico.
Esajas alza lo sguardo.
«Peerit» risponde. Sparisci tu.
Sono pochi i danesi che se ne accorgono. Credono di scorgere qualcosa di asiatico, specialmente quando ho messo un po' d'ombra sotto gli zigomi. Ma il ragazzino sulle scale mi guarda dritto con due occhi che individuano subito cosa ci accomuna. È uno sguardo che si vede nei neonati. Poi scompare per riapparire a volte nelle persone molto anziane. Anche per questo, probabilmente, non ho mai voluto complicarmi la vita con dei figli: troppe riflessioni sul perché la gente perde il coraggio di guardarsi negli occhi.
«Mi leggi qualcosa?»
Ho un libro in mano. È da quello che origina la sua domanda.
Si può dire che somiglia a un elfo del bosco. Ma siccome è sporco, indossa solo le mutande e luccica di sudore, si può anche dire che somiglia a una foca.
«Pussa via» gli dico.
«Non ti piacciono i bambini?»
«Io li mangio i bambini.»
Si fa da parte.
«Salluvutit, tu menti» dice quando gli passo davanti.
In quel momento vedo due cose che in qualche modo mi incatenano a lui. Vedo che è solo, come lo sarà sempre chi è in esilio. E vedo che non teme la solitudine.
«Che libro?» mi grida dietro.
«Gli Elementi di Euclide» dico sbattendo la porta.
E infatti erano gli Elementi di Euclide.
È il libro che tiro fuori quella sera quando suonano alla porta e lui è lì, ancora in mutande, e mi fissa, e io mi faccio da parte e lui entra nell'appartamento e nella mia vita per non uscirne mai più. Prendo dallo scaffale gli Elementi di Euclide. Come per scacciarlo. Come per mettere subito in chiaro che non ho libri in grado di interessare un bambino, che io e lui non possiamo incontrarci su un libro né in altro modo. Come per sfuggire qualcosa.
Ci sediamo sul divano. Lui tiene le gambe incrociate, proprio sul bordo, come sedevano i bambini di Thule a Inglefield, d'estate, sul bordo della slitta che nella tenda sostituiva la panca.
«Un punto è ciò che non può essere diviso. Una linea è una lunghezza senza larghezza.»
Questo è il libro che lui non commenterà mai, quello a cui torneremo continuamente. Mi capita di provare con altri libri. Una volta prendo in prestito Petzi al Polo. Ascolta tranquillo la spiegazione delle prime immagini. Poi mette un dito su Petzi.
«Che sapore ha?» chiede.
«Un semicerchio è una figura delimitata da un diametro e dalla circonferenza tagliata dal diametro.»
Per me, in questa prima sera di agosto, la lettura attraversa tre fasi.
Prima c'è solo l'irritazione per una circostanza assai seccante. Poi quello stato d'animo che invariabilmente mi prende quando penso a questo libro: la venerazione. La certezza che è la base, il limite. Che quando si va indietro, passando per Lobacevskij e Newton, fin dove si può arrivare, si finisce a Euclide.
«Sulla maggiore di due linee rette date di diversa grandezza...»
Poi non mi rendo più conto di cosa sto leggendo. A un certo punto ci sono solo la mia voce nella stanza e la luce del tramonto che entra da Sydhavn. E poi non c'è nemmeno la mia voce, poi ci siamo solo io e il bambino. A un certo punto smetto. E allora restiamo lì seduti e guardiamo davanti a noi, come se io avessi quindici anni e lui sedici, e avessimo raggiunto the point of no return. Improvvisamente si alza e in silenzio se ne va. Io guardo il tramonto, che in questa stagione dura tre ore. Come se il sole, sul punto di partire, avesse comunque trovato nel mondo delle qualità che ora gli rendono difficile il congedo.
Naturalmente Euclide non lo spaventò. Naturalmente non era determinante cosa leggessi. Per quanto lo riguardava, avrei potuto leggere l'elenco del telefono. O Detection and Classification of Ice di Lewis e Carrisa. Sarebbe venuto comunque e si sarebbe seduto con me sul divano.
In certi periodi veniva ogni giorno. Ma poi potevano passare due settimane in cui lo vedevo solo una volta e da lontano. Veniva in genere quando cominciava a far buio, quando il giorno era passato e Juliane era priva di sensi.
Ogni tanto gli facevo il bagno. Non gli piaceva l'acqua calda. Ma non si riusciva a pulirlo con l'acqua fredda. Lo mettevo in piedi nella vasca e aprivo la doccia. Lui non protestava. Da tempo aveva imparato ad accettare le avversità. Ma nemmeno per un istante mi toglieva dal volto i suoi occhi accusatori.
4
Nella mia vita ci sono stati molti collegi. Quotidianamente mi adopero per scacciarne la memoria, e per lunghi periodi ci riesco. Solo a tratti un singolo ricordo può avere la fortuna di tornare a galla. Come la sensazione tutta particolare che c'è in una camerata. A Stenhøj, nei pressi di Humlebaek, dormivamo in camerate. Una per le femmine, una per i maschi. Di notte aprivano le finestre, e le nostre coperte erano troppo sottili.
Alla morgue, l'obitorio del comune di Copenaghen, nella cantina sotto l'Istituto di Medicina Legale del Rigshospital, i morti dormono il loro ultimo, freddo sonno in camerate la cui temperatura supera di poco lo zero.
Tutto è pulito, moderno e definitivo. Anche nella sala di riconoscimento, verniciata come un salotto, dove ci sono un paio di lampade e una pianta verde che cerca di tenerti su il morale.
Esajas è coperto da un lenzuolo bianco. Qualcuno vi ha posato sopra un mazzolino di fiori, come cercando di dare sostegno alla pianta nel vaso. È completamente coperto, ma dal piccolo corpo e dalla grande testa si riconosce che è lui. I craniologi francesi ebbero seri problemi in Groenlandia. Erano convinti che ci fosse un rapporto diretto fra l'intelligenza di una persona e la grandezza del suo cranio. Nei groenlandesi, che loro consideravano una forma di passaggio dalla scimmia all'uomo, trovarono i crani più grandi del mondo.
Un uomo con il camice bianco solleva il lenzuolo dal suo volto. Sembra intatto, come se con la massima attenzione gli fosse stato drenato il sangue, e il colore, e poi fosse stato messo a dormire.
Juliane è accanto a me. Veste di nero e, per il secondo giorno di fila, è sobria.
Quando percorriamo il corridoio, il camice bianco è con noi.
«Lei è una parente» butta lì. «Sua sorella?»
Non è più alto di me, ma largo e con l'atteggiamento di un ariete pronto a caricare.
«Medico» dice. Indica la tasca del suo camice e scopre che non c'è il cartellino d'identificazione. «Al diavolo.»
Io continuo lungo il corridoio. Cammina appena dietro di me.
«Ho figli anch'io» dice. «Lei sa se è stato un medico a trovarlo?»
«Un meccanico.»
Ci segue nell'ascensore. Sento improvvisamente il bisogno di sapere chi ha toccato Esajas.
«Lo ha esaminato lei?»
Non mi risponde. Forse non mi ha sentito. Avanza dritto davanti a noi. Alla porta a vetri tira fuori improvvisamente un cartoncino, come un esibizionista che apre il cappotto.
«Il mio biglietto. Jean Pierre, come il flautista. Lagermann, come la liquirizia.»
Io e Juliane non ci siamo dette una parola. Ma dopo essersi seduta nel taxi, mentre le sto chiudendo lo sportello, mi afferra la mano.
«Quella Smilla» dice, come se parlasse di una persona assente, «è una gran signora. Al cento per cento.»
L'automobile parte e io mi tiro su. È quasi mezzogiorno. Ho un appuntamento.
CENTRO STATALE DI AUTOPSIA PER LA GROENLANDIA C'è Scritto sulla porta a vetri cui si arriva dopo aver disceso Frederik V Vej, essere passati davanti al palazzo Teilum e all'Istituto di Medicina Legale fino alla nuova succursale del Rigshospital, e dopo aver preso l'ascensore superando i piani indicati sulla pulsantiera come Società Medica Groenlandese, Centro Polare, Istituto di Medicina Artica, fino al quinto che è un attico.
Questa mattina ho telefonato alla centrale di polizia, che mi ha passato la sezione A dove mi hanno passato "l'unghia".
«Può vederlo all'obitorio» dice.
«Voglio anche parlare con il dottore.»
«Loyen» dice. «Può parlare con Loyen.»
Dietro la porta a vetri c'è un breve corridoio che porta a una targhetta dove c'è scritto PROFESSOR e, a caratteri più piccoli, J. LOYEN. Sotto la targhetta c'è una porta, e dietro la porta un guardaroba, e al di là un freddo ufficio con due segretarie sedute in mezzo a riproduzioni di iceberg nell'acqua azzurra e nel sole splendente; il vero ufficio inizia qui.
Se non ci hanno messo un campo da tennis, non è per mancanza di spazio. Semmai perché Loyen ne ha già un paio nel giardino sul retro della sua casa a Hellerup, e altri due in Klitvej a Skagen. E poi perché ne avrebbe risentito la solennità del locale.
Sul pavimento c'è uno spesso tappeto, due pareti sono coperte di libri, finestre panoramiche verso la città e il Faelledpark, una cassaforte murata, dipinti in cornici dorate, un microscopio sopra un tavolo luminoso, una vetrina con una maschera d'oro che sembra provenire da un sarcofago egizio, due gruppi di divani, due monitor spenti, e ancora abbastanza pavimento per poter fare una corsetta se uno dovesse essere stufo di starsene seduto dietro la scrivania.
La scrivania è un'ellisse di mogano, e da quella si alza e mi viene incontro. È alto due metri, intorno ai settanta, dritto, con il camice bianco, abbronzato come uno sceicco del deserto e con l'espressione cortese di chi sta seduto sul cammello a guardare con condiscendenza il resto del mondo che si trascina nella sabbia.
«Loyen.»
Anche se omette il titolo, si capisce ugualmente. Come l'invito a non dimenticare che ha il resto della popolazione mondiale almeno una spanna sotto di sé, e qui, sotto i suoi piedi, una folla di medici che non sono riusciti a diventare professori, mentre sopra la sua testa ha solo il soffitto bianco, il cielo azzurro e Nostro Signore - e forse nemmeno quello.
«Si sieda, signora.»
Irradia compiacenza e autorità, e io dovrei essere felice. Altre donne prima di me sono state felici, e molte altre lo saranno, c'è forse qualcosa di meglio, nei momenti difficili della vita, che potersi appoggiare a due metri di raffinata autostima, e in un ambiente così rassicurante?
Sul tavolo c'è una fotografia incorniciata della signora, dell'airedale e dei tre ragazzoni di papà che sicuramente studiano medicina e prendono trenta a tutti gli esami, compreso quello di sessuologia.
Io non ho mai detto di essere perfetta. Di fronte a persone che hanno potere, e che ne godono e se ne servono, divento un'altra, più meschina e cattiva.
Ma non lo do a vedere. Mi siedo sul bordo della sedia e poso sul bordo del piano di mogano i guanti scuri e il cappello con la veletta. Di fronte a sé il professor Loyen, come è accaduto tante altre volte, ha una donna in nero, afflitta, interrogativa, insicura.
«Lei è groenlandese?»
Riesce ad accorgersene grazie alla sua esperienza professionale.
«Mia madre era di Thule. È stato lei a... visitare Esajas?»
Fa un cenno di assenso.
«Ciò che mi preme sapere è: di cosa è morto?»
La domanda lo prende un po' alla sprovvista.
«Per la caduta.»
«Ma cosa significa, dal punto di vista puramente fisico?»
Riflette un istante, poco abituato a spiegare ciò che è ovvio.
«È caduto dal settimo piano. L'insieme dell'organismo subisce molto semplicemente un collasso.»
«Eppure, in un certo senso sembrava illeso.»
«È normale in caso di caduta, cara signora. Ma...»
So cosa sta per dire: "Solo finché non li apriamo. Poi non ci sono che schegge d'osso ed emorragie interne"
«Ma non lo era» conclude.
Si alza. Ha altro da fare. La conversazione si avvicina alla fine senza essere iniziata. Come tante altre conversazioni prima e dopo di questa.
«C'erano tracce di violenza?»
Non lo prendo di sorpresa. Alla sua età e con la sua professione non ci si fa prendere facilmente di sorpresa.
«Assolutamente no» dice.
Rimango seduta in totale silenzio. È sempre interessante lasciare gli europei in silenzio. Per loro è uno spazio vuoto in cui la tensione sale e si fa insopportabile.
«Cosa glielo ha fatto pensare?»
Stavolta ha tralasciato il "cara signora". Ignoro la domanda.
«Come è possibile che questo ufficio e questo servizio non si trovino in Groenlandia?» chiedo.
«L'istituto ha solo tre anni. Prima non esisteva un centro di autopsia per la Groenlandia. Quando era necessario, la procura di Godthåb si rivolgeva all'Istituto di Medicina Legale di Copenaghen. Questo ufficio è nuovo e provvisorio. Sarà trasferito tutto a Godthåb il prossimo anno.»
«E lei?» dico io.
Non è abituato a essere interrogato e fra un attimo smetterà di rispondere.
«Io dirigo l'Istituto di Medicina Artica, ma originariamente sono patologo legale. In questa fase iniziale faccio da direttore del centro di autopsia.»
«È lei a eseguire le autopsie legali sui groenlandesi?»
Ho colpito a caso. Ma dev'essere stata comunque una palla difficile, bassa, perché batte le palpebre.
«No» dice lentamente, «ma di tanto in tanto aiuto il centro danese di autopsia. Hanno migliaia di casi ogni anno in tutto il paese.»
Penso a Jean Pierre Lagermann.
«Ha eseguito da solo l'autopsia?»
«Seguiamo una procedura fissa, tranne in casi particolarissimi. C'è un solo medico, assistito da un tecnico di laboratorio e talvolta da un'infermiera.»
«È possibile vedere il referto?»
«Comunque non riuscirebbe a capirci nulla. E ciò che dovesse riuscire a capire non le piacerebbe.»
Per un breve istante ha perso il controllo. Ma lo riprende subito.
«Questi referti appartengono alla polizia, che formalmente richiede l'autopsia. È che inoltre decide quando può avvenire la sepoltura, dopo aver firmato il certificato di morte. Il pubblico dominio vale per le questioni civili, non per quelle penali.»
È in piena partita e si avvicina a rete. La sua voce si fa rassicurante.
«Lei deve comprendere: in un caso come questo, di fronte al minimo dubbio sulle circostanze dell'incidente, noi e la polizia abbiamo tutto l'interesse a fare l'esame più accurato possibile. Controlliamo tutto. E troviamo tutto. In caso di aggressione è praticamente impossibile evitare di lasciare tracce. Ci sono impronte digitali, abiti strappati, il bambino si difende e ha cellule di pelle sotto le unghie. Non c'era nulla di tutto ciò. Nulla.»
Setball e matchball. Mi alzo e mi infilo i guanti. Lui si appoggia all'indietro.
«Naturalmente abbiamo guardato il rapporto della polizia» dice. «Dalle tracce è chiaro che era solo sul tetto quando è avvenuta la disgrazia.»
Percorro il lungo tragitto fino al centro della stanza e da lì mi volto a guardarlo. Ho toccato qualcosa, non so di cosa si tratti. Ma ora è tornato sul cammello.
«Se vuole può telefonare ancora, cara signora.»
Ci vuole un po' prima che passi il capogiro.
«Ognuno di noi» dico «ha le sue fobie. Qualcosa di cui abbiamo davvero paura. Io ho le mie. Sicuramente anche lei ha le sue, quando si toglie quel camice a prova di proiettile. Sa qual era quella di Esajas? Era l'altezza. Correva fino al primo piano. Ma da lì in poi strisciava con gli occhi chiusi e due mani sulla ringhiera. Se lo immagini, ogni giorno, per la scala interna, con la fronte sudata e le gambe che gli tremano, cinque minuti per arrivare dal primo al terzo piano. Sua madre aveva fatto domanda per un appartamento al piano terra prima di traslocare. Ma sa com'è... quando uno è groenlandese e vive del sussidio statale...»
Passa un po' di tempo prima che risponda.
«Eppure era lassù.»
«Sì» dico io, «era lassù. Ma vede, lei poteva venire con un verricello, poteva venire con la gru, e non sarebbe comunque riuscito a farlo salire di un metro su quella impalcatura. Ciò che mi stupisce, ciò che mi chiedo nelle notti insonni, è cosa lo abbia spinto a salire lassù.»
Me lo vedo ancora davanti, disteso nella cantina dell'ospedale. Non guardo nemmeno Loyen. Me ne vado per la mia strada.
5
Juliane Christiansen, la madre di Esajas, è la personificazione dei benefici effetti dell'alcol. Sobria, è rigida, muta e impacciata. Ubriaca, è vivace e contenta come una pasqua.
Poiché questa mattina ha preso l'Antabuse e ora, dopo essere tornata dall'ospedale, per così dire ci ha bevuto sopra, questa bella metamorfosi si manifesta attraverso un avvelenamento dell'organismo. Ma Juliane sta sensibilmente meglio.
«Smilla» dice, «ti amo.»
Dicono che in Groenlandia si beve molto. È una gigantesca sottovalutazione. Si beve in maniera colossale. È per questo che il mio rapporto con l'alcol è quello che è. Quando mi viene voglia di qualcosa di più forte del tè d'erbe, penso a cosa accadeva a Thule prima del volontario razionamento degli alcolici.
Ero già stata nell'appartamento di Juliane, ma siamo sempre rimaste in cucina a prendere il caffè. Bisogna rispettare il territorio degli altri. Specialmente quando il resto della loro vita è messo a nudo come una ferita aperta. Ma ora sono spinta dalla pressante sensazione di avere un compito, e che qualcuno abbia trascurato qualcosa.
Perciò frugo in giro, e Juliane mi lascia fare. In parte a causa del sidro del supermercato, in parte perché ha vissuto tanto a lungo del sussidio e sotto il microscopio elettronico delle autorità che ha smesso di credere che si possa tenere qualcosa per sé.
L'appartamento offre quel genere d'intimità che s'instaura quando uno ha camminato a lungo sui pavimenti di legno, ha dimenticato molte sigarette accese sul bordo del tavolo e smaltito tante sbronze dormendo sul divano; e quando l'unica cosa nuova e che funziona è la televisione, nera e grande come un pianoforte a coda.
C'è una stanza in più che nel mio appartamento, la stanza di Esajas. Un letto, un tavolino e un armadio. Sul pavimento, uno scatolone. Sul tavolo: due bastoni, un sasso per giocare a campana, una specie di ventosa, un'automobilina. Senza colori, come ciottoli di spiaggia in un cassetto.
Nell'armadio: impermeabile, stivali di gomma, zoccoli, maglie, mutande, calzini, tutto infilato alla rinfusa. Faccio scorrere le dita sotto le pile di vestiti e sopra l'armadio. Non c'è altro che la polvere caduta l'anno scorso.
Sul letto, le sue cose ritirate all'ospedale in una busta di plastica trasparente. Tuta impermeabile, scarpe di gomma, maglione, mutande, calze. Dalla tasca esce una pietra bianca, friabile, che usava come un gessetto.
Juliane sta sulla porta e piange.
«I pannolini sono l'unica cosa che ho buttato.»
Una volta al mese, quando la paura dell'altezza aumentava, Esajas usava il pannolino per un paio di giorni. Una volta glieli ho comprati anch'io.
«Dov'è il suo coltello?»
Non lo sa.
Sul davanzale della finestra c'è un modello di nave, uno strido nella voce sommessa della stanza. Sulla base c'è scritto: MOTONAVE JOHANNES THOMSEN DELLA SOCIETÀ DANIMARCA PER LA CRIOLITE.
Non ho mai cercato di scoprire come riesca a tenersi a galla. La prendo per le spalle.
«Juliane» dico, «puoi essere così gentile da mostrarmi le tue carte?»
Tutti noi abbiamo un cassetto, una cartella, un classificatore. Per conservare le testimonianze scritte della sua esistenza Juliane ha sette buste unte. Per molti groenlandesi la parte più difficile della Danimarca è quella scritta. Il fronte cartaceo della burocrazia statale, fatto di moduli di domanda, stampati, corrispondenza con l'ufficio pubblico appropriato. C'è una sottile e delicata ironia nel fatto che anche un'esistenza quasi analfabeta come quella di Juliane abbia generato questa montagna di carta.
I piccoli tagliandi di convocazione dell'ambulatorio per alcolizzati a Sundholm, il certificato di nascita, cinquanta scontrini del fornaio di Christianshavns Torv, che a cinquecento corone regala una ciambella. Promemoria della clinica per malattie veneree Rudolph Bergh, vecchie tessere fiscali, estratti conto. Una fotografia di Juliane a Kongens Have sotto il sole. Il libretto sanitario, il passaporto, ricevute dell'Azienda Elettrica. Lettere dell'Ufficio Crediti Ribber. Un rotolo di tagliandi sottili dai quali risulta che Juliane riceve ogni mese 9400 corone di pensione. In fondo al mucchio un fascio di lettere Non sono mai riuscita a leggere la corrispondenza degli altri. Così salto quelle private. Le ultime sono lettere ufficiali, scritte a macchina. Mentre sto per rimetterle a posto, la vedo.
È una lettera singolare. "Con la presente le comunichiamo che la direzione della Società Danimarca per la Criolite nella sua ultima riunione ha deciso di assegnarle una pensione di reversibilità come vedova di Norsaq Christiansen. Le vengono riconosciute pertanto 9000 corone mensili, indicizzate al costo della vita." È firmata, per conto della direzione, da "E Lübing, capo contabile".
Non c'è nulla di strano. Ma dopo che la lettera era stata scritta qualcuno l'ha ruotata di novanta gradi. E con la penna stilografica ha scritto di traverso sul margine: "Mi dispiace così tanto. Elsa Lübing".
Si può imparare qualcosa del prossimo leggendo ciò che scrive sui margini. Si sono fatte tante congetture sulle dimostrazioni di Fermat scomparse. In un libro che trattava del postulato, mai dimostrato, secondo il quale con potenze superiori a due non è possibile dividere il quadrato di un numero nella somma di altri due quadrati, Fermat aveva aggiunto a margine: "Per questo teorema ho trovato una dimostrazione davvero meravigliosa. Purtroppo questo margine è troppo stretto per contenerla".
Due anni fa una donna stava seduta negli uffici della Società Danimarca per la Criolite e dettava una lettera estremamente corretta. Rispetta le formalità, è senza errori, è come deve essere. Poi le viene data in rilettura, e lei la legge e la firma.
A quel punto si ferma un istante. Poi gira il foglio e scrive: "Mi dispiace così tanto".
«Come è morto?»
«Norsaq? Partecipava a una spedizione sulla costa occidentale. Fu un incidente.»
«Che tipo di incidente?»
«Mangiò qualcosa che gli fece male. Credo.»
Mi guarda impotente. La gente muore. Non si arriva da nessuna parte mettendosi a fare congetture sul come e sul perché.
«Possiamo considerare il caso chiuso.»
Sto parlando al telefono con "l'unghia". Ho lasciato Juliane ai suoi pensieri, che ora si muovono come plancton in un mare di vino dolce. Forse sarei dovuta rimanere con lei. Non sono una curatrice di anime. Riesco a malapena a curare me stessa. E poi ho le mie idee fisse. Sono loro che mi hanno spinta a telefonare alla polizia. Mi passano la sezione A, dove mi dicono che l'ispettore è ancora al lavoro. E a giudicare dalla sua voce lo è da troppo tempo.
«Il certificato di morte è stato firmato oggi pomeriggio alle quattro.»
«E quelle tracce?» dico io.
«Se lei avesse visto ciò che ho visto io, o se lei avesse figli, saprebbe come sono irresponsabili e imprevedibili.»
La sua voce si trasforma in un brontolio al pensiero delle preoccupazioni che gli hanno causato i suoi marmocchi.
«E poi naturalmente si tratta solo di uno sporco groenlandese» dico io.
Tace. È un uomo che anche dopo una lunga giornata di lavoro ha riserve sufficienti per spostare il termostato sul raffreddamento veloce.
«Ora le dico una cosa, cazzo. Noi non facciamo distinzioni. Anche se quello che è caduto fosse un pigmeo, un pluriomicida e violentatore, noi andremmo fino in fondo. Fino in fondo. Mi capisce? Sono andato io stesso a prendere il referto del medico legale. Non c'è segno che si tratti d'altro che di un incidente. Tragico, ma abbiamo centosettantacinque casi ogni anno.»
«Ho intenzione di sporgere un reclamo.»
«Può anche sporgere un reclamo.»
Riattacchiamo. In realtà non ho intenzione di sporgere un reclamo. Ma anch'io ho avuto una giornata dura.
So bene che la polizia ha molte cose da fare. Lo capisco bene. Ho capito tutto ciò che ha detto.
Meno una cosa. Quando sono stata interrogata, l'altro ieri, ho risposto a molte domande. Ma di fronte a molte altre ho taciuto. Una di queste era "stato civile".
«Non la riguarda» ho detto all'agente. «A meno che lei non sia interessato a un appuntamento.»
Perciò la polizia non dovrebbe sapere nulla della mia vita privata. Come faceva "l'unghia" a sapere che non ho figli, mi chiedo. A questa domanda non so rispondere.
È solo una piccola domanda. Ma il mondo si dà sempre un gran daffare per sapere come mai una donna nubile e indifesa della mia età non ha un marito e un paio di incantevoli marmocchi. Così col tempo si sviluppa un'allergia alla domanda.
Vado a prendere un po' di fogli di carta senza righe e una busta, poi mi siedo al tavolo da pranzo. In alto scrivo: "Copenaghen, 19 dicembre 1993. Alla Procura di Stato. La sottoscritta Smilla Jaspersen inoltra con la presente un reclamo".
6
Sembra prossimo ai cinquanta, ma ha vent'anni di più. Indossa una tuta termica da ginnastica, scarpe chiodate, berretto americano da baseball e guanti di pelle senza dita. Da una tasca sul petto tira fuori una bottiglietta marrone che svuota con un movimento abile, quasi discreto. È propranololo, un beta-bloccante che abbassa la frequenza cardiaca. Apre una mano e se la guarda. È grande, bianca, ben curata e fermissima. Sceglie una mazza numero uno, un driver, Taylormade, con la testa di palissandro lucida, a forma di campana. L'avvicina alla palla e la solleva. Quando colpisce, tutta la sua forza, tutti i suoi ottantacinque chili, sono concentrati in un punto grande come un francobollo, e la pallina gialla sembra dissolversi e scomparire. La si rivede solo quando atterra sul green, dall'altra parte del giardino, dove si posa obbediente nei pressi della bandierina.
«Palle Cayman» dice. «Di McGregor. In passato avevo sempre problemi con i vicini. Queste vanno molto meno lontano.»
È mio padre, la dimostrazione è stata in mio onore, e io mi rendo conto benissimo di cosa si tratta. Un bambino che chiede amore. Che io nemmeno per un istante penso di dargli.
Dal mio punto di vista, l'intera popolazione danese è media borghesia. Le persone davvero povere e davvero ricche sono così poche da essere qualcosa di esotico.
Sono così fortunata da conoscere parecchi poveri, visto che molti di essi sono groenlandesi.
Mio padre appartiene a quelli davvero benestanti.
Ha uno Swan di 22 metri nel porticciolo di Rungsted con tre uomini di equipaggio fisso. Ha la sua isola all'ingresso dell'Isefjord, dove si può ritirare nella sua casetta norvegese di legno, e può far sgomberare gli eventuali turisti indesiderati. È uno dei pochi in Danimarca a possedere una Bugatti e un uomo assunto per lucidarla e per riscaldare il grasso dei semiassi con un becco Bunsen due volte l'anno, quando si presenta alla corsa per auto d'epoca del Bugatti Club. Il resto del tempo si accontenta di mettere sul grammofono il disco offerto dal club, dove si sente un meccanico che avvia con la manovella uno di quegli splendidi veicoli, ne regola la carburazione e gli dà una brusca accelerata.
Possiede questa casa, bianca come la neve e decorata con conchiglie di cemento bianco lucidate, con il tetto di scisto naturale e una scala ritorta che sale verso l'entrata. Con aiuole di rose in un giardino sul davanti che scende dritto in Strandvej, e un giardino sul retro di dimensioni sufficienti per un campo a nove buche, la grandezza giusta ora che ha le nuove palle.
Ha guadagnato i suoi soldi facendo iniezioni.
Non è mai stato uno di quelli che fanno trapelare notizie sul proprio conto. Ma chi fosse interessato può aprire il Who's Who e scoprire che è diventato primario a trent'anni, ha ottenuto la prima cattedra danese di anestesiologia quando fu istituita, e che cinque anni dopo lasciò gli ospedali per consacrarsi - è scritto proprio con parole così belle - alla pratica privata. Poi, grazie alla sua fama, ha cominciato a viaggiare. Non alla ventura, ma in aereo privato. Ha fatto iniezioni ai grandi. È stato responsabile dell'anestesia nelle prime, pionieristiche operazioni al cuore in Sudafrica. Era con la delegazione di medici americani in Unione Sovietica quando morì Breznev. Ho sentito dire che è stato mio padre a ritardarne la morte nelle ultime settimane, affaccendandosi con le sue lunghe siringhe.
Somiglia a uno scaricatore di porto, e di tanto in tanto coltiva questa somiglianza tenendo la barba incolta. Una barba che ora è grigia, ma che una volta era corvina e ancora richiede due rasature al giorno per avere un aspetto curato.
Le sue mani sono ferme e infallibili. Riesce a penetrare nel fianco con una siringa da 150 mm, in via retroperitoneale, attraversando i muscoli della schiena fino all'aorta. Poi sa bussare piano con la punta dell'ago sulla grande arteria per avere la certezza di essere arrivato, e sa aggirarla per infilare un deposito di lidocaina su per il grande plesso nervoso. Il sistema nervoso centrale controlla il tono delle arterie. Secondo la sua teoria, questo può aiutare le insufficienze circolatorie negli arti inferiori dei ricchi sovrappeso.
Mentre esegue l'iniezione raggiunge la massima concentrazione possibile a un essere umano. Non pensa a nient'altro, nemmeno al conto di diecimila corone che la sua segretaria sta scrivendo e che dovrà essere pagato entro il primo gennaio, e Buon Natale e Felice Anno Nuovo, e avanti un altro.
Negli ultimi venticinque anni è stato fra i duecento giocatori di golf in lizza per le ultime cinquanta Eurocard. Vive con una ballerina che ha tredici anni meno di me e lo guarda come se vivesse solo nella speranza che lui le strappi di dosso il tutù e le scarpette da danza.
Così mio padre è un uomo che possiede tutto ciò su cui può mettere le mani. Ed è proprio questo che crede di mostrarmi, qui sul campo da golf. Che ha tutto ciò che il cuore può desiderare. Persino i betabloccanti, che prende da dieci anni per avere le mani fermissime, sono privi di effetti collaterali.
Giriamo intorno alla casa, sui sentieri ordinati e cosparsi di ghiaia, con i bordi tosati ogni estate dal giardiniere Sørensen. Io indosso una pelliccia di foca sopra una tuta di lana ricamata chiusa con la lampo. Visti da fuori siamo padre e figlia con tanta esuberanza e vitalità. Più da vicino siamo solo una banale tragedia distribuita su due generazioni.
Il soggiorno ha il pavimento di quercia di palude e una cornice di acciaio inossidabile intorno a una parete di vetro che dà sulla vasca per gli uccelli, i cespugli di rose e la caduta sociale in Strandvej. Accanto al camino c'è Benja, in maglione e calzettoni di lana spessi, che stira i muscoli dei piedi e mi ignora. È pallida, graziosa e impertinente, come una fanciulla degli elfi diventata spogliarellista.
«Miconazolo» dico.
«Prego?»
Pronuncia molto chiaramente, come hanno imparato a scuola al Teatro Reale.
«Per i problemi ai piedi, tesoro, Miconazolo per i funghi fra le dita dei piedi. Ora si può comprare senza ricetta.»
«Non sono funghi» dice fredda. «Credo che quelli comincino a venire alla tua età.»
«Anche ai minorenni, tesoro. Specialmente a quelli che si allenano molto. E si estendono velocemente alle parti basse.»
Si ritira nelle stanze adiacenti con un grugnito. Ha una bella dose di forza grezza, ma ha avuto un'adolescenza tranquilla e una carriera fulminante. Non ha ancora sperimentato le avversità necessarie a sviluppare una psiche capace di replicare e di lottare.
La senhora Gonzales serve il tè sul tavolino del salotto, una lastra di cristallo da settanta millimetri appoggiata su un blocco di marmo liscio.
«È passato un bel po' di tempo, Smilla.»
Parla dei suoi nuovi quadri, delle memorie che sta scrivendo, dei suoi esercizi al pianoforte. Temporeggia. Si prepara all'impatto della battaglia, quando gli presento una richiesta che non ha nulla a che vedere con lui. Mi è grato perché lo lascio parlare. Ma in realtà non ci facciamo illusioni.
«Raccontami di Johannes Loyen» dico.
Mio padre aveva poco più di trent'anni quando arrivò in Groenlandia e incontrò mia madre.
L'eschimese Aisivak raccontò a Knud Rasmussen che all'inizio il mondo era abitato solo da due uomini, entrambi grandi stregoni. Poiché desideravano moltiplicarsi, uno dei due trasformò il proprio corpo in modo da partorire; e da allora generarono molti figli.
Negli anni intorno al 1860, il catechista groenlandese Hanseeraq registrò nel diario della confraternita, il Diarium Friedrichstal, molti casi di donne che cacciavano come gli uomini. Se ne trovano diversi esempi nella raccolta di leggende di Rink e nelle Meddelelser fra Grønland. Certamente non è mai stato usuale, ma accadeva. A causa della maggioranza di donne, per via della morte e del bisogno, nella certezza, ovvia in Groenlandia, che ciascuno dei due sessi racchiude in sé potenzialmente l'altro.
Ma di norma, in tal caso, le donne dovevano vestirsi da uomini e rinunciare alla vita familiare. La collettività poteva sopportare un cambiamento di sesso, ma non uno stato di transizione fluttuante.
Il caso di mia madre era diverso. Lei faceva l'amore e partoriva i suoi figli, sparlava dei suoi amici e puliva le pelli come una donna. Ma sparava, andava in kayak e trascinava la carne a casa come un uomo.
Intorno ai dodici anni, un mese di aprile, se ne andò sul ghiaccio con suo padre, e lì lui sparò a un uuttoq, una foca che prendeva il sole sul ghiaccio. Sbagliò mira. Se altri uomini sbagliavano mira, si potevano addurre diversi motivi. Ma per mio nonno ce n'era uno solo: stava accadendo qualcosa di irreparabile, la calcificazione del nervo ottico. Un anno dopo era completamente cieco.
Quel giorno di aprile mia madre rimase lì, mentre suo padre andava avanti per controllare una lenza. Così ebbe tempo di pensare alle diverse possibilità per il futuro. Il sussidio sociale, che al giorno d'oggi in Groenlandia è al di sotto del minimo necessario per la sopravvivenza, e che a quei tempi era una sorta di involontaria battuta di spirito. O la morte per fame, che non era insolita, o ancora una vita sulle spalle dei parenti, che già non riuscivano a cavarsela da soli.
Quando la foca rimise fuori la testa, lei sparò.
Finora aveva pescato con la lenza pesci scorpioni o ippoglossi neri, e sparato alle pernici. A partire da quella foca divenne cacciatrice.
Credo che le capitasse raramente di osservare il suo ruolo dall'esterno. Una volta eravamo in tenda, nell'accampamento estivo di Atikerluk, un monte che d'estate viene invaso dai mergoli, da tanti uccelli neri con il petto bianco che solo chi li ha visti può avere un'idea della quantità. Trascende ogni possibilità d'immaginazione.
Eravamo venuti da nord, dove avevamo pescato narvali da piccoli cutter col motore diesel. Un giorno ne avevamo presi otto, un po' perché il ghiaccio li aveva intrappolati in un'area ristretta, un po' perché le tre barche avevano perso il contatto. Otto narvali sono troppa carne, anche a darla da mangiare ai cani. Troppa carne.
Uno dei narvali era una femmina gravida. Hanno il capezzolo subito sopra la vagina. Quando mia madre, con un solo taglio, aprì la cavità addominale per estrarne le viscere, scivolò sul ghiaccio un piccolo lungo un metro e mezzo, bianco come un angelo, completamente formato.
Per quasi quattro ore i cacciatori rimasero pressoché in silenzio a guardare il sole di mezzanotte, che in questa stagione crea il fenomeno della luce perpetua, e a mangiare mattak, pelle di narvalo. Io non riuscii a inghiottire nulla.
Una settimana dopo siamo sulla montagna degli uccelli, è passato un giorno dall'ultima volta che abbiamo mangiato. La tecnica è quella di fondersi con il paesaggio, aspettare e catturare gli uccelli con una grossa rete. Al secondo tentativo ne presi tre.
Erano femmine che stavano tornando dai piccoli. Covano negli anfratti delle scogliere scoscese, dove i piccoli fanno un rumore d'inferno. Le madri tengono i vermi in una sorta di sacca dentro il becco. Vanno uccisi con una pressione sul cuore. Avevo tre uccelli.
Ce n'erano stati tanti prima di questi. Tanti uccelli uccisi, cotti nell'argilla e mangiati, tanti che non riesco a ricordarli. Eppure ora vedo improvvisamente i loro occhi come tunnel alla fine dei quali ci sono i piccoli che aspettano, e gli occhi di questi piccoli sono altri tunnel, e alla fine c'è il piccolo di narvalo, il cui sguardo a sua volta porta dentro e lontano. Altrettanto lentamente apro la rete e con una breve esplosione di strida gli uccelli volano via.
Mia madre è seduta accanto a me, in assoluto silenzio. E mi guarda, come se ci fosse qualcosa che vede per la prima volta.
Non so cosa sia stato a fermarmi. Nell'Artico la compassione non è una buona virtù, è piuttosto una specie di insensibilità: una mancanza di senso degli animali, dell'ambiente, e del valore della necessità.
«Smilla» dice, «ti ho portata nell'amaat.»
È il mese di maggio e la sua pelle ha uno splendore bruno, scuro e profondo, come una dozzina di strati di vernice. Porta orecchini d'oro e una collana con due croci e un'ancora intorno al collo. Ha i capelli legati in un nodo sulla nuca, è grande e bella. Ancora adesso, se penso a lei, mi sembra la donna più bella che io abbia mai visto.
Devo avere circa cinque anni. Non so bene cosa intenda dire, ma è la prima volta che capisco che siamo dello stesso sesso.
«Eppure» dice, «sono forte come un uomo.»
Indossa una camicia di cotone a quadri rossi e neri. Ora si tira su una manica e mi mostra un avambraccio largo e duro come una pagaia. Poi lentamente si sbottona la camicia. «Vieni, Smilla» dice piano. Non mi bacia mai, e mi tocca di rado. Ma in istanti di grande confidenza mi permette di bere il latte che è sempre lì, sotto la pelle, non diversamente dal sangue. Allarga le gambe in modo che io mi possa infilare fra di esse. Come gli altri cacciatori ha dei pantaloni di pelle d'orso conciata alla meno peggio. Ama la cenere, che talvolta mangia direttamente dal falò, e se ne è spalmata un po' sotto gli occhi. In questo odore di carbone bruciato e pelle d'orso mi avvicino al seno, che è di un biancore splendente, con una grande, delicata areola rosa. Così bevo immuk, il latte di mia madre.
Una sola volta, più tardi, cercò di spiegarmi che un mese ci sono tremila narvali riuniti nello stesso fiordo, che ribolle di vita. Ma un mese dopo il ghiaccio li ha chiusi dentro e sono morti congelati. Che a maggio e a giugno ci sono tanti mergoli che la scogliera è tinta di nero. Ma il mese dopo mezzo milione di uccelli è morto di fame. Alla sua maniera vuole farmi notare che dietro la vita degli animali artici c'è sempre stata questa estrema fluttuazione delle popolazioni. E che, alla luce di queste variazioni, ciò che noi prendiamo significa meno di niente.
Io la capivo, capivo ogni parola. Allora e in seguito. Ma non cambiò nulla. L'anno seguente - era l'anno prima che scomparisse - cominciai ad avere la nausea quando pescavo. Allora avevo circa sei anni. Non abbastanza per riflettere sulle cause, ma abbastanza per comprendere che si trattava di estraneità alla natura. Che una parte di essa non mi era più accessibile, non in maniera spontanea come in passato. Forse già allora avevo cominciato a desiderare di capire il ghiaccio. Voler capire significa provare a riconquistare qualcosa che abbiamo perso.
«Il professor Loyen...»
Pronuncia il nome con l'interesse e il rispetto armato con cui un brontosauro ha sempre osservato l'altro.
«Un uomo molto in gamba.»
Si passa il palmo della mano sulla guancia e sul mento. È un movimento attentamente studiato che produce il suono di una grossa lima sul legno giunto a riva con la corrente.
«L'Istituto di Medicina Artica l'ha creato lui.»
«Quali sono i suoi interessi nella medicina legale? Si è fatto nominare anatomopatologo per la Groenlandia.»
«Come formazione è patologo legale. Ma accetta tutto ciò che dà benemerenze. Probabilmente pensa che gli farà fare carriera.»
«Cosa lo spinge?»
Qui arriva una pausa. Mio padre ha attraversato la maggior parte della sua vita con la testa sotto il braccio. Ai suoi tempi era molto interessato alle motivazioni degli esseri umani.
«Nella mia generazione ci sono tre tipi di medici. Quelli che rimangono inchiodati al posto di assistenti, o finiscono in un ambulatorio privato. Fra loro ci sono molti ottimi medici. Poi ci sono quelli che scrivono una discreta dissertazione, che rappresenta - tu lo sai, Smilla - l'arbitraria, buffonesca e insufficiente condizione per essere trasportati verso i vertici del sistema. Questi finiscono primari. Sono piccoli re nella comunità medica. E poi c'è il terzo tipo. Noi, che siamo saliti e siamo usciti dalla mischia.»
Questo è detto senza autoironia. Si potrebbe far dichiarare a mio padre, in tutta serietà, che non è soddisfatto di sé la metà di quanto avrebbe motivo di essere.
«Queste ultime bracciate richiedono una forza particolare. Un'ambizione. Un forte desiderio. Di soldi. O di potere. O forse di conoscenza. Nella storia della medicina questa aspirazio ne è sempre stata raffigurata con il fuoco. La fiamma continua dell'alchimista sotto l'alambicco.»
Guarda davanti a sé, come se avesse in mano la siringa, come se l'ago fosse a posto.
«Loyen» dice «fin da quando studiava ha voluto una sola cosa. Accanto a essa tutto il resto è piccolo. Ha voluto essere riconosciuto come il migliore nel suo campo. Non il migliore in Danimarca, fra tutti questi contadini. Il migliore nell'universo. L'ambizione professionale è il fuoco perpetuo dentro di lui. E non è la fiamma di un fornello. È il falò di san Giovanni.»
Non so come si siano incontrati mia madre e mio padre. So che lui venne in Groenlandia perché questo paese ospitale è sempre stato una sede importante di esperimenti scientifici. Stava sviluppando una nuova tecnica per il trattamento della neuralgia del trigeminus, l'infiammazione dei nervi del volto. In passato era stata alleviata uccidendo il nervo con iniezioni di alcol, un trattamento che comportava una parziale paralisi del volto e la perdita della sensibilità di una parte della muscolatura della bocca, il cosiddetto labbro cadente. Effetto che colpiva anche le famiglie più ricche, e fu questo il motivo che generò tale interesse in mio padre. Nella Groenlandia settentrionale si riscontravano molti casi di tale malattia. Era arrivato per trattarla con la sua nuova tecnica: una parziale devitalizzazione del nervo infetto per mezzo del calore.
Ci sono sue fotografie. Con gli stivali Kastinger e i vestiti imbottiti di piume, con la piccozza e gli occhiali da ghiacciaio, e davanti alla casa che gli è stata messa a disposizione. Con una mano sulla spalla dei due ometti scuri che devono fargli da interpreti.
Per lui la Groenlandia settentrionale era davvero l'ultima Thule. Non aveva immaginato nemmeno per un istante di doversi fermare più del mese richiesto in un deserto di ghiaccio spazzato dal vento, dove non era possibile trovare un campo da golf.
Ci si può fare un'idea dell'energia incandescente sprigionatasi fra lui e mia madre considerando che vi rimase tre anni. Provò a convincerla a trasferirsi alla base, ma lei rifiutò. Come per tutti coloro che sono nati in Groenlandia settentrionale, anche per mia madre ogni accenno a essere rinchiusa era insopportabile. Così fu lui a seguirla in una delle baracche di compensato e lamiera erette quando gli americani scacciarono gli eschimesi dall'area dove venne costruita la base. Ancora oggi mi chiedo come abbia fatto a cavarsela. La risposta è, na turalmente, che finché lei fosse vissuta, lui si sarebbe lasciato alle spalle le mazze e la sacca da golf per seguirla, fosse stato anche al centro dell'inferno nero e bruciato.
"Hanno avuto un bambino" si dice di chi ha un figlio. In questo caso non sarebbe corretto. Intendo dire che mia madre ebbe mio fratello minore e me. Al di fuori di questa scena, presente senza poterne essere davvero partecipe, pericoloso come un maschio d'orso, prigioniero di un paese che odiava e di un amore che non capiva ma di cui era preda, sul quale sembrava non poter avere il minimo influsso, c'era mio padre, l'uomo con le siringhe e le mani ferme, il giocatore di golf Moritz Jaspersen.
Quando avevo tre anni se ne andò. O meglio, fu portato via da se stesso. Nell'intimo di ogni amore cieco, folle, cresce l'odio per l'essere amato, che possiede l'unica chiave esistente della nostra felicità. Io avevo, come ho detto, solo tre anni, ma ricordo come se ne andò. Fu in una condizione di agitato, represso, velenoso e indemoniato furore. Come forma di energia, venne superato solo dal rimpianto che lo costrinse a tornare. Era legato a mia madre da un elastico invisibile al resto del mondo, che aveva l'effetto e la realtà fisica di una cinghia del ventilatore.
Non aveva molto che lo legasse a noi figli, quando era lì. Ricordo le sue tracce nei miei primi sei anni. Il profumo del tabacco latakia che fumava. L'autoclave in cui sterilizzava i suoi strumenti. L'interesse che destava quando, di tanto in tanto, si metteva le scarpe chiodate e usciva a tirare un secchio di palle sul ghiaccio nuovo. E poi l'atmosfera che lo accompagnava, fatta dalla somma dei sentimenti che provava per mia madre. Lo stesso tranquillizzante calore che ci si potrebbe aspettare da un reattore atomico.
Qual era il ruolo di mia madre in tutto questo? Non lo so, e non lo saprò mai. Quelli che se ne intendono di certe cose dicono che le due parti devono sempre aiutarsi a vicenda quando una relazione è destinata a naufragare e andare in pezzi. È possibile. Come tutti, da quando avevo sette anni anch'io ho dipinto la mia infanzia con una quantità di false indorature, e una parte si è certamente posata anche su mia madre. Ma in ogni caso fu lei a rimanere dov'era, a mettere le lenze per le foche e intrecciarmi i capelli. Lei era lì, grande e presente, mentre Moritz, con le sue mazze da golf, la sua barba, oscillava fra i due estremi del suo amore: la totale fusione con l'amata e la frapposizione dell'intero Atlantico settentrionale.
Chi cade in mare in Groenlandia non torna più a galla. L'acqua è sotto i quattro gradi e a quella temperatura ogni processo di decomposizione si ferma. Perciò viene a mancare la fermentazione del contenuto dello stomaco, che in Danimarca procura ai suicidi una nuova spinta verso l'alto e li porta a riva, cadaveri restituiti dal mare.
Ma trovarono i resti del suo kayak e da quelli conclusero che fosse stato un tricheco. I trichechi sono imprevedibili. Possono essere ipersensibili e schivi. Ma se solo si spingono un po' più a sud, ed è un autunno con poco pesce, si trasformano negli assassini più rapidi e meticolosi del grande mare. Con i loro due canini possono forare il fianco di una nave di ferrocemento. Una volta ho visto dei cacciatori offrire un merluzzo a un tricheco che avevano catturato vivo. Unì le labbra come per dare un bacio e poi succhiò la polpa del pesce strappandola dalla lisca.
«Sarebbe meraviglioso se tu volessi venire quassù la sera della vigilia di Natale, Smilla.»
«Natale non mi dice niente.»
«Hai pensato di lasciare tuo padre da solo?»
Questo è uno dei lati più faticosi che Moritz ha sviluppato con l'età: un misto di perfidia e sentimentalismo.
«Perché non provi l'ospizio dei vecchi?»
Mi sono alzata e mi viene dietro.
«Sei proprio senza cuore, Smilla. Ed è proprio per questo che non sei riuscita a tenerti accanto un uomo.»
È prossimo alle lacrime quanto può esserlo lui.
«Papà» dico, «scrivimi una ricetta.»
Passa immediatamente e con la velocità del lampo, come con mia madre, dal rimprovero alla premura.
«Stai male, Smilla?»
«Molto. Ma con quel pezzo di carta puoi salvarmi la vita e rispettare il giuramento di Ippocrate. Dev'essere di cinque cifre.»
Geme, si tratta di sangue, siamo agli organi vitali, il portafogli e il libretto degli assegni.
Mi metto la pelliccia. Benja non esce a salutarmi. Sulla porta lui mi porge l'assegno. Sa che questo oleodotto è l'unica linea di collegamento con la mia vita. Teme di perdere anche quella.
«Non vuoi che Fernando ti accompagni a casa in auto?»
Poi qualcosa lo fa trasalire.
«Smilla» grida, «non hai intenzione di partire, vero?»
Fra noi c'è un pezzo di prato coperto di neve. Potrebbe anche essere l'inlandsis.
«C'è qualcosa che mi pesa sulla coscienza» dico. «Costerà parecchio mettere le cose a posto.»
«In tal caso» dice quasi fra sé, «ho proprio paura che quell'assegno non sia abbastanza.»
E così ha l'ultima parola. Non si può vincere sempre.
7
Forse è un caso, forse non lo è, ma arriva nel momento in cui gli operai sono a pranzo e il tetto è vuoto.
C'è un sole limpido con un accenno di calore, cielo azzurro, gabbiani bianchi, vista sul cantiere navale di Limhamn in Svezia, e nessuna traccia della neve che è la ragione per cui siamo qui. Io e il signor Ravn, ispettore presso la Procura di Stato.
È piccolo, non più alto di me, ma indossa un grande cappotto grigio con tanta imbottitura sulle spalle da farlo somigliare a un ragazzino di dieci anni che interpreta un musical sul periodo del proibizionismo. Il suo volto è scuro e bruciato come lava, così magro che la pelle ha aderito al cranio come una mummia. Ma i suoi occhi sono svegli e attenti.
«Ho pensato di passare» dice.
«Troppo gentile. Passa sempre in caso di reclami?»
«Solo eccezionalmente. Di norma il caso va alla commissione locale. Diciamo che è per il carattere del caso e per la sua suggestiva lettera di reclamo.»
Io non dico nulla. Lascio che il silenzio agisca un po' sull'ispettore. Non ha alcun effetto visibile. I suoi occhi color sabbia sono rivolti su di me senza errare e senza imbarazzo. Potrebbe rimanere qui in piedi senza limiti di tempo. Basta già questo a fare di lui un uomo eccezionale.
«Ho parlato con il professor Loyen. Mi ha detto che lei è stata a trovarlo. Che lei ritiene che il bambino avesse paura dell'altezza.»
Il suo ruolo in questo mondo mi rende impossibile nutrire vera fiducia in lui. Ma sento il bisogno di aprirmi su alcune delle cose che mi angustiano.
«C'erano le orme nella neve.»
Sono pochissime le persone che sanno ascoltare. La fretta le trascina fuori dalla conversazione, oppure provano dentro di sé a migliorare la situazione, o riflettono su come dovrà essere l'attacco quando si farà silenzio e toccherà a loro entrare in scena.
L'uomo che ho di fronte è diverso. Mentre parlo, ascolta ciò che dico, e solo quello, senza distrarsi.
«Ho letto il rapporto e ho visto le fotografie...»
«C'era qualcos'altro. Qualcosa di più.»
Ora ci stiamo dirigendo verso ciò che dev'essere detto, ma non può essere spiegato.
«C'erano tracce di accelerazione. Nell'appoggio sulla neve o sul ghiaccio avviene una pronazione della giuntura del piede. Come quando si cammina a piedi nudi sulla sabbia.»
Provo a mostrare con il polso il movimento di rotazione verso l'esterno.
«Se il movimento è troppo veloce, non abbastanza saldo, si verificherà un piccolo scivolamento all'indietro.»
«Come succede a ogni bambino che gioca...»
«Quando uno è abituato a giocare sulla neve non lascia orme di quel tipo, perché è un movimento antieconomico, come un cattivo trasferimento di pesi in salita nello sci di fondo.»
Mi rendo conto io stessa di quanto sia insufficiente ciò che dico. Mi aspetto un moto di scherno. Non arriva.
Guarda oltre il tetto. Non ha tic, né l'abitudine di lisciare il cappello o di accendersi la pipa o di cambiare piede d'appoggio. Non tira fuori nessun blocchetto. È solo un uomo molto piccolo che ascolta e riflette a fondo.
«Interessante» dice infine. «Ma anche un po'... campato in aria. Sarebbe difficile convincere un profano. Difficile costruirci sopra qualcosa.»
Ha ragione. Leggere la neve è come ascoltare la musica. Descrivere ciò che si è letto è come spiegare la musica per iscritto.
Quando accade per la prima volta è come scoprire di essere svegli mentre tutti gli altri dormono. Solitudine e onnipotenza in parti uguali. Stiamo andando da Qinnissut all'imboccatura del fiordo di Inglefield. È inverno, tira vento e fa un freddo spaventoso. Quando le donne hanno bisogno di orinare devono prima accendere un Primus sotto una coperta per potersi calare i pantaloni senza subire congelamenti istantanei.
Da un po' di tempo ci siamo resi conto che sta sopraggiungendo la nebbia, ma quando arriva è all'improvviso, come una cecità collettiva. Anche i cani si accalcano l'uno contro l'altro. Ma per me in realtà non c'è alcuna nebbia. C'è una selvaggia, luminosa gaiezza perché io so con assoluta certezza in che direzione dobbiamo andare.
Mia madre mi ascolta e gli altri ascoltano lei. Vengo messa sulla prima slitta e, ricordo, mi sembra che stiamo camminando su un filo d'argento, teso fra me e la casa di Qaanaaq. Un minuto prima che la facciata della casa emerga dalla notte, io so che sta per arrivare.
Forse non era la prima volta. Ma è così che la ricordo. Forse è sbagliato ricordare le svolte della nostra esistenza come se avvenissero in singoli, unici istanti. Forse l'innamoramento, la penetrante coscienza che anche noi un giorno dovremo morire, l'amore per la neve, in realtà non sono avvenimenti improvvisi, forse sono sempre presenti. Forse non scompaiono mai.
Ho un'altra immagine della nebbia, probabilmente di quella stessa estate. Non ho mai navigato molto. Non conosco le condizioni dei fondali. Non so perché mi abbiano presa con loro. Ma in ogni istante so dove siamo grazie ai punti di riferimento sulla costa.
Da quel momento cominciano a portarmi quasi sempre con loro.
Al Coldwater Laboratory dell'Esercito americano, sull'isola di Pylot, avevano assunto gente per fare ricerche sul senso di orientamento. Lì ho visto libroni e lunghe bibliografie di articoli su come la Terra è attraversata da venti con direzione costante che danno ai cristalli di ghiaccio un'angolazione particolare grazie alla quale, anche in assenza di visibilità, dovrebbe essere possibile riconoscere i punti cardinali. O come un'altra brezza quasi impercettibile, un po' più alta nella nebbia, raffreddi in modo tutto particolare una parte del volto. Oppure come la coscienza registri a livello subliminale anche la luce normalmente non percepita. Una teoria afferma che nelle regioni artiche il cervello umano sarebbe in grado di registrare la potente turbolenza elettromagnetica del Polo Nord magnetico nelle vicinanze di Bucha Felix.
Conferenze sull'esperienza della musica.
Il mio unico fratello spirituale è Newton. Io fui commossa quando all'università ci esposero il passo dei Principia Mathematica, libro primo, in cui egli fa oscillare un secchio pieno d'acqua e si serve della superficie obliqua dell'acqua per argomentare che dentro e intorno alla Terra che ruota, al sole che gira e alle stelle fisse che ondeggiano, rendendo impossibile trovare un punto fisso di partenza, un sistema iniziale e un punto fermo nell'esistenza, c'è l'absolute space, lo Spazio Assoluto, ciò che rimane fermo, ciò a cui possiamo aggrapparci.
Sarei stata capace di dargli un bacio, a Newton. Più tardi mi disperai per la critica di Ernst Mach all'esperimento del secchio, critica che rappresentò il punto di partenza per l'opera di Einstein. Allora ero più giovane e più facile alla commozione. Oggi so che tutto ciò che fecero fu dimostrare come l'argomentazione di Newton è insufficiente. Ogni spiegazione teoretica è una riduzione dell'intuizione. Nessuno ha scosso la certezza mia e di Newton dello Spazio Assoluto. Non c'è nessuno che riesca a tornare a casa a Qaanaaq tenendo il naso immerso negli scritti di Einstein.
«Cosa immagina che sia accaduto?»
Non c'è niente di così disarmante come la remissività.
«Non lo so» dico io.
È un'affermazione molto vicina alla verità.
«Cosa desidera che facciamo?»
Qui alla luce del giorno, con la neve sciolta e la vita che continua sul Knippelsbro, e una persona cortese che mi parla, le mie obiezioni sembrano improvvisamente trasparenti. Non trovo niente da rispondergli.
«Io» dice «rivedrò il caso dall'inizio alla fine, e lo guarderò alla luce di ciò che lei mi ha detto.»
Scendiamo, ed è una doppia discesa. Laggiù mi aspetta la depressione.
«Ho parcheggiato all'angolo» dice.
Poi commette il suo grande errore.
«Mentre rivediamo il caso, le consiglio di ritirare il suo reclamo. Per permetterci di lavorare con tranquillità. E per lo stesso motivo: se i giornali dovessero rivolgersi a lei, credo che dovrebbe rifiutare di fare commenti. E non dovrebbe parlare nemmeno di ciò che mi ha detto. Li dirotti sulla polizia, dica che stanno ancora lavorando al caso.»
Mi rendo conto che sto arrossendo. Ma non è per timidezza, è per rabbia.
Non sono perfetta, mi piacciono più la neve e il ghiaccio che l'amore. Mi è più facile interessarmi alla matematica che amare il mio prossimo. Ma sono ancorata a qualcosa di saldo nell'esistenza. Lo si può chiamare senso dell'orientamento, intuizione femminile o quello che si vuole. Ho delle fondamenta e più in basso non posso cadere. Può anche essere che sia riuscita a organizzarmi la vita fin troppo bene. Ma sono sempre aggrappata - almeno con un dito alla volta - allo Spazio Assoluto.
Per questo c'è un limite oltre il quale il mondo non può andare così storto, e naturalmente le cose non possono andare così male, senza che io me ne accorga. Ora so, senza ombra di dubbio, che qualcosa non va.
Non ho la patente. E quando una indossa dei bei vestiti deve tener conto di troppe cose se allo stesso tempo deve pedalare, controllare il traffico, conservare la dignità e reggersi un cappellino da caccia comprato da Vagn in Østergade. Perciò di norma vado a piedi o prendo l'autobus.
Oggi vado a piedi. È martedì 21 dicembre, fa freddo e il cìelo è sereno. Innanzitutto vado fino alla biblioteca dell'Istituto Geologico, sulla Øster Voldgade.
Una frase che amo molto è il postulato di Dedekind sulla compressione lineare. Dice - più o meno - che in qualunque punto della successione numerica, all'interno di un qualsiasi piccolo, esiguo intervallo, si può trovare l'infinito. Quando cerco al computer della biblioteca la Società Danimarca per la Criolite trovo materia per un anno di lettura.
Scelgo L'oro bianco. Si rivela un libro brillante. Gli operai della miniera di criolite hanno gli occhi che brillano, i signori dell'industria, che guadagnano fortune, hanno gli occhi che brillano, il personale groenlandese pei le pulizie ha gli occhi che brillano, e gli azzurri fiordi groenlandesi sono pieni di riflessi e di sole.
Così, passando per Østerport, vado a piedi fino allo Strandboulevard. Fino al numero 72 B, dove la Società Danimarca per la Criolite, a fianco della concorrente Società Øresund per la Criolite, aveva cinquecento impiegati, due edifici di labora tori, il magazzino per la criolite grezza, la sala per la selezione, la mensa e le officine. Ora sono rimasti solo i binari della ferrovia, il terreno dove sorgeva l'impianto demolito, alcune baracche e tettoie, e una grande villa di mattoni rossi. Dalla mia lettura so che i grossi giacimenti di criolite presso Saqqaq si esaurirono negli anni Sessanta, e che nel corso degli anni Settanta la società passò ad altre attività.
Ora ci sono solo un'area recintata, una via d'accesso e un gruppo di operai in tuta bianca che si gode tranquillamente una birra di Natale e si prepara alla festa imminente.
Una ragazza audace e intraprendente andrebbe da loro salutandoli come un boy-scout, parlerebbe in gergo e gli carpirebbe notizie su chi era la signora Lübing e che fine ha fatto.
Questo atteggiamento diretto non è da me. Non mi piace parlare agli sconosciuti. Non mi piacciono gli operai danesi in gruppi. Anzi, non mi piacciono in generale gli uomini in gruppo.
Mentre pensavo, ho girato tutt'intorno all'isolato; gli operai mi hanno visto, mi fanno cenno di avvicinarmi e si rivelano cortesi gentlemen che lavorano qui da trent'anni e che ora hanno il malinconico compito di liquidare tutto; sanno che la signora Lübing è ancora viva e abita a Frederiksberg, sta nell'elenco del telefono, e perché mi interessa?
«Una volta mi ha fatto un favore» dico. «Ora le voglio chiedere una cosa.»
Annuiscono e dicono che la signora Lübing ha fatto favori a molti, che anche loro hanno una figlia della mia età, e torni a trovarci.
Camminando verso lo Strandboulevard penso che anche in fondo alla più paranoica diffidenza ci sono la fratellanza e il desiderio di contatto che aspettano solo di essere scovati.
Chi ha vissuto fianco a fianco con animali che hanno spazio a volontà non riuscirà più a visitare un giardino zoologico. Ma una volta mi capita di portare Esajas al Museo di storia naturale per mostrargli le sale con le foche.
A lui sembra che abbiano un aspetto malato. Ma è colpito dal modello dell'uro. Tornando a casa attraversiamo il Faelledpark.
«Quanti anni aveva?» mi chiede.
«Quarantamila.»
«Allora sicuramente morirà presto.»
«Sicuramente.»
«Quando morirai tu, Smilla, posso avere la tua pelle?»
«Va bene» dico io.
Attraversiamo Trianglen. È un caldo autunno, l'aria è caliginosa.
«Smilla, possiamo andare in Groenlandia?»
Non vedo motivo di risparmiare ai bambini le verità inevitabili. Devono crescere con la capacità di sopportare ciò che sopportiamo noi.
«No» dico io.
«Va bene.»
Non gli ho mai promesso nulla. Non posso promettergli nulla. Nessuno può promettere nulla agli altri.
«Ma noi possiamo leggere cose sulla Groenlandia.»
Della mia lettura ad alta voce dice "noi", cosciente del fatto che con la sua presenza vi contribuisce quanto me.
«In che libro?»
«Negli Elementi di Euclide...»
Quando arrivo a casa è buio. Il meccanico sta portando in cantina la sua bicicletta.
È molto grosso, sembra un orso, e se tenesse alta la testa sarebbe imponente. Ma la tiene bassa, forse per scusarsi della sua altezza, forse per evitare le cornici delle porte di questo mondo.
Mi piace. Ho un debole per i perdenti. Invalidi, stranieri, il cicciobombo della classe, quello con cui non balla mai nessuno. Il mio cuore batte per loro. Forse perché ho sempre saputo che in qualche modo non cesserò mai di essere una di loro.
Esajas e il meccanico avevano un rapporto di amicizia. Da prima che Esajas imparasse a parlare danese. Sicuramente non avevano bisogno di molte parole. Un artigiano ha riconosciuto l'altro. Due uomini che, ognuno a suo modo, erano soli al mondo.
Lo seguo mentre trascina giù la bicicletta. Ho un'ipotesi sulla cantina.
Ha ottenuto un locale doppio come officina. Ha il pavimento di cemento, aria calda, secca, e una forte luce gialla. Lo spazio angusto è completamente stipato. C'è un tavolo da lavoro che corre lungo due pareti. Ruote e camere d'aria di bicicletta appese a ganci. Una cassa del latte con potenziometri difettosi. Un contenitore di plastica per chiodi e viti. Un pannello con piccole pinze isolanti per lavori di elettronica. Un altro con chiavi fisse. Nove metri quadrati di compensato con qualcosa che somiglia a tutti gli utensili del mondo. Una fila di saldatori. Quattro scaffali di attrezzi da stagnino, barattoli da pittore, stereo fuori uso, serie di chiavi, elettrodi per saldatura, e tutta la serie di utensili elettrici Metabo. Sulla parete, due grosse bombole per fiamma ossidrica e due piccole per un cannello da taglio. Inoltre, una lavatrice smontata. Secchi di un prodotto contro il fungo delle case. Un telaio di bicicletta. Una pompa a pedale.
C'è un tale affollamento di oggetti che sembra siano in attesa del minimo pretesto per scatenare il caos. Sul piano puramente personale credo che basterebbe mandarmi qui dentro ad accendere la luce per provocare una confusione in cui poi non sarebbe nemmeno più possibile trovare l'interruttore. Ma com'è ora, tutto è tenuto a posto dall'acuto, funzionale senso dell'ordine di una persona che vuole essere sicura di poter trovare ciò che le serve.
È un mondo doppio. Sopra ci sono il tavolo da lavoro, gli utensili, l'alta sedia da ufficio. In basso, sotto il piano del tavolo, l'universo si ripete in dimensioni dimezzate. Una tavoletta di masonite con sega da traforo, cacciavite, scalpello. Uno sgabellino. Un tavolo da lavoro. Un piccolo morsetto. Una cassa di birra. Una cassa di sigari con circa trenta barattolini di Humbrol. Le cose di Esajas. Sono stata qui una volta che erano seduti a lavorare. Il meccanico sulla sedia, curvo sopra una lente d'ingrandimento montata su un sostegno, Esajas sul pavimento, in mutande, lontano dal mondo. L'aria sapeva di stagno bruciato e induritore epossidico. E di qualcos'altro, qualcosa di più forte: la totale concentrazione, l'oblio di sé. Rimasi lì forse dieci minuti. Non alzarono lo sguardo nemmeno una volta.
Esajas non era attrezzato per l'inverno danese. Solo occasionalmente Juliane riusciva a vestirlo in maniera adeguata. Lo conoscevo da sei mesi quando ebbe la sua quarta otite nel giro di due mesi. Quando uscì dall'effetto della penicillina era sordo. Da allora, quando leggevo mi sedevo davanti a lui, in modo che potesse seguire i movimenti delle mie labbra. Nel meccanico trovò una persona con cui parlare senza ricorrere alla parola.
Da qualche giorno vado in giro con una cosa nella tasca del cappotto, perché aspettavo questo incontro. Ora gliela mostro.
«Che cos'è questo?»
È la ventosa che ho preso nella stanza di Esajas.
«Una ventosa del tipo usato dai vetrai per trasportare grandi lastre.»
Prendo gli oggetti dalla cassa di birra. Ci sono diversi pezzi di legno intagliato. Un arpione, un'ascia. Una barca di una qualità di legno compatta, quasi screziata, forse di pero. Un umiaq. È lucidato esternamente e scavato all'interno con la sgorbia. Un lavoro lungo, faticoso, eseguito con cura. Poi un'automobile fatta di listelli di alluminio piegati e incollati, tagliati da un foglio sottile quasi come carta. Pezzi di vetro grezzo colorato sciolti e modellati su un Bunsen. Diverse montature d'occhiali. Un walkman. Il coperchio è andato perso, ma è stato riparato ingegnosamente con una lastra di plexiglas e piccole cerniere fissate con le viti. È infilato in una custodia di plastica cucita a mano. Il tutto ha le caratteristiche di un progetto che ha accomunato un bambino e un adulto. C'è anche una pila di cassette.
«Dov'è il suo coltello?»
Si stringe nelle spalle. Poco dopo se ne va piano piano. È un quintale di amico di tutti, ed è anche intimo del tecnico delle caldaie. Ha le chiavi dei sotterranei, può andare dove vuole.
Prendo lo sgabellino e mi siedo sulla porta, dalla quale vedo tutto il locale.
Al collegio avevamo ciascuno un armadietto di trenta centimetri per cinquanta. C'era la serratura. Il padrone aveva la chiave, tutti gli altri potevano aprirlo con una forcina.
È opinione diffusa che i bambini siano libri aperti, che la verità sulla loro intima natura filtri all'esterno. È sbagliato. Nessuno è più chiuso di loro, e nessuno ha più bisogno di esserlo. Come in risposta a un mondo che arriva continuamente con l'apriscatole per aprirli e vedere cosa hanno dentro, e nel caso sostituirlo con una conserva più adeguata.
Il primo bisogno che si sviluppava al collegio - a parte la fame permanente, mai veramente soddisfatta - era il bisogno di pace. Non c'è pace in un dormitorio. Perciò il bisogno viene rimosso. Si trasforma nel bisogno del nascondiglio, dello spazio segreto.
Provo a immaginarmi la situazione di Esajas, i posti in cui andava. L'appartamento, l'isolato, l'asilo, gli argini. Posti che non potranno mai essere perlustrati a fondo. Così mi limito a ciò che ho davanti.
Guardo il locale. Molto attentamente. Senza trovare niente. Nient'altro che il ricordo di Esajas. Allora lo evoco, com'era le due volte che sono stata qui dentro, tanto tempo fa.
Sono seduta forse da mezz'ora quando viene a galla. Sei mesi fa l'edificio è stato ispezionato per il fungo delle case. La società di assicurazioni venne con un cane addestrato a scoprirlo col fiuto. Trovarono due piccoli miceli, che furono staccati e spennellati. Uno dei posti in cui lavorarono fu questo locale. Aprirono il muro a un metro da terra. Lo murarono nuovamente ma non è stato ancora ricoperto di cemento, come il resto della parete. Sotto il tavolo da lavoro, nell'ombra, c'è rimasto un quadrato di sei mattoni per sei.
E nonostante tutto quasi non lo trovo. Deve aver aspettato che gli operai terminassero. Poi è andato lì mentre la malta era ancora umida e ha spinto verso l'interno una delle pietre. Quindi ha aspettato un attimo e l'ha rimessa a posto. E ha ripetuto il gesto finché la malta non si è asciugata. Quieto quieto, per tutta la sera, a intervalli di un quarto d'ora, è sceso in cantina per spostare una pietra di un centimetro Immagino. Non si riesce a infilare la lama di un coltello fra la pietra e la malta. Ma quando spingo scivola verso l'interno. Dapprima non riesco a capire come è riuscito a tirarla fuori, perché non c'è alcun appiglio. Poi tiro fuori la ventosa e la guardo. Non posso spingere la pietra verso l'interno, perché altrimenti si limiterebbe a cadere nell'intercapedine del muro. Ma quando appoggio il disco di gomma nero sulla pietra, e utilizzo il piccolo manico per creare una depressione, la pietra viene verso di me opponendo una certa resistenza. Dopo averla liberata capisco perché. Sulla parte posteriore è stato conficcato un chiodino azzurro. Intorno c'è arrotolato un sottile filo di nylon. Sul chiodo e sul filo è stata messa una grossa goccia di araldite, che ora è dura come la pietra. Il filo scende nell'intercapedine. All'altro capo è appesa una scatola di sigari piatta, chiusa da due grossi elastici. Il tutto sembra un poema di inventiva tecnica.
Mi infilo la scatola nella tasca del cappotto. Poi rimetto a posto la pietra.
La cavalleria è un archetipo. Quando venni in Danimarca, il comune di Copenaghen riunì una classe di bambini che dovevano imparare il danese nella Rugmarkens Skole, vicino alle baracche dell'assistenza statale per gli immigrati, a Sundby, sull'isola di Amager. Io sedevo accanto a un ragazzo che si chiamava Baral. Avevo sette anni e i capelli corti. Negli intervalli giocavo a pallone con i maschi. Dopo forse tre mesi ci fu una lezione durante la quale dovevamo dire i nostri nomi.
«E quella accanto a te, Baral, come si chiama?»
«Lui si chiama Smilla.»
«Lei si chiama Smilla. Smilla è una bambina.»
Lui mi guardò con muto stupore. Passato il primo shock, e per il resto dei sei mesi in quella scuola, in realtà ci fu una sola variazione di rilievo nel suo comportamento nei miei confronti. Ora era arricchito da un piacevole, cortese atteggiamento protettivo.
L'ho riscontrato anche in Esajas. Era capace di passare improvvisamente al danese per potermi dare del "lei", una volta compreso il rispetto insito nell'espressione. Negli ultimi tre mesi, durante i quali l'autodistruzione di Juliane aumentò e divenne più diretta che mai, avveniva che lui la sera non volesse andarsene.
«Lei crede» diceva «che io possa dormire qui?»
Dopo avergli fatto il bagno, lo mettevo in piedi sul sedile del water mentre lo spalmavo di crema. Da lì riusciva a vedere nello specchio il suo volto che annusava sospettoso il profumo di rosa della crema da notte Elizabeth Arden.
Non è mai accaduto, mentre era sveglio, che mi toccasse. Non mi prendeva mai per mano, non mi dava mai carezze e mai ne chiedeva. Ma durante la notte, di tanto in tanto, nel sonno profondo rotolava verso di me, e rimaneva lì qualche minuto. A contatto con la mia pelle aveva una piccola erezione che andava e veniva, andava e veniva, come una marionetta.
In quelle notti avevo un sonno molto leggero. Mi svegliavo alla minima variazione del suo respiro veloce. Spesso stavo lì, sveglia, e pensavo: l'aria che ora respiro è quella che ha respirato lui.
8
Bertrand Russell ha scritto che la matematica pura è il campo in cui non sappiamo di cosa stiamo parlando né quanto sia vero o falso ciò che stiamo dicendo.
Il mio rapporto con la cucina è così.
La cosa che mangio di più è la carne. La carne grassa. Non riesco a trarre calore dalle verdure e dal pane. Non sono mai riuscita ad avere un'idea d'insieme della mia cucina, delle materie prime, della chimica di base della cottura. Ho solo un semplice principio di lavoro. Preparo sempre del cibo caldo. È importante, quando una è sola. Giova all'igiene mentale. Tira su.
Oggi serve anche a un altro scopo. Ritarda due telefonate. Non mi piace parlare al telefono. Voglio vedere la persona con cui parlo.
Metto sul tavolo la scatola di sigari di Esajas. Poi faccio la prima telefonata.
In realtà spero che sia troppo tardi, è quasi Natale e la gente dovrebbe essersene andata presto.
Telefono alla Società per la Criolite. Il direttore è ancora nel suo ufficio. Non si presenta, è solo una voce, secca, inflessibile e ostile, come sabbia che scorre in una clessidra. Mi spiega che, siccome lo Stato era rappresentato nel consiglio direttivo, e siccome la Società attualmente è in liquidazione, e il fondo in riorganizzazione, hanno deciso di trasmettere tutte le carte all'Archivio di Stato, che conserva i documenti relativi alle disposizioni della pubblica amministrazione, dove alcune di esse - non è in grado di spiegarmi quali - rientreranno nella categoria "disposizioni generali", protetta per cinquant'anni, mentre altre - da quanto capisco nemmeno qui sa spiegarmi quali - saranno considerate come informazioni personali, che godono di ottant'anni di protezione.
Provo a chiedergli dove si trovano le carte, le carte in sé.
Come realtà fisiche, tutte le informazioni si trovano ancora sotto la custodia della Società, ma formalmente sono già inserite nell'Archivio di Stato, al quale perciò devo rivolgermi; c'è altro che può fare per me?
«Sì» dico io, «che le venga un colpo.»
Tolgo gli elastici dalla scatola di Esajas.
I coltelli che ho in casa sono abbastanza affilati da aprire le lettere. Tagliare una fetta di pane è quasi al limite delle loro possibilità. Io non ho bisogno d'altro. Nelle brutte giornate mi capita spesso di pensare che ci si può sempre mettere in bagno davanti allo specchio e tagliarsi la gola. In tali occasioni è bello avere l'ulteriore sicurezza di dover andare prima dal vicino a farsi prestare un coltello decente.
Ma comprendo l'amore per le lucide lame. Un giorno comprai uno skinner Puma a Esajas. Lui non mi ringraziò. Il suo volto non ebbe espressioni di sorpresa. Sollevò dal feltro verde, con cautela, il corto pugnale a lama larga, e cinque minuti dopo se ne andò. Sapeva, e io sapevo, e lui sapeva che io sapevo che se n'era andato per raggomitolarsi sotto il tavolo del meccanico intorno al suo nuovo acquisto, e che gli ci sarebbero voluti mesi per capire che era suo.
Ora giace davanti a me, nel suo fodero, dentro la scatola di sigari. Con un ampio manico di corno di cervo accuratamente lucidato. Nella scatola ci sono altre quattro cose. Una punta di arpione del tipo che tutti i bambini in Groenlandia trovano negli accampamenti abbandonati, e che sanno di dover lasciare agli archeologi, e invece raccolgono e si portano via. Un artiglio d'orso, e come sempre mi stupisco di quanto questa singola unghia sia dura, pesante e affilata. Una musicassetta senza custodia, ma avvolta in un foglio scolorito di carta verde sul quale sono segnate delle cifre. In alto, a lettere maiuscole, c'è scritta la parola NIFLHEIM.
Poi c'è una tessera dell'autobus. Il talloncino è stato sfilato e la tessera serve ora da custodia per una fotografia. Una foto a colori, sicuramente scattata con una instamatic. D'estate, probabilmente in Groenlandia settentrionale, perché l'uomo ha i jeans infilati in un paio di kamik. È seduto al sole, su una pietra. È a torso nudo e al polso sinistro ha un grande orologio nero da sub. Ride in direzione del fotografo, e in quell'istante, con ogni dente e ogni ruga prodotta dal riso, è il padre di Esajas.
Si è fatto tardi. Sembra l'ora in cui quelli di noi che tengono in movimento la macchina della società le danno un'ultima spinta prima di Natale, per guadagnarci la gratifica, che quest'anno è un'anatra surgelata e un bacino del direttore dietro l'orecchio.
Così cerco nell'elenco telefonico. La Procura di Stato ha gli uffici in Jens Kofods Gade.
Non so di preciso cosa dirò a Ravn. Forse ho solo bisogno di dirgli che non mi sono fatta abbindolare, che non ho rinunciato. Ho bisogno di dirgli: "Senti un po', puzzetta, devi solo sapere che ti tengo d'occhio".
Sono preparata a qualsiasi risposta.
Ma non a quella che mi tocca sentire.
«Qui non lavora nessuno con quel nome» dice una fredda voce femminile.
Mi siedo. Non c'è altro da fare che respirare un po' nel ricevitore per prendere tempo.
«Con chi parlo?» chiede.
Sto per attaccare. Ma qualcosa nella voce mi spinge a conti nuare. Qualcosa di provinciale, meschino e curioso. Improvvisamente in quella curiosità c'è un'ispirazione.
«Con Smilla» sussurro, e provo a mettere lo zucchero filato fra me e il microfono. «Del "Saunaclub Smilla". Il signor Ravn aveva un appuntamento per dei massaggi e voleva spostarlo...»
«Questo Ravn è basso e magro?»
«Come uno stecchino, tesoro.»
«Con grandi cappotti?»
«Come tendoni.»
Sento che il suo respiro si fa più rapido. So che ha gli occhi lucidi.
«È quello della Finanza» dice.
Ora è felice. A modo suo. Le ho fornito la storia di Natale di quest'anno, da raccontare alle amiche del cuore davanti al caffè e alle paste domattina.
«Mi hai salvato la giornata» dico. «Se anche tu volessi farti un massaggio...»
Attacca.
Mi porto il tè alla finestra. La Danimarca è uno splendido paese. E la polizia è particolarmente splendida. Stupefacente. Accompagna il cambio della guardia ad Amalienborg. Aiuta gli anatroccoli sperduti ad attraversare la strada. Quando un ragazzino cade da un tetto prima arrivano gli agenti, poi gli investigatori. E alla fine l'ufficio della Procura per i reati finanziari manda un suo rappresentante. È rassicurante.
Stacco la spina. Oggi ho parlato abbastanza al telefono. Dal meccanico mi sono fatta montare un interruttore, così posso staccare anche il campanello della porta.
Poi mi siedo sul divano. Prima arrivano le immagini della giornata passata. Lascio che se ne vadano. Poi arrivano i ricordi di quando ero piccola, ora leggermente deprimenti, ora dolcemente gai, e lascio che seguano gli altri. Poi viene la pace. A quel punto metto su un disco, mi siedo e piango. Non piango per qualcuno o per qualcosa. In un certo senso la vita che ho l'ho creata io, e non la desidero diversa. Piango perché nell'universo c'è una cosa bella come Kremer che suona il concerto per violino di Brahms.
9
Un punto fermo di una certa teoria è che in fin dei conti ci si può sentire sicuri solo dell'esistenza di ciò che abbiamo conosciuto personalmente. In tal caso devono essere molto poche le persone davvero sicure del fatto che Godthåbsvej esiste alle cinque del mattino. Comunque le finestre sono buie e vuote, le strade sono deserte e sull'autobus numero 2 non c'è nessuno, a parte me e l'autista.
C'è qualcosa di particolare nelle cinque del mattino. È come se il sonno toccasse il suo apice. La parabola dei cicli REM cambia direzione e comincia a insinuarsi nei dormienti la coscienza che non può continuare per molto. A quell'ora le persone sono indifese come neonati. È allora che vanno a caccia i grandi animali predatori, è allora che la polizia va a incassare dagli insolventi le multe per parcheggio vietato.
Ed è allora che prendo il 2 verso Brønshøj, dove Kabbelejevej costeggia le rive dello stagno di Utterslev, per far visita al medico legale Lagermann. "Come la liquirizia."
Ha riconosciuto la mia voce al telefono prima che facessi in tempo a presentarmi, e spara un orario - alle sei e mezzo, dice, può farcela?
Così arrivo un po' prima delle sei. La gente tiene insieme la propria vita con l'aiuto del tempo. A cambiare un po' accade quasi sempre qualcosa di suggestivo.
Kabbelejevej è scura. Le case sono scure. Lo stagno giù in fondo è scuro. Fa freddissimo, il marciapiede è grigio chiaro per la brina, le auto parcheggiate sono coperte da una pelliccia bianca luccicante. Mi interessa vedere il volto assonnato del medico legale.
C'è una sola casa con la luce accesa. Non ha semplicemente la luce accesa, è illuminata, e delle sagome si muovono dietro le finestre, come se ci fosse stato un ballo fin da ieri sera e non fosse ancora finito. Suono. Smilla, la fata buona, l'ultimo ospite prima dell'alba.
Vengono cinque persone ad aprire la porta, tutte insieme, e si piantano sulla soglia. Cinque bambini di varie dimensioni, da piccolissime a medie. E dentro ce ne sono altri. Sono vestiti per un raid, con scarponi e zaini, e le mani libere per colpire. Hanno la pelle bianca come il latte, lentiggini, capelli rossi sotto il berretto con i paraorecchie, e un'aria di vandalismo iperattivo.
In mezzo a loro c'è una donna che ha la pelle e i capelli dei bambini, ma l'altezza, le spalle e la schiena da giocatore di football americano. Dietro di lei si intravede il medico legale.
È mezzo metro più basso di sua moglie. È perfettamente vestito e sveglio, con gli occhi rossi.
Non batte ciglio quando mi vede. Abbassa la testa e ci facciamo largo attraverso le grida e un paio di stanze dove sembra siano passate le migrazioni dei popoli e le orde dei barbari, attraverso una cucina dove sono state preparate merende per un reggimento, poi attraverso una porta, e quando questa viene chiusa c'è il silenzio totale, asciutto, molto caldo, illuminato dal neon.
Siamo in una serra costruita sull'esterno della villa come una sorta di giardino d'inverno, e a parte un paio di stretti sentieri e una piccola piattaforma con mobili in ferro verniciati di bianco e un tavolo, il pavimento è coperto di aiuole e vasi di cactus. Cactus di tutte le dimensioni, da un millimetro a due metri. In tutte le gradazioni di spinosità. Illuminati da lampade violette e azzurre.
«Dallas» dice. «Un buon posto per iniziare una collezione. Per il resto non so se potrei consigliarlo, mi venga un colpo se lo so. Un sabato sera potevano capitarci cinquanta omicidi. Spesso dovevamo lavorare dì sotto, accanto al pronto soccorso. Era organizzato per poterci eseguire le autopsie. Era pratico. Si imparava qualcosa sulle ferite d'arma da fuoco e da taglio. Mia moglie diceva che non vedevo mai i bambini. Mi venga un colpo se non aveva ragione.»
Mentre parla mi guarda fisso.
«Lei è arrivata presto. Non che significhi qualcosa per noi, siamo comunque in piedi. Mia moglie ha messo i bambini all'asilo a Allerød. Così possono andare un po' nel bosco. Conosceva quel bambino?»
«Ero un'amica di famiglia. E sua in particolare.»
Ci sediamo l'uno di fronte all'altra.
«Cosa desidera?»
«Mi ha dato lei il suo biglietto da visita.»
Fa semplicemente finta di non sentire. Mi accorgo che è una persona che ha visto troppe cose per indulgere nei giri di parole. Se deve tirare fuori qualcosa vuole sincerità.
Così racconto della paura che Esajas aveva dell'altezza. Delle orme sul tetto. Della mia visita al professor Loyen. Dell'ispettore Ravn.
Accende un sigaro e guarda i suoi cactus. Forse non ha capito ciò che gli ho raccontato. Non sono sicura di capirlo nemmeno io.
«L'unico vero istituto» dice «è il nostro. Negli altri ci sono quattro gatti che non riescono a ottenere nemmeno gli stanziamenti per le provette e i topolini bianchi sui quali innestare i loro test cellulari. Abbiamo un intero edificio. Abbiamo i patologi e i chimici e i genetisti legali. E tutto il magazzino nei sotterranei. Le lezioni per gli studenti. Noi abbiamo duecento persone, mi venga un colpo. Passano tremila casi l'anno. A Odense uno può aver visto forse quaranta omicidi. Io ne ho avuti mille e cinquecento qui a Copenaghen. E altrettanti in Germania e negli Stati Uniti. Ci sono tre persone in Danimarca che si possono chiamare medici legali. E due di loro siamo io e Loyen.»
Accanto alla sua sedia c'è un cactus che sembra un ceppo in fiore. Dalla pianta verde, lenta, legnosa, spinosa, si è alzata un'esplosione di porpora e arancio.
«Quella mattina, il giorno dopo l'arrivo del bambino, abbiamo avuto molto da fare. Guida in stato di ebbrezza e cene di Natale. Ogni pomeriggio alle quattro c'è la polizia per il rapporto, maledizione. Così alle otto comincio con il bambino. Lei non ha lo stomaco delicato, vero? Noi abbiamo una nostra routine. C'è un esame esterno. Cerchiamo tessuti cellulari sotto le unghie e sperma nel retto, poi apriamo e guardiamo gli organi interni.»
«La polizia è presente?»
«Solo in casi particolari, come un serio sospetto di omicidio. Non in quell'occasione. Questo era un caso comune. Indossava una tuta impermeabile. La prendo in mano e penso che non è un abbigliamento che inviti a fare il salto in lungo. Io ho un piccolo trucco. Di quelli che uno sviluppa in ogni campo. Passo una lampadina accesa nelle gambe dei pantaloni. Helly Hansen. Roba solida. Li porto anch'io quando lavoro in giardino. Ma sulla coscia c'è una perforazione. Controllo sul bambino. Semplice routine. Vedo un foro. Avrei dovuto notarlo all'esame superficiale, glielo dico sinceramente, ma che diamine, siamo esseri umani. È allora che corrugo la fronte. Perché non c'è stato sanguinamento, e il tessuto non si è contratto. Sa cosa vuol dire?»
«No» dico io.
«Vuol dire che qualunque cosa sia accaduta, è accaduta dopo che il suo cuore aveva smesso di battere. Così ora guardo meglio la tuta. C'è un piccolo segno intorno al buco, e mi suona un campanello. Così vado a prendere un ago da biopsia. Una specie di siringa, molto potente, che viene montata su un manico e si infila nel tessuto per estrarne un campione. Come i geologi prendono le carote. I fisiologi sportivi all'Istituto August Krogh ne usano in quantità. E corrisponde. Che mi venga un colpo. Il circoletto sui pantaloni potrebbe essere stato causato da qualcuno che aveva fretta e ha spinto con una gran forza.»
Si china verso di me.
«Mi mangio il cappello se non gli è stata fatta una biopsia muscolare.»
«Il medico dell'ambulanza?»
«L'ho pensato anch'io. Una cosa senza senso, ma altrimenti chi altro? Così telefono per sentire. Parlo con l'autista. E con il medico. E con i nostri addetti che l'hanno ricevuto. Giurano e spergiurano di non aver fatto niente del genere.»
«Perché non me lo ha raccontato Loyen?»
Per un attimo è sul punto di dirmelo. Poi si interrompe la confidenza fra noi.
«Dev'essere stato un caso.»
Spegne le lampade violette. Finora eravamo circondati dal la notte. Ora si comincia a vedere che nonostante tutto arriverà una specie di luce del giorno. La casa è tranquilla. Sta lì ad ansimare, silenziosa, per prendere fiato prima del prossimo Armageddon.
Faccio un breve giro per gli stretti corridoi. C'è qualcosa di ostinato nei cactus. Il sole vuole tenerli giù, il vento del deserto vuole tenerli giù, la siccità, il gelo della notte. Eppure loro crescono. Si rizzano, si chiudono in un guscio spesso. E non cedono di un millimetro. Li guardo con simpatia.
Lagermann somiglia alle sue piante. Forse è per questo che colleziona cactus. Senza conoscere la storia della sua vita, intuisco che deve aver superato alcuni metri cubi di pietrisco prima di uscire alla luce.
Siamo accanto a un'aiuola con dei ricci di mare verdi che sembrano aver attraversato una tempesta di ovatta.
«Pilocereus senilis» dice.
Accanto c'è una fila di vasi con piante più piccole, verdi e violette.
«Mescalina. Anche i più grandi - diciamo il Giardino Botanico di Città del Messico, o il Museo del Cactus di Cesar Mandriques a Lanzarote - non ne hanno più di così. Una briciola e si va lontano, molto lontano. Non ne vale la pena. Io sono una persona di buon senso. Un razionalista. Noi esaminiamo il cervello. Tagliamo una fetta. Poi l'addetto rimette a posto l'osso e rivolta la pelle del cranio. Non si nota la differenza. Ho visto migliaia di cervelli. Non c'è niente di misterioso. È solo maledetta chimica. Basta avere sufficienti informazioni. Perché crede che stesse correndo su quel tetto?»
Per la prima volta ho voglia di dargli una risposta onesta.
«Credo che qualcuno lo inseguisse.»
Scuote la testa.
«Non è da bambini scappare così lontano. I miei si siedono in terra e strillano. Oppure si chiudono in se stessi.»
Una volta il meccanico rimise a posto una bicicletta per Esajas. In Groenlandia non aveva imparato ad andare in bicicletta. Partì. Il meccanico lo trovò che aveva già fatto dieci chilometri lungo Gammel Køge Landevej, con le rotelle e il cestino della colazione sul portapacchi. Stava tornando in Groenlandia. Andava in quella direzione perché Juliane una volta era stata ricoverata con il delirium tremens al Hvidovre Hospital.
Da quando avevo sette anni e venni in Danimarca per la prima volta, fino a quando ne compii tredici e ci rinunciai, scappai più volte di quante riesca a ricordare. Arrivai in Groenlandia due volte, una delle quali fino a Thule. Bisogna attaccarsi a una famiglia e poi far sembrare che la madre è seduta cinque posti più avanti sull'aereo, o in una fila un po' più indietro. Il mondo è pieno di storie di pappagalli e gatti persiani e bulldog francesi che sono spariti e hanno ritrovato miracolosamente la strada di casa, tornando da mamma e papà in Frydenholms Allé. Non è nulla in confronto ai chilometri percorsi da bambini alla ricerca di una vita decente.
Tutte queste cose avrei potuto cercare di spiegarle a Lagermann. Ma non lo faccio.
Siamo all'ingresso, fra stivali, coprilama per pattini, resti di vettovaglie e una miscellanea di oggetti abbandonati dalle forze armate.
«Allora?»
«Cerco il nesso logico di cui lei parlava prima» rispondo. «Finché non l'avrò trovato non sentirò molto l'atmosfera natalizia.»
«Non ha un'attività che la occupi?»
Non rispondo. Improvvisamente abbassa le spine. Quando parla non impreca più.
«Ho visto folle di parenti sconvolti dal dolore. Folle di privati cittadini che avrebbero fatto meglio di noi e della polizia. Vedevo le loro idee e la loro tenacia e dicevo a me stesso che gli davo cinque minuti. Con lei non sono così sicuro...»
Provo con un sorriso, per ripagare il suo ottimismo. Ma stamane è ancora troppo presto, anche per me.
Invece scopro d'un tratto che mi sono voltata verso di lui e gli ho mandato un bacio sul dito. Da una pianta del deserto all'altra.
Non sono un'esperta di marche di automobili. Per quanto mi riguarda, tutte le auto potrebbero essere introdotte in una pressa idraulica, spinte fuori dalla stratosfera e messe in orbita intorno a Marte. A parte naturalmente i taxi, che devono essere disponibili quando ne ho bisogno.
Ma ho un'idea di come è fatta una Volvo 850. Negli ultimi anni la Volvo ha sponsorizzato il torneo di golf Europe Tour, e ultimamente si sono serviti di mio padre in una serie di pubblicità con uomini e donne che avevano avuto successo in campo internazionale. C'era una foto in cui lui stava infilando un tee davanti alla terrazza del Søllerød Golfklub e una in cui era in camice bianco davanti a un vassoio di strumenti, con un'espressione negli occhi come se volesse dire che se aveste bisogno di un cubo, bum, proprio nell'ipofisi, riesco a fare anche quello. In entrambe si era fatto fotografare dall'angolazione in cui somiglia a Picasso con il parrucchino, e il testo era qualcosa del tipo "Quelli che non sbagliano mai". Per tre mesi quella pubblicità sugli autobus e nelle stazioni della metropolitana mi ha fatto pensare a ciò che avrei potuto aggiungere al testo. E ha scolpito nella mia testa il profilo spigoloso e quasi contratto di una Volvo 850.
Se la temperatura verso l'alba sale, come ha fatto oggi, la brina su un'automobile scompare per ultimo dal tetto e dai vetri laterali. Una banalità che pochissimi notano. L'auto in Kabbelejevej, quella senza brina perché è stata asciugata o usata da poco, è una Volvo 850 blu.
Sicuramente possono esserci molte ragioni per cui alle sette e venti qualcuno ha parcheggiato qui. Ma in questo momento non me ne viene in mente nessuna. Così mi avvicino all'auto, mi sporgo sopra il cofano e guardo dentro dal parabrezza scuro. Dapprima ci arrivo male. Ma salendo sul paraurti arrivo all'altezza del sedile del guidatore. C'è un uomo addormentato. Rimango lì per un po', ma non cambia posizione. Alla fine scendo e vado verso Brønshøj Torv.
Dormire è importante. Io stessa stamattina mi sarei fatta un paio d'ore in più. Ma non avrei scelto di mettermi in una Volvo in Kabbelejevej.
«Sono Smilla Jaspersen.»
«Deve consegnare la spesa?»
«No, Smilla Jaspersen.»
Non è del tutto vero che le conversazioni telefoniche sono il sistema di comunicazione peggiore che esista. Nonostante tutto, con i citofoni siamo più vicini al fondo. Per essere in tono con il resto dell'edificio, che è alto, argenteo e signorile, il citofono è di alluminio anodizzato e a forma di conchiglia. Purtroppo ha anche risucchiato il mormorio dei grandi mari, e ora lo rovescia nella conversazione.
«La donna delle pulizie?»
«No» dico io. «E nemmeno la pedicure. Ho alcune domande sulla Società per la Criolite.»
Elsa Lübing si prende una pausa. Uno se lo può permettere quando sta dalla parte giusta del citofono. Dove fa caldo e dove si trova il pulsante per aprire.
«Capita proprio in un momento poco opportuno. Deve scrivere o tornare un'altra volta.»
Ha attaccato.
Faccio un passo indietro e guardo in alto. L'edificio si erge isolato alla fine di Hejrevej, nel quartiere degli uccelli a Frederiksberg. È alto. Elsa Lübing abita al sesto piano. Sul balcone sotto il suo le ringhiere di ferro battuto sono coperte di fiori. Dai campanelli risulta che questi amanti dei fiori sono i signori Schou. Suono, una pressione breve e autoritaria.
«Sì?» la voce ha almeno ottant'anni.
«Il fioraio. Ho un mazzo di fiori per Elsa Lübing, del piano di sopra, ma non è in casa. Sarebbe così gentile da aprirmi?»
«Purtroppo abbiamo severe disposizioni di non aprire per altri inquilini.»
Sono incantata dalle persone di ottant'anni che ancora accettano severe disposizioni.
«Signora Schou» dico, «sono orchidee. Appena arrivate con l'aereo da Madeira. Stanno deperendo, quaggiù al freddo.»
«È terribile!»
«Spaventoso» dico io. «Ma una sua piccolissima pressione su quel piccolissimo tasto le porterebbe al caldo in cui devono stare.»
Mi apre.
L'ascensore è di quelli che fanno venir voglia di andare su e giù sette-otto volte solo per godersi il divanetto incassato, il palissandro lucidato, il cancelletto dorato e gli amorini sabbiati sui vetri attraverso i quali si possono vedere il cavo e il contrappeso calare nell'abisso che abbiamo abbandonato.
La porta della Lübing è chiusa. Di sotto la signora Schou ha aperto per sentire se la storia delle orchidee non sia una finta per un veloce stupro natalizio.
In tasca, fra banconote sciolte e solleciti della seconda sezione della Biblioteca Universitaria, ho un foglio di carta. Lo infilo nella buca per le lettere. Poi io e la signora Schou aspettiamo.
La porta ha la cassetta per la posta in ottone, la targhetta del nome dipinta a mano, pannelli grigi e bianchi.
Si apre. Nel vano c'è Elsa Lübing.