Una mattina, presentandosi al lavoro, l’elettroinstallatore Josef Bloch, che era stato un portiere di qualche fama, venne informato del suo licenziamento. Bloch, almeno, interpretò come un’informazione di questo tenore il fatto che, al suo apparire sulla porta della baracca in cui sostavano gli operai, soltanto il capomastro sollevasse gli occhi dalla colazione, e abbandonò il cantiere. Per la strada alzò un braccio, ma – a parte il fatto che Bloch non aveva alzato il braccio per chiamare un taxi – la macchina che gli passò vicino non era un taxi. Alla fine sentì davanti a sé il rumore di una frenata; Bloch si voltò; dietro di lui c’era un taxi, il taxista imprecava; Bloch tornò a voltarsi, montò e si fece portare al mercato gastronomico.
Era una bella giornata d’ottobre. Bloch mangiò una salsiccia calda a un chiosco, poi camminò tra i chioschi verso un cinema. Tutto ciò che vedeva gli dava fastidio; cercava di percepire il meno possibile. All’interno del cinema respirò di sollievo.
Più tardi si meravigliò che la cassiera avesse risposto con un altro gesto, come se fosse la cosa più naturale del mondo, al gesto con cui, senza aprir bocca, lui aveva deposto il denaro sul piatto girevole. Accanto allo schermo notò un orologio elettrico dal quadrante illuminato. Durante il film sentì suonare una campana; per molto tempo non seppe stabilire se suonasse nel film oppure fuori, nel campanile accanto al mercato gastronomico.
Quando uscì dal cinema si comprò dell’uva, che in quella stagione era particolarmente a buon mercato. Continuò a camminare, mangiando l’uva e sputando le bucce. Il primo albergo in cui chiese una camera lo mandò via, perché aveva con sé soltanto una valigetta diplomatica; il portiere del secondo albergo, che era in un vicolo laterale, lo accompagnò personalmente in camera. Mentre ancora il portiere stava uscendo, Bloch si stese sul letto e presto si addormentò.
Alla sera lasciò l’albergo e si ubriacò. Più tardi ritornò sobrio e cercò di chiamare al telefono degli amici; poiché spesso questi amici non abitavano nel territorio della città e il telefono non restituiva le monete, Bloch rimase presto senza spiccioli. Un poliziotto, che salutò credendo di poterlo indurre a fermarsi, non gli restituì il saluto. Bloch si domandò se il poliziotto non avesse erroneamente interpretato le parole che gli aveva gridato al di là della strada, e pensò alla naturalezza con cui invece la cassiera del cinema aveva girato verso di lui il piatto col biglietto d’ingresso. Era stato così stupito dalla velocità del movimento che aveva quasi dimenticato di togliere il biglietto dal piatto. Decise di andare a trovare la cassiera.
Quando arrivò al cinema le bacheche stavano oscurandosi. Bloch scorse un uomo che, in piedi su una scala, sostituiva le lettere del film con le lettere del film dell’indomani. Attese finché poté leggere il titolo dell’altro film; poi ritornò all’albergo.
Il giorno seguente era un sabato. Bloch decise di restare all’albergo ancora un giorno. Salvo una coppia americana, era solo nella sala della colazione; per qualche tempo ascoltò la conversazione, che, siccome in passato si era recato qualche volta a New York con la sua squadra per un torneo, riusciva a capire, discretamente; poi uscì in fretta, per comprare un paio di giornali. I giornali, trattandosi di edizioni di fine settimana, erano quel giorno particolarmente pesanti; Bloch non li piegò, ma li portò in albergo tenendoli sotto il braccio. Tornò a sedersi al tavolo della colazione, che era già stato sparecchiato, e tolse dai giornali i supplementi con le inserzioni; ciò lo depresse. Fuori vide due persone camminare con grossi giornali. Trattenne il respiro finché furono passate. Soltanto allora si accorse che si era trattato dei due americani; siccome prima li aveva visti soltanto nella sala della colazione, seduti a un tavolo, all’aperto non li aveva riconosciuti.
In un bar bevve poi a lungo l’acqua di rubinetto che servivano in un bicchiere insieme al caffè. Di tanto in tanto si alzava e prendeva una rivista dalle pile collocate sulle sedie e sui tavoli a ciò destinati; la cameriera, nel portar via le riviste ammucchiate accanto a lui, usò nell’andarsene l’espressione «tavolo dei giornali». Bloch, che da un lato sopportava a stento di sfogliare riviste, dall’altro non era capace di mettere da parte un fascicolo prima di averlo sfogliato fino in fondo, cercò, mentre lo faceva, di guardare un poco sulla strada; il contrasto tra la pagina illustrata e le immagini mutevoli all’esterno lo sollevò. Nell’uscire rimise personalmente la rivista sul tavolo.
I chioschi del mercato gastronomico erano già chiusi. Per qualche tempo Bloch sospinse distrattamente davanti a sé verdura e frutta gettata via, che gli capitava tra i piedi. Fece i suoi bisogni da qualche parte tra i chioschi, e vide che dappertutto le pareti delle baracche di legno erano nere di urina.
Le bucce d’uva che aveva sputate il giorno prima erano ancora sul marciapiede. Quando Bloch depose la banconota sul piatto della cassiera, nel girare la banconota rimase impigliata; Bloch ebbe l’occasione di dire qualcosa. La cassiera rispose. Lui disse di nuovo qualcosa. Poiché il fatto era insolito, la cassiera lo guardò. Ciò gli diede occasione di continuare a parlare. Di nuovo nel cinema, Bloch si ricordò del romanzo e della caffettiera elettrica posati accanto alla cassiera; si appoggiò all’indietro e cominciò a distinguere sullo schermo dei particolari.
Nel tardo pomeriggio andò allo stadio in tram. Prese un posto in piedi, ma poi si sedette sui giornali che non aveva ancora gettato via; che gli spettatori davanti a lui gli impedissero la visuale, non gli dava fastidio. Nel corso del gioco i più si sedettero. Bloch non venne riconosciuto. Lasciò i giornali a terra, vi posò sopra una bottiglia di birra e uscì dallo stadio prima del fischio finale, per non restare preso nella ressa. Il grande numero degli autobus e dei tram quasi vuoti in attesa davanti allo stadio – si trattava di una partita importante – lo disturbò. Si sedette in un tram. Vi sedette quasi da solo, finché cominciò ad aspettare. E se l’arbitro avesse fatto giocare i tempi supplementari? Quando Bloch alzò gli occhi, vide che il sole tramontava e abbassò il capo, senza che un tale gesto volesse esprimere qualcosa.
Fuori si levò improvviso il vento. Quasi contemporaneamente al fischio finale, costituito da tre singoli fischi prolungati, autisti e bigliettari salirono sugli autobus e sui tram, e la gente uscì di corsa dallo stadio. Bloch immaginò di sentire i rumori con cui le bottiglie di birra cadevano sul campo di gioco; nello stesso tempo sentiva la polvere battere contro i vetri. Se nel cinema si era appoggiato all’indietro, quando gli spettatori irruppero nella carrozza tranviaria si appoggiò in avanti. Per fortuna aveva con sé un programma del film. Gli parve che nello stadio fossero appena stati accesi i riflettori. Un pensiero assurdo, disse Bloch. Era stato un cattivo portiere da notturna.
In centro cercò per qualche tempo una cabina telefonica; quando trovò una cabina vuota il ricevitore era per terra, strappato dal filo. Infine riuscì a telefonare dalla stazione occidentale. Siccome era sabato, non raggiunse quasi nessuno. Quando finalmente rispose una donna che conosceva da prima, dovette parlare per un bel po’ prima che lei se ne ricordasse. Si diedero appuntamento in un locale nelle vicinanze della stazione occidentale, dove, come Bloch sapeva, c’era un juke-box. Passò il tempo in attesa della donna gettando monete nell’apparecchio e lasciando che altre persone premessero i tasti per lui; frattanto guardava le fotografie e le firme dei calciatori sulle pareti; il locale era stato affittato alcuni anni prima da un attaccante della nazionale, che in seguito era andato oltremare come allenatore di una delle potenti squadre di lega americane e ora, dopo lo scioglimento della lega, aveva fatto chissà quale fine. Bloch attaccò discorso con una ragazza che dal tavolo accanto all’apparecchio tastava ciecamente dietro di sé e sceglieva sempre lo stesso disco. Lasciarono il locale insieme. Bloch cercò di entrare con lei nel primo androne, ma tutti i portoni erano già sbarrati. Quando riuscirono ad aprire un portone, risultò che, a giudicare dal canto, dietro una seconda porta era in corso una funzione religiosa. Entrarono in un ascensore che si trovava fra la prima e la seconda porta; Bloch schiacciò il bottone del piano più alto. Ancor prima che l’ascensore si muovesse, la ragazza fece l’atto di ridiscendere. Allora Bloch schiacciò il bottone del primo piano; scesero là e si fermarono nella tromba delle scale; ora la ragazza divenne tenera. Corsero insieme su per le scale. L’ascensore era all’ultimo piano; vi entrarono, discesero e tornarono sulla strada.
Per qualche tempo Bloch camminò accanto alla ragazza, poi fece dietro front e tornò nel locale. La donna, ancora col cappotto, lo stava già aspettando. Bloch spiegò all’amica della ragazza, ancora in attesa al tavolo accanto al juke-box, che la ragazza non sarebbe ritornata, e lasciò il locale con la donna.
Bloch disse: «Mi sento ridicolo, così senza cappotto mentre tu porti un cappotto». La donna lo prese sottobraccio. Per liberarsi il braccio Bloch finse di volerle indicare qualcosa. Poi non sapeva cosa doveva indicarle. Improvvisamente gli venne il desiderio di comprare un giornale della sera. Camminarono per diverse strade senza vedere un’edicola. Infine andarono in autobus alla stazione sud, ma la stazione era già chiusa. Bloch finse di essere sbigottito; ma era sbigottito anche nella realtà. Alla donna, che già in autobus, aprendo la borsetta e giocandovi dentro con svariati oggetti, gli aveva fatto capire di essere indisposta, disse: «Ho dimenticato di lasciare un biglietto», senza sapere che cosa realmente intendesse con le parole «biglietto» e «lasciare». Comunque montò da solo in un taxi e andò al mercato gastronomico.
Poiché di sabato il cinema dava uno spettacolo notturno, Bloch arrivò perfino troppo presto. Andò in un ristorante self-service nei paraggi e mangiò in piedi una polpetta. Cercò di raccontare una barzelletta alla cameriera nel più breve tempo possibile; quando il tempo fu trascorso e lui non aveva ancora finito di raccontare la barzelletta, piantò una frase a metà e pagò il conto. La cameriera rise.
Per la strada incontrò un conoscente che gli chiese dei soldi. Bloch lo insultò. Quando l’ubriaco afferrò Bloch per la camicia, la strada si oscurò. L’ubriaco, spaventato, lasciò cadere la mano. Bloch, che era preparato allo spegnersi della réclame luminosa del cinema, si allontanò in fretta. Davanti al cinema incontrò la cassiera; stava salendo in macchina insieme a un uomo.
Bloch guardò verso di lei. La cassiera, già in macchina sul sedile accanto a quello del guidatore, rispose al suo sguardo raddrizzandosi il vestito sotto il corpo; almeno, Bloch interpretò quel gesto come una risposta. Non ci furono incidenti; lei aveva chiuso la portiera e la macchina era partita.
Bloch tornò all’albergo. Trovò l’atrio dell’albergo illuminato, ma vuoto; mentre prendeva la chiave dal gancio, dallo scomparto cadde un foglietto ripiegato; lo spiegò: era il conto. Mentre Bloch sostava ancora nell’atrio col foglietto in mano e contemplava l’isolata valigia ritta accanto alla porta, il portiere uscì dal ripostiglio. Bloch gli chiese subito un giornale e intanto guardò attraverso la porta aperta nel ripostiglio, in cui il portiere si era evidentemente addormentato su una sedia presa dall’atrio. Il portiere chiuse la porta, limitando ciò che Bloch poteva vedere a una scaletta pieghevole con una ciotola di minestra sul ripiano superiore, e cominciò a parlare solo dopo che si fu collocato dietro il tavolo della portineria. Ma Bloch aveva già interpretato la chiusura della porta come una risposta negativa e salì le scale fino alla propria camera. Scorse un paio di scarpe davanti a una sola delle porte allineate nel corridoio piuttosto lungo; in camera si tolse le scarpe senza sciogliere le stringhe e le collocò a sua volta davanti alla porta. Si distese sul letto e si addormentò di colpo.
Nel cuore della notte fu brevemente svegliato da un litigio nella stanza accanto; ma forse il suo udito era così irritato dal subitaneo risveglio da fargli prendere le voci della stanza accanto per voci che litigavano. Batté una volta col pugno sulla parete. Subito dopo sentì frusciare la conduttura dell’acqua. L’acqua fu chiusa; si fece silenzio, e lui si riaddormentò. Il giorno seguente Bloch fu svegliato dal telefono della camera. Gli chiedevano se voleva fermarsi un’altra notte. Guardando la valigetta sul pavimento – nella camera non c’erano ripiani per i bagagli – Bloch disse subito di sì e riappese. Dopo aver raccolto dal corridoio le scarpe, che, probabilmente perché era domenica, non erano state pulite, lasciò l’albergo senza far colazione.
Nella stazione sud si rasò nella toilette con un rasoio elettrico. Fece la doccia in una delle cabine. Vestendosi lesse sul giornale la parte sportiva e le notizie giudiziarie. Dopo qualche tempo, mentre ancora leggeva – nelle cabine intorno c’era abbastanza silenzio – improvvisamente si sentì bene. Già tutto vestito, si appoggiò alla parete della cabina e urtò con la scarpa la panca di legno. Il rumore provocò una domanda della guardarobiera che stava fuori, e di seguito, quando lui non rispose, un bussare alla porta. Poiché Bloch di nuovo non rispose, la donna batté sulla maniglia esterna della porta con un asciugamano (o quello che era) e si allontanò. Bloch, in piedi, finì di leggere il giornale.
Sulla piazza della stazione incontrò un conoscente che voleva recarsi in un sobborgo ad arbitrare una partita di serie inferiore. Bloch prese quest’informazione per una battuta e stette al gioco affermando che in tal caso poteva andare anche lui a fare il segnalinee. Perfino quando il conoscente slegò in risposta il proprio sacco da ginnastica e gli mostrò il vestito da arbitro e la rete di limoni in esso contenuti, Bloch, come già la prima frase dell’altro, prese anche questi oggetti per una sorta di articoli da carnevale e continuando a stare allo scherzo del conoscente si dichiarò pronto, una volta che andava con lui, a portargli pure il sacco da ginnastica. Perfino dopo, sul treno dei sobborghi insieme all’altro, col sacco da ginnastica sulle ginocchia, gli pareva ancora – tanto più che adesso, verso mezzogiorno, lo scompartimento era quasi vuoto – di partecipare a tutto ciò solo per gioco. Ma che cosa c’entrasse lo scompartimento vuoto col suo comportamento non serio, questo Bloch non riusciva a capirlo. Che il conoscente andasse nel sobborgo con un sacco da ginnastica e che lui, Bloch, lo accompagnasse, che pranzassero insieme in una trattoria suburbana e si recassero insieme, come disse Bloch, «in un campo di calcio in carne e ossa», tutto ciò continuava a parergli una simulazione reciproca mentre – il gioco non gli era piaciuto – ritornava da solo in città. Non è stato valido niente, pensò Bloch. Sulla piazza della stazione non incontrò fortunatamente nessuno.
Da una cabina telefonica su un lato del parco chiamò la sua ex moglie; lei disse che tutto era in ordine, ma non gli chiese niente. Bloch era inquieto.
Si sedette in un caffè all’aperto, ancora in funzione nonostante la stagione, e ordinò una birra. Dato che dopo qualche tempo nessuno era ancora venuto con la birra, andò via; anche perché il piano d’acciaio del tavolo, privo di una tovaglia, lo abbagliava. Si affacciò alla finestra di un locale; le persone che vi si trovavano erano sedute davanti a un televisore. Lui guardò per qualche tempo. Qualcuno si girò verso di lui, e allora andò oltre.
Nel Prater fu coinvolto in una rissa. Un teppista gli abbassò la giacca sulle braccia, l’altro lo colpì al mento con una testata. Bloch si piegò un poco sulle ginocchia, quindi assestò un calcio al teppista che aveva davanti. Infine i due lo sospinsero dietro un chiosco di dolciumi e lo abbatterono. Lui cadde, e loro se ne andarono. Bloch si ripulì la faccia e l’abito in una toilette.
In un caffè del secondo distretto giocò al biliardo fino all’ora in cui alla televisione cominciavano le notizie sportive. Bloch pregò la cameriera di accendere il televisore, ma poi lo guardò come se non gli interessasse. Invitò la cameriera a bere qualcosa con lui. Quando la cameriera rientrò dal retro, dove era in corso un gioco proibito, Bloch era già sulla porta; lei gli passò davanti, in silenzio; Bloch uscì.
Di ritorno al mercato gastronomico, alla vista delle cassette vuote di frutta e verdura ammonticchiate disordinatamente dietro i chioschi, gli parve nuovamente che le cassette fossero una specie di scherzo, che non fossero prese sul serio. ‘Come vignette senza parole!’ pensò Bloch, a cui piaceva guardare le vignette senza parole. Questo effetto di simulazione e di affettazione – ‘quest’armeggiare col fischietto da arbitro nel sacco da ginnastica!’ pensò Bloch – scomparve solo nel cinema, dove un comico prese come per caso una tromba da una bottega di rigattiere davanti a cui passava e si provò a soffiarvi dentro come se fosse la cosa più naturale del mondo, e lui riconobbe senza contraffazioni né ambiguità quella tromba e anche tutti gli altri oggetti. Bloch si tranquillizzò.
Dopo il film aspettò la cassiera fra i chioschi del mercato gastronomico. Qualche tempo dopo che era iniziato l’ultimo spettacolo, lei uscì dal cinema. Per non spaventarla andandole incontro tra le baracche, rimase seduto sulla cassa finché lei giunse in una zona più illuminata del mercato gastronomico. In uno dei chioschi abbandonati, dietro la lamiera ondulata abbassata, squillò un telefono; il numero di telefono del chiosco era scritto a grandi cifre sulla lamiera ondulata. ‘Non valido!’ pensò subito Bloch. Seguì la cassiera senza raggiungerla. Quando lei salì sull’autobus, arrivò appena in tempo e salì dietro di lei. Le si sedette di fronte, ma in modo che tra loro vi fossero alcune file di sedili. Solo quando, alla fermata successiva, alcuni nuovi venuti gli ingombrarono la visuale, Bloch poté ricominciare a riflettere: lei l’aveva guardato, ma evidentemente senza riconoscerlo; possibile che la rissa l’avesse cambiato tanto? Bloch si tastò la faccia. Verificare con un’occhiata nel finestrino dell’autobus che cosa lei stesse facendo, lo trovava ridicolo. Tirò fuori il giornale dalla tasca interna della giacca, guardò giù sulle lettere, ma non lesse. Poi, improvvisamente, si sorprese a leggere. Un testimone oculare raccontava l’omicidio di un magnaccia, a cui avevano sparato in un occhio da distanza ravvicinata. ‘Dal dietro della sua testa volò fuori un pipistrello e sbatté con uno schiocco contro la tappezzeria. Il mio cuore saltò un battito.’ Quando, senza andare a capo, le frasi trattarono inopinatamente di qualcosa di totalmente diverso, di un’altra persona, egli trasalì. ‘Qui avrebbe pur dovuto andare a capo!’ pensò Bloch, che dopo il breve trasalimento si era infuriato. Percorse il corridoio centrale verso la cassiera e le si sedette di fronte obliquamente, in modo da poterla guardare; ma non la guardò.
Quando scesero, Bloch si accorse che erano molto fuori, nei pressi dell’aeroporto. Adesso, nella notte, c’era molto silenzio. Bloch camminò accanto alla ragazza, ma non come se volesse accompagnarla o addirittura la accompagnasse. Dopo qualche tempo la toccò. La ragazza si fermò, si voltò verso di lui e lo toccò a sua volta, così violentemente da spaventarlo. La borsetta nella sua mano libera gli parve per un attimo più familiare di lei stessa.
Per un tratto camminarono fianco a fianco, a qualche distanza, senza toccarsi. La toccò di nuovo solo nella tromba delle scale. Lei cominciò a correre; lui rallentò. Quando fu arrivato di sopra, riconobbe il suo appartamento dal fatto che la porta era spalancata. Lei si rese percettibile nell’oscurità; lui la raggiunse, e subito si intesero.
Quando al mattino, destato da un rumore, Bloch guardò dalla finestra dell’appartamento, vide un aereo in atto di atterrare. Il brillare delle luci di posizione del velivolo lo indusse a tirare la tenda. Poiché fino a quel momento non avevano acceso luci, la tenda era rimasta aperta. Bloch si coricò e chiuse gli occhi.
Con gli occhi chiusi fu colto da una strana incapacità di immaginare alcunché. Sebbene cercasse di figurarsi gli oggetti della stanza attribuendo loro tutti i nomi possibili, non riusciva a immaginare niente; non avrebbe saputo ricostruire mentalmente neanche l’aereo che aveva appena visto atterrare e l’ululato dei cui freni sulla pista riconosceva probabilmente da prima. Aprì gli occhi e guardò per qualche tempo in un angolo, dove si trovava il cucinino: si impresse nella memoria la teiera e i fiori avvizziti che penzolavano dall’acquaio. Non appena aveva chiuso gli occhi, fiori e teiera gli erano divenuti inimmaginabili. Si aiutò costruendo per questi oggetti, invece di parole, frasi, nella speranza che una storia fatta di tali frasi potesse facilitargli l’impresa di immaginare gli oggetti. La teiera fischiava. I fiori erano stati regalati alla ragazza da un amico. Nessuno toglieva la teiera dal fornello elettrico. «Devo fare il tè?» chiedeva la ragazza. Non servì a nulla: quando diventò insopportabile, Bloch aprì gli occhi. La ragazza accanto a lui dormiva.
Bloch si innervosì. Da una parte quest’invadenza dell’ambiente quando aveva gli occhi aperti, dall’altra quest’ancor peggiore invadenza delle parole per le cose dell’ambiente, quando aveva gli occhi chiusi! ‘Chissà se dipende dal fatto che ho appena dormito con lei?’ pensò. Andò in bagno e si docciò a lungo.
Quando tornò, la teiera fischiava davvero. «La doccia mi ha svegliata!» disse la ragazza. Parve a Bloch che gli parlasse direttamente per la prima volta. Non era ancora del tutto lucido, rispose. C’erano forse delle formiche nella teiera? «Formiche?» Quando l’acqua bollente che usciva dal bollitore incontrò le foglie di tè sul fondo della teiera, lui vide invece delle foglie di tè le formiche su cui una volta aveva versato dell’acqua bollente. Aprì di nuovo la tenda.
Il tè nel recipiente aperto, poiché la luce vi penetrava solo per la piccola apertura rotonda del coperchio, appariva stranamente illuminato dal riverbero delle pareti interne. Bloch, seduto al tavolo col recipiente, guardò fisso nell’apertura. Lo divertì, mentre chiacchierava distrattamente con la ragazza, il fatto di essere così affascinato dalla singolare luminosità delle foglie di tè. Infine abbassò il coperchio sull’apertura, ma nello stesso tempo smise di parlare. La ragazza non si era accorta di nulla. «Mi chiamo Gerda!» disse. Bloch non avrebbe affatto voluto saperlo. Non si era accorta di nulla? le domandò, ma lei aveva già messo un disco, una canzone italiana accompagnata da chitarre elettriche. «Mi piace la sua voce!» disse lei. Bloch, che non s’intendeva di successi canzonettistici italiani, tacque.
Quando lei scese un momento a prendere qualcosa per la colazione – «È lunedì!» disse – Bloch ebbe finalmente la possibilità di osservare tutto con calma. Mangiando parlarono molto. Dopo qualche tempo Bloch notò che lei parlava già come di cose proprie delle cose di cui lui le aveva appena raccontato, mentre invece lui, quando menzionava qualcosa di cui lei aveva appena parlato, ogni volta si limitava o a citare cautamente lei, oppure, non appena ne parlava con parole proprie, a premettervi sempre un estraniante e distanziante «questo» o «questa», quasi temesse di mescolare le sue faccende con le proprie. Se lui parlava del capomastro o per esempio di un calciatore di nome Stumm, poco dopo lei poteva semplicemente dire, con tutta familiarità, «Il capomastro» e «Stumm»; lui invece, se lei aveva menzionato un conoscente di nome Freddy e un locale chiamato «Stephanskeller», rispondendole diceva ogni volta: «questo Freddy?» e: «questo Stephanskeller?» Tutto ciò che lei adduceva lo tratteneva dall’approfondirlo, e lo disturbava che lei impiegasse, come gli pareva, con tanta disinvoltura ciò di cui lui parlava.
Alcune volte però, di tanto in tanto, per breve tempo la conversazione gli riuscì naturale come a lei: la interrogava e lei rispondeva; lei chiedeva, e lui dava una risposta naturale. «È un aereo a reazione?» – «No, questo è un aereo a elica.» – «Dove abiti?» – «Nel secondo distretto.» Per poco non arrivò a raccontarle della rissa.
Ma poi tutto lo disturbò sempre più. Faceva per risponderle, ma troncava, perché supponeva già noto ciò che aveva intenzione di dire. Lei divenne inquieta, passeggiò per la stanza, si cercò delle attività, ogni tanto sorrideva stupidamente. Qualche tempo trascorse girando e cambiando dischi. Lei si alzò e si stese sul letto; lui si sedette al suo fianco. Andava al lavoro oggi? domandò lei.
Improvvisamente la strangolò. Aveva stretto subito così forte che a lei non era neanche passato per la mente di prendere la cosa come uno scherzo. Fuori nel corridoio Bloch udì delle voci. Aveva una paura mortale. Notò che un liquido le scorreva dal naso. Lei mugghiava. Infine udì un rumore come di scricchiolio. Gli parve simile a ciò che si sente quando, su una strada di campagna tutta buche, un sasso batte improvvisamente contro il fondo della macchina. Della saliva era sgocciolata sul linoleum.
L’angoscia era così forte che si sentì subito stanco. Si stese sul pavimento, incapace di addormentarsi e incapace di alzare la testa. Sentì che dal di fuori qualcuno batteva con un panno contro il pomo della porta. Tese l’orecchio. Non c’era stato niente da sentire. Allora, nonostante tutto, doveva essersi addormentato.
Non gli ci volle molto per svegliarsi; fin dal primo istante del risveglio gli parve di essere aperto da tutti i lati; come se nella stanza ci fosse una corrente d’aria, pensò. Eppure non si era nemmeno scalfito la pelle. Tuttavia si figurò che da tutto il suo corpo sgorgasse con violenza un liquido linfatico. Si era alzato e aveva passato con uno strofinaccio tutti gli oggetti della stanza.
Guardò dalla finestra: di sotto qualcuno correva sull’erba con un braccio carico di vestiti pendenti da attaccapanni, verso un camioncino da consegne.
Lasciò la casa con l’ascensore e camminò per qualche tempo senza cambiare direzione. Più tardi raggiunse con un autobus suburbano il capolinea dei tram, e di lì il centro della città.
Quando giunse in albergo scoprì che, ritenendo che non sarebbe tornato, avevano già messo al sicuro la sua valigetta. Mentre pagava, il garzone tolse la valigetta dal ripostiglio. Da un anello chiaro Bloch capì che dovevano averci poggiato sopra una bottiglia di latte col fondo bagnato; aprì la valigetta, mentre il portiere metteva insieme il resto, e notò che anche il contenuto della valigetta era già stato esaminato; il manico dello spazzolino da denti guardava fuori dall’astuccio di cuoio; la radio tascabile stava sopra tutto il resto. Bloch si voltò verso il garzone, ma questi era scomparso nel ripostiglio. Poiché lo spazio dietro il tavolo del portiere era abbastanza limitato, Bloch poté avvicinarsi il portiere con una mano e quindi, dopo aver preso un respiro, fare con l’altra mano una finta contro il viso del portiere. Questi scattò indietro, benché Bloch non l’avesse affatto colpito. Il garzone, dentro il ripostiglio, non si fece sentire. Bloch era già uscito con la valigetta.
Arrivò appena in tempo, prima della pausa di mezzogiorno, nell’ufficio personale della ditta e ritirò le carte. Bloch si meravigliò che non fossero ancora a disposizione e che si rendessero ancora necessarie alcune conversazioni telefoniche. Pregò di poter telefonare a sua volta e chiamò la sua ex moglie; quando rispose il bambino e subito cominciò a dire, con una frase imparata a memoria, che la mamma non era in casa, Bloch agganciò. Intanto le carte erano pronte; mise nella valigetta la tessera fiscale; quando poi chiese alla donna il salario ancora mancante, era già andata via. Bloch contò sul tavolo i soldi della sua telefonata e lasciò l’edificio.
Anche le banche avevano già chiuso. Così attese il pomeriggio in un parco, finché poté ritirare i suoi soldi dal conto corrente (non aveva mai avuto un libretto di risparmio). Dato che con quei soldi non sarebbe andato lontano, decise di restituire al negozio la radio a transistor ancora nuova. Raggiunse in autobus il suo alloggio nel secondo distretto e prese anche un flash e un rasoio elettrico. Ma nel negozio gli spiegarono che potevano riacquistare quegli oggetti solo se in cambio lui ne avesse acquistati di nuovi. Bloch ritornò in autobus alla sua stanza e mise in una borsa da viaggio due coppe, in realtà semplici riproduzioni di coppe che la sua squadra aveva vinto una volta in un torneo, un’altra volta nel campionato, e un ciondolo, due scarpe da football dorate.
Poiché dal rigattiere non compariva nessuno, tolse gli oggetti dalla borsa e li mise addirittura sul banco. Poi gli parve troppo naturale aver già messo gli oggetti sul banco, come se la vendita ne fosse stata accettata, e li riprese in fretta dal banco, li nascose perfino nella borsa e li rimise sul banco solo quando ne fu richiesto. Dietro, su uno scaffale, scorse un carillon che reggeva la figura di una ballerina di porcellana nella solita posa. Come sempre quando vedeva un carillon, credette di averlo già visto una volta. Dopo, senza trattare, aveva subito ceduto i suoi oggetti per la prima cifra che gli era stata offerta.
Reggendo sul braccio il leggero cappotto che aveva preso nella sua stanza, aveva poi raggiunto in autobus la stazione sud. Sulla strada per la fermata aveva incontrato la giornalaia alla cui edicola comprava abitualmente i giornali. Indossava una pelliccia e aveva con sé un cane; e benché lui, nell’acquistare i giornali, scambiando giornale e moneta, lo sguardo sugli orli neri delle sue dita, avesse di frequente parlato con lei, ora, fuori dall’edicola, parve non riconoscerlo; comunque non alzò gli occhi e non aveva risposto al suo saluto.
Poiché nel corso di una giornata pochi treni viaggiavano in direzione del confine, Bloch ammazzò il tempo fino alla partenza del primo treno entrando nel locale dove proiettavano i cinegiornali d’attualità e addormentandovisi. L’ambiente si fece una volta abbastanza luminoso, e il fruscio di un sipario che si chiudeva o si apriva gli parve minacciosamente vicino. Per scoprire se il sipario si era chiuso o aperto, aprì gli occhi. Qualcuno gli illuminava il viso con una lampadina tascabile. Bloch fece cadere la lampadina tascabile di mano al bigliettario e andò nella toilette adiacente al cinema. Qui c’era silenzio, la luce del giorno penetrava; Bloch vi rimase immobile per qualche tempo.
Il bigliettario l’aveva seguito, l’aveva minacciato di chiamare la polizia, Bloch aveva aperto il rubinetto, si era lavato le mani, poi aveva premuto il bottone dell’asciugamani elettrico e aveva tenuto le mani nell’aria calda, finché l’uomo era scomparso.
Poi Bloch si era lavato i denti. Si era guardato nello specchio mentre si lavava i denti con una mano, tenendo sul petto, in una singolare posizione, l’altra mano mollemente chiusa a pugno. Dal cinema sentiva le grida e il tumulto dei cartoni animati.
Un tempo Bloch aveva avuto una ragazza, di cui sapeva che ora gestiva un pubblico esercizio in una località meridionale di confine.
Nell’ufficio postale della stazione, in cui si potevano consultare gli elenchi telefonici di tutto il paese, cercò invano il suo numero; nel villaggio c’erano alcuni locali i cui proprietari non venivano nominati; inoltre Bloch si stancò presto di sollevare l’elenco telefonico (gli elenchi telefonici erano appesi in fila, col dorso verso l’alto). A faccia in giù, pensò improvvisamente. Un poliziotto entrò e gli chiese i documenti.
Il bigliettario si era lamentato, disse il poliziotto, guardando alternativamente il passaporto e la faccia di Bloch. Dopo un po’ di tempo Bloch decise di scusarsi. Ma il poliziotto gli aveva già restituito il passaporto, osservando che aveva girato parecchio. Bloch non lo seguì con lo sguardo, ma immediatamente ripose, capovolgendolo, l’elenco telefonico. Qualcuno gridò; quando Bloch alzò gli occhi, vide che nella cabina telefonica davanti a lui un immigrato greco parlava nel ricevitore a voce piuttosto alta. Bloch rifletté e si propose di viaggiare, anziché col treno, con la corriera; cambiò i biglietti, e dopo aver acquistato un panino alla salsiccia e alcuni giornali si spinse effettivamente fino alla stazione delle corriere.
La corriera era già là, ma ancora chiusa; gli autisti erano insieme a qualche distanza e parlavano. Bloch si sedette su una panchina; il sole splendeva; mangiò il panino alla salsiccia ma lasciò stare i giornali che aveva posato accanto a sé, perché voleva risparmiarli per il viaggio di molte ore.
Il bagagliaio sulle due fiancate della vettura rimaneva abbastanza vuoto; arrivava poca gente con bagagli. Bloch attese all’aperto finché la porta pieghevole posteriore si aprì. Poi salì in fretta, davanti, e la vettura si mosse. A un richiamo da fuori tornò subito a fermarsi; era ancora salita una contadina con un bambino che piangeva forte. Dentro il bambino si quietò, finalmente la vettura era partita.
Bloch si accorse di occupare proprio il sedile sopra la ruota; i piedi gli erano sdrucciolati giù dal pavimento, in quel punto rigonfio. Si sedette in fondo, sull’ultima panca, da cui, se necessario, poteva comodamente guardare all’indietro. Quando si sedette, guardò, benché non significasse niente, gli occhi dell’autista nello specchietto retrovisore. Bloch utilizzò per guardare fuori la torsione con cui sistemò dietro di sé la valigetta. La porta pieghevole sbatté forte.
Mentre le altre file di sedili della vettura permettevano di guardare in avanti, le due file che aveva davanti a sé erano una di fronte all’altra; così i viaggiatori che sedevano uno dietro l’altro smisero quasi tutti di chiacchierare subito dopo la partenza, mentre i viaggiatori davanti a lui ripresero ben presto a conversare. Le voci della gente erano gradevoli a Bloch; si sentì sollevato di poter ascoltare.
Dopo qualche tempo – la corriera aveva già raggiunto la strada di uscita – una donna seduta accanto a lui nell’angolo gli fece notare che aveva perso alcune monete. Gli disse: «Sono suoi questi soldi?» mostrandoglisi nell’atto di estrarre una moneta dalla fessura tra spalliera e sedile. In mezzo al sedile, tra lui e la donna, c’era una seconda moneta, un cent americano. Bloch prese le monete, rispondendo che doveva aver perso i soldi prima, quando si era girato. Ma poiché la donna non si era accorta che lui si era girato, cominciò a domandare, e Bloch tornò a rispondere; gradatamente, benché per farlo stessero scomodi, parlarono un poco insieme.
Il parlare e l’ascoltare trattennero Bloch dall’intascare le monete. Si erano riscaldate nella sua mano, come se gliele avessero appena sospinte fuori dalla cassa di un cinema. Le monete erano così sporche, disse, perché di recente erano state gettate in aria prima di una partita di calcio, per la scelta della metà campo. «Io non ci capisco niente!» disse la viaggiatrice. Bloch spiegò rapidamente il giornale. «Testa o croce!» riattaccò subito lei, e così Bloch dovette ripiegare il giornale. Prima, quando si era seduto sul sedile sopra la ruota, il passante del cappotto, che aveva appeso al gancio accanto a sé, era stato strappato dal movimento brusco con cui si era seduto sull’estremità penzolante del cappotto. Bloch, col cappotto sulle ginocchia, sedeva indifeso accanto alla donna.
La strada era peggiorata. Poiché la porta pieghevole non chiudeva bene, Bloch vedeva la luce esterna illuminare di bagliori guizzanti la corriera attraverso la fessura. Senza guardare la fessura, percepiva il guizzare anche sul foglio del giornale. Lesse una riga dopo l’altra. Poi alzò gli occhi e osservò i viaggiatori che gli stavano davanti. Quanto più lontano erano seduti, tanto più piacevole risultava guardarli. Dopo qualche tempo si accorse che il guizzare della luce nella corriera era cessato. Fuori si era fatto buio.
Bloch, che non era abituato a percepire tanti particolari, aveva mal di capo, forse anche per l’odore dei molti giornali che aveva con sé. Per fortuna la corriera si fermò in una città di provincia, dove in un posto di ristoro fu servita ai viaggiatori una cena. Mentre Bloch si aggirava un poco all’aperto, sentiva dentro, nella mescita, il distributore automatico di sigarette scattare senza tregua.
Sullo spiazzo scorse una cabina telefonica illuminata. Aveva ancora nelle orecchie un ronzio provocato dal rombo della corriera in moto, e così lo scricchiolio della ghiaia davanti alla cabina gli fece bene. Gettò i giornali nel cestino dei rifiuti vicino alla cabina telefonica e si chiuse dentro. «Sono un buon bersaglio!» aveva sentito dire in un film a qualcuno che di notte stava alla finestra.
Non rispose nessuno. Bloch, di nuovo all’aperto, nell’ombra della cabina telefonica, udì nel luogo di ristoro, dietro le tendine tirate, l’energico tintinnio degli impianti da gioco. Quando entrò nella mescita, risultò che nel frattempo questa s’era quasi svuotata; la maggior parte dei viaggiatori erano usciti. Bloch bevve una birra in piedi e uscì nell’atrio: alcuni erano già seduti in vettura, altri erano in piedi sulla porta e chiacchieravano con l’autista, altri erano più discosti, con le spalle alla vettura, nel buio – Bloch, disgustandosi di queste osservazioni, si passò la mano sulla bocca. Anziché distogliere semplicemente lo sguardo! Distolse lo sguardo e scorse nell’atrio dei viaggiatori che uscivano con bambini dalla toilette. Quando si era passato la mano sulla bocca, aveva sentito l’odore degli appigli metallici degli schienali. ‘Questo non è vero!’ pensò Bloch. L’autista era salito e aveva acceso il motore per segnalare che anche gli altri dovevano salire. ‘Come se non si fosse capito anche così’ pensò Bloch. Al momento della partenza sprizzarono sulla strada le scintille delle sigarette gettate in fretta dai finestrini.
Nessuno era più seduto accanto a lui. Bloch si ritirò nell’angolo e appoggiò le gambe sul sedile. Si slacciò le scarpe, si appoggiò contro il finestrino laterale e guardò altri finestrini. Intrecciò le mani dietro la nuca, allontanò col piede una briciola di pane dal sedile, premette gli avambracci contro le orecchie e guardò i gomiti davanti a sé. Premette il lato interno dei gomiti contro le tempie, annusò le maniche della camicia, si strofinò il mento sul braccio, appoggiò la testa all’indietro e guardò l’illuminazione del soffitto. Non finiva più! Non seppe aiutarsi in altro modo che rizzandosi a sedere.
Le ombre degli alberi dietro le scarpate ruotavano al passaggio della corriera davanti agli alberi. I due tergicristalli fermi sul parabrezza non indicavano esattamente la stessa direzione. La borsa dei biglietti accanto all’autista pareva aperta. Nel corridoio centrale della vettura giaceva qualcosa di simile a un guanto. Sui prati accanto alla strada dormivano vacche. Era inutile contestare tutto ciò.
A poco a poco, alle fermate facoltative, salirono sempre più viaggiatori. Si misero accanto all’autista, che poi li lasciò passare avanti. Quando la corriera era ferma Bloch sentiva i teloni svolazzare sul tetto. Poi la corriera si fermò nuovamente e lui sentì fuori, nel buio, esclamazioni di saluto. Più lontano distinse un passaggio a livello senza sbarre.
Poco prima di mezzanotte la corriera si fermò nella località di confine. Nella locanda che si trovava accanto alla fermata Bloch ricevette subito una camera. Alla ragazza che lo accompagnò di sopra chiese notizie della sua conoscente, di cui sapeva solo il nome di battesimo, Hertha. La ragazza fu in grado di informarlo: la conoscente aveva affittato un locale un po’ fuori del paese. Che cosa significava quel rumore? chiese Bloch, già in camera, alla ragazza che stava sulla soglia. «Dei giovanotti stanno ancora giocando a bocce!» rispose la ragazza e uscì dalla camera. Senza guardarsi intorno Bloch si svestì, si lavò le mani e si coricò. I rotolii e gli schianti a pianterreno durarono ancora qualche tempo, ma Bloch si era già addormentato.
Non si era svegliato da solo, ma doveva esser stato svegliato da qualcosa. Dappertutto c’era silenzio; Bloch si chiese che cosa potesse averlo svegliato; dopo qualche tempo cominciò a figurarsi di esser stato spaventato dallo sfogliarsi di un giornale. Oppure era stato lo scricchiolio dell’armadio? Forse una moneta era caduta fuori dai calzoni negligentemente posati sulla sedia ed era rotolata sotto il letto. Sulla parete scorse un’incisione che rappresentava il paese all’epoca delle guerre turche; davanti alle mura passeggiavano i borghigiani, dietro le mura la campana pendeva così obliqua nel campanile da far supporre che stesse suonando violentemente. Bloch pensò a come, sotto, il campanaro veniva sollevato dalla corda della campana; vide che i borghigiani che si trovavano fuori si dirigevano tutti verso la porta; alcuni, con bambini in braccio, correvano, un cane scodinzolava tra le gambe di un bambino che pareva incespicare. Anche la campanella d’allarme nel campanile della cappella era incisa in modo tale che quasi si capovolgeva. Sotto il letto non c’era che un fiammifero spento. Fuori nel corridoio, a distanza, una chiave tornò a stridere in una serratura; probabilmente era questo il rumore che l’aveva svegliato.
A colazione Bloch sentì dire che da due giorni era scomparso uno scolaretto storpio. La ragazza lo raccontò all’autista della corriera, che aveva pernottato nella locanda prima di ritornarsene, come Bloch osservò dalla finestra, con la vettura piuttosto vuota. Più tardi se ne andò anche la ragazza, e per qualche tempo Bloch fu solo nella sala da pranzo. Ammucchiò i giornali sulla sedia che aveva vicino; lesse che non si trattava di uno scolaretto storpio, ma muto. Sopra di lui stavano passando l’aspirapolvere, spiegò, come a rendere conto, la ragazza appena rientrata. Bloch non sapeva come commentare. Poi le bottiglie di birra vuote tintinnarono nelle casse che all’esterno venivano trasportate attraverso il cortile. Bloch udì le voci dei portatori di birra nell’atrio come se provenissero dal televisore della stanza accanto. La ragazza gli aveva raccontato che la madre del locandiere se ne stava seduta tutto il giorno nella stanza accanto a guardare il programma per i lavoratori turnisti.
Più tardi Bloch si comprò in un bazar una camicia, della biancheria intima e alcune paia di calzini. La commessa, che era sortita dopo qualche tempo dal magazzino piuttosto buio, sembrò non comprendere Bloch, che le parlava in frasi compiute; solo quando le recitò una per una le parole che indicavano gli oggetti desiderati lei ricominciò a dare segni di vita. Mentre apriva il cassetto dalla cassa gli aveva detto che erano arrivati anche degli stivali di gomma; e mentre gli consegnava gli oggetti in una borsa di plastica, gli aveva ancora chiesto se non gli occorreva altro: Fazzoletti? Una cravatta? Un panciotto di lana? Nella locanda Bloch si era cambiato e aveva stivato nella borsa di plastica la biancheria usata. Sullo spiazzo antistante alla locanda e sulla strada che usciva dal paese non incontrò poi quasi nessuno. Proprio mentre passava accanto a un edificio in costruzione fu fermata la mescolatrice della malta; c’era tanta quiete che i propri passi parevano a Bloch fuori luogo. Si era fermato e aveva osservato i teloni neri sulle cataste di legna di una segheria, come se ci fosse da sentire qualcosa di diverso del mormorio degli operai della segheria, che probabilmente si stavano rifocillando dietro le cataste di legna.
Gli era stato spiegato che il locale si trovava, insieme a due o tre case di contadini e alla casa dei doganieri, nel punto in cui la strada asfaltata formava una curva e riconduceva in paese; dalla strada si diramava un viottolo che tra le case era a sua volta asfaltato, ma più avanti soltanto inghiaiato, e poi, poco prima del confine, si trasformava in un sentiero. Il valico era chiuso. Bloch tuttavia non aveva chiesto niente del valico.
Sopra un campo vide ruotare un falco. Quando poi il falco svolazzò sul posto e piombò giù, Bloch si accorse di non avere osservato lo svolazzare e il piombare giù dell’uccello, ma il punto del campo su cui probabilmente l’uccello sarebbe piombato; nella picchiata il falco si era trattenuto ed era risalito.
Era anche singolare che costeggiando il campo di mais Bloch non vedesse i viottoli che mano a mano scorrevano fino all’altra estremità del campo di mais, ma solo l’impenetrabile folto di steli, foglie e pannocchie da cui per giunta qua e là spuntavano i chicchi nudi. Per giunta? Il torrente che la strada stava valicando scrosciava abbastanza rumorosamente, e Bloch si fermò di colpo.
Nel locale trovò la cameriera, che stava lavando il pavimento. Bloch chiese dell’affittuaria. «Dorme ancora!» disse la cameriera. Bloch, in piedi, ordinò una birra. La cameriera tolse una sedia dal tavolo. Bloch tolse dal tavolo la seconda sedia e si sedette.
La cameriera andò dietro il banco. Bloch posò le mani sul tavolo. La cameriera si chinò e aprì la bottiglia. Bloch spinse via il portacenere. La cameriera, passando, prese da un altro tavolo un sottobicchiere. Bloch spostò indietro la propria sedia. La cameriera tolse il bicchiere dalla bottiglia su cui l’aveva capovolto, posò sul tavolo il sottobicchiere, appoggiò il bicchiere sul sottobicchiere, versò la bottiglia nel bicchiere, appoggiò la bottiglia sul tavolo e andò via. Si ricominciava! Bloch non sapeva più che cosa fare.
Finalmente scorse una goccia che scorreva verso il basso sull’esterno del bicchiere, e sulla parete un orologio le cui lancette erano formate da due fiammiferi; un fiammifero era spezzato e serviva da lancetta delle ore; Bloch non aveva guardato la goccia che scorreva, ma il punto del sottobicchiere su cui probabilmente la goccia sarebbe caduta.
La cameriera, che intanto spalmava una pasta sul pavimento, gli chiese se conoscesse l’affittuaria. Bloch annuì, ma disse di sì solo quando la cameriera alzò la testa.
Una bambina entrò di corsa senza chiudere la porta. La cameriera la rimandò all’ingresso, dove si tolse gli stivali e dopo una seconda esortazione chiuse la porta. «La bambina della padrona!» spiegò la cameriera, e subito condusse la bambina in cucina. Quando rientrò, disse che alcuni giorni prima si era presentato alla padrona un uomo. «Ha raccontato di essere stato chiamato per scavare un pozzo. Lei ha cercato di rimandarlo via subito, ma lui non ha mollato finché lei non gli ha mostrato la cantina, dove lui ha subito preso una vanga, sicché lei ha dovuto chiamare aiuto per farlo andare via e lei...» Bloch riuscì per un pelo a interromperla. «Da allora la bambina ha paura che lo scavatore di pozzi ritorni.» Ma intanto era entrato un doganiere e aveva bevuto un bicchiere di grappa al banco.
Lo scolaro scomparso era tornato a casa? chiese la cameriera. Il doganiere rispose: «No, non è ancora stato trovato».
«Non è via neanche da due giorni» disse la cameriera. Il doganiere replicò: «Ma le notti sono già abbastanza fredde».
«Comunque è vestito pesante» disse la cameriera. Sì, era vestito pesante, disse il doganiere.
«Non può essere lontano» aggiunse. Non poteva essere andato lontano, ripeté la cameriera. Sopra il juke-box Bloch vide delle corna di cervo danneggiate. La cameriera spiegò che provenivano da un cervo che si era smarrito nel campo minato.
In cucina sentì dei rumori che, quando tese l’orecchio, si rivelarono voci. La cameriera gridò attraverso la porta chiusa. L’affittuaria rispose dalla cucina. Per qualche tempo chiacchierarono in questo modo. Poi, nel bel mezzo di una risposta, l’affittuaria entrò. Bloch la salutò.
Lei si sedette al suo tavolo, non accanto a lui ma di fronte; posò le mani sotto il tavolo, sulle ginocchia. Dalla porta aperta Bloch sentiva il frigorifero ronzare in cucina. La bambina sedeva nella stanza accanto e mangiava del pane. L’affittuaria lo guardava come se non l’avesse visto per troppo tempo. «È molto tempo che non ci vediamo!» disse. Bloch le raccontò una storia che concerneva la sua permanenza qui. Attraverso la porta vedeva, abbastanza lontano, la bambina seduta in cucina. L’affittuaria posò le mani sul tavolo e girò le palme in su e in giù. La cameriera portò la bevanda che Bloch aveva ordinato per lei. Quale ‘lei’? Nella cucina ormai vuota il frigorifero tremava. Bloch contemplò attraverso la porta le bucce di mela sparse sul tavolo della cucina. Sotto il tavolo c’era un recipiente colmo di mele ammonticchiate; due o tre mele erano rotolate giù e giacevano qua e là sul pavimento. A un chiodo nella cornice della porta era appesa una tuta da lavoro. L’affittuaria aveva spinto il portacenere tra sé e lui. Bloch mise da parte la bottiglia, ma lei posò davanti a sé la scatola di fiammiferi e vi mise accanto anche il proprio bicchiere. Finalmente Bloch vi sospinse accanto, sulla destra, il suo bicchiere e la sua bottiglia. Hertha rise.
La bambina era entrata e si appoggiò alla sedia dietro l’affittuaria. Fu mandata a prendere legna per la cucina, ma lasciò cadere i ciocchi quando aprì la porta con una mano sola. La cameriera raccolse la legna e la portò in cucina, mentre la bambina tornava ad appoggiarsi alla sedia dietro l’affittuaria. Parve a Bloch che questi fatti potessero venire usati contro di lui.
Qualcuno bussò dall’esterno contro la finestra, ma tornò subito ad allontanarsi. Il figlio del proprietario del podere, disse l’affittuaria. Poi passarono all’esterno dei bambini, uno dei quali si avvicinò in fretta, premette il viso contro il vetro e tornò a correre via. «La scuola è finita!» disse lei. Poi la stanza si oscurò, perché in strada si era fermato un furgone da mobili. «Arrivano i miei mobili!» disse l’affittuaria. Bloch fu sollevato di potersi alzare per aiutare a portar dentro i mobili.
Mentre li portavano la porta dell’armadio si aprì. Bloch la richiuse col piede. Quando l’armadio fu deposto in camera da letto, la porta si riaprì. Uno dei facchini passò la chiave a Bloch, che la serrò. Ma non era lui il proprietario, disse Bloch. Successivamente, man mano che diceva qualcosa, si trovò a dire cose che lo riguardavano. L’affittuaria lo invitò a pranzo. Bloch, che si era riproposto di abitare da lei, rifiutò. Ma disse che sarebbe tornato la sera. Hertha, che parlava dalla stanza in cui c’erano i mobili, gli rispose mentre stava già uscendo; o comunque gli era parso di sentirla chiamare. Rientrò allora nella sala, ma attraverso le porte ovunque aperte vide soltanto la cameriera in cucina, in piedi davanti al focolare, mentre l’affittuaria in camera da letto riponeva i vestiti nell’armadio e la bambina faceva i compiti di scuola a un tavolo della sala. Nell’uscire aveva probabilmente scambiato per un richiamo l’acqua che bolliva troppo forte sul focolare.
Era impossibile guardare nella stanza dei doganieri, benché la finestra fosse aperta; dall’esterno il locale era troppo buio. Ma dall’interno dovevano averlo visto; Bloch se ne accorse avvedendosi che tratteneva il respiro mentre passava davanti alla finestra. Era possibile che nel locale non ci fosse nessuno anche se la finestra era spalancata? Perché ‘anche se’? Era possibile che nel locale non ci fosse nessuno perché la finestra era spalancata? Bloch si guardò alle spalle: per poterlo seguire con gli occhi avevano perfino tolto una bottiglia di birra dal davanzale della finestra. Sentì un rumore, come quando una bottiglia rotola sotto un divano. D’altra parte non c’era da attendersi che nella stanza dei doganieri vi fosse un divano. Solo molto più lontano capì che nel locale avevano acceso una radio. Bloch ritornò in paese seguendo l’arco formato dalla strada. Una volta si mise a correre con sollievo, tanto visibilmente e semplicemente la strada davanti a lui riconduceva in paese.
Per qualche tempo si aggirò tra le case. In un bar mise qualche gettone nel juke-box, dopo che il padrone l’aveva acceso; prima ancora che tutti i dischi fossero stati suonati, era uscito; fuori sentì che il padrone toglieva di nuovo la spina. Sulle panchine erano seduti gli scolaretti che aspettavano l’autobus.
Si fermò davanti a una bancarella di frutta, ma ne rimase tanto lontano che la donna dietro la frutta non poté interpellarlo. Lo guardò e attese che si avvicinasse di un passo. Un bambino che gli stava proprio davanti disse qualcosa, ma la donna non rispose. Quando infine un gendarme che si era avvicinato da dietro fu abbastanza vicino alla frutta, lei gli rivolse subito la parola.
Nel paese non c’erano cabine telefoniche. Bloch cercò di chiamare un amico dall’ufficio postale. Aspettò su una panca nella sala degli sportelli, senza poter avere la conversazione. A quell’ora, gli dissero, le linee erano sovraccariche. Bloch insultò l’impiegata e se ne andò.
Quando, fuori del paese, passò accanto al bagno pubblico, vide che due gendarmi in bicicletta gli venivano incontro. ‘Con le pellegrine!’ pensò. Effettivamente i gendarmi, quando si fermarono davanti a lui, portavano delle pellegrine; e quando scesero dalle biciclette non si tolsero nemmeno le mollette dai pantaloni. A Bloch parve di nuovo di guardare un carillon; come se avesse già visto tutto questo. Non aveva lasciato andare la porta dello steccato che conduceva al bagno, benché fosse chiusa a chiave. «Il bagno è chiuso» disse Bloch.
I gendarmi, che fecero le consuete osservazioni, avevano però l’aria di intendere qualcosa di completamente diverso; almeno, sbagliarono intenzionalmente parole come «avvisato» e «commettere» pronunciandole come «fissato» e «rimettere», e intenzionalmente giocarono con le parole «legge» e «cospirare» sostituendovi «gregge» e «sospirare». Quale senso poteva avere, infatti, che i gendarmi gli raccontassero tutta una storia sul gregge del contadino Becher, il quale, una volta che la porta era stata lasciata aperta, era penetrato nel bagno pubblico non ancora inaugurato e aveva sporcato tutto, perfino le pareti del bar, sicché era stato necessario rimettere a nuovo i locali e il bagno non era stato pronto nel tempo fissato; per cui Bloch doveva accontentarsi di sospirare davanti alla porta chiusa? Come in segno di scherno i gendarmi, quando proseguirono, tralasciarono anche le consuete frasi di saluto, ovvero le accennarono soltanto, come per significare qualcosa. Non si guardarono alle spalle. Per mostrare che non aveva niente da nascondere, Bloch rimase in piedi accanto allo steccato e guardò nello stabilimento bagni vuoto; ‘come in un armadio aperto a cui mi sono avvicinato per tirar fuori qualcosa’ pensò Bloch. Non gli tornava più in mente che cosa avrebbe voluto fare nello stabilimento bagni. Per di più veniva buio; le targhe degli edifici municipali sul confine del paese erano già illuminate. Bloch rientrò in paese. Quando due ragazze lo superarono correndo alla stazione, gridò loro dietro.
Loro si girarono correndo e gridarono di rimando. Bloch era affamato. Mangiò nella locanda, mentre nella stanza accanto si sentiva già il televisore. Più tardi vi entrò col suo bicchiere e guardò finché alla fine del programma apparvero i titoli. Si fece dare la chiave e andò di sopra. Già semiaddormentato, credette di udire all’esterno un’auto a fari spenti che si avviava. Invano cercò ancora di domandarsi perché mai gli fosse venuta in mente proprio un’auto a fari spenti; a metà riflessione doveva essersi addormentato.
Bloch fu svegliato dai botti e dai tonfi con cui, sulla strada, i bidoni dell’immondizia venivano rovesciati nel furgone della spazzatura; ma quando guardò fuori vide che in realtà si era chiusa la porta pieghevole della corriera che si stava allontanando, e che più lontano i bidoni del latte venivano collocati sulla rampa di carico della latteria; qui in campagna non esistevano furgoni della spazzatura; i malintesi ricominciavano.
Sulla porta della propria stanza Bloch scorse la ragazza, che aveva sul braccio una pila di asciugamani sormontata da una lampadina tascabile; prima ancora che riuscisse a segnalare la propria presenza, lei era di nuovo uscita nel corridoio. Solo attraverso la porta si scusò, ma Bloch non la capì, perché nello stesso momento le aveva gridato dietro qualcosa. La seguì nel corridoio; lei era già in un’altra camera; Bloch, ritornato nella propria, serrò la porta con una fragorosa doppia mandata. Più tardi andò dietro alla ragazza, che era già più lontana di alcune camere, e le spiegò che si trattava di un malinteso. La ragazza, posando un asciugamano sul lavabo, rispose che sì, era un malinteso, probabilmente prima, dal fondo del corridoio, doveva averlo preso per l’autista della corriera che stava scendendo le scale, e così, credendo che fosse già disceso, era entrata nella sua camera. Bloch, fermo sulla porta aperta, disse che non aveva inteso dir questo. Ma lei aveva aperto il rubinetto proprio in quel momento, e così l’aveva poi pregato di ripetere la frase. Bloch replicò che nelle camere c’erano troppi armadi, cassapanche e cassettoni. La ragazza rispose che sì, e in compenso nella locanda c’era troppo poco personale, come dimostrava lo scambio di prima, da ricondurre al proprio sovraffaticamento. Non aveva voluto dir questo con l’osservazione sugli armadi, rispose Bloch, ma solo che nella stanza non ci si poteva muovere liberamente. La ragazza domandò che cosa voleva dire. Bloch non rispose. Lei alluse al suo silenzio appallottolando l’asciugamano sporco, o piuttosto Bloch prese l’appallottolamento dell’asciugamano come una risposta al proprio silenzio. Lei lasciò cadere l’asciugamano nella cesta; anche stavolta Bloch non rispose, il che indusse, gli parve, la ragazza ad aprire le tende, sicché Bloch uscì in fretta nel corridoio semibuio. «Non volevo dir questo!» esclamò la ragazza. Lo seguì nel corridoio, ma poi Bloch seguì lei mentre distribuiva gli asciugamani nelle camere restanti. In un angolo del corridoio si imbatterono in un mucchio di lenzuola usate che giacevano sul pavimento. Quando Bloch si scansò, alla ragazza cadde un portasapone dalla pila di asciugamani. La lampada tascabile le occorreva per tornare a casa? domandò Bloch. Aveva un innamorato, rispose la ragazza rialzandosi col viso rosso. Nella locanda c’erano anche stanze a doppia porta? domandò Bloch. «Il mio innamorato fa il falegname» rispose la ragazza. Aveva visto un film in cui un topo d’albergo rimaneva prigioniero in una doppia porta, disse Bloch. «Dalle nostre stanze non è mai stato rubato niente!» disse la ragazza.
Da basso, nella sala da pranzo, Bloch lesse che accanto alla cassiera era stata trovata una piccola moneta americana, un pezzo da cinque cent. Gli amici della cassiera non l’avevano mai vista insieme a un soldato americano; e in quel periodo c’erano ben pochi turisti americani nel paese. Inoltre avevano trovato degli scarabocchi sul margine di un giornale, di quelli che uno traccia soprappensiero mentre chiacchiera. Palesemente gli scarabocchi non erano opera della cassiera; si indagava se potessero rivelare qualcosa sul conto del suo visitatore.
Il locandiere venne al tavolo e porse a Bloch la scheda di registrazione; per tutto quel tempo, gli disse, era stata in camera sua. Bloch riempì la scheda. Il locandiere stava alquanto discosto e lo guardava. Fuori, nella segheria, la sega elettrica incontrò il legno. Bloch sentì quel rumore come qualcosa di proibito.
Ora, anziché andare coerentemente dietro il banco con la scheda, il locandiere la portò nella stanza accanto, dove parlò, come Bloch vide, con sua madre; e anziché poi, come ci si aspettava dalla porta lasciata aperta, rientrare subito, continuò a parlare e infine chiuse addirittura la porta. In seguito rientrò, al posto del locandiere, la vecchia. Il locandiere non la seguì, ma rimase nella stanza accanto e aprì le tende, dopo di che, anziché spegnere il televisore, accese il ventilatore.
A questo punto la ragazza entrò dall’altra porta della sala da pranzo con l’aspirapolvere. Bloch si aspettava già di vederla uscire in strada con l’apparecchio, come se niente fosse; invece lei lo attaccò alla presa di corrente e lo sospinse di qua e di là sotto le sedie e i tavoli. Quando poi anche il locandiere tornò a chiudere le tende nella stanza accanto, la madre del locandiere rientrò in quella stanza e infine il locandiere spense il ventilatore, parve a Bloch che tutto si risistemasse.
Si informò dal locandiere se nella zona si leggessero molti giornali. «Solo settimanali e rotocalchi» rispose il locandiere. Bloch, che l’aveva domandato mentre già stava uscendo, rimase impigliato col braccio, premendo la maniglia col gomito, tra maniglia e porta. «Ecco come va a finire!» gli gridò dietro la ragazza. Bloch fece in tempo a sentire il locandiere che le domandava cosa volesse dire.
Scrisse due o tre cartoline ma non le imbucò subito. Quando più tardi, già fuori dal paese, fece per infilarle in una cassetta postale appesa a uno steccato, vide che la cassetta sarebbe stata vuotata solo il giorno seguente. Da quando, in una tournée in Sudamerica, la sua squadra era stata costretta a inviare ai giornali, da ogni località, cartoline con le firme di tutti i giocatori, Bloch era abituato, quand’era in viaggio, a scrivere cartoline.
Passò una scolaresca; i bambini cantavano, e Bloch imbucò le cartoline. Quando caddero nella cassetta vuota, questa echeggiò. Ma la cassetta era piccola e non poteva affatto echeggiare. Inoltre Bloch aveva subito proseguito.
Camminò per un tratto attraverso i campi. La sensazione di ricevere sulla testa un pallone pesante di pioggia si affievolì. Vicino al confine cominciava il bosco. Bloch fece dietro front appena distinse la prima torre di guardia dall’altra parte della terra di nessuno. Sul margine del bosco si sedette su un tronco d’albero. Si rialzò subito. Poi tornò a sedersi e contò i suoi soldi. Alzò gli occhi. Il paesaggio, benché fosse del tutto pianeggiante, si incurvava così vicino a lui che pareva scacciarlo. Lui era qui sul margine del bosco, là c’era una cabina di trasformazione, là c’era una bancarella del latte, là c’era un campo, là c’erano due o tre figure, là sul margine del bosco c’era lui. Sedette immobile finché si dimenticò della propria presenza. Più tardi si accorse che le figure sul campo erano gendarmi con cani.
Accanto a un cespuglio di more, per metà sotto le more, Bloch trovò poi una bicicletta da bambino. La mise in piedi. Il sellino era piuttosto rialzato, come per un adulto. Nelle gomme si erano infilate alcune spine di rovo, senza farne però uscire l’aria. Nei raggi si era impigliato un ramo di pino che bloccava la ruota. Bloch cercò di strappare via il ramo. Poi lasciò cadere la bicicletta, pensando che da lontano i gendarmi potevano vedere il fanale scintillare al sole. Ma i gendarmi erano già andati oltre coi cani.
Bloch seguì con lo sguardo le figure che correvano giù per una scarpata; le medagliette dei cani e l’apparecchio radio-trasmittente scintillavano. Che lo scintillio dovesse comunicare qualcosa? Che fossero segnali luminosi? Ma a poco a poco persero questo significato: più lontano scintillavano i fanali delle macchine nei punti in cui la strada mutava direzione, accanto a Bloch scintillavano i frammenti di uno specchietto da tasca, più oltre la strada baluginava di pezzetti di mica. La ghiaia scivolò via da sotto le gomme quando Bloch salì sulla bicicletta.
Pedalò per un breve tratto. Infine appoggiò la bicicletta alla cabina di trasformazione e proseguì a piedi.
Lesse il manifesto del cinema fissato con mollette alla bancarella del latte; sotto c’erano altri manifesti, ma sbrindellati. Bloch andò oltre e vide nel cortile di una casa di contadini un giovanotto che aveva il singhiozzo. In un frutteto vide volare delle vespe. Vicino a un crocifisso c’erano fiori appassiti in scatole di conserva. Nell’erba accanto alla strada c’erano scatole vuote di sigarette. Accanto alle finestre chiuse vide i ganci pendere dalle imposte. Nel passare davanti a una finestra aperta sentì un odore di putrefazione. Nel locale l’affittuaria gli disse che nella casa di fronte era morto qualcuno.
Quando Bloch fece per raggiungerla in cucina, lei gli venne incontro sulla porta e lo precedette nella sala. Bloch la superò e si diresse a un tavolo d’angolo, ma lei si era già seduta a un tavolo vicino alla porta. Quando Bloch fece per cominciare a parlare, lei l’aveva già preceduto. Lui voleva farle notare che la cameriera portava scarpe ortopediche, ma l’affittuaria stava già indicando la strada, dove passava un gendarme che spingeva una bicicletta da bambino. «È la bicicletta dello scolaro muto!» disse.
La cameriera era sopraggiunta con la rivista in mano; insieme guardarono fuori. Bloch chiese se lo scavatore di pozzi si fosse ripresentato. L’affittuaria, che aveva capito solo la parola «ripresentato», cominciò a parlare di soldati. Bloch si corresse allora in «ritornato», e l’affittuaria parlò dello scolaro muto. «Non poteva neanche gridare aiuto!» disse la cameriera, o piuttosto lesse una didascalia della rivista. L’affittuaria raccontò di un film in cui chiodi da scarpa erano stati mescolati nella pasta da dolci. Bloch domandò se le sentinelle sulle torri di guardia avessero dei binocoli; comunque vi si vedeva luccicare qualcosa. «Ma da qui non si vedono le torri di guardia!» rispose una delle donne. Bloch vide che l’infornare dolci aveva lasciato della farina sulle loro facce, specialmente sulle sopracciglia e sui capelli.
Uscì nel cortile, ma siccome nessuno lo seguì tornò indietro. Si mise accanto al juke-box in modo che al suo fianco ci fosse ancora posto. La cameriera, che adesso era seduta dietro il banco, aveva rotto un bicchiere. Il rumore aveva richiamato dalla cucina l’affittuaria, che però non aveva guardato la cameriera, ma lui. Bloch abbassò la musica girando il bottone che stava dietro il juke- box. Poi, mentre l’affittuaria era ancora sulla porta, alzò di nuovo la musica. L’affittuaria attraversò la sala davanti a lui come per ispezionare l’ambiente. Bloch le chiese quanto dovesse pagare d’affitto al proprietario del locale, il padrone del podere. A questa domanda Hertha si fermò. La cameriera scopò i cocci su una paletta. Bloch si diresse verso Hertha, l’affittuaria gli passò accanto e andò in cucina. Bloch la seguì.
Poiché sulla seconda sedia era sdraiato un gatto, Bloch rimase in piedi accanto a lei. Lei parlò del figlio del padrone del podere, che era suo amico. Bloch si mise accanto alla finestra e la interrogò sul suo conto. Lei gli descrisse le attività del figlio del padrone del podere. Continuò a parlare senza essere interrogata. Sull’orlo del focolare Bloch scorse un secondo vaso di conserva. Di tanto in tanto diceva: Sì? Nella tuta da lavoro sulla cornice della porta scorse una seconda bacchetta centimetrata. La interruppe e le domandò da quale numero cominciasse a contare. Lei rimase senza parole, smise perfino di togliere il torsolo dalla mela. Bloch disse che da poco aveva osservato in se stesso l’abitudine di cominciare a contare dal due; stamattina per esempio attraversando la strada era quasi finito sotto una macchina, perché aveva pensato di avere ancora abbastanza tempo fino alla seconda macchina; la prima macchina, semplicemente non l’aveva contata. L’affittuaria rispose con un modo di dire.
Bloch andò alla sedia e la sollevò da dietro, così il gatto saltò giù. Si sedette, ma con la sedia si scostò dal tavolo. Nel farlo urtò dietro di sé contro un tavolino di servizio, e una bottiglia di birra cadde e rotolò sotto il divano della cucina. Perché si sedeva, si alzava, se ne andava, girava intorno, tornava in continuazione? domandò l’affittuaria. Voleva prenderla in giro? Invece di rispondere, Bloch le lesse una barzelletta dal giornale che serviva a raccogliere i resti di mela. Siccome il giornale dal suo punto di vista era storto, nel leggere ogni tanto si arenava. Finalmente l’affittuaria, chinandosi, cominciò a leggere al posto suo. Fuori la cameriera rise. Dentro, nella camera da letto, qualcosa cadde a terra. Non seguì alcun secondo rumore. Bloch, che anche prima non aveva sentito alcun rumore, fece per andare a vedere; ma l’affittuaria spiegò che già da qualche tempo aveva sentito che la bambina si era svegliata; adesso era scesa dal letto, e presto sarebbe uscita fuori a mendicare un pezzo di dolce. Ma in realtà Bloch sentì poi un rumore come di pianto. Risultò che la bambina, dormendo, era caduta dal letto e non riusciva più a ritrovarsi sul pavimento vicino al letto. In cucina la bambina raccontò che sotto il cuscino c’erano alcune mosche. L’affittuaria spiegò a Bloch che i bambini del vicino, che per il caso di morte verificatosi in casa loro dormivano da lei fino alla sepoltura, avevano l’abitudine di sparare con gli elastici contro le mosche sulla parete; le mosche cadute sul pavimento, la sera le avevano messe sotto il cuscino.
Dopo che alla bambina erano stati premuti in mano alcuni oggetti – i primi li lasciò ancora cadere –, a poco a poco si acquietò. Bloch vide la cameriera uscire dalla camera da letto con la mano a conca e gettare le mosche nel secchio dell’immondizia. Lui non ne aveva colpa, disse Bloch. Vide che fuori il furgone del panettiere si fermava davanti alla casa dei vicini e che l’autista deponeva due pani sui gradini dell’ingresso, di sotto quello nero, di sopra quello bianco. L’affittuaria mandò la bambina incontro all’uomo, alla porta; Bloch sentì che la cameriera al banco si faceva scorrere acqua sulle mani; ultimamente non faceva che scusarsi, gli fece notare l’affittuaria. Davvero? chiese Bloch. Subito dopo la bambina ritornò in cucina con due pani. Inoltre Bloch vide la cameriera asciugarsi le mani nel grembiule mentre andava incontro a un cliente. Cosa voleva bere? Chi? Per il momento niente, fu la risposta. La bambina aveva chiuso la porta che dava sulla sala.
«Adesso siamo soli» disse Hertha. Bloch guardò la bambina, che era in piedi davanti alla finestra e guardava la casa dei vicini. «Quella non conta» disse lei. Bloch prese questa frase come annuncio della sua intenzione di comunicargli qualcosa, ma poi si accorse che Hertha aveva inteso dirgli di parlare pure. A Bloch non venne in mente niente. Disse qualcosa di osceno. Lei mandò subito via la bambina. Lui posò la mano accanto a lei. Lei lo sfiorò. Lui la afferrò bruscamente per il braccio, ma la lasciò subito. Uscito sulla strada trovò la bambina che frugava con una paglia nell’intonaco del muro della casa.
Guardò dalla finestra aperta nella casa dei vicini. Su un cataletto scorse il morto; accanto c’era già la bara. In un angolo una donna era seduta su uno sgabello e intingeva del pane in una brocca di mosto; sulla panca dietro il tavolo un ragazzo giaceva sulla schiena e dormiva; sul suo ventre giaceva un gatto.
Quando Bloch entrò nella casa, in anticamera quasi scivolò sopra un ciocco. La contadina venne alla porta, lui entrò e si intrattenne con lei. Il ragazzo si era messo a sedere, ma non parlava; il gatto era corso fuori. «Ha dovuto vegliare tutta la notte!» disse la contadina. Il mattino aveva trovato il ragazzo piuttosto brillo. Si voltò verso il morto e pregò. Nel frattempo cambiava l’acqua dei fiori. «È andata molto in fretta» disse, «abbiamo dovuto svegliare il bambino e spedirlo di corsa in paese.» Ma poi il bambino non era stato neanche capace di dire al parroco che cosa era successo, e la campana non era stata suonata. Bloch notò che la stanza era già riscaldata; dopo qualche tempo infatti la legna nella stufa era crollata. «Prendi ancora un po’ di legna!» disse la contadina. Il ragazzo ritornò con alcuni ciocchi, che portava nella destra e nella sinistra, e li lasciò cadere vicino alla stufa, facendone levare la polvere.
Si sedette dietro il tavolo, e la contadina gettò i ciocchi nella stufa. «Un bambino ci è stato ammazzato dalle zucche» disse. Davanti alla finestra passarono due vecchie, salutando; sul davanzale della finestra Bloch scorse una borsetta nera; era appena stata comperata, non avevano ancora tolto nemmeno la carta che l’imbottiva. «Tutt’a un tratto ha soffiato forte dal naso ed è morto» disse la contadina.
Bloch poteva vedere la sala del locale dirimpetto, dove il sole, già abbastanza basso, penetrava tanto largamente che la parte inferiore della stanza, soprattutto le assi del pavimento, sistemate da poco, e le gambe delle sedie, dei tavoli e delle persone, splendevano come di luce propria su tutta la loro superficie; in cucina scorse il figlio del padrone del podere, che, appoggiato alla porta a braccia conserte, si rivolgeva da una certa distanza all’affittuaria, probabilmente ancora seduta al tavolo. Quanto più il sole calava, tanto più basse e più lontane apparivano anche a Bloch queste immagini. Non riusciva a distoglierne lo sguardo; solo i bambini che correvano avanti e indietro per la strada scacciarono l’impressione. Un bambino entrò poi con un mazzo di fiori. La contadina mise il mazzo in un bicchiere e posò il bicchiere ai piedi del cataletto. Il bambino rimase lì. Dopo qualche tempo la contadina gli diede una moneta, e il bambino uscì.
Bloch sentì un rumore, come se qualcuno fosse sprofondato nel pavimento. Ma era solo la legna nuovamente crollata nella stufa. Appena Bloch aveva cessato di chiacchierare con la contadina, il ragazzo si era allungato sulla panca e si era riaddormentato. Più tardi vennero alcune donne e dissero il rosario. Qualcuno cancellò la scritta in gesso dalla lavagna collocata davanti al negozio di generi alimentari e scrisse al suo posto: arance, caramelle, sardine. Nella stanza si parlava sottovoce, fuori vociavano i bambini. Un pipistrello si era impigliato nella tenda; svegliato dagli strilli, il ragazzo era balzato in piedi e gli si era precipitato contro, ma il pipistrello era già volato via.
Era un crepuscolo in cui nessuno aveva voglia di accendere la luce. Soltanto la sala del locale di fronte era un poco illuminata dal juke-box acceso; ma nessuno metteva dischi. La cucina era già buia. Bloch fu invitato a cena e mangiò a tavola con gli altri.
Benché adesso la finestra fosse chiusa, nella stanza svolazzavano dei moscerini. Un bambino fu mandato nel locale a prendere dei sottobicchieri, che furono poi collocati sopra i bicchieri perché i moscerini non vi cadessero dentro. Una donna si accorse di aver perduto il pendaglio della sua collana. Tutti cominciarono a cercare. Bloch rimase seduto a tavola. Dopo qualche tempo fu colto dalla brama di essere lui a ritrovarlo, e si unì agli altri. Poiché il pendaglio non fu trovato nella stanza, continuarono a cercare nel corridoio. Una pala cadde, o piuttosto Bloch la prese al volo prima che cadesse del tutto. Il ragazzo faceva luce con una pila, la contadina arrivò con un lume a petrolio. Bloch chiese la pila e uscì per strada. Si aggirò chino nella ghiaia, ma nessuno l’aveva seguito. Sentì che dentro, dall’anticamera, qualcuno gridava che il pendaglio era stato trovato. Bloch non volle crederci e continuò a cercare. Poi sentì che dietro la finestra avevano ricominciato a pregare. Depose dall’esterno la pila sul davanzale e andò via.
Ritornato in paese, Bloch si sedette in un bar e guardò i giocatori di carte. Cominciò a litigare col giocatore dietro al quale era seduto. Gli altri giocatori esortarono Bloch a scomparire. Bloch andò nel retro. Lì era in corso una conferenza con diapositive. Bloch stette a guardare per un po’. Si trattava di una conferenza sugli ospedali religiosi nel sud-est asiatico. Bloch, che interruppe ad alta voce, ricominciò a litigare coi presenti. Si voltò e uscì.
Rifletté se dovesse rientrare, ma non gli venne in mente niente da dire. Andò nel secondo bar. Là pretese che spegnessero il ventilatore. Inoltre l’illuminazione era troppo fioca, disse. Quando la cameriera gli si sedette vicino, dopo qualche tempo fece la mossa di circondarla col braccio; lei si accorse che voleva solo fare la mossa, e si appoggiò all’indietro ancor prima che lui potesse far capire che aveva solo voluto fare la mossa. Bloch volle giustificarsi circondando veramente la cameriera col braccio; ma lei si era già alzata. Quando Bloch fece per alzarsi, la cameriera andò via. Adesso Bloch avrebbe dovuto fare la mossa di seguirla. Ma era troppo per lui e abbandonò il locale. Nella sua camera della locanda si svegliò poco prima dell’alba. Di colpo tutto ciò che lo circondava gli riusciva insopportabile. Si chiese se si fosse svegliato proprio perché a un determinato momento, cioè poco prima dell’alba, tutto diventava di colpo insopportabile. Il materasso su cui giaceva era avvallato, gli armadi e i cassettoni stavano a grande distanza contro le pareti, il soffitto sopra di lui era insopportabilmente alto. C’era tanto silenzio nella stanza semibuia, fuori nel corridoio e soprattutto fuori sulla strada, che Bloch non ce la fece più. Una violenta nausea lo afferrò. Vomitò subito nel lavabo. Vomitò per qualche tempo, senza sollievo. Tornò a coricarsi. La testa non gli girava, al contrario, vedeva ogni cosa in un insopportabile equilibrio. Non servì a nulla che si sporgesse dalla finestra e guardasse giù in strada. Un copertone giaceva silenzioso su un’auto spenta. Nell’interno della camera scorse sulla parete i due tubi dell’acqua; correvano paralleli e venivano delimitati in alto dal soffitto, in basso dal pavimento. Tutto ciò che vedeva era delimitato nel modo più insopportabile. La nausea, lungi dal sollevarlo, lo opprimeva ancora di più. Gli pareva che uno scalpello l’avesse distaccato da ciò che vedeva, o meglio, che gli oggetti intorno a lui fossero stati allontanati da lui. L’armadio, il lavabo, la borsa da viaggio, la porta: soltanto adesso si sorprendeva a pensare, come sotto costrizione, la parola per ogni oggetto. A ciascuna visione di un oggetto seguiva subito la parola. La sedia, l’attaccapanni, la chiave. Prima c’era stato tanto silenzio che nessun rumore aveva potuto distrarlo; e siccome da una parte c’era tanta luce da permettergli di vedere gli oggetti che lo circondavano, e dall’altra c’era tanto silenzio che nessun rumore poteva distoglierlo da essi, aveva veduto gli oggetti come se nello stesso tempo fossero réclame di se stessi. Di fatto la nausea era una nausea simile a quella che lo prendeva davanti a certe rime pubblicitarie, melodie popolari o inni nazionali che era costretto a recitare o mugolare fin dentro al sonno. Trattenne il fiato come si fa contro il singhiozzo. Nell’inspirare la nausea gli ritornò. Di nuovo trattenne il fiato. Dopo qualche tempo ebbe successo e riuscì a prender sonno.
Il mattino seguente non riusciva nemmeno più a immaginarsi tutto ciò. La sala da pranzo era già stata riordinata, e un agente delle tasse camminava tra gli oggetti e si faceva dire i prezzi dal locandiere. Il locandiere esibì al funzionario i conti della macchina del caffè e di un frigorifero; il fatto che quei due parlassero di prezzi faceva apparire a Bloch tanto più ridicole le sue condizioni della notte. Dopo la prima sfogliatura aveva messo da parte i giornali e non ascoltava più che l’agente delle tasse, il quale discuteva col locandiere sul prezzo di una ghiacciaia. Intervennero la madre del locandiere e la ragazza; tutti si misero a parlare contemporaneamente. Bloch si immischiò e chiese quanto costasse l’arredamento di una stanza della locanda. Il locandiere rispose che aveva comprato il mobilio nei dintorni, a un prezzo molto conveniente, da contadini che si erano trasferiti o erano addirittura emigrati. Disse a Bloch un prezzo. Bloch volle sapere il prezzo di ogni singolo pezzo d’arredamento. Il locandiere si fece dare dalla ragazza l’inventario della stanza e per ogni oggetto nominò sia il prezzo a cui l’aveva acquistato, sia il prezzo a cui credeva di poter rivendere una cassapanca o un armadio. L’agente delle tasse, che fino a quel momento aveva preso appunti, smise di scrivere e ordinò alla ragazza un bicchiere di vino. Bloch era soddisfatto e fece l’atto di andarsene. L’agente delle tasse spiegò che quando lui vedeva un oggetto, per esempio una lavatrice, si informava subito del prezzo, e quando poi rivedeva l’oggetto, per esempio una lavatrice della stessa marca, non lo riconosceva dai suoi contrassegni esteriori, dunque una lavatrice non dai tasti dei programmi di lavaggio, ma sempre da ciò che l’oggetto, per esempio la lavatrice, era costato la prima volta che l’aveva visto, cioè dal prezzo. Il prezzo, quello se lo imprimeva bene in mente e in questo modo riconosceva praticamente qualsiasi oggetto. E se l’oggetto non valeva niente? chiese Bloch. Lui non aveva niente a che fare con oggetti privi di valore commerciale, rispose l’agente delle tasse, per lo meno non durante l’esercizio della professione.
Lo scolaro muto non era ancora stato trovato. Avevano messo al sicuro la bicicletta e adesso esploravano i dintorni, ma non si sentivano spari a segnalare che uno dei gendarmi s’era imbattuto in qualcosa. O comunque il rumore dell’asciugacapelli dietro il paravento, nella bottega di parrucchiere in cui Bloch era entrato, era così forte da non lasciargli sentire niente fuori. Bloch si fece rasare i capelli sulla nuca. Mentre il parrucchiere si lavava le mani, la ragazza spazzolò il colletto a Bloch. Ora l’asciugacapelli fu fermato, e lui sentì che dietro il paravento sfogliavano della carta. Ci fu uno scoppio. Ma era soltanto un bigodino, che dietro il paravento era caduto in una ciotola di latta.
Bloch chiese alla ragazza se nella pausa di mezzogiorno andasse a casa. La ragazza rispose che non era del paese, che veniva ogni mattina col treno; a mezzogiorno si sedeva in un bar o restava qui in negozio con la sua collega. Bloch domandò se acquistava ogni giorno un biglietto di andata e ritorno. La ragazza replicò che viaggiava con un abbonamento settimanale. «Quanto costa l’abbonamento settimanale?» chiese subito Bloch. Ma prima che la ragazza rispondesse osservò che questo non lo riguardava. Tuttavia la ragazza disse il prezzo. La collega dietro il paravento chiese: «Perché domanda se non la riguarda?» Bloch, che si era già alzato, lesse, mentre aspettava il resto, la lista dei prezzi posta accanto allo specchio, e uscì.
Notò in se stesso una strana mania, quella di sapere il prezzo di ogni cosa. Si sentì sollevato quando vide i vetri di un negozio di generi alimentari, sui quali erano scritti in bianco i nomi delle merci appena arrivate e i loro prezzi. In una cassetta di frutta davanti al negozio il cartellino del prezzo si era rovesciato. Bloch lo raddrizzò. Il gesto fu sufficiente perché uscisse fuori qualcuno a chiedergli se desiderava qualcosa. In un altro negozio avevano drappeggiato una sedia a dondolo con un abito lungo. Sulla sedia a dondolo c’era accanto al vestito un cartellino del prezzo con uno spillo appuntato. Bloch non sapeva stabilire se il prezzo si riferisse alla sedia o all’abito; una delle due cose non era certamente in vendita. Rimase così a lungo lì davanti che di nuovo qualcuno uscì a interrogarlo. Lui interrogò di rimando; gli fu risposto che lo spillo col cartellino del prezzo doveva essere caduto dall’abito, ma che era chiaro che il cartellino del prezzo non poteva riguardare la sedia a dondolo; questa era ovviamente proprietà privata. Aveva solo voluto informarsi, disse Bloch, che già proseguiva. Gli fu gridato dietro dove si potevano comprare sedie a dondolo dello stesso modello. Nel bar Bloch domandò il prezzo del juke-box. Non era suo, disse il proprietario, era solo in prestito. Questo non gli interessava, rispose Bloch, voleva solo sapere il prezzo. Solo dopo che il proprietario gli ebbe detto il prezzo fu soddisfatto. Ma non era sicuro, disse il proprietario. Ora Bloch cominciò a domandare di altri oggetti del locale, di cui il proprietario doveva sapere il prezzo, perché gli appartenevano. In seguito il proprietario parlò dello stabilimento bagni, i cui costi di costruzione avevano largamente superato il preventivo. «Di quanto?» domandò Bloch. Il proprietario non lo sapeva. Bloch si spazientì. «A quanto ammontava il preventivo?» domandò Bloch. Di nuovo il proprietario non seppe rispondere. Nella scorsa primavera, comunque, avevano trovato in una cabina un morto, che doveva essere rimasto là per tutto l’inverno. La testa era infilata in una borsa di plastica. Il morto era uno zingaro. Nella zona c’erano alcuni zingari sedentari; con l’indennizzo per la detenzione nei campi di concentramento si erano costruiti piccoli alloggi sul margine del bosco. «Pare che dentro siano molto puliti» disse il proprietario. I gendarmi, che ne avevano interrogato gli abitanti nel corso della ricerca dello scolaro scomparso, erano rimasti colpiti dai pavimenti lavati di fresco e in genere dall’ordine delle stanze. Ma proprio quest’ordine, continuò il proprietario, aveva più che altro rafforzato i sospetti; perché gli zingari non avrebbero certo lavato i pavimenti senza una ragione. Bloch non cedette e domandò se l’indennizzo fosse bastato per la costruzione degli alloggi. Il proprietario non conosceva l’importo dell’indennizzo. «A quell’epoca il materiale da costruzione e la forza-lavoro erano ancora a buon mercato» disse il proprietario. Bloch rivoltò incuriosito lo scontrino posto sotto il bicchiere di birra. «Vale qualcosa questa?» domandò poi, cercandosi nella tasca della giacca e deponendo sul tavolo una pietra. Il proprietario, senza prendere in mano la pietra, rispose che di quelle pietre se ne trovavano nella zona a ogni pie’ sospinto. Bloch non ribatté. Subito dopo il proprietario prese la pietra, se la fece rotolare nel cavo della mano e la rimise sul tavolo. Fine! Bloch intascò subito la pietra.
Sulla porta si imbatté nelle due ragazze del parrucchiere. Le invitò a trasferirsi con lui in un altro locale. La seconda osservò che in quel locale non c’erano dischi nel juke-box. Bloch domandò cosa voleva dire. Lei rispose che i dischi di quel juke-box erano brutti. Bloch andò avanti, e loro lo seguirono. Ordinarono qualcosa da bere e spacchettarono panini. Bloch si chinò in avanti e chiacchierò. Le ragazze gli mostrarono i loro documenti. Quando ne toccò le custodie, subito le sue mani presero a sudare. Gli chiesero se fosse un soldato. La seconda aveva un appuntamento per la sera con un rappresentante; ma sarebbero usciti in quattro, perché in due non si ha niente da dire. «Quando si è in quattro, una volta dice qualcosa uno, una volta l’altro. Ci si raccontano barzellette.» Bloch non sapeva che cosa rispondere. Nella stanza accanto un bambino strisciava per terra. Un cane saltava intorno al bambino e gli leccava la faccia. Il telefono sul banco suonò; per tutto il tempo che suonò Bloch non ascoltò la conversazione. Per lo più i soldati erano senza soldi, disse la ragazza del parrucchiere. Bloch non rispose. Quando guardò le loro mani, spiegarono che le loro unghie erano sempre nere a causa della lacca per capelli. «Non serve a niente coprirle di smalto, l’orlo resta sempre nero.» Bloch alzò gli occhi. «I vestiti ce li compriamo sempre fatti.» «Ci pettiniamo una con l’altra.» «D’estate è già chiaro quando arriviamo a casa.» «Io preferisco i balli lenti.» «Quando torniamo a casa non facciamo più tante barzellette, ci dimentichiamo di parlare.» Lei prendeva tutto troppo sul serio, disse la prima ragazza del parrucchiere. Ieri, sulla strada della stazione, aveva perfino guardato nei frutteti in cerca dello scolaro scomparso. Bloch, anziché restituirli, aveva solo posato i documenti sul tavolo davanti a sé, come se non avesse avuto il minimo diritto di guardarli. Osservò l’alone delle sue impronte scomparire dalle custodie di cellophane. Quando gli chiesero che cosa facesse, rispose di aver fatto il portiere di calcio. Spiegò che i portieri possono restare in attività più a lungo dei giocatori. «Zamora era già abbastanza vecchio» disse Bloch. In risposta loro parlarono dei giocatori di calcio che conoscevano. Quando c’era una partita al loro paese, si mettevano dietro la porta della squadra avversa e schernivano il portiere per innervosirlo. La maggior parte dei portieri aveva le gambe storte.
Bloch notò che ogni volta che lui menzionava qualcosa o ne raccontava, le due ragazze rispondevano con una storia che avevano personalmente vissuto con l’oggetto menzionato o uno simile, o che conoscevano per averne sentito parlare. Se per esempio Bloch parlava delle rotture di costole che si era procurato come portiere, loro rispondevano che alcuni giorni prima in una segheria del luogo un lavoratore era caduto da una catasta di assi e si era rotto una costola anche lui; e se Bloch diceva che le labbra gli erano state cucite parecchie volte, loro gli raccontavano in risposta di un incontro di pugilato visto alla televisione, in cui il boxeur si era spaccato un sopracciglio; e quando Bloch raccontò che una volta, facendo un salto, aveva sbattuto contro la traversa della porta e si era spaccato in due la lingua, loro replicarono subito che anche lo scolaro muto aveva la lingua divisa in due.
Inoltre parlavano di case e soprattutto di persone che lui non poteva conoscere come se dovesse conoscerle e fosse iniziato. Maria aveva sbattuto sulla testa di Otto la borsa di coccodrillo. Lo zio era sceso in cantina, aveva scacciato Alfred in cortile e aveva battuto la cuoca italiana con una verga di betulla. Eduard l’aveva fatta scendere al bivio, e così aveva dovuto andare a casa a piedi nel cuore della notte; aveva attraversato il bosco degli infanticidi perché Walter e Karl non la vedessero camminare sul sentiero dei forestieri, e infine si era tolta le scarpe da ballo regalatele dal signor Friedrich. Bloch, invece, per ogni nome che diceva spiegava di chi si trattasse. Descriveva, per spiegarli, perfino gli oggetti che menzionava. Quando fu pronunciato il nome di Viktor, Bloch aggiunse: «Un mio conoscente»; e quando raccontò di un calcio di punizione a due, non solo descrisse che cosa sia un calcio di punizione a due, ma spiegò in generale, mentre le ragazze del parrucchiere aspettavano il proseguimento del racconto, le regole del calcio di punizione; e perfino quando menzionò un angolo che un arbitro aveva dato si sentì addirittura in dovere di spiegare che non si trattava dell’angolo di una stanza. Quanto più parlava, tanto meno naturale pareva a Bloch ciò che diceva. A poco a poco gli parve che ogni parola necessitasse di una spiegazione. Doveva dominarsi per non interrompersi nel mezzo della frase. Due o tre volte, nel preparare mentalmente la frase che stava dicendo, si imbrogliò nel dirla; quando ciò che le ragazze del parrucchiere dicevano finiva esattamente come lui l’aveva pensato ascoltando, in un primo momento non sapeva rispondere. Finché si erano parlati con familiarità, aveva sempre più dimenticato anche l’ambiente che lo circondava; non aveva più visto neppure il cane e il bambino nella stanza accanto; ma quando poi si interruppe e non seppe come continuare e infine cercò le frasi che poteva ancora dire, l’ambiente tornò a dargli nell’occhio, e vide ovunque dei particolari. Infine domandò se Alfred fosse il suo ragazzo; se ci fosse sempre una verga di betulla sull’armadio; se il signor Friedrich fosse un rappresentante; e se il sentiero dei forestieri si chiamava così perché fiancheggiava un insediamento di forestieri. Loro gli risposero volentieri, e a poco a poco Bloch, anziché i capelli ossigenati con le radici scure, anziché la spilla solitaria appuntata al collo, anziché un’unghia nera, anziché il singolo brufolo nel sopracciglio rasato, anziché l’imbottitura scoppiata sulla sedia vuota del caffè, tornò a percepire contorni, movimenti, voci, richiami e figure, tutto insieme. Con un solo tranquillo, rapido movimento colse al volo anche la borsetta improvvisamente caduta dal tavolo. La prima ragazza del parrucchiere gli offrì un boccone del suo panino, e quando glielo tese Bloch lo morse con la massima naturalezza.
Uscito di lì, sentì dire che agli scolari era stato dato un giorno di vacanza perché potessero tutti collaborare alle ricerche del loro compagno. Ma avevano soltanto trovato alcuni oggetti, che, tranne uno specchietto da tasca rotto, non avevano nulla a che fare con lo scomparso. Lo specchietto da tasca era stato identificato come proprietà dello scolaro muto grazie alla custodia di plastica. Benché i dintorni del luogo di ritrovamento fossero stati perquisiti con particolare cura, non ci si era imbattuti in altri indizi. Il gendarme che raccontò questo a Bloch aggiunse che uno degli zingari era irreperibile dal giorno della scomparsa. Bloch si meravigliò che il gendarme, per di più sull’altro lato della strada, si fosse fermato per gridargli questo. Chiese di rimando se lo stabilimento bagni fosse già stato frugato. Il gendarme rispose che il bagno era sbarrato e nessuno poteva entrarvi, neppure uno zingaro.
Fuori dal paese Bloch notò che i campi di mais erano quasi del tutto calpestati, tanto che tra gli steli piegati si vedevano i gialli fiori di zucca; in mezzo al campo di mais, sempre all’ombra com’erano, avevano cominciato appena adesso a fiorire. Sulla strada erano sparse dappertutto le pannocchie colte, parzialmente sgusciate e addentate dagli scolari; accanto c’era della barba di mais strappata dalle pannocchie. Già in paese Bloch li aveva visti, mentre aspettavano l’autobus, gettarsi addosso l’un l’altro le nere fibre appallottolate. La barba di mais era così umida che, quando Bloch ne calpestava un ciuffo, ogni volta ne sgorgava dell’acqua e si sentiva un cigolio, come quando si cammina su un terreno paludoso. Quasi inciampava su una donnola travolta da un’auto, che aveva la lingua cacciata fuori dalla bocca per un buon tratto. Bloch si fermò e toccò con la punta della scarpa la lunga lingua sottile, nera di sangue: era dura e rigida. Col piede spinse la donnola nella scarpata e andò oltre.
Arrivato al ponte, deviò dalla strada e camminò lungo il torrente in direzione del confine. A poco a poco il torrente parve farsi più profondo, o comunque l’acqua fluiva sempre più lentamente. Le macchie di noccioli sulle due rive si spingevano tanto in avanti sopra il torrente che la superficie dell’acqua non era quasi più visibile. A una certa distanza una falce cigolò nella mietitura. Quanto più lentamente l’acqua fluiva, tanto più torbida pareva diventare. Prima di un’ansa il torrente cessò del tutto di fluire, e l’acqua divenne del tutto opaca. A grande distanza si sentiva scoppiettare un trattore, come se non avesse niente a che fare con tutto il resto. Ciuffi neri di coccole di sambuco ultramature pendevano nel folto. Sull’acqua immobile c’erano piccole macchie d’olio.
Dal fondo dell’acqua si vedevano salire di tanto in tanto delle bolle. Le estremità dei rami di nocciolo pendevano ormai dentro al torrente. Ora nessun rumore dall’esterno poteva più distrarre l’attenzione. Non appena le balle comparivano alla superficie, subito le si vedeva scomparire. Qualcosa saltò fuori così in fretta da non lasciar capire se fosse stato un pesce.
Quando Bloch, dopo qualche tempo, improvvisamente si mosse, dappertutto nell’acqua vi fu un ribollimento. Salì su un ponticello che valicava il torrente e guardò giù nell’acqua, senza muoversi. L’acqua era così calma che la faccia superiore delle foglie che vi galleggiavano restava completamente asciutta.
Si vedevano le cimici acquatiche correre avanti e indietro e sopra di esse, senza alzare la testa, uno sciame di moscerini. In un punto l’acqua si increspava un poco. Ci fu un nuovo schiocco quando un pesce balzò fuori dall’acqua. Sulla riva si vedeva un rospo accovacciato sopra un altro rospo. Una zolla si staccò dalla riva, e di nuovo sott’acqua ci fu un ribollimento. I piccoli avvenimenti sulla superficie dell’acqua parevano così importanti che, quando si ripetevano, già li si stava guardando e già ci si ricordava di loro. E le foglie si muovevano sull’acqua così lentamente che si aveva voglia di guardarle senza batter ciglio, finché gli occhi bruciavano, per paura di poter scambiare, battendo le ciglia, il movimento delle ciglia col movimento delle foglie. Nell’acqua fangosa non si specchiavano neanche i rami che quasi vi si immergevano.
Fuori dal campo visivo c’era qualcosa che cominciò a disturbare Bloch, il quale guardava fissamente l’acqua. Strizzò gli occhi, come se dipendesse da loro, ma non guardò in quella direzione. A poco a poco la cosa entrò nel suo campo visivo. Per qualche tempo la guardò senza percepirla; tutta la sua coscienza pareva una macchia cieca. Poi, come quando in un film comico uno apre distrattamente una cassa e continua a chiacchierare e soltanto dopo si interrompe e torna a precipitarsi sulla cassa, scorse sotto di sé nell’acqua il cadavere di un bambino.
Poi era ritornato sulla strada. Sulla curva dove c’erano le ultime case prima del confine un gendarme gli venne incontro in ciclomotore; lo vide in anticipo nello specchio della curva; poi il gendarme apparve realmente nella curva, seduto eretto sul veicolo, coi guanti bianchi, una mano sul manubrio, l’altra sul ventre; le gomme erano sporche di fango; nei raggi svolazzava una foglia di rapa. La faccia del gendarme non tradiva nulla. Quanto più a lungo Bloch seguiva con lo sguardo la figura sul ciclomotore, tanto più gli pareva di alzare lentamente gli occhi da un foglio di giornale e di guardare da una finestra nello spazio aperto: il gendarme si allontanava sempre più e lo riguardava sempre meno. Nello stesso tempo Bloch fu colpito dal fatto che ciò che vedeva, mentre seguiva con lo sguardo il gendarme, per breve tempo l’aveva visto solo come un paragone con qualcosa d’altro. Il gendarme sparì dalla scena, e l’attenzione di Bloch divenne del tutto superficiale. Nel locale di confine dove poi si recò, benché la porta della sala da pranzo fosse aperta, in un primo momento non trovò nessuno.
Rimase lì impalato per qualche tempo, poi aprì ancora una volta la porta e la chiuse accuratamente dall’interno. Si sedette a un tavolo d’angolo e attese, spingendo avanti e indietro le palline che servivano a contare le partite vinte nel gioco di carte. Infine mescolò le carte, che erano infilate tra le file di palline, e giocò da solo. Fu preso dalla furia del gioco; una carta gli cadde sotto il tavolo. Si chinò e vide accoccolata sotto un altro tavolo, in mezzo a sedie che la circondavano da tutti i lati, la figlia dell’affittuaria. Bloch si raddrizzò e continuò a giocare; le carte erano così consumate che ogni singola carta gli pareva gonfia. Guardò nella stanza della casa dei vicini, in cui il cataletto era ormai vuoto; i battenti della finestra erano spalancati. Dalla strada dei bambini chiamarono, e la bambina sotto il tavolo spinse via in fretta le sedie e corse fuori.
La cameriera entrò dal cortile. Come in risposta al fatto di vederlo seduto lì, disse che l’affittuaria era andata al castello per farsi rinnovare il contratto d’affitto. La cameriera era seguita da un giovanotto che trascinava con ciascuna mano una cassetta di bottiglie di birra, e tuttavia non aveva la bocca chiusa. Bloch lo apostrofò, ma la cameriera disse che non doveva rivolgergli la parola; non poteva parlare quando portava simili pesi. Il giovanotto, che a quanto pareva era un po’ deficiente, aveva ammucchiato le cassette dietro il banco. La cameriera gli disse: «Hai di nuovo versato la cenere sul letto invece che nel torrente? Non assali più le capre? Spacchi ancora le zucche e ti ci sporchi la faccia?» Si mise sulla porta con una bottiglia di birra, ma lui non rispose. Quando gli mostrò la bottiglia venne verso di lei. Lei gli diede la bottiglia e lo congedò. Un gatto si precipitò dentro, balzò in aria dietro una mosca e divorò subito la mosca. La cameriera aveva chiuso la porta. Mentre la porta era aperta Bloch aveva sentito il telefono suonare nella casa dei doganieri.
Bloch seguì poi il giovanotto verso il castello; camminava lentamente, perché non voleva superarlo; lo guardò indicare con gesti violenti un pero, lo sentì dire: «Sciame d’api!» e credette al primo sguardo di vedere effettivamente un’arnia in cima all’albero, finché, dopo aver osservato gli altri alberi, si accorse che qua e là in parecchi punti i tronchi erano più grossi. Vide che il giovanotto, come per dimostrare che si trattava di uno sciame d’api, scagliava la bottiglia nella corona dell’albero. Il resto della birra schizzò contro il tronco, la bottiglia cadde nell’erba sopra un mucchio di pere marce, e dalle pere si levarono subito ronzando mosche e vespe. Mentre Bloch raggiungeva il giovanotto, lo sentì raccontare di un ‘matto per i bagni’ che ieri aveva visto fare il bagno nel torrente; le sue dita erano alquanto raggrinzite, sulla bocca aveva una grossa sfera di schiuma. Bloch gli domandò se sapeva nuotare. Vide che il giovanotto schiudeva le labbra e annuiva vigorosamente, ma poi lo sentì dire ‘no’. Bloch andò avanti, lo sentì che parlava ancora, ma non si voltò più a guardarlo.
Davanti al castello bussò alla finestra della casetta del portinaio. Si avvicinò al vetro finché poté vedere dentro. Sul tavolo c’era una ciotola piena di prugne. Il portinaio, che giaceva sul divano, si era appena svegliato; gli fece dei segni a cui Bloch non seppe come rispondere. Annuì. Il portinaio uscì con una chiave, aprì il portone, ma tornò subito a girarsi e lo precedette. Un portinaio con una chiave! pensò Bloch; di nuovo gli pareva di dover vedere tutto ciò solo in senso metaforico. Si accorse che il portinaio aveva in animo di fargli da guida attraverso l’edificio. Si propose di chiarire l’equivoco; ma benché il portinaio parlasse pochissimo, non si presentò alcuna occasione di farlo. Sopra la porta d’ingresso dalla quale entrarono erano inchiodate dappertutto teste di pesce. Bloch si era accinto a una spiegazione, ma doveva aver di nuovo mancato il momento buono. Erano già entrati.
In biblioteca il portinaio gli lesse dai libri quante parti del raccolto i contadini del proprietario dovessero anticamente consegnare come quota d’affitto. Bloch non riuscì a interromperlo a questo punto, perché il portinaio stava traducendo un’iscrizione latina che trattava di un contadino ribelle. «Dovette lasciare il podere» lesse il portinaio, «e qualche tempo dopo lo trovarono nel bosco, appeso per i piedi a un ramo, con la testa in un formicaio.» Il libro degli affitti era così grosso che il portinaio dovette chiuderlo con due mani. Bloch domandò se l’edificio fosse abitato. Il portinaio rispose che l’accesso alle stanze private non era permesso. Bloch udì un click, ma il portinaio aveva solo chiuso nuovamente il libro. «L’oscurità dei boschi di abeti» citò il portinaio a memoria «l’aveva fatto uscire di senno.» Davanti alla finestra ci fu un rumore, come se una pesante mela si staccasse da un ramo. Ma il suono dell’impatto mancò. Bloch guardò fuori e vide che in giardino il figlio del proprietario, armato di una lunga stanga alla cui estremità era fissato un sacco dentellato agli orli, trascinava le mele nel sacco strappandole coi dentelli, mentre sotto, nell’erba, l’affittuaria attendeva col grembiule allargato.
Nella stanza accanto c’erano tavole di farfalle. Il portinaio gli mostrò le proprie mani macchiate dalle preparazioni. Tuttavia molte farfalle erano cadute dagli spilli che le sostenevano; Bloch vide sotto le tavole la polvere sul pavimento. Si avvicinò e osservò i resti di farfalle ancora trattenuti dagli spilli. Quando il portinaio chiuse la porta dietro di lui, da una tavola fuori dal suo campo visivo cadde qualcosa che si polverizzò mentre ancora cadeva. Bloch vide una pavonia che pareva quasi soffocata da una lanosa muffa verdognola. Non si chinò in avanti né arretrò. Lesse le iscrizioni sotto gli spilli vuoti. Alcune falene avevano già tanto mutato il loro aspetto che le si riconosceva solo dai nomi. «Un cadavere nel soggiorno» citò il portinaio, che era già sulla porta della prossima stanza. Fuori qualcuno gettò un grido, e una mela batté sul terreno. Bloch, che guardò dalla finestra, vide un ramo vuoto scattare all’indietro. L’affittuaria aggiunse la mela caduta al mucchio delle altre mele danneggiate.
Più tardi sopraggiunse una scolaresca non del paese, e il portinaio interruppe la visita e ricominciò daccapo. Bloch sfruttò l’occasione e si allontanò.
Tornato sulla strada, si sedette presso una fermata della corriera postale, su una panchina che, come diceva una targa d’ottone, era stata messa lì dalla cassa di risparmio del paese. Le case erano così lontane che si distinguevano a malapena l’una dall’altra; quando le campane cominciarono a suonare, non si riusciva a scorgerle nel campanile. Un aereo volò così alto sopra di lui che non poté vederlo; scintillò solo una volta. Accanto a lui sulla panchina c’era una traccia secca di lumaca. Sotto la panchina l’erba era ancora bagnata dalla rugiada dell’ultima notte; la custodia di cellophane di un pacchetto di sigarette era appannata di vapore. Alla sua sinistra vedeva... Alla sua destra c’era... Dietro di sé vedeva... Gli venne fame e proseguì.
Di ritorno nel locale, Bloch ordinò dell’affettato. La cameriera tagliò pane e salsiccia con una macchina affettatrice e gli portò le fette di salsiccia su un piatto; sopra aveva spalmato un po’ di senape. Bloch mangiò, si faceva già scuro. Fuori, giocando, un bambino si era nascosto così bene che non fu trovato. Solo quando il gioco fu finito Bloch lo vide camminare per la strada vuota. Allontanò da sé il piatto, allontanò da sé anche il sottobicchiere, allontanò da sé la saliera.
La cameriera portò a letto la bambina. Più tardi la bambina tornò nella sala in camicia da notte e corse avanti e indietro tra la gente. A intervalli dal pavimento si levavano ronzando delle tarme. Appena rientrata, l’affittuaria riportò la bambina in camera da letto.
Le tende furono tirate e la sala si riempì. Davanti al banco si vedevano alcuni giovanotti in piedi, che ogni volta che ridevano facevano un passo indietro. Accanto a loro c’erano delle ragazze in mantelli di seta, come se intendessero tornarsene via subito. Si vide uno dei giovanotti raccontare qualcosa e gli altri giovanotti irrigidirsi prima di scoppiare a ridere tutti insieme. Chi stava seduto, si era seduto il più vicino possibile al muro. Si vide la grinfa del juke-box afferrare un disco, si vide il pick-up abbassarvisi sopra, si videro ammutolire alcuni che attendevano i loro dischi; non serviva a niente, non cambiava niente. E non cambiava niente che, quando la cameriera lasciò penzolare il braccio per la stanchezza, si vedesse l’orologio scivolare dalla manica della camicetta sul polso, che la leva della macchina del caffè ascendesse lentamente e che si udisse come qualcuno, prima di aprire la scatola di fiammiferi, se la scuoteva vicino all’orecchio. Si vide come bicchieri vuoti da molto tempo venissero continuamente riportati alle labbra, come la cameriera sollevasse un bicchiere per verificare se poteva portarselo via, come i giovanotti si schiaffeggiassero scherzosamente. Niente serviva. La situazione ritornò seria solo quando qualcuno gridò che voleva pagare.
Bloch era abbastanza ubriaco. Tutti gli oggetti sembravano fuori dalla sua portata. Era così distante dagli avvenimenti, che lui stesso non compariva più in ciò che vedeva o sentiva. Come le riprese aeree! pensò, guardando i palchi e le corna sulla parete. I rumori gli facevano lo stesso effetto dei rumori di fondo, dei tossicchiamenti durante le messe trasmesse per radio.
Più tardi entrò il figlio del padrone del podere. Portava dei calzoni knickerbocker, e appese il suo cappotto così vicino a Bloch che questi dovette piegarsi di lato.
L’affittuaria si sedette al tavolo del figlio del padrone, e si sentì come sedendosi gli chiedesse cosa voleva bere, e come gridasse poi l’ordinazione alla cameriera. Per un tratto Bloch vide i due bere da un solo bicchiere; appena il giovanotto diceva qualcosa l’affittuaria gli dava una gomitata; e quando passò in fretta la mano aperta sulla faccia del giovanotto, lo si vide acchiappare la mano e leccarla. Poi l’affittuaria si era seduta a un altro tavolo, dove proseguì nelle sue occupazioni commerciali accarezzando i capelli a un altro giovanotto. Il figlio del padrone si era rialzato e aveva preso le sigarette nel cappotto dietro a Bloch. Quando Bloch aveva scosso il capo alla domanda se il cappotto lo disturbasse, si era accorto che già da qualche tempo non distoglieva gli occhi da quel punto. Bloch gridò: «Pagare!» e di nuovo tutti parvero farsi seri per breve tempo. L’affittuaria, che con la testa piegata all’indietro stava aprendo una bottiglia di vino, fece un segno alla cameriera, che era in piedi dietro il banco e lavava i bicchieri deponendoli su un piano di gommapiuma che assorbiva l’acqua, e la cameriera venne verso di lui, aprendosi la strada fra i giovanotti che stavano al banco, e gli diede di resto, con dita che erano fredde, delle monete che erano bagnate, e che lui subito, alzandosi, intascò; una barzelletta, pensò Bloch; forse la vicenda gli appariva così cerimoniosa perché era ubriaco.
Si alzò e andò alla porta; aprì la porta e uscì, tutto era in ordine.
Per accertarsene rimase lì in piedi per qualche tempo. Di tanto in tanto qualcuno usciva a fare i suoi bisogni. Altri, che arrivavano ora, cominciarono a cantare in coro non appena, da fuori, sentirono il juke-box. Bloch si allontanò.
Di nuovo in paese; di nuovo alla locanda; di nuovo nella stanza. Dodici parole in tutto, pensò Bloch sollevato. Sentì che sopra di lui svuotavano una vasca da bagno; o almeno sentì un gorgoglio, concluso da sospiri e risucchi.
Doveva essersi appena addormentato quando si risvegliò. In un primo momento gli parve di esser caduto fuori da se stesso. Si accorse di giacere in un letto. Non trasportabile! pensò Bloch. Una mostruosità! Si percepì come se fosse improvvisamente degenerato. Non andava più bene; per quanto immobile giacesse, era tutto un affannoso affaccendarsi; tanto nitido e vistoso giaceva lì, da non poter scantonare su nessuna immagine che fosse paragonabile con lui. Il suo modo di essere lì faceva di lui qualcosa di lascivo, di osceno, di sconveniente, qualcosa di assolutamente scandaloso; sotterrare! pensò Bloch, vietare, rimuovere! Ebbe la sgradevole impressione di tastarsi, ma si accorse poi che la sua coscienza di sé era così intensa da farsi sentire come un senso di tastamento sull’intera superficie corporea; come se la coscienza, come se i pensieri fossero diventati maneschi, aggressivi, fossero passati a vie di fatto contro di lui. Disarmato, incapace di difendersi giaceva lì; l’interno schifosamente rivoltato verso l’esterno; non estraneo, solo odiosamente diverso. Era stata una scossa, e con una scossa era divenuto innaturale, era stato strappato via dal contesto. Giaceva lì, impossibile, così reale; senza più paragoni. La sua coscienza di sé era così forte, che aveva una paura mortale. Sudava. Una moneta cadde per terra e rotolò sotto il letto; Bloch tese le orecchie: un paragone? Poi si era addormentato.
Di nuovo il risveglio. Due, tre, quattro, cominciò a contare Bloch. La sua condizione non era cambiata, ma nel sonno doveva esservisi abituato. Intascò la moneta che era caduta sotto il letto e scese a pianterreno. Se poneva attenzione e simulava, ogni parola continuava coerentemente a produrne un’altra. Una piovosa giornata d’ottobre; una mattina presto; un polveroso vetro di finestra: il meccanismo funzionava. Salutò il locandiere; il locandiere stava sistemando i giornali nei portagiornali; la ragazza spingeva un vassoio nell’apertura tra cucina e sala da pranzo; il meccanismo continuava a funzionare. Se si controllava poteva seguitare, una parola dopo l’altra: si sedette al tavolo a cui si sedeva sempre; aprì il giornale che apriva ogni giorno; lesse sul giornale la notizia secondo cui nel caso di omicidio Gerda T. gli investigatori stavano seguendo una pista calda che conduceva nella parte meridionale del paese; gli scarabocchi sul margine del giornale trovato in casa della morta avevano contribuito allo sviluppo delle indagini. Ogni frase produceva la frase successiva. E poi, e poi, e poi... Almeno per un po’ si poteva stare tranquilli in anticipo.
Dopo qualche tempo Bloch, benché in realtà fosse sempre seduto nella sala da pranzo ed enumerasse tra sé ciò che si svolgeva per la strada, si sorprese nell’atto di prendere coscienza di una frase che suonava: ‘Il fatto è che era rimasto disimpegnato troppo a lungo’. Poiché la frase gli pareva una frase conclusiva, ripensò a come c’era arrivato. Che cosa c’era stato prima? Sì! Prima, ora gli tornava in mente, aveva pensato: ‘Sorpreso dal tiro, si era lasciato rotolare il pallone tra le gambe’. E prima di questa frase aveva pensato ai fotografi che stavano dietro la porta e lo irritavano. E prima: ‘Dietro di lui qualcuno si era fermato, ma poi si era limitato a fischiare al proprio cane’. E prima di questa frase? Prima della frase aveva pensato a una donna che in un parco si era fermata, si era voltata e aveva guardato qualcosa dietro di lui, nel modo in cui si può guardare soltanto un bambino disobbediente. E prima? Prima il locandiere aveva raccontato dello scolaro muto, che un doganiere aveva trovato morto poco prima del confine. E prima dello scolaro aveva pensato al pallone che era rimbalzato poco prima della linea. E prima di pensare al pallone aveva visto in strada la donna del mercato balzare su dal suo sgabello e rincorrere uno scolaro. E la donna del mercato era stata preceduta da una frase del giornale: ‘Il falegname fu ostacolato nell’inseguimento del ladro dal fatto di indossare ancora il grembiule’. Ma la frase del giornale l’aveva letta pensando a quando, durante una rissa, la giacca gli era stata abbassata sulle braccia. E alla rissa era arrivato quando il suo stinco aveva urtato dolorosamente contro il tavolo. E prima? Non gli tornava più in mente che cosa l’avesse indotto a urtare il tavolo con lo stinco. Cercò nell’intero svolgimento un punto d’appoggio per ciò che poteva esserci stato prima: aveva a che fare col gesto? Oppure col dolore? Oppure col rumore di tavolo e stinco? Ma non risalì più oltre. Poi vide sul giornale la foto della porta di un appartamento, che, siccome dietro c’era un cadavere, aveva dovuto essere sfondata. Con questa porta era dunque cominciata, pensò, finché si fu ritrovato alla frase: ‘Era rimasto disimpegnato troppo a lungo’.
Dopo era andata bene per un po’ di tempo; i movimenti delle labbra delle persone con cui parlava concordavano con ciò che ne sentiva uscire; le case non consistevano soltanto di facciate; la rampa di carico della latteria trascinava nel magazzino pesanti sacchi di farina; se qualcuno gridava qualcosa dal fondo della strada, lo si udiva davvero come se provenisse dal fondo; le persone che passavano sul marciapiede di fronte non sembravano pagate per passare sullo sfondo; il ragazzo col cerotto sotto l’occhio aveva una crosta autentica; e la pioggia pareva scendere non solo in primo piano, ma nell’intero campo visivo. Bloch si trovò poi sotto il portico di una chiesa. Evidentemente era capitato qui percorrendo un vicolo laterale e si era messo sotto il portico quando aveva cominciato a piovere.
Nell’interno della chiesa, questo lo colpì, c’era più luce di quanto avesse pensato. Così, dopo essersi seduto su una panca, poté osservare sopra di sé il dipinto del soffitto. Dopo qualche tempo lo riconobbe: era riprodotto sul depliant distribuito in tutte le stanze della locanda. Bloch, che ne aveva intascato una copia perché vi si trovavano schizzati anche il paese e i suoi dintorni con le strade e i sentieri, tirò fuori il depliant e lesse che al primo piano e allo sfondo del dipinto avevano lavorato pittori diversi; quando ancora il secondo pittore era intento a dipingere lo sfondo, le figure in primo piano erano state completate da molto tempo. Bloch alzò gli occhi dal foglio alla volta; le figure, dato che non le conosceva – doveva trattarsi di chissà quali personaggi della storia biblica –, lo annoiavano; tuttavia era piacevole, mentre fuori pioveva sempre più forte, guardare su nella volta. Il dipinto si estendeva a perdita d’occhio su tutto il soffitto della chiesa; lo sfondo rappresentava un cielo abbastanza privo di nubi, quasi uniformemente azzurro; in un punto, abbastanza discosto dalle figure, era dipinto un uccello. Bloch valutò quanti metri quadri il pittore avesse dovuto dipingere. Chissà se era stato difficile dipingere quell’azzurro sempre uguale? Si trattava di un azzurro tanto chiaro che il colore doveva essere stato mescolato con del bianco. E quando lo si mescolava, bisognava fare in modo di evitare che la tonalità di azzurro cambiasse da giorno di pittura a giorno di pittura? D’altra parte l’azzurro non era puramente e semplicemente uniforme, ma variava all’interno di ogni pennellata. Non era dunque possibile coprire semplicemente il soffitto con un colore uniformemente azzurro, ma occorreva dipingere effettivamente un quadro? In realtà lo sfondo non diventava cielo passando alla cieca il colore sulla malta, per giunta necessariamente sempre umida, col più grande pennello possibile, magari addirittura con una scopa, bensì, rifletté Bloch, il pittore doveva effettivamente dipingere un cielo, con piccole variazioni nell’azzurro, che però non dovevano neanche essere così evidenti da passare per errori di mescolatura. Così lo sfondo non pareva un cielo perché si era abituati a immaginare sullo sfondo il cielo, ma perché quel cielo era dipinto pennellata per pennellata. Era dipinto con tanta precisione, pensò Bloch, da parere quasi disegnato; con molta più precisione, comunque, delle figure in primo piano. Chissà se aveva aggiunto l’uccello per rabbia? E aveva dipinto l’uccello subito all’inizio o ce l’aveva messo solo quando aveva finito? Forse il pittore dello sfondo era stato abbastanza disperato? Nulla stava a indicarlo, e anche a Bloch quest’interpretazione parve subito ridicola. Addirittura gli sembrò che tutto il suo interesse per il dipinto, che tutto il suo camminare avanti e indietro, il suo sedersi qua e là, il suo uscire, il suo entrare non fossero altro che scappatoie. Si alzò: ‘Niente diversioni!’ si disse. Come per confutarsi uscì fuori, traversò subito la strada entrando in un androne, vi si soffermò in atteggiamento di sfida accanto a bottiglie di latte vuote, finché ebbe cessato di piovere, senza che nessuno venisse a chiedergli ragione, andò in un bar e si sedette per qualche tempo con le gambe stese in fuori, senza che nessuno gli facesse il piacere di inciamparvi e di ingaggiare una rissa.
Quando guardava fuori vedeva il dettaglio della piazza del mercato con un autobus della scuola; nel bar vedeva a sinistra e a destra dettagli delle pareti, con una stufa spenta sormontata da un mazzo di fiori, con un attaccapanni a cui era appeso un ombrello dall’altro lato. Scorse un altro dettaglio col juke-box, percorso lentamente da un punto luminoso che si fermava poi sul numero prescelto, e accanto al juke-box il distributore automatico di sigarette, sormontato da un altro mazzo di fiori; poi di nuovo un altro dettaglio col barista dietro il banco, che apriva per la cameriera che gli stava accanto una bottiglia che la cameriera poneva sul vassoio; e infine un dettaglio di se stesso, con le gambe stese in fuori, con le punte delle scarpe umide e sporche, e più sopra il gigantesco portacenere sul tavolo, e accanto al portacenere un vaso di fiori più piccolo e il bicchiere colmo di vino sul tavolo vicino, a cui in quel momento non era seduto nessuno. Il suo angolo visuale sulla piazza corrispondeva quasi esattamente, notò ora che l’autobus della scuola era partito, all’angolo visuale riprodotto sulle cartoline: qui un dettaglio della colonna della peste accanto alla fontana scolpita; là, sul margine del quadro, il dettaglio di un deposito di biciclette.
Bloch era eccitato. All’interno dei dettagli i particolari gli si imponevano con invadente nitidezza: come se le parti che vedeva stessero per il tutto. Di nuovo i particolari gli parevano insegne. ‘Scritte luminose’ pensò. Così vedeva l’orecchio della cameriera, completo di orecchino, come un segnale di tutta la persona; e una borsetta su un tavolo vicino, che si era un poco aperta, tanto da lasciargli distinguere all’interno un foulard a puntini, rappresentava la donna che dietro di essa reggeva una tazza di caffè e con l’altra mano, esitando solo a tratti davanti a un’illustrazione, sfogliava in fretta una rivista. Sul banco una torre di coppe da gelato inserite l’una nell’altra pareva una metafora del barista, e la pozza d’acqua sul pavimento sotto l’attaccapanni tradiva l’ombrello che le stava sopra. Anziché vedere le teste degli avventori, Bloch vedeva le zone di sporcizia sulla parete all’altezza delle teste. Era così eccitato che guardò la corda sporca che la cameriera ora tirava per spegnere l’illuminazione a muro – fuori si era rifatto chiaro – come se tutta quell’illuminazione a muro fosse una pretesa rivolta espressamente a lui. Inoltre la testa gli doleva, perché era venuto nella pioggia.
Gli invadenti particolari parevano sporcare e deformare le figure e l’ambiente a cui appartenevano. Ci si poteva difendere chiamandoli ciascuno col suo nome e usando questi nomi come insulti contro le figure. Il barista dietro il banco lo si poteva dunque chiamare coppa da gelato, e alla cameriera si poteva dire che era un buco nel lobo dell’orecchio. Allo stesso modo si aveva voglia di dire alla donna con la rivista: Borsetta che non sei altro!, e all’uomo del tavolo accanto, che finalmente era arrivato dal retro e si scolava il vino all’impiedi, mentre pagava: Macchia sui calzoni!, oppure gridargli dietro, ora che deponeva il bicchiere vuoto sul tavolo e usciva, che era un’impronta digitale, una maniglia, lo spacco di un cappotto, una molletta da ciclista, un parafango, e così via, finché la figura, ora all’esterno, fosse scomparsa dal quadro insieme alla bicicletta... Perfino la conversazione e soprattutto le esclamazioni della gente, il Davvero?, l’Ahah!, apparivano così invadenti che veniva voglia di ripeterle a voce alta, per scherno.
Bloch andò in una macelleria e si comprò due panini alla salsiccia. Non voleva mangiare alla locanda, perché il denaro scarseggiava sempre più. Osservò le salsicce che pendevano allineate da una stanga e indicò quale salsiccia la commessa dovesse affettare. Un bambino entrò con un biglietto in mano. In un primo momento il doganiere aveva preso il cadavere dello scolaretto per un materasso trasportato dal fiume, aveva appena detto la commessa. Prese da una scatola due panini e tagliò a metà, ma senza arrivare in fondo. Il pane era già così vecchio che Bloch, quando il coltello vi penetrò, lo sentì scricchiolare. La commessa aprì i due panini e vi inserì le fette di salsiccia. Bloch disse che aveva tempo, che servisse prima il bambino. Guardò il bambino che porgeva muto il biglietto. La commessa si chinò in avanti e lesse. Quando poi tagliò la carne, questa scivolò dall’asse e cadde sul pavimento di pietra. «Spaf!» disse il bambino. Il pezzo di carne era rimasto dov’era caduto. La commessa lo raccattò, lo grattò con la lama del coltello e lo incartò. Fuori Bloch vide gli scolaretti camminare, benché non piovesse più, con gli ombrelli aperti. Aprì la porta al bambino e guardò la commessa strappare la pelle alla salsiccia e inserire poi le fette di salsiccia nel secondo panino.
Gli affari andavano male, disse la commessa. «Di case ce ne sono solamente sul lato della strada dove c’è anche il negozio, sicché in primo luogo nessuno abita di fronte, da dove potrebbe vedere che qui c’è un negozio, e in secondo luogo la gente che passa non va mai sull’altro lato della strada, e perciò passa troppo vicino e non vede che qui c’è un negozio, tanto più che la vetrina non è molto più grande delle finestre dei soggiorni nelle case vicine.»
Bloch si meravigliò che la gente non andasse sull’altro lato della strada, dove il terreno era libero e il sole arrivava molto prima. Evidentemente c’era il bisogno di camminare lungo le case! disse. La commessa, che non l’aveva capito perché nel bel mezzo della frase il parlare gli era venuto a noia e non aveva potuto più che mormorare, rise, come se si fosse comunque attesa una battuta come risposta. In realtà il negozio, quando due o tre persone passarono davanti alla vetrina, divenne così buio da sembrare una battuta di spirito.
In primo luogo... In secondo luogo... Bloch ripeté tra sé e sé le parole della commessa; non gli pareva normale che uno potesse cominciare a parlare sapendo già cosa avrebbe detto alla fine della frase. Fuori, poi, mangiò i panini alla salsiccia camminando. Appallottolò per gettarla via la carta oleata in cui erano avvolti. Non c’erano cestini per la carta nelle vicinanze. Per qualche tempo camminò con la pallottola di carta in mano, prima in una direzione poi nell’altra. Si mise la carta nella tasca della giacca, la tirò fuori daccapo e infine la gettò in un frutteto attraverso una siepe. Subito i polli arrivarono di corsa da tutte le parti, ma fecero dietro front prima di aver beccato la pallottola di carta.
Davanti a sé Bloch vide tre uomini attraversare obliquamente la strada, due in uniforme e in mezzo un terzo con un vestito della festa nero e con una cravatta che, rigettata indietro dal vento o dalla velocità della corsa, gli penzolava oltre la spalla. Guardò i gendarmi condurre lo zingaro nella gendarmeria. Fino alla porta avevano camminato fianco a fianco, e lo zingaro si muoveva tra i gendarmi senza costrizione apparente e parlava con loro; ma quando uno dei gendarmi aprì la porta, l’altro toccò leggermente da dietro lo zingaro al gomito, senza afferrarlo. Lo zingaro si voltò a guardare il gendarme sopra la spalla e sorrise amichevolmente; il colletto della camicia sotto il nodo della cravatta era aperto. Parve a Bloch che lo zingaro fosse a tal punto in trappola da non poter fare altro, quando gli fu toccato il braccio, che guardare amichevolmente il gendarme, smarrito.
Bloch li seguì nell’edificio, in cui si trovava anche l’ufficio postale; per un attimo credette che, se gli vedevano mangiare pubblicamente un panino alla salsiccia, non sarebbero andati a pensare che lui era implicato in qualcosa. ‘Implicato?’ Non doveva assolutamente pensare di dover giustificare la sua presenza qui, al momento dell’arresto dello zingaro, mediante una qualunque attività come per esempio il fatto di mangiare il panino alla salsiccia. Poteva giustificarsi solo se gli venivano chieste spiegazioni e gli veniva rinfacciato qualcosa; e siccome doveva evitare anche solo di pensare che avrebbero potuto chiedergli delle spiegazioni, non doveva neanche pensare di prepararsi in anticipo delle giustificazioni per questa eventualità; questa eventualità non esisteva. Se dunque gli chiedevano se avesse visto l’arresto dello zingaro, non aveva bisogno di negare e di dare a credere di essere stato distratto perché stava mangiando un panino alla salsiccia, ma poteva ammettere di esser stato testimone dell’arresto. ‘Testimone?’ si interruppe Bloch, mentre nell’ufficio postale attendeva la comunicazione. ‘Ammettere?’ Che cosa c’entravano queste parole con quell’avvenimento per lui privo di significato? Non gli davano proprio il significato che lui voleva negare? ‘Negare?’ tornò a interrompersi Bloch. Non c’era niente da negare. Doveva stare in guardia dalle parole che trasformavano ciò che voleva esprimere in una sorta di deposizione.
Fu chiamato nella cabina telefonica. Mentre ancora pensava a evitare l’impressione di voler fare una deposizione, si sorprese ad avvolgere il manico del ricevitore in un fazzoletto. Un po’ confuso intascò il fazzoletto. In che modo era arrivato al fazzoletto dal pensiero dei discorsi imprudenti? Si sentì dire che l’amico a cui voleva parlare era in ritiro con la sua squadra in un campo di allenamento, in vista dell’importante partita di domenica, e non poteva essere raggiunto telefonicamente. Bloch diede all’impiegata postale un altro numero. Lei lo esortò a pagare subito la prima conversazione. Bloch pagò e si sedette su una panca, dove attese la seconda conversazione. Suonò il telefono, e lui si alzò. Ma veniva solo trasmesso un telegramma di auguri. L’impiegata postale ne prese nota e se lo fece poi confermare parola per parola. Bloch passeggiava su e giù. Uno dei portalettere era tornato e rendeva i conti a voce alta all’impiegata postale. Bloch si sedette. Ora, di primo pomeriggio, per la strada non c’erano distrazioni. Bloch divenne impaziente, ma non lo diede a vedere. Sentì il portalettere raccontare che lo zingaro si era tenuto nascosto per tutti quei giorni in un rifugio della dogana presso il confine. «Questo lo sanno tutti!» esclamò Bloch. Il portalettere si girò verso di lui e ammutolì. Quello che lui spacciava come una novità, si poteva già leggerlo sul giornale di ieri, dell’altro ieri, di tre giorni fa. Quello che lui diceva non significava niente, niente di niente, assolutamente niente. Il portalettere aveva girato la schiena a Bloch mentre questi ancora parlava, e stava chiacchierando sottovoce con l’impiegata postale, in un mormorio che ricordava a Bloch quei pezzi di film stranieri che non venivano tradotti, perché dovevano comunque restare incomprensibili. Bloch non poté più liberarsi della sua osservazione che gli era rimasta a metà. Improvvisamente il fatto che fosse proprio un ufficio postale il luogo in cui ‘non riusciva più a liberarsi’ non gli parve un fatto, ma una cattiva battuta, uno di quei giochi di parole che gli avevano sempre dato il massimo fastidio, per esempio nel linguaggio dei giornalisti sportivi. Già il racconto del portalettere a proposito dello zingaro gli era sembrato un rozzo doppio senso, una goffa allusione, e così pure il telegramma d’auguri, in cui le parole erano così banali da non poter assolutamente significare quello che esprimevano. E non solo ciò che veniva pronunciato era un’allusione, ma anche gli oggetti che lo circondavano dovevano indicargli qualcosa. ‘Come se mi strizzassero l’occhio e mi facessero dei segni!’ pensò Bloch. Cosa poteva significare, infatti, che il tappo del calamaio se ne stesse lì, tutto impregnato, sopra la carta assorbente, e che la carta assorbente fosse stata palesemente cambiata sul leggìo proprio quel giorno, cosicché vi si potevano leggere solo poche impronte? E non si doveva dire più giustamente, invece di ‘cosicché’, ‘affinché’? Affinché dunque le impronte fossero leggibili? E adesso l’impiegata postale sollevava il ricevitore e scandiva parola per parola il telegramma d’auguri. Che allusioni faceva scandendolo? Che cosa c’era sotto, quando dettava ‘Ogni bene’? ‘Cordiali saluti’: che cosa voleva dire? Che cosa sostituivano queste frasi vuote? Di chi erano pseudonimo ‘Gli orgogliosi genitori’? Già al mattino Bloch aveva subito considerato una trappola la breve inserzione: ‘Perché non telefoni?’
Aveva idea che il portalettere e l’impiegata postale ne sapessero qualcosa. ‘L’impiegata postale e il portalettere’ si corresse. Adesso quell’odiosa malattia del gioco di parole l’aveva colpito in pieno giorno. ‘In pieno giorno?’ Chissà come si era imbattuto in questa parola. L’espressione gli pareva sgradevolmente umoristica. Ma le altre parole della frase erano meno sgradevoli? Se uno si recitava la parola ‘malattia’, dopo un paio di ripetizioni poteva soltanto ridere. ‘Una malattia mi colpisce’: ridicolo. ‘Mi ammalo’: ugualmente ridicolo. ‘L’impiegata postale e il portalettere’; ‘Il portalettere e l’impiegata postale’; ‘L’impiegata postale e il portalettere’: nient’altro che una barzelletta. Conosce già la barzelletta del portalettere e dell’impiegata postale? ‘Tutto ha l’aria di un titolo’ pensò Bloch: ‘Il telegramma d’auguri’, ‘Il tappo del calamaio’, ‘Le briciole di carta assorbente sul pavimento’. Il supporto da cui pendevano i timbri gli sembrava disegnato. Lo guardò a lungo, ma non riuscì a scoprire che cosa ci fosse di umoristico nel supporto; eppure doveva esserci sotto una battuta: perché altrimenti gli sarebbe parso disegnato? Oppure era di nuovo una trappola? L’oggetto serviva a fargli dire una cosa per l’altra? Bloch guardò da un’altra parte, guardò di nuovo da un’altra parte, guardò di nuovo da un’altra parte. Le dice qualcosa questo cuscinetto per timbri? Che cosa pensa quando vede questo assegno riempito? Che cosa collega all’estrazione del cassetto? Pareva a Bloch di dover fare l’inventario della stanza, affinché gli oggetti che lo facevano esitare o che tralasciava nel corso dell’enumerazione potessero servire da indizi. Il portalettere batté la mano aperta sulla grossa borsa che aveva ancora a tracolla. ‘Il portalettere batte sulla borsa e se la toglie di dosso’ pensò Bloch, parola per parola. ‘Adesso la depone sul tavolo e va nella sala pacchi.’ Si descrisse i fatti come il radiocronista li descrive al pubblico: come se solo in questo modo potesse immaginarli. Dopo qualche tempo il sistema servì.
Si fermò, perché il telefono squillava. Come ogni volta che il telefono squillava, credette di averlo saputo già un attimo prima. L’impiegata postale staccò il ricevitore, poi indicò la cabina. Già all’interno della cabina, Bloch si chiese se non avesse male interpretato quel gesto, se esso non fosse stato magari diretto a nessuno. Staccò il ricevitore e pregò la sua ex moglie, la quale, come se avesse saputo che era lui, si era annunciata col nome di battesimo, di mandargli un po’ di soldi fermo posta. Seguì uno strano silenzio. Bloch sentì un sussurrio non destinato a lui. «Dove sei?» chiese la moglie. Se la vedeva brutta ed era al verde, disse Bloch e rise come per qualcosa di molto spiritoso. La moglie non rispose. Di nuovo Bloch percepì il sussurrio. Era molto difficile, disse la moglie. Perché? chiese Bloch. Non lo diceva a lui, rispose la moglie. «Dove debbo mandare i soldi?» Presto avrebbe dovuto tirare la cinghia se lei non gli dava una mano, disse Bloch. La moglie tacque. Poi il ricevitore fu abbassato.
‘Neve dell’anno passato’ pensò inaspettatamente Bloch mentre usciva dalla cabina. Che senso aveva questa frase? In effetti aveva sentito dire che sul confine c’era un sottobosco così inselvatichito e folto che all’inizio dell’estate vi si potevano ancora trovare delle chiazze di neve. Ma lui non l’aveva intesa in questo senso. E poi nel sottobosco non c’era niente da cercare. ‘Niente da cercare?’ Che cosa intendeva con questo? ‘Quello che dico’ pensò Bloch.
Nella cassa di risparmio cambiò una banconota da un dollaro che aveva con sé da molto tempo. Cercò di cambiare anche una banconota brasiliana, ma la cassa di risparmio non acquistava questa valuta; per giunta mancava il corso del cambio.
Quando Bloch entrò l’impiegato stava contando delle monete, le avvolgeva in rotoli e stringeva i rotoli con degli elastici. Bloch depose la banconota sulla barriera. Lì accanto c’era un carillon; solo al secondo sguardo Bloch vide che si trattava di un salvadanaio messo lì per uno scopo benefico. L’impiegato alzò gli occhi, ma continuò a contare. Bloch, senza esserne richiesto, spinse la banconota dall’altra parte, sotto la lastra di vetro. L’impiegato allineò i rotoli in una fila accanto a sé. Bloch si chinò e con un soffio fece volare la banconota sul tavolo dell’impiegato, e l’impiegato spiegò la banconota, la lisciò col taglio della mano e la tastò con la punta delle dita. Bloch vide che le punte delle dita erano piuttosto nere. Dal retro venne un secondo impiegato; per poter testimoniare qualcosa, pensò Bloch. Pregò di mettere le monete del cambio – non c’era neanche una banconota – in un sacchetto di carta, e risospinse le monete sotto la lastra di vetro. L’impiegato mise le monete, non diversamente da come aveva prima allineato i rotoli, in un sacchetto di carta, e risospinse il sacchetto verso Bloch. Bloch immaginò che se tutti avessero preteso di far mettere i loro soldi in sacchetti, alla lunga avrebbero potuto mandare in rovina la cassa di risparmio; la stessa cosa si poteva fare con tutti gli altri acquisti: forse il consumo di materiale da imballo avrebbe a poco a poco costretto le aziende alla bancarotta? Comunque immaginarlo era piacevole.
Bloch si comprò in una cartoleria una carta topografica della zona; la fece impacchettare bene, si comprò anche una matita; fece mettere la matita in un sacchetto di carta. Proseguì la sua strada col rotolo in mano; adesso gli pareva di essere più innocuo che prima a mani vuote.
Si sedette su una panca fuori del paese, in un punto da cui aveva una veduta della zona, e confrontò con la matita i particolari della carta coi particolari del paesaggio. Legenda: questi cerchi significavano un bosco di latifoglie, questi triangoli un bosco di conifere, e quando si alzavano gli occhi dalla carta ci si stupiva che fosse vero. Là in fondo il terreno doveva essere paludoso; là in fondo doveva esserci un crocifisso; là in fondo doveva esserci un passaggio a livello. Se si seguiva questa strada maestra, qui si doveva passare un ponte, poi si doveva raggiungere una via riservata al trasporto di merci, poi ci si doveva arrampicare per una ripida salita sulla cui sommità poteva già trovarsi qualcuno, si doveva correre verso questo bosco, per fortuna un bosco di conifere, ma dal bosco potevano uscire e venirti incontro due o tre persone, sicché dovevi fare dietro front e correre giù per questo pendio in direzione di questa fattoria, dovevi correre accanto a questo granaio, poi lungo questo torrente, dovevi saltarlo in questo punto perché qui poteva raggiungerti una jeep, poi correvi a zig-zag attraverso il campo recintato, sgusciavi sulla strada attraverso questa siepe sempreverde nel momento in cui passava un camion, che facevi fermare, sul quale eri al sicuro. Bloch si interruppe. «Quando c’è in ballo un omicidio, il pensiero salta di palo in frasca» aveva sentito dire a qualcuno in un film.
Fu sollevato, quando trovò sulla carta un quadrangolo che non ritrovò nel paesaggio: la casa che doveva esserci in quel punto non c’era, e la strada, che in quel punto faceva una curva, in realtà correva diritta. Parve a Bloch che questa mancata corrispondenza potesse essergli d’aiuto.
Osservò su un campo un cane che correva verso un uomo; poi si accorse che non stava più osservando il cane, ma l’uomo, che si muoveva come qualcuno che vuol tagliare la strada a qualcun altro. Ora vide che dietro l’uomo c’era un bambino; e notò che non stava osservando l’uomo e il cane, come d’abitudine uno avrebbe fatto, ma il bambino, che da lontano sembrava pestare i piedi; ma poi si accorse che era il pianto del bambino a fargli pensare che stesse pestando i piedi. Frattanto l’uomo aveva già afferrato il cane per il collare, e tutti e tre, cane, uomo e bambino, avevano proseguito in una sola direzione. ‘A beneficio di chi tutto questo?’ pensò Bloch.
Davanti a lui sul terreno un altro quadro: formiche che si avvicinavano a una briciola di pane. Di nuovo si accorse che non stava osservando le formiche, ma viceversa la mosca posata sulla briciola di pane.
Tutto ciò che vedeva era letteralmente straordinario. Le immagini non apparivano naturali, ma come se fossero state preparate apposta per lui. Servivano a qualcosa. Quando le guardava gli saltavano letteralmente all’occhio. ‘Come punti esclamativi’ pensò Bloch. Come ordini! Se chiudeva gli occhi e dopo qualche tempo tornava a guardare, letteralmente tutto gli appariva mutato. I dettagli che vedeva parevano scintillare e tremolare ai margini.
Dalla posizione seduta Bloch, senza veramente alzarsi, era subito andato via. Dopo qualche tempo si fermò, poi dalla posizione ferma si buttò subito a correre. Accelerò rapidamente, improvvisamente si bloccò, cambiò direzione, corse regolarmente, poi cambiò il passo, cambiò di nuovo il passo, si fermò, poi corse a ritroso, nel correre a ritroso girò su se stesso, tornò a correre in avanti, si girò di nuovo per correre a ritroso, camminò a ritroso, si girò per correre in avanti, dopo qualche passo si buttò a correre alla massima velocità, si fermò bruscamente, si sedette su una pietra miliare e dalla posizione seduta riprese subito a correre.
Quando poi si fermò e di nuovo riprese a camminare, le immagini parvero offuscarsi a partire dai margini; alla fine erano annerite, eccetto un cerchio nel mezzo. ‘Come quando in un film qualcuno guarda da un cannocchiale’ pensò. Si asciugò il sudore dalle gambe strofinandole coi calzoni. Passò davanti a una cantina in cui le foglie di tè, siccome la porta della cantina era semiaperta, luccicavano stranamente. ‘Come patate’ pensò Bloch.
Ovviamente la casa davanti a lui era a un solo piano, le imposte delle finestre erano serrate da ganci, sulle tegole c’era muschio (anche questa una bella parola!), la porta era chiusa, sopra c’era scritto: Scuola elementare, nel giardino retrostante qualcuno spaccava della legna, doveva essere il bidello, esatto, e davanti alla scuola c’era naturalmente una siepe sempreverde, sì, era così, non mancava niente, neppure la spugna sotto la lavagna nell’aula buia e accanto alla spugna la scatola dei gessetti, neppure i semicerchi nei muri sotto le finestre, accanto ai quali c’era un disegno di spiegazione che confermava trattarsi di solchi per i ganci delle finestre; in generale era come se da ogni cosa che vedeva o sentiva venisse la conferma che tutto era esattamente come doveva essere.
Il coperchio della cassa di carbone nell’aula era aperto, nella cassa era visibile (un pesce d’aprile!) il manico della pala da carbone, e inoltre il pavimento fatto di larghe tavole, ancor umide nelle fessure per essere state lavate di fresco, e da non dimenticare la carta geografica sulla parete, il lavandino accanto alla lavagna e le foglie di mais sul davanzale: tutto un’unica cattiva imitazione! Non sarebbe cascato in simili pesci d’aprile.
Era come se Bloch tracciasse cerchi sempre più ampi. Aveva dimenticato il parafulmine accanto alla porta: ora gli parve una chiamata. Doveva cominciare. Si aiutò passando nel cortile retrostante alla scuola e parlando col bidello che si trovava nella baracca della legna. Baracca della legna, bidello, cortile: chiamate. Guardò il bidello sistemare un ciocco sul ceppo, alzare l’accetta. Lo interruppe parlandogli dal cortile, il bidello si fermò, rispose, e quando poi batté sul ciocco questo cadde di lato prima che lo cogliesse, e lui batté sul ceppo, alzandone la polvere. Sullo sfondo la catasta di legna non ancora spaccata crollò. Un’altra chiamata! Ma a questa non seguì più che la sua domanda, rivolta al bidello nella baracca semibuia, se per tutte le classi vi fosse soltanto quest’aula, e la risposta del bidello, che per tutte le classi c’era soltanto quest’aula.
Non c’era da stupirsi che i bambini quando finivano la scuola non avessero neanche imparato a leggere, disse improvvisamente il bidello, piantando l’accetta nel ceppo e uscendo dalla baracca: non sapevano dire neanche una frase composta di parole proprie, parlavano tra loro impiegando quasi esclusivamente parole isolate, se non li si interrogava non parlavano affatto, e quello che imparavano era solo roba inculcata, che recitavano a memoria; al di là di questo erano incapaci di formare frasi compiute. «In realtà sono tutti quanti, chi più chi meno, muti» disse il bidello.
Che cosa significava? A che cosa mirava il bidello dicendo così? Che cosa aveva a che fare con lui questo? Niente? Sì, ma allora perché il bidello si comportava come se avesse a che fare con lui?
Bloch avrebbe dovuto rispondere, ma non si lasciò coinvolgere. Se cominciava, doveva continuare a parlare. Così passeggiò ancora un poco per il cortile, aiutò il bidello a raccogliere i ciocchi che durante la spaccatura erano volati fuori dalla baracca, quindi, a poco a poco, si ritirò senza dare nell’occhio, tornò sulla strada, poté allontanarsi indisturbato.
Passò davanti al campo sportivo. La giornata lavorativa era finita, e i calciatori si allenavano. Il terreno era così umido che le gocce schizzavano dall’erba quando un giocatore calciava il pallone. Bloch guardò per qualche tempo, scese il crepuscolo e lui proseguì.
Nel ristorante della stazione mangiò una polpetta di carne e bevve un paio di bicchieri di birra. Uscì sul marciapiede e si sedette su una panchina. Una ragazza in stivaletti col tacco alto camminava avanti e indietro nella ghiaia. Nell’ufficio del caposervizio squillò il telefono. Un impiegato stava sulla porta e fumava. Qualcuno uscì dalla sala d’aspetto e subito si fermò. Di nuovo vi fu del rumore nell’ufficio del caposervizio, e si sentì parlare a voce alta, come se qualcuno stesse parlando al telefono. Intanto si era fatto buio.
C’era abbastanza silenzio. Si vedeva che qua e là qualcuno aspirava una sigaretta. Un rubinetto fu aperto al massimo e subito richiuso. Come se qualcuno si fosse spaventato! Più lontano, nelle tenebre, alcuni parlavano; si sentivano suoni chiari, come nel dormiveglia: a, i. Qualcuno esclamò: Ahi! Non era possibile capire se avesse gridato un uomo o una donna. A grande distanza si udì qualcuno dire molto distintamente: «Lei ha l’aria distrutta!» Tra le rotaie si vedeva altrettanto distintamente un ferroviere che si grattava la testa. Bloch credette di dormire.
Si poté vedere un treno entrare in stazione. Si guardarono scendere un paio di persone, come se fossero incerte se scendere o no. Infine scese un ubriaco e sbatté violentemente lo sportello. Si vide che l’impiegato sul marciapiede faceva un segnale col fazzoletto e che il treno ripartiva.
Nella sala d’aspetto Bloch osservò l’orario. In quel giorno nessun treno sarebbe più passato. Comunque nel frattempo si era fatto così tardi che si poteva andare al cinema.
Nell’atrio del cinema c’erano già alcune persone sedute. Bloch si sedette accanto a loro, col biglietto del cinema in mano. Ne arrivavano sempre di più. Era piacevole sentire i molti rumori. Bloch si spostò davanti al cinema, si mise da qualche parte fra la gente, poi entrò.
Nel film qualcuno sparava con un fucile su un uomo seduto a grande distanza, con le spalle voltate, accanto a un fuoco da campo. Non successe nulla; l’uomo non cadde, rimase seduto, non guardò nemmeno chi avesse sparato. Passò qualche tempo. Poi l’uomo si inclinò lentamente di lato e giacque immobile. Sempre questi vecchi fucili, disse il tiratore al suo compagno: nessuna forza di perforazione. Ma in realtà l’uomo, quando era seduto accanto al fuoco, era già morto.
Dopo il film Bloch andò in macchina verso il confine con due giovanotti. Una pietra batté contro il fondo della macchina; Bloch, che era seduto dietro, si rifece attento.
Siccome era stato giorno di paga, nel locale non trovò più neanche un tavolo libero. Si sedette a un qualunque tavolo già occupato. L’affittuaria venne e gli posò la mano sulla spalla. Lui capì e ordinò grappa per tutti quelli che erano seduti al tavolo.
Per pagare posò sul tavolo una banconota ripiegata. Qualcuno accanto a lui spiegò la banconota e disse che nella banconota poteva essere nascosta un’altra banconota. Bloch disse: E se anche? E tornò a piegare la banconota. Il giovanotto spiegò la banconota e vi spinse sopra un portacenere. Bloch afferrò il portacenere e con un movimento dal basso verso l’alto gettò i mozziconi in faccia al giovanotto. Qualcuno gli tirò via la sedia da dietro, facendolo scivolare sotto il tavolo.
Bloch saltò in piedi e aveva già battuto con l’avambraccio contro il petto del giovanotto che gli aveva tirato via la sedia. Il giovanotto cadde contro la parete e gemette forte, perché gli mancò l’aria. Altri due o tre torsero a Bloch le braccia sulla schiena e lo spinsero verso la porta. Lui non cadde neanche, barcollò soltanto e subito rientrò di corsa nel locale.
Cercò di colpire il giovanotto che gli aveva lisciato la banconota. Un calcio lo colse da dietro, e lui cadde contro il tavolo insieme al giovanotto. Mentre ancora cadeva, Bloch lo colpì.
Qualcuno lo afferrò per le gambe e lo tirò via. Bloch lo prese a calci nelle costole, e quello mollò la presa. Due o tre altri afferrarono Bloch e lo trascinarono fuori. Sulla strada lo cinsero in una presa di lotta e lo condussero così avanti e indietro. Davanti alla casa dei doganieri si fermarono con lui, premettero la sua testa contro il campanello e se ne andarono.
Un doganiere uscì fuori, vide Bloch in piedi e tornò dentro. Bloch rincorse i giovanotti e ne trascinò uno per terra afferrandolo da dietro. Gli altri si precipitarono su di lui. Bloch sfuggì loro e ne colpì uno con una testata nel ventre. Dal locale ne uscirono altri due o tre. Qualcuno gli gettò un cappotto sulla testa. Lui lo colpì allo stinco, ma un secondo stava già annodando le maniche. Allora lo abbatterono in fretta e rientrarono.
Bloch si liberò dal cappotto e li rincorse. Uno si fermò senza voltarsi. Bloch gli corse addosso; subito il giovanotto proseguì, e Bloch cadde a terra.
Dopo qualche tempo si alzò ed entrò nel locale. Voleva dire qualcosa, ma quando mosse la lingua il sangue gli formò in bocca delle bolle. Si sedette a un tavolo e fece segno con un dito che dovevano portargli qualcosa da bere. Le altre persone sedute al tavolo non si curarono di lui. La cameriera gli portò una bottiglia di birra senza bicchiere. Lui credette di veder correre sul tavolo delle piccole mosche, ma era solo fumo di sigaretta.
Era troppo debole per sollevare la bottiglia di birra con una mano sola; quindi la strinse con tutt’e due le mani e si chinò in avanti, per non doverla sollevare troppo. Le sue orecchie erano così sensibili che per qualche tempo le carte non caddero sul tavolo accanto, ma vi furono sbattute, e al banco la spugna non cadde, ma schioccò nell’acquaio; e la figlia dell’affittuaria, con gli zoccoli ai piedi nudi, non camminò per la sala, ma acciottolò per la sala, il vino non scorse, ma gorgogliò nei bicchieri, e il juke-box non suonò, ma rintronò.
Sentì una donna gridare di paura, ma un grido di donna nella sala non aveva importanza; dunque poteva darsi che la donna non avesse affatto gridato di paura. Tuttavia il grido l’aveva fatto trasalire; solo per il rumore, tanto acuta era stata la voce della donna.
A poco a poco anche gli altri particolari perdettero la loro importanza: la schiuma nelle bottiglie di birra vuote gli diceva tanto poco quanto il pacchetto di sigarette che un giovanotto accanto a lui lacerò appena per lo spazio indispensabile ad estrarne una sigaretta con le unghie. Anche i fiammiferi bruciati, giacenti ovunque tra le assi allentate del pavimento, non gli davano più da pensare, e le impronte di unghie nello stucco della finestra non gli davano più l’impressione di aver qualcosa a che fare con lui. Ora tutto lo lasciava freddo, era di nuovo al suo posto; come in tempo di pace, pensò Bloch. Dal gallo cedrone impagliato che sormontava il juke-box non c’erano più da trarre deduzioni; anche le mosche addormentate sul soffitto non alludevano più a niente.
Si vedeva un giovanotto pettinarsi i capelli con le dita, si vedevano ragazze andare a ballare camminando a ritroso, si vedevano giovanotti alzarsi e abbottonarsi le giacche, si sentivano le carte schioccare quando venivano mescolate, ma non si era più tenuti a soffermarsi su tutte queste case.
Bloch si sentì stanco. Quanto più stanco diventava, tanto più chiaramente percepiva ogni cosa, distingueva ogni cosa dall’altra. Vedeva che la porta rimaneva sempre aperta quando qualcuno usciva, e vedeva che qualcuno tornava continuamente ad alzarsi e a richiudere la porta. Era così stanco che vedeva ogni oggetto a sé stante, soprattutto i contorni, come se degli oggetti esistessero solo i contorni. Vedeva e sentiva tutto immediatamente, senza doverlo prima tradurre in parole o addirittura, come prima, afferrarlo soltanto sotto forma di parole e di giochi di parole. Era in uno stato in cui tutto gli pareva naturale.
Più tardi l’affittuaria gli si sedette accanto, e lui la circondò col braccio con tanta naturalezza che lei non parve affatto badarvi. Inserì un paio di monete nel juke-box, come se niente fosse, e ballò subito con l’affittuaria. Notò che ogni volta che lei gli diceva qualcosa, pronunciava il suo nome.
Non significava più nulla che vedesse la cameriera tenersi una mano con l’altra mano, anche le grosse tende non avevano più niente di speciale, ed era ovvio che sempre più persone se ne andassero. Tranquillizzato le sentiva fare i loro bisogni per strada e proseguire.
Nella sala si fece più silenzio, e la musica del juke-box divenne molto nitida. Nelle pause tra i dischi la gente parlava più sommessamente o quasi tratteneva il respiro; e si era sollevati quando iniziava il prossimo disco. Parve a Bloch che si potesse parlare di questi avvenimenti come di qualcosa che ritornava sempre; un programma giornaliero, pensò; qualcosa da scrivere sulle cartoline. «Alla sera andiamo in un locale a sentire i dischi.» Divenne sempre più stanco, e fuori le mele cadevano dagli alberi.
Quando non ci fu più nessuno oltre a lui, l’affittuaria andò in cucina. Bloch rimase seduto e aspettò che il disco finisse. Spense il juke-box: adesso c’era luce soltanto in cucina. L’affittuaria sedeva al tavolo e faceva i conti. Bloch venne verso di lei, aveva in mano un sottobicchiere. Lei alzò gli occhi quando uscì dalla sala e lo guardò mentre le veniva incontro. Troppo tardi gli venne in mente il sottobicchiere, fece per nasconderlo in fretta prima che lei lo vedesse, ma l’affittuaria aveva già distolto gli occhi da lui per guardare il sottobicchiere che aveva in mano e gli chiedeva che cosa voleva, se per caso lei ci aveva scritto sopra un conto che non era stato incassato. Bloch lasciò cadere il sottobicchiere e si sedette accanto all’affittuaria, non facendo una cosa dopo l’altra, ma esitando a ogni movimento. Lei continuò a contare e intanto parlava con lui, poi mise via il denaro. Bloch disse che il sottobicchiere l’aveva solo dimenticato in mano, che non significava niente.
Lei lo invitò a mangiare qualcosa in compagnia. Apparecchiò per lui su un vassoio di legno. Mancava un coltello, disse lui, e intanto lei aveva deposto il coltello accanto al vassoio. Doveva ritirare la biancheria dal giardino, disse lei, stava cominciando a piovere. Non pioveva, la corresse lui, pioveva solo dagli alberi, perché c’era un po’ di vento. Ma lei era già uscita, e siccome aveva lasciato la porta aperta lui vide che pioveva davvero. La vide tornare e le gridò incontro che aveva perduto una camicia, ma risultò che si trattava solo dello straccio per i pavimenti, che era sempre stato in terra vicino alla porta. Quando, davanti al tavolo, l’affittuaria accese una candela, Bloch vide la cera sgocciolare su un piatto, perché lei teneva la candela un poco inclinata. Doveva stare attenta, disse, la cera scorreva sul piatto pulito. Ma lei stava già piantando la candela nella cera traboccata, ancora liquida, e ve la pressava sopra finché rimase in piedi da sola. «Non sapevo che tu volessi mettere la candela sul piatto» disse Bloch. Lei fece l’atto di sedersi in un posto dove non c’erano sedie, e Bloch gridò: «Attenzione!» ma lei si era soltanto accovacciata e aveva raccattato una moneta che nel contare le era caduta sotto il tavolo. Quando l’affittuaria andò in camera da letto per guardare la bambina, subito la chiamò; perfino quando una volta si alzò da tavola, le gridò dietro dove voleva andare.
Lei accese la radio sulla credenza; era bello guardarla mentre camminava avanti e indietro e dalla radio veniva della musica. Quando qualcuno accendeva la radio in un film, la trasmissione veniva subito interrotta e veniva trasmesso un mandato di cattura.
A tavola chiacchierarono. Bloch si sentiva incapace di dire qualcosa di serio. Fece delle battute; ma l’affittuaria prendeva alla lettera tutto quello che lui diceva. Le disse che la sua camicetta era a righe come la maglia di un calciatore, fece per continuare a parlare, ma già lei gli domandava se la sua camicetta non gli piaceva, che cosa trovava da criticare. Non servì a nulla che le assicurasse di avere scherzato, e che anzi la camicetta si adattava molto bene alla sua carnagione pallida; lei domandò ancora se trovava che la sua carnagione era troppo pallida. Lui disse per scherzo che la cucina era quasi arredata come una cucina di città, e lei gli domandò perché dicesse «quasi». Forse la gente di là teneva più pulita la sua roba? Perfino quando Bloch fece una battuta sul figlio del proprietario (certamente le aveva fatto una proposta di matrimonio) lei lo prese alla lettera e disse che il figlio del proprietario non era libero. Lui volle allora chiarire con un paragone che non aveva detto sul serio, ma lei prese alla lettera anche il paragone. «Non volevo dir niente con questo» disse Bloch. «Avrai pure avuto un motivo per dirlo» rispose l’affittuaria. Bloch rise. L’affittuaria domandò perché la prendesse in giro.
La bambina chiamò dalla camera da letto. Lei vi entrò e la calmò. Quando rientrò, Bloch si era alzato. Lei gli si fermò davanti e lo guardò per qualche tempo. Ma poi parlò di se stessa. Siccome gli stava così vicina, lui non poté rispondere e fece un passo indietro. Lei non lo seguì, tuttavia si interruppe. Bloch fece per toccarla. Quando finalmente mosse la mano, lei guardò da un’altra parte. Bloch lasciò cadere la mano e finse di avere scherzato. L’affittuaria si sedette dall’altra parte del tavolo e continuò a parlare.
Lui voleva dire qualcosa, ma poi non gli venne in mente che cosa voleva dire. Cercò di ricordarsi: non si ricordava di che cosa si trattasse, ma aveva qualcosa a che fare con la nausea. Poi un gesto dell’affittuaria gli ricordò qualcosa d’altro. Di nuovo non gli venne in mente che cosa fosse, ma aveva qualcosa a che fare con la vergogna. I movimenti e gli oggetti che percepiva non gli ricordavano altri movimenti e oggetti, ma sensazioni e sentimenti; e dei sentimenti non si ricordava come di qualcosa di passato, ma li riviveva come qualcosa di presente: non si ricordava della vergogna e della nausea, ma si vergognava e si nauseava ora, mentre si ricordava, senza che gli tornassero in mente gli oggetti della vergogna e della nausea. La nausea e la vergogna sommate insieme erano così forti che tutto il suo corpo prese a prudere.
Fuori qualcosa di metallico batté contro il vetro della finestra. Alla sua domanda l’affittuaria rispose che si trattava del filo del parafulmine, che si era allentato. Bloch, che già davanti alla scuola aveva osservato un parafulmine, concepì subito questa ripetizione come qualcosa di intenzionale; non poteva essere un caso che per due volte consecutive egli si imbattesse in un parafulmine. In generale tutto gli pareva simile; tutti gli oggetti gli si ricordavano l’un l’altro. Che cosa voleva dire la ripetuta apparizione del parafulmine? Che cosa doveva leggere nel parafulmine? ‘Parafulmine?’ Era forse un nuovo gioco di parole? Significava che non poteva capitargli niente di male? Oppure gli si indicava di raccontare tutto all’affittuaria? E perché i biscotti sul vassoio di legno erano a forma di pesci? A che cosa alludevano? Doveva essere ‘muto come un pesce’? Non poteva continuare a parlare? I biscotti sul vassoio di legno volevano indicargli questo? Era come se non vedesse tutto questo ma lo leggesse da qualche parte, da un manifesto su cui fossero elencate regole di comportamento.
Sì, erano regole di comportamento. Il panno per rigovernare appeso al rubinetto gli ordinava qualcosa. Anche il tappo della bottiglia di birra sul tavolo nel frattempo sparecchiato lo esortava a qualcosa. Tutto concordava: ovunque Bloch vedeva un’esortazione: a fare questo, a non fare quello. Tutto era preformulato per lui, la mensola coi barattoli di spezie, una mensola con vasi di marmellata appena cotta... tutto si ripeteva. Bloch si accorse che già da qualche tempo non parlava più con se stesso: l’affittuaria era accanto all’acquaio e raccoglieva i resti di pane dai piattini. Dietro di lui bisognava riordinare tutto, gli disse, non chiudeva nemmeno il cassetto del tavolo da cui prendeva le posate, i libri che sfogliava li lasciava aperti, si toglieva la giacca e la lasciava semplicemente cadere.
Bloch rispose che aveva effettivamente la sensazione di dover lasciar cadere tutto. Mancava poco che per esempio lasciasse andare questo portacenere che aveva in mano; si stupiva lui stesso di vedersi ancora in mano il portacenere. Si era alzato, reggendo il portacenere davanti a sé. L’affittuaria lo guardò. Lui osservò il portacenere per qualche tempo, poi lo mise via. Come per anticipare le indicazioni che lo circondavano e si ripetevano, Bloch ripeté ciò che aveva detto. Era così smarrito che lo ripeté un’altra volta. Vide l’affittuaria scuotere il braccio sopra l’acquaio. Le era caduto nella manica un pezzo di mela, disse lei, e ora non voleva più uscire. Non voleva più uscire? Bloch la imitò scuotendo il braccio anche lui.
Gli parve che se imitava tutto poteva stare come sottovento. Ma le diede subito nell’occhio, e lei gli mostrò come la imitava.
Frattanto si era avvicinata al frigorifero, su cui c’era una scatola di dolci. Bloch la guardò, mentre ancora lo imitava, toccare da dietro la scatola di dolci. Siccome la guardava così attentamente, lei urtò ancora col gomito dietro di sé. La scatola di dolci cominciò a scivolare e si inclinò lentamente sullo spigolo smussato del frigorifero. Bloch avrebbe fatto ancora in tempo a prenderla al volo, ma la guardò finché sbatté sul pavimento.
Mentre l’affittuaria si chinava per raccogliere la scatola, lui camminò di qua e di là, e dovunque arrivava e si fermava spingeva le cose lontano da sé in un canto, una sedia, un accendisigari sul focolare, un portauova sul tavolo di cucina. «È tutto in ordine?» domandò. Glielo domandò perché voleva che lo interrogasse. Ma prima che lei potesse rispondere qualcosa bussò al vetro della finestra, bussò come un filo di parafulmine non avrebbe mai bussato al vetro. Bloch l’aveva saputo con un istante di anticipo.
L’affittuaria aprì la finestra. Fuori c’era un doganiere, che chiedeva in prestito un ombrello per tornare in paese. Bloch disse che poteva accompagnarlo lui e si fece dare l’ombrello dall’affittuaria. Promise di riportarlo il giorno seguente. Finché non l’aveva riportato non poteva capitare niente.
Per strada aprì l’ombrello; la pioggia scrosciò subito così forte che non udì se lei gli aveva risposto qualcosa. Il doganiere arrivò di corsa sotto l’ombrello costeggiando il muro della casa, e se ne andarono.
Dopo due o tre passi nel locale fu spenta la luce, e il buio divenne completo. Era così buio che Bloch si teneva la mano davanti agli occhi. Dietro il muro che stavano costeggiando sentì uno sbuffare di mucche. Qualcosa lo superò di corsa. Il fogliame accanto alla strada frusciava. «Per poco non ho calpestato un porcospino!» esclamò il doganiere.
Bloch gli chiese come avesse fatto a vedere il porcospino nel buio. Il doganiere rispose: «Rientra nella mia professione. Quando vediamo un movimento o sentiamo un rumore, dobbiamo essere capaci di riconoscere l’oggetto da cui provengono il movimento o il rumore. Bisogna riconoscere perfino un oggetto che si muove sull’orlo estremo della rétina, anzi, bisogna perfino essere in grado di accertarne il colore, benché in realtà i colori si possano pienamente individuare solo nel centro della rétina». Nel frattempo si erano lasciati dietro le case che stavano sul confine e camminavano per una scorciatoia che fiancheggiava il torrente. Il sentiero era cosparso di una sabbia che diventava più chiara man mano che Bloch si abituava all’oscurità.
«Certo che qui siamo abbastanza poco impegnati» disse il doganiere. «Da quando il confine è stato minato non c’è più contrabbando. Così la tensione si allenta, ci si stanca e non si è più capaci di concentrarsi. E quando succede davvero qualcosa non si reagisce neanche.»
Bloch vide qualcosa che gli correva incontro e si mise dietro il doganiere. Un cane gli corse vicino e lo sfiorò.
«Quando qualcuno ti capita davanti, non sai neanche come fare a prenderlo. Stai fin dall’inizio sul piede sbagliato, e se per una volta stai sul piede giusto confidi che lo acchiapperà il tuo collega, mentre il collega confida che lo acchiapperai tu, e l’interessato se la squaglia.» Se la squaglia? Bloch sentì che sotto l’ombrello il doganiere accanto a lui prendeva fiato.
Dietro di lui la sabbia scricchiolò, si voltò e vide il cane che ritornava. Proseguirono, il cane li accompagnò e annusò i cavi delle sue ginocchia. Bloch si fermò, spezzò un ramo di nocciolo dalla riva del torrente e lo cacciò via.
«Quando ci si fronteggia» continuò il doganiere «è importante guardare l’altro negli occhi. Prima che corra via, gli occhi indicano la direzione in cui correrà. Ma nello stesso tempo bisogna osservare anche le sue gambe. Su quale gamba si appoggia? La direzione in cui vuol scappare è quella indicata dalla gamba di sostegno. Ma se l’altro vuole ingannarti e non correre in quella direzione, allora, subito prima di scappar via, dovrà cambiare la gamba di sostegno e facendolo perderà abbastanza tempo da permetterti di precipitarti su di lui.»
Bloch guardò giù verso il torrente: lo sentiva scrosciare, ma non lo vedeva. Da un cespuglio si alzò in volo un pesante uccello. In un recinto di tavole si sentirono polli raspare e picchiettare coi becchi contro l’assito.
«In realtà non ci sono regole» disse il doganiere. «Sei sempre in svantaggio, perché l’altro ti osserva a sua volta e vede come reagirai nei suoi confronti. Tu non puoi far altro che reagire. E quando lui comincia a correre, dopo il primo passo cambierà direzione, e tu stavi sul piede sbagliato.»
Frattanto erano ritornati sulla strada asfaltata e si avvicinavano all’ingresso del paese. Qua e là calpestavano della segatura ammollata che la pioggia aveva soffiato fin sulla strada. Bloch si chiese se il doganiere parlasse così diffusamente di qualcosa che si poteva liquidare con una sola frase perché facendolo voleva dire qualcosa d’altro. ‘Ha parlato a memoria!’ pensò Bloch. Per prova cominciò a parlare a sua volta in lungo e in largo di qualcosa per cui di solito si sprecava una sola frase, ma il doganiere parve ritenerlo assolutamente naturale e non gli chiese a che cosa mirava. In apparenza dunque il doganiere aveva parlato alla lettera.
Quando erano ormai nel centro del paese, vennero loro incontro i partecipanti a un corso di danza. ‘Corso di danza?’ A che cosa alludeva questa nuova parola? Una ragazza, passando, aveva cercato qualcosa nella sua ‘borsetta’, e un’altra aveva portato stivali col ‘gambale’ alto. Erano abbreviazioni di qualcosa? Sentì che dietro di lui la borsetta veniva richiusa di scatto; per poco, in risposta, avrebbe chiuso l’ombrello.
Accompagnò con l’ombrello il doganiere fino al municipio. «Finora ho preso la casa in affitto, ma risparmio per prendere una casa in proprietà» disse il doganiere, già nella tromba delle scale. Anche Bloch era entrato. Voleva salire a bere una grappa? Bloch rifiutò, ma rimase dov’era. Mentre il doganiere stava ancora salendo, la luce si spense. Bloch si appoggiò alla cassetta delle lettere. Fuori, abbastanza in alto, passò un aereo. «Il postale!» esclamò il doganiere nelle tenebre e premette l’interruttore della luce. I suoi passi echeggiavano nella tromba delle scale. Bloch era uscito in fretta.
Nella locanda gli dissero che era arrivata una grossa comitiva, che era stata sistemata su brandine nel campo di bocce; perciò oggi là c’era silenzio. Bloch chiese alla ragazza che gli aveva dato questa informazione se voleva salire con lui. Lei rispose seria che oggi non era possibile. Più tardi, nella camera, la sentì camminare lungo il corridoio e passare di corsa davanti alla sua porta. La camera era così fredda per la pioggia da fargli credere che fosse stata sparsa dappertutto della segatura umida. Depose l’ombrello nel lavabo a punta in avanti, e si coricò vestito.
Bloch si sentì assonnato. Fece un paio di gesti stanchi che dovevano ridicolizzare la sonnolenza, ma che invece lo resero ancora più assonnato. Gli tornò in mente qualcosa che aveva detto quel giorno; cercò di liberarsene espirando. Poi avvertì che si addormentava; come prima della fine di un periodo, pensò.
Fagiani volavano attraverso il fuoco, e battitori camminavano lungo un campo di mais, e il garzone stava nel ripostiglio e scriveva col gesso sulla sua valigetta il numero della stanza, e un rovo nudo era pieno di rondini e lumache.
A poco a poco si svegliò e si accorse che qualcuno nella camera accanto respirava forte e che nel suo dormiveglia il ritmo di quel respiro si trasformava in frasi; l’espirazione la sentiva come una ‘E’ prolungata, e il lungo rumore dell’inspirazione gli si traduceva nelle frasi che di volta in volta seguivano l’‘E’, dopo tre puntini di sospensione corrispondenti alla pausa tra espirazione e inspirazione. Davanti al cinema sostavano soldati con le scarpe a punta della libera uscita, e la scatola di fiammiferi fu deposta sul pacchetto di sigarette, e sopra il televisore c’era un vaso di fiori, e un camion carico di sabbia sparse della polvere sorpassando l’autobus, e un autostoppista reggeva nell’altra mano un grappolo d’uva, e davanti alla porta qualcuno disse: «Apra per favore!»
«Apra per favore!» Queste tre ultime parole non si adattavano affatto al respiro della stanza accanto, che ora diventava sempre più nitido mentre le frasi si affievolivano a poco a poco. Adesso Bloch era completamente sveglio. Qualcuno bussò di nuovo alla porta e disse: «Apra per favore!» Doveva essersi svegliato perché la pioggia aveva cessato di cadere.
Si tirò in fretta a sedere, una molla del letto scattò indietro nella sua posizione, davanti alla porta c’era la cameriera con un vassoio della prima colazione. Non aveva ordinato la colazione, riuscì appena a dire, e già lei si era scusata e aveva bussato alla porta di fronte.
Di nuovo solo nella stanza, trovò che tutto era fuori di posto. Aprì il rubinetto. Subito una mosca cadde dallo specchio e fu immediatamente risucchiata nel lavabo. Si sedette sui letto: poco fa la sedia era stata alla sua destra, adesso si trovava alla sua sinistra. Forse l’immagine era capovolta? La guardò da sinistra a destra, poi da destra a sinistra. Ripeté l’occhiata da sinistra a destra; quest’occhiata gli parve una lettura. Vide un ‘armadio’, ‘poi’ ‘un’ ‘piccolo’ ‘tavolo’, ‘poi’ ‘un’ ‘cestino’, ‘poi’ ‘un’ ‘tendaggio’; guardando da destra a sinistra vide invece una , accanto a essa il , sotto di esso il , lì accanto l’, sopra di esso la sua ; e guardandosi attorno vide la , con accanto l’ e il Era seduto sul sotto di esso c’era un , accanto a esso una . Andò alla : :
. Bloch tirò le tende e uscì.
La sala a pianterreno era occupata dalla comitiva. Il locandiere mandò Bloch nella stanza accanto, dove le tende erano tirate e la madre del locandiere sedeva davanti al televisore. Il locandiere aprì le tende e si mise accanto a Bloch; una volta questi lo vide in piedi alla sua sinistra, poi, quando alzò nuovamente gli occhi, era il contrario. Bloch ordinò una colazione e chiese il giornale. Il locandiere rispose che lo stavano leggendo i membri della comitiva. Bloch si tastò la faccia con le dita; le guance parevano insensibili. Aveva freddo. Le mosche strisciavano così lentamente sul pavimento, che in un primo momento le prese per scarafaggi. Dal davanzale si levò in volo un’ape e ricadde subito indietro. La gente all’esterno saltellava tra le pozzanghere; portavano grosse borse per la spesa. Bloch si tastava ogni punto della faccia.
Il locandiere entrò col vassoio e disse che il giornale non era ancora libero. Parlava così sottovoce che Bloch, quando rispose, parlò sottovoce anche lui. «Non c’è fretta» sussurrò. Ora, alla luce del giorno, il vetro del televisore era polveroso, e la finestra, in cui guardavano gli scolari di passaggio, vi si specchiava. Bloch mangiò e ascoltò il film. Di tanto in tanto la madre del locandiere si lamentava.
All’esterno vide un supporto che reggeva una borsa piena di giornali. Uscì, gettò prima una moneta nella fessura accanto alla borsa e poi ne tolse un giornale. Era talmente esercitato nell’abilità di sfogliare giornali, che mentre ancora entrava lesse la descrizione di se stesso. Una donna l’aveva notato sulla corriera perché aveva perduto delle monete; si era chinata per raccoglierle e aveva visto che si trattava di monete americane. Più tardi aveva saputo che anche vicino alla cassiera morta erano state trovate monete di quel tipo. Dapprima le sue indicazioni non erano state prese sul serio, ma poi era risultato che la sua descrizione coincideva con la descrizione di un amico della cassiera, che la sera precedente al delitto, quando era andato a prendere la cassiera con la macchina, aveva visto un uomo fermo nelle vicinanze del cinema.
Bloch si sedette di nuovo nella stanza attigua e contemplò il ritratto che gli avevano disegnato in base alle indicazioni della donna. Significava che non sapevano ancora il suo nome? Quando era stato stampato il giornale? Vide che si trattava della prima edizione, che di solito veniva pubblicata fin dalla sera del giorno precedente. Il titolo e il ritratto gli parevano come incollati sul giornale; come i giornali dei film, pensò: anche là i veri titoli di testa erano sostituiti da altri titoli di testa che si adattavano al film; oppure come i titoli di testa che ti riguardavano e che avresti potuto far stampare a tue spese nei quartieri di divertimenti.
Gli scarabocchi sul margine erano stati decifrati come la parola ‘Stumm’, con l’iniziale maiuscola; doveva quindi trattarsi di un nome proprio. Forse una persona di nome Stumm era implicata nell’affare? Bloch si ricordò di aver parlato con la cassiera del suo amico, il calciatore Stumm.
Quando la ragazza sparecchiò il tavolo, Bloch non ripiegò il giornale. Le sentì dire che lo zingaro era stato rilasciato, che la morte dello scolaretto muto era stata una disgrazia. Del bambino il giornale riportava soltanto una foto collettiva, perché non era mai stato fotografato da solo.
Alla madre del locandiere cadde dalla poltrona un cuscino a cui appoggiava la schiena. Bloch lo raccolse e uscì col giornale. Vide il giornale della locanda sul tavolo da gioco; nel frattempo la comitiva era partita. Il giornale – si trattava dell’edizione di fine settimana – era così grosso che non entrava nel porta-giornale.
Quando un’auto gli passò vicino, si stupì assurdamente – infatti la giornata era chiara – che viaggiasse con i fari spenti. Non ci furono eventi particolari. Vide che nei frutteti le casse piene di mele venivano rovesciate nei sacchi. Una bicicletta che lo superò slittava di qua e di là nel fango. Vide due contadini darsi la mano sulla porta di un negozio; le mani erano così asciutte che le sentì frusciare. Dai sentieri campestri strisce di melma impresse dai trattori conducevano fino alla strada asfaltata. I parcheggi davanti ai negozi si svuotavano; i clienti ritardatari passavano dall’ingresso posteriore. ‘Schiuma’ ‘scorreva’ ‘giù’ ‘per i gradini del portone.’ ‘Piumini’ ‘erano stesi’ ‘dietro’ ‘le finestre.’ Le lavagne nere con le scritte dei prezzi furono riportate nei negozi. ‘I polli’ ‘becchettavano’ ‘acini d’uva caduti.’ Nei frutteti i tacchini erano pesantemente appollaiati sulle gabbie di fil di ferro. Le apprendiste uscirono dalla porta e puntarono le mani sulle anche. Nel negozio buio il negoziante se ne stava immobile dietro la bilancia. ‘Sul banco’ ‘c’erano’ ‘briciole di lievito.’
Bloch si fermò presso il muro di una casa. Ci fu uno strano rumore: accanto a lui una finestra solo accostata era stata aperta. Lui aveva subito proseguito.
Si fermò davanti a un edificio di nuova costruzione che non era ancora abitato, ma in cui erano già stati collocati i vetri delle finestre. Le stanze erano così vuote che il paesaggio retrostante era visibile attraverso tutte le finestre. Parve a Bloch di essere stato lui ad attrezzare la casa. Era stato lui a installare le prese di corrente e perfino a collocare i vetri delle finestre. Anche lo scalpello, il cartoccio della colazione e la gavetta rimasti sul davanzale della finestra erano roba sua.
Guardò una seconda volta: no, gli interruttori della luce restavano interruttori della luce, e le sedie da giardino nel paesaggio dietro la casa restavano sedie da giardino.
Andò oltre, perché —
Doveva motivare l’andar oltre, affinché —?
A che mirava, quando —? Doveva motivare il ‘quando’, mentre —? Sarebbe continuata così, finché —? Era già arrivato al punto di —?
Perché dovevano esser tratte deduzioni dal fatto che lui camminasse qui? Doveva motivare il suo fermarsi qui? Perché, se passava accanto a una piscina, doveva mirare a qualcosa?
Questi ‘così che’, ‘perché’ e ‘affinché’ erano come prescrizioni; decise di evitarli, per non —
Era come se accanto a lui venisse silenziosamente aperto il battente accostato di una finestra. Tutto il pensabile, tutto il visibile era occupato. Non era un grido a spaventarlo, ma una frase messa a gambe all’aria alla fine di una serie di frasi abituali. Tutto gli pareva ribattezzato.
I negozi erano già chiusi. Gli scaffali, davanti a cui nessuno camminava più avanti e indietro, parevano strapieni. Non c’era un solo posto che non fosse occupato almeno da una pila di scatole di conserva. Dalla cassa pendeva ancora uno scontrino mezzo strappato. I negozi erano così stipati che...
«I negozi erano così stipati che non si poteva più indicare niente, perché...» «I negozi erano così stipati che non si poteva più indicare niente, perché i singoli oggetti si coprivano l’un l’altro.» Nei parcheggi erano frattanto rimaste solo le biciclette delle apprendiste.
Dopo pranzo Bloch andò al campo sportivo. Le grida degli spettatori si sentivano da lontano. Quando arrivò, le squadre di riserva stavano ancora disputando una partitella preliminare. Si sedette sulla panchina collocata sul lato lungo del campo di gioco e lesse il giornale da cima a fondo, escluso il supplemento di fine settimana. Sentì un rumore simile a quello prodotto da un pezzo di carne che cade sul pavimento di pietra; alzò gli occhi e vide che il pesante pallone bagnato era rimbalzato dalla testa di un giocatore.
Si alzò e andò via. Quando tornò, la partita principale era già cominciata. Le panchine erano occupate, e Bloch camminò lungo il campo fin dietro la porta. Non voleva restarle troppo vicino e risalì la scarpata fino alla strada. Percorse la strada fino all’altezza del calcio d’angolo. Gli parve che un bottone si strappasse dalla sua giacca e saltasse sulla strada. Raccattò il bottone e lo intascò.
Si intrattenne con qualcuno che gli stava vicino. Si informò di quali squadre stessero giocando, e chiese quali posti occupassero in classifica. Con questo vento contrario non avrebbero dovuto giocare palloni così alti, disse.
Notò che l’uomo accanto a lui portava scarpe con le fibbie. «Io non me ne intendo» rispose l’uomo. «Faccio il rappresentante e mi tratterrò in questa zona solo un paio di giorni.»
«I giocatori gridano troppo» disse Bloch. «Un buon gioco si svolge nel più assoluto silenzio.»
«È che non hanno un allenatore che gridi loro dai bordi del campo quello che devono fare» rispose il rappresentante. Parve a Bloch che si parlassero a beneficio di una terza persona.
«Su questo piccolo terreno di gioco bisogna decidersi molto in fretta nei passaggi» disse.
Sentì uno schiocco, come se il pallone fosse rimbalzato sul montante della porta. Bloch raccontò che una volta aveva giocato contro una squadra in cui tutti i giocatori erano scalzi; ogni volta che colpivano il pallone lo schiocco l’aveva trapassato da parte a parte.
«Allo stadio una volta ho visto un giocatore che si è rotto una gamba» disse il rappresentante. «Lo scricchiolio si è sentito fino agli ultimi posti in piedi.»
Accanto a sé Bloch vide altri spettatori che chiacchieravano. Non osservò quello che stava parlando, ma di volta in volta quello che ascoltava. Domandò al rappresentante se non avesse mai provato, nel corso di un attacco, a osservare fin dall’inizio non gli attaccanti, ma il portiere verso la cui porta gli attaccanti correvano col pallone.
«È molto difficile distogliere lo sguardo dagli attaccanti e dal pallone e guardare il portiere» disse Bloch. «Bisogna strapparsi via dal pallone, è qualcosa di completamente innaturale.» Invece del pallone si vedeva il portiere, che, con le mani sulle cosce, correva avanti, correva indietro, si piegava a destra e a sinistra e gridava ai difensori. «In genere lo si nota solo quando il pallone è già stato calciato verso la porta.»
Camminarono insieme lungo la linea laterale. Bloch sentì un ansimare, come se l’arbitro corresse al loro fianco. «È uno spettacolo buffo veder correre il portiere di qua e di là, senza pallone, ma in attesa del pallone» disse.
Non riusciva a guardarlo a lungo, rispose il rappresentante, involontariamente ricominciava subito a guardare gli attaccanti. Se guardavi il portiere pareva che dovessero venirti gli occhi strabici. Era come vedere qualcuno che va verso una porta e invece dell’uomo guardare la maniglia. La testa ti doleva, e non riuscivi più a respirare come si deve.
«Ci si abitua» disse Bloch, «ma è ridicolo.» Fu concesso un calcio di rigore. Tutti gli spettatori corsero dietro la porta.
«Il portiere si domanda in quale angolo l’altro tirerà» disse Bloch. «Se conosce il tiratore, sa quale angolo si sceglie di solito. Può darsi però che anche l’incaricato del calcio di rigore calcoli che il portiere ci pensa. Quindi il portiere pensa che oggi, per una volta, il pallone arriverà nell’altro angolo. Ma se il tiratore continuasse a pensare insieme al portiere e decidesse quindi di tirare nel solito angolo? E così via, e così via.»
Bloch vide che a poco a poco tutti i giocatori uscivano dall’area di rigore. L’incaricato del calcio di rigore si aggiustò il pallone. Poi arretrò anche lui fino a uscire dall’area di rigore.
«Quando il tiratore prende la rincorsa, il portiere indica involontariamente col corpo, poco prima che il pallone sia calciato, la direzione in cui si getterà, e il tiratore può tranquillamente calciare nell’altra direzione» disse Bloch. «Il portiere avrebbe altrettante probabilità di sbarrare una porta con una pagliuzza.»
Improvvisamente il tiratore si mise a correre. Il portiere, che indossava un vistoso maglione giallo, rimase perfettamente immobile, e l’incaricato del calcio di rigore gli calciò il pallone nelle mani.